Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Vescovo di San Marino-Montefeltro Mons. Luigi Negri - interviene sul caso del drappellone del Palio di Siena - 02/07/2010 - Comunicato Stampa
2) Il 6 luglio 1535 veniva giustiziato Thomas More - Un dialogo chiamato coscienza - Pubblichiamo alcuni stralci di una conferenza tenuta a Roma, all'Istituto diplomatico di Villa Madama, dall'arcivescovo segretario della Congregazione per l'educazione cattolica. - di Jean-Louis Bruguès - (©L'Osservatore Romano - 5-6 luglio 2010)
3) I tratti comuni che brillano nei grandi santi inglesi - Niente paura ci basta la verità - di Inos Biffi - (©L'Osservatore Romano - 5-6 luglio 2010)
4) Ferrara: agli atei il Papa risponda. Senza pietà - panorama in edicola – dal sito http://blog.panorama.it/opinioni/2010/07/05/ferrara-agli-atei-il-papa-risponda-senza-pieta
5) 05/07/2010 – INDIA - Kerala, mano mozzata a un professore cristiano accusato di blasfemia - di Nirmala Carvalho
6) LA FINE (O L'INIZIO?) DEL MONDO SECONDO CORMAC MCCARTHY - Nasce «Letti&Riletti», una rubrica di letteratura a cura di Paolo Pegoraro - ROMA, martedì, 6 luglio 2010 (ZENIT.org).- I libri che "valgono la pena" lasciano un segno. Amiamo leggerli e soprattutto riprenderli in mano a distanza di tempo, anche solo per sfogliarli. Spaziando dalla narrativa alla poesia, dai contemporanei ai classici, «Letti&Riletti» vuole proporre alcuni titoli che "valgono la pena".
Il Vescovo di San Marino-Montefeltro Mons. Luigi Negri - interviene sul caso del drappellone del Palio di Siena - 02/07/2010 - Comunicato Stampa
Il Vescovo di San Marino-Montefeltro, Mons. Luigi Negri, ha inviato alla Diocesi il seguente messaggio che abbiamo, poi, trasmesso alla stampa:
“In comunione di obbedienza al Santo Padre Benedetto XVI ho la responsabilità diretta, immediata e totale della Diocesi di San Marino-Montefeltro cui dedico la totalità delle mie energie intellettuali, morali e fisiche.
Ma proprio per questa totalità di dedizione alla mia Chiesa particolare, posso accettare di corrispondere al grande invito che il Magistero fa ad ogni suo Vescovo di avere un “singolare affetto” per la Chiesa universale.
E’ questo affetto e per questo affetto che sento l’inderogabile dovere di coscienza di intervenire su un avvenimento che la stampa nazionale ha tratto dalla sua particolarità e ha posto di fronte all’opinione pubblica dell’intera nazione.
La stampa ci ha documentato in modo inoppugnabile che il drappellone del Palio di Siena, segno religioso ed artistico del grande evento mariano e civile che si compie nel Palio, contiene quest’anno elementi ideologici che mio sembrano inaccettabili per una autentica coscienza cristiana, ed anche sanamente civile.
Dipinto da un artista mussulmano campeggia, in esso, una figura di S. Giorgio perfettamente islamizzato, la stessa immagine di Maria Santissima, che è la grande patrona del Palio, è caratterizzata da segni di sincretismo religioso (nella sua corona sono giustapposti segni cristiani ed islamici) e la sua stessa immagine è situata all’interno dell’insegnamento coranico che la presenta come madre del profeta Gesù che ha anticipato la venuta di Maometto.
Non tocca a me dare giudizi su nessuno: né istituzioni né persone, metto solo in comune con tutti la mia coscienza di cristiano e di Vescovo interloquita da questa triste vicenda.
Chiedo alla Madonna Santissima di aiutarci a superare quella che il Santo Padre Benedetto XVI ha chiamato l’inquinamento interno della nostra fede, che ci rende tutti così vulnerabili e manipolabili dalle potenze mondane.
Che almeno non chiamiamo il nostro silenzio una virtù evangelica e non contrabbandiamo la soggezione alla mentalità mondana come dialogo ecumenico ed interreligioso.
Celebrando domenica la S. Eucarestia nell’antica e veneranda collegiata di S.Agata Feltria conferirò a questa celebrazione anche il carattere di un gesto riparatorio.
Con la mia benedizione.
Pennabilli, 2 Luglio 2010
+Luigi Negri
Vescovo di San Marino-Montefeltro
Il 6 luglio 1535 veniva giustiziato Thomas More - Un dialogo chiamato coscienza - Pubblichiamo alcuni stralci di una conferenza tenuta a Roma, all'Istituto diplomatico di Villa Madama, dall'arcivescovo segretario della Congregazione per l'educazione cattolica. - di Jean-Louis Bruguès - (©L'Osservatore Romano - 5-6 luglio 2010)
Poco tempo dopo essere salito al trono, Enrico VIII aveva sposato Caterina d'Aragona, la quale era stata già la moglie di suo fratello maggiore, Arturo. Gli diede cinque figli, ma una figlia soltanto sopravvisse, Maria. Enrico aveva quindi una doppia preoccupazione. Aveva bisogno di un figlio allo scopo di assicurare in Inghilterra il futuro della dinastia che, ricordiamoci, aveva appena ottenuto il trono nella persona di suo padre Enrico vii, e rimaneva quindi fragile. Aveva bisogno di un successore energico per portare avanti la sua opera di "levatrice" della nazione inglese. Secondo la mentalità dell'epoca, una figlia sembrava incapace di avere una tale autorità.
L'ironia della storia ha voluto che il suo unico figlio, Edoardo, lasciasse solo un ricordo insignificante, mentre la sua seconda figlia, la grande Elisabetta, con mano di ferro ha fatto entrare l'Inghilterra nel concerto delle nazioni moderne.
Enrico VIII "deve" quindi ripudiare sua moglie. Aspetta dal Papa una dichiarazione di nullità del suo matrimonio; Clemente vii si rifiuta, o piuttosto fa trascinare le cose per le lunghe.
Il re persiste nei suoi progetti. È allora che un membro del Parlamento molto influente e molto abile, Thomas Cromwell, lo convince a seguire l'esempio dei principi tedeschi e separarsi di Roma.
Nel 1531, Enrico si proclama capo supremo della Chiesa d'Inghilterra. Thomas More restituisce i sigilli il 16 maggio 1532. Il 12 aprile 1534, viene convocato a Lambeth per prestare giuramento di fedeltà all'Atto di Supremazia che riduce l'autorità del Papa e conferma il divorzio del re. Thomas, però, rifiuta per due volte.
Non è tanto la questione del divorzio ciò che preoccupa la sua coscienza, ma la scissione della Chiesa e il tradimento di Roma che gli viene richiesto. Interpella il procuratore generale, sir Richard Rich, a cui aveva prestato grandi servizi nel passato: "Supponete - disse More - che il Parlamento faccia una legge affermando che Dio non sia Dio, lei direbbe, procuratore Rich, che Dio non è Dio?", "No, signore - rispose il procuratore - non lo direi, ma nessun Parlamento farebbe mai tale legge". "Ebbene - replicò More - il Parlamento non può neanche fare del re il capo supremo della Chiesa".
More fu condannato per alto tradimento e morì sul patibolo il 6 luglio 1535. Thomas More è stato sempre fedele al suo affetto verso il re; è stato fedele alla politica di quest'ultimo, che voleva riunire i popoli dell'isola in una nazione potente. Un giorno, queste fedeltà si sono trovate in opposizione con una fedeltà che More stimava superiore, la fedeltà alla propria coscienza.
La parola coscienza appare per ben diciassette volte nel suo ultimo scritto in forma di testamento. Per un cristiano, la coscienza non è soltanto quel luogo intimo dove l'uomo delibera con se stesso prima di prendere una decisione morale; essa è l'elevazione dell'essere che permette all'uomo di giudicare con la conoscenza propria di Dio.
Come scriverà tre secoli più tardi John Henry Newman, un altro inglese che la Chiesa si prepara a beatificare: "La coscienza implica una relazione tra l'anima e qualcosa di esterno, molto di più, di superiore a essa; una relazione con una perfezione che essa non possiede, con un tribunale sul quale essa non ha nessun potere". È la voce stessa di Dio che, entrando nel cuore dell'uomo, gli indica la via del bene e della verità. Per More, questa stessa voce gli mostra che la fedeltà a Cristo, promessa di ogni battesimo, implica la fedeltà a Roma dove siede il Vicario di Cristo.
Insomma, More si iscriveva nella lunga litania dei martiri della coscienza. A partire dalla piccola Antigone che dichiarava al suo re che esistevano delle "leggi sussurrate al cuore" (Sofocle) che superavano le leggi della città, e che era meglio obbedire a esse, a costo di morire, i testimoni di questa libertà suprema sono stati una legione, che si sono sollevati contro i totalitarismi di tutte le specie.
Il rischio non è minore ai nostri giorni. Nelle società secolarizzate, dove l'ipotesi di una qualunque trascendenza è esclusa dalle scelte collettive, c'è il grande pericolo di lasciar credere di nuovo che non esiste niente al di sopra delle leggi della città. Questa è sempre stata la pretesa dello Stato di assoggettare le autorità morali, o di farle tacere, per attribuire a se stesso un'autorità morale assoluta.
I primi martiri cristiani ne sapevano qualcosa, poiché furono messi a morte per ragioni politiche, e non religiose. La coscienza ci suggerisce che ciò che è legale non è necessariamente legittimo, e che esistono delle circostanze nelle quali la dignità e la libertà della persona la spingono a fare obiezione, perfino a insorgere. Max Weber affermava che, quando si trovano in opposizione, l'etica della convinzione (personale) deve sempre inchinarsi davanti all'etica della responsabilità (incidenza collettiva). Il cristianesimo crede l'inverso: la dignità dell'uomo gli intima l'ordine di seguire la sua coscienza fino in fondo.
Per Thomas More esiste in ciascuno di noi un organo meraviglioso che ci rende superiori alle leggi politiche. È questo organo che fa di noi degli esseri liberi.
(©L'Osservatore Romano - 5-6 luglio 2010)
I tratti comuni che brillano nei grandi santi inglesi - Niente paura ci basta la verità - di Inos Biffi - (©L'Osservatore Romano - 5-6 luglio 2010)
Ci sono alcuni tratti che si direbbe emergano e accomunino alcuni dei grandi santi inglesi, come Thomas More, John Fisher, Thomas Becket, e, più vicino a noi John Henry Newman, prossimamente beato, ai quali assoceremmo Anselmo d'Aosta, arcivescovo di Canterbury. Sono i tratti della libertà interiore, della fedeltà alla coscienza, dell'obbedienza assoluta alla legge divina, del riconoscimento dell'autorità umana nel suo legittimo esercizio, e della comunione con la Chiesa di Roma, come segno imprescindibile della comunione con la Chiesa Cattolica.
Nella sua ultima e commovente lettera alla figlia Margaret Thomas More scriveva il 5 luglio 1535: "Domani è la vigilia di san Tommaso e il giorno dell'ottava di san Pietro. Vorrei andare a Dio proprio domani, in un giorno così propizio per me"; il 7 luglio era la festa annuale della traslazione delle reliquie di Thomas Becket. E così avvenne. Il 6 luglio venne decapitato sullo spiazzo davanti a quella Torre. Si era rifiutato di sottoscrivere.
L'episcopato inglese, una quindicina di vescovi - noi diremmo l'intera conferenza episcopale - aveva già capitolato, a parte il vescovo di Rochester, John Fisher.
Thomas More, che già da tre anni si era dimesso dalla prestigiosa carica di cancelliere, affrontando con serenità e fiducia nella Provvidenza una sempre più grave condizione di indigenza, era rinchiuso, malato, nella Torre di Londra dall'aprile 1534, dove non mancavano giorni di sfiducia, ed era consolato dalla preghiera e particolarmente dalla meditazione sulla Passione - lo attestano le opere composte in quei mesi: il Dialogo del conforto, il Trattato sulla passione, la Tristezza di Cristo; d'altronde egli dichiarava di conoscere ben pochi uomini al mondo privi di coraggio come lui. Scriveva però alla figlia: "Ho la sensazione che Dio mi tenga sulle ginocchia e mi stia viziando come un bambino".
More si era rifiutato sia di firmare la lettera inviata al Papa in cui si chiedeva che venisse sciolto il primo matrimonio di Enrico VIII - che Clemente vii avrebbe dichiarato valido - sia di giurare con la formula dell'Atto di successione col preambolo che implicava il rigetto totale di ogni legame o dipendenza della Chiesa inglese dalla Chiesa di Roma; sia, infine, di accettare l'Atto di Supremazia, che dichiarava il re "il solo capo supremo in terra della Chiesa inglese". Di qui il processo, il primo luglio e la condanna a morte. John Fisher era stato decapitato il 22 giugno, mentre quattro monaci della certosa di Londra erano stati orrendamente squartati e sventrati.
Ai vari interrogatori More spiegava le ragioni della sua opposizione: col suo consenso avrebbe messo in pericolo la salvezza della sua anima. Si sarebbe separato dall'unità della Chiesa, e questo sarebbe stato contro la sua coscienza. D'altronde aveva chiaramente dichiarato in una lettera la sua libertà interiore: "Io non ho mai voluto attaccare l'anima mia sulla schiena di nessun altro, fosse pure il migliore degli uomini. Non c'è nessun uomo al mondo, finché si vive, di cui si possa essere del tutto sicuri". "L'unità della Chiesa cattolica era la ragione prima del suo rifiuto. La sua coscienza gli imponeva di stare con il consiglio della cristianità intera, non con il consiglio di un solo regno. L'Atto del Parlamento era contrario alle leggi di Dio e della Chiesa" (Angelo Paredi), che egli vedeva senza il minimo dubbio nella Chiesa di Roma, a cui professava irrinunciabile fedeltà.
E questo è veramente sorprendente, se si pensa ai papi del suo tempo, i peggiori del Rinascimento: da Alessandro vi a Giulio ii, da Leone x a Clemente vii. Solo che More, di là dagli abusi dei suoi pastori, aveva colto della Chiesa il non intaccabile mistero, com'era avvenuto per Dante, che, pur non esitando a mandare all'inferno anche dei papi, non cessava di vedere in loro l'immagine di Cristo e di conservare la "riverenza delle somme chiavi" (Inferno, xix, 101).
Anche nella tragica circostanza dell'esecuzione si rivelò lo humour che contrassegnava il carattere di More, "l'uomo di tutte le ore (omnium horarum homo)", come lo ebbe a chiamare Erasmo, il quale, nel profilo biografico, scrive che sembrava "venuto al mondo per prendere in giro la gente" e si domanda: "Che ha mai creato la natura di più gentile, dolce e prezioso del genio di Thomas More?".
Pregò, dunque, chi lo accompagnava sul patibolo di dargli una mano per salire, che a scendere si sarebbe arrangiato da solo, mentre, ancora immediatamente prima di essere decapitato, volle ripetere che egli moriva nella fede e per la fede della santa Chiesa Cattolica, aggiungendo che moriva "suddito fedele del re, e di Dio innanzi tutto (King's good servant and God's first)".
La figura di Thomas More, così eccezionale ed eroica nella sua umana normalità, continua ad affascinare. Come la quella di Thomas Becket, nella quale risaltano gli stessi tratti che contrassegnano la santità di More, decapitato, secondo il suo desiderio, la vigilia della festa che commemorava la traslazione delle reliquie di Becket.
Cancelliere di Enrico ii e suo compagno d'avventure e di divertimento, nominato arcivescovo di Canterbury, Becket divenne un altro uomo, un uomo di Chiesa, inaspettatamente ormai in fermo contrasto col re, e con quanti dell'episcopato lo sostengono, per affermare la libertà della Chiesa - la sanctae Ecclesiae libertas, come egli scrive - e professare la sua comunione con la Sede Apostolica.
L'espressione libertas Ecclesiae richiama sant'Anselmo suo predecessore nelle Chiesa di Canterbury. Certamente, Tommaso non è Anselmo, non ha il suo prestigio, la sua spiritualità, il suo limpido passato; e tuttavia, con le possibilità e i limiti che gli sono propri, non apparirà minore il suo amore per la Chiesa, e lo rivelerà in forma tragica e suprema il vespro del 29 dicembre del 1170.
Avrebbe detto al re: "Con la grazia di Dio noi esporremo la nostra testa ai persecutori della Chiesa". E Alessandro iii, che di Tommaso aveva potuto conoscere difetti e pregi, canonizzandolo il 21 febbraio 1173, non dubiterà a collegare il martirio alla causa della libertà della Chiesa: Tommaso "ha combattuto fino alla morte per la giustizia della Chiesa (pro iustitia Dei et Ecclesiae)".
Le ultime parole di Becket di fronte ai suoi sicari richiamano quelle di Thomas More: "Per il nome di Gesù e per la protezione della Chiesa sono pronto ad abbracciare la morte"; e non "da traditore del re, ma da sacerdote". Poco prima aveva dichiarato: "Confido nel re dei cieli, che per i suoi è morto in croce. Da questo giorno in avanti nessuno vedrà più il mare tra me e la mia Chiesa".
Nel 1538 Enrico VIII darà ordine di demolire il sarcofago di Tommaso, di disperderne le ossa, di cancellare il suo nome dal calendario. Si capisce che il ricordo di Becket potesse essere insopportabile al re che aveva fatto decapitare un altro cancelliere, sempre di nome Tommaso, questa volta non vescovo ma laico.
Anche la figura di Thomas Becket non ha cessato di esercitare un'attrattiva profonda e la sua tomba di essere la mèta dei più celebri e suggestivi pellegrinaggi del medio evo. Abbiamo accennato a sant'Anselmo d'Aosta, predecessore di Becket a Canterbury. Non fu corporalmente martire, ma per la libertà della Chiesa, la comunione con la Sede Apostolica, e la fedeltà alla propria coscienza subì l'esilio e trascorse una vita tribolatissima. Scriverà a Papa Pasquale: "Il re esigeva che io dessi il mio assenso, come se si trattasse di cose rette, ai suoi voleri che erano contrari alla legge e alla volontà di Dio". E si appellerà alla propria coscienza, cui era sensibilissimo, pur sapendo che contro la sua convinzione stava tutta l'Inghilterra, compresi i vescovi concordi con il re. "Tutta la forza dell'Inghilterra - dirà - cerca di eliminarmi, dal momento che non riesce a distogliermi dall'obbedienza alla Sede Apostolica". E dichiarerà: "Preferisco essere in disaccordo con gli uomini che, d'accordo con loro, essere in disaccordo con Dio".
Sono i motivi che abbiamo riscontrato in Thomas More e in Thomas Becket: la legge di Dio, la coscienza, la libertà della Chiesa e la comunione con la Chiesa di Roma.
Gli stessi, d'altra parte, che sentiamo ripetuti in John Henry Newman, presto beato, che, per fedeltà alla sua coscienza, torna alla "Chiesa dei Padri" riconoscibile nella "Chiesa Cattolica governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui". Né mai si sarebbe pentito del passo fatto. Trent'anni dopo la conversione avrebbe confidato: "Non ho mai esitato, neppure per un solo istante, nella convinzione che fosse mio preciso dovere entrare, come allora ho fatto, in questa Chiesa cattolica che, nella mia propria coscienza, ho sentito essere divina".
E a Jemima, angosciata dalla scelta del fratello, dichiarava che se avesse fatto diversamente, avrebbe recato offesa Dio: "Non vedo nulla che mi possa spingere alla decisione, se non il pensiero che offenderei Dio non facendolo", le stesse parole di Thomas More.
Secondo tratti che concordemente brillano in alcuni grandi santi.
(©L'Osservatore Romano - 5-6 luglio 2010)
Ferrara: agli atei il Papa risponda. Senza pietà - panorama in edicola – dal sito http://blog.panorama.it/opinioni/2010/07/05/ferrara-agli-atei-il-papa-risponda-senza-pieta
Per il teologo progressista Vito Mancuso la Chiesa cattolica è un nido di pedofili che hanno distrutto irrimediabilmente anime e corpi di migliaia di bambini; la gerarchia una cupola mafiosa che difende il proprio potere nel disprezzo per le vittime del clero; il Papa un superboss che in nome di una secolare scelta per il potere e contro Dio sacrifica e avvilisce quanto sarebbe rimasto di puro, di bello e di spiritualmente forte nella comunità credente (Mancuso individua, nella categoria dei salvati, il solo cardinale di Vienna Christoph Schoenborn). Questo offre oggi la migliore teologia laica di moda sui giornali, sponsorizzata dal cardinale Carlo Maria Martini, mentre sull’Unità il vecchio e prestigioso critico Renato Barilli inneggia al marchese de Sade, che portò una forma brutale e assassina di pedofilia della mente e del desiderio a vette teologiche degne del Terrore giacobino.
C’è una gran confusione velenosa sotto il cielo religioso, che è poi l’altra metà del nostro cielo laico. Per colpire la Chiesa cattolica, hanno trasformato in una sottospecie ripugnante della Shoah episodi incredibilmente gonfiati, e usati in giudizio per far soldi, di peccato e abuso carnale da parte di un numero infinitamente piccolo di preti e vescovi. I ragazzini molestati 40 o 80 anni fa (Mancuso cita come capi d’accusa accertamenti irlandesi su molestie degli anni Trenta del secolo scorso) sono definiti «sopravvissuti», proprio a significare il tono apocalittico della crociata in nome delle vittime. L’ordine impersonale che una cultura nichilista doveva impartire era chiaro da tempo, almeno per chi volesse leggere i segni dei tempi: la Chiesa è fatta di preti, scelti e consacrati nel popolo di Dio che è la sua base battezzata, e dietro ogni prete dovete abituarvi a vedere – lo vuole la propaganda laicista e secolarista – un orco.
La mia convinzione è che partendo da premesse ireniste, progressiste, pauperiste, e cioè dal mito della Chiesa povera e priva di potere, di una Chiesa che assume dalla Riforma luterana la sostanziale inutilità di sacramenti e liturgia nonché il carattere superstizioso di un culto amministrato da una casta sacerdotale, si arriva alle conclusioni totalitarie di un integralismo secolarista in cui non c’è più alcuno spazio reale per la Chiesa com’è, come la storia l’ha fatta, come la si legge nelle sue grandi biblioteche teologiche, come la si può scrutare nella sua letteratura di santità e nella sua storia di gloria e di peccato. In nome di Dio, distruggete la Chiesa: questa è ormai la parola d’ordine della cultura banalmente ateistica e degli utili idioti al suo servizio fuori e dentro le mura della Chiesa.
Non potendo andare contro la fede, che Giovanni Paolo II e il crollo del comunismo hanno risvegliato nel cuore dell’Europa, usano la fede, di cui pretendono l’esilio nel privato dei cuori, a difenderne la purezza dalle mani sporche del potere ecclesiastico, come arma contro la Chiesa. Fa bene il Papa a cercare nell’espiazione e nella conversione credente una risorsa di estrema difesa della Chiesa come custode della fede; ma non basta. Se la Chiesa ha un potere di pulpito, lo eserciti.
05/07/2010 – INDIA - Kerala, mano mozzata a un professore cristiano accusato di blasfemia - di Nirmala Carvalho
La vittima è un professore universitario che in un questionario per gli esami aveva “offeso Maometto”. L’estremismo islamico è in crescita nel Kerala: diverse scuole sono costretta a subire pressioni sull’uso del velo. La condanna anche da parte di organizzazioni nazionali musulmane. Sajan K. George: La Sharia non è la legge dell'India.
Ernakulam (AsiaNews) – Un gruppo di sconosciuti ha reciso la mano e parte del braccio destro di un professore universitario, accusato mesi fa di aver diffamato Maometto. L’esecuzione è avvenuta ieri mattina a Muvattupuzha, nel distretto di Ernakulam (Kerala). Sajan K George, presidente del Global Council of Indian Christians condanna questo “atto barbaro” e ricorda che “la Sharia non è la legge dell’India”.
Secondo la ricostruzione della polizia, il prof. TJ Joseph, stava tornando con la sua famiglia dal servizio domenicale, quando un gruppo di persone lo accostano con un van Maruti Omni e lo fermano vicino a casa. Dopo aver costretto Joseph a uscire dall’auto, lo attaccano con coltelli e spade, poi gli recidono la mano e parte del braccio destro gettandoli lontano a circa 200 metri.
Il professore è stato trasportato subito in un ospedale di Muvattupuzha e in seguito in un altro specializzato in chirurgia, dove i dottori stanno cercando di ricucire la sua mano mozzata. Il professore ha subito anche altre profonde ferite sul corpo e necessita di diverse chirurgie plastiche.
Joseph, keralese, professore al Newman’s College di Thodupuzha, è libero su cauzione. Lo scorso marzo egli aveva preparato un questionario per gli esami in un collegio privato e secondo i musulmani aveva inserito delle domande offensive verso Maometto.
A causa di una serie di proteste da parte di gruppi islamici, egli è stato sospeso dalla scuola. In seguito, Joseph ha chiesto scusa pubblicamente per il suo “errore non intenzionale”. La madre di Joseph ha affermato che in questi mesi suo figlio ha continuato a ricevere minacce.
Intanto la polizia ha trovato il van degli aggressori, vuoto, e “la targa del veicolo è falsa”, ha detto l’ispettore di polizia P.P.Shams. Alcuni dei fermati sono attivisti appartenenti al Fronte popolare dell’India, un gruppo musulmano di destra, un tempo chiamato il National Development Front, molto forte in Kerala.
La sorella di Joseph, Mary Stella, racconta che “gli assalitori hanno distrutto il vetro della nostra auto e hanno tirato fuori mio fratello per giustiziarlo. La mia povera mamma, anziana, era in macchina con noi ed è stata testimone del crimine”.
Il ministro dell’educazione, M.A. Baby ha condannato l’accaduto, manifestando il suo dispiacere perché alcuni hanno trasformato il questionario degli esami in un problema di scontro interreligioso.
Sajan K. George, presidente del Global Council of India (Gcoi), condanna “l’atto barbaro” e chiede che “gli assalitori vengano portati davanti alla giustizia presto. Spero non avvenga – come di solito – che la denuncia scompaia negli archivi della polizia, a causa di minacce dei militanti islamici del Kerala”.
Sajan K. George dà voce a tutta la società civile che “ha espresso dolore per questi continui attacchi di musulmani contro i cristiani in Kerala. E va ricordato che la legge islamica non è la legge del nostro Paese!”.
Secondo il presidente del Gcoi, in Kerala si assiste a una crescita di estremismo islamico: “Le scuole cristiane sono spesso prese di mira sulla questione del velo o su altro e purtroppo molte scuole soccombono sotto la pressione. Il progetto di questi militanti islamici è provocare pacifiche comunità cristiane e provocare una guerra civile. Il rapido incremento della popolazione musulmana e la loro influenza nelle elezioni fa crescere problemi di sicurezza per i cristiani in tutto il Paese”.
L’esecuzione contro Joseph è stato condannato da molte organizzazioni musulmane, compresi la Indian Union Muslim League (Iuml) e la Jama’at-e-Islami, che chiede una reazione decisa contro i colpevoli. Panakad Hyderali Shiyab Thangal, capo supremo della Iuml, ha domandato anche lui che i colpevoli vengano perseguiti con durezza. E riferendosi al questionario composto da Joseph, ha detto: “Un errore non può essere corretto con un altro errore”.
Il questionario incriminato non aveva però alcuna pretesa di offesa alla religione musulmana. Le autorità del Newman’s College hanno dichiarato ad AsiaNews che nella domanda, il prof. Joseph racconta la storia di un venditore di pesce che, nonostante lavori molto, diviene sempre più povero. Il nome del venditore è Muhammad. Disperato, il venditore prega Dio e domanda a suo fratello il perché della sua situazione. Il fratello risponde a Muhammad: “Perché tu continui a chiamare Dio, Dio, Dio…”. Agli studenti era richiesto di precisare la punteggiatura del racconto.
LA FINE (O L'INIZIO?) DEL MONDO SECONDO CORMAC MCCARTHY - Nasce «Letti&Riletti», una rubrica di letteratura a cura di Paolo Pegoraro - ROMA, martedì, 6 luglio 2010 (ZENIT.org).- I libri che "valgono la pena" lasciano un segno. Amiamo leggerli e soprattutto riprenderli in mano a distanza di tempo, anche solo per sfogliarli. Spaziando dalla narrativa alla poesia, dai contemporanei ai classici, «Letti&Riletti» vuole proporre alcuni titoli che "valgono la pena".
Pena, sì: cioè impegno di cuore e di testa. Perché leggere non è come accendere la televisione. Leggere significa lasciarsi leggere. E scoprire in noi pagine delle quali neppure sospettavamo l'esistenza.
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di Paolo Pegoraro*
Apocalisse a colazione
"Mettere al mondo un figlio in questo mondo orribile è da irresponsabili!": a chi non è successo di sentire questa frase, gettata lì come un innocuo commento su mezze stagioni e caro vita? La strada di Cormac McCarthy prende sul serio questa contestazione. Talmente sul serio da farla diventare uno spartiacque dell'umanità. O di quel che ne resta.
Ma andiamo con ordine. La strada - da cui è stato tratto il recente film The Road, con Viggo Mortensen e Robert Duvall - è un romanzo ambientato in un così detto mondo "distopico", un mondo, cioè, nel quale le utopie si sono realizzate alla rovescia. Un mondo nel quale i miraggi del progresso hanno condotto alla barbarie. Un mondo nel quale la pretesa di benessere ha prodotto un inimmaginabile malessere. Un mondo di terremoti, incendi e tempeste. Di metropoli rase al suolo. Di sterminate lande di cenere, senza più animali o piante verdi. Il sole, quasi scomparso. Cadaveri umani ovunque. Un mondo post-nucleare, probabilmente. Sicuramente il peggiore dei mondi possibili. Soltanto che è il nostro. E i pochi sopravvissuti o sono derelitti che si aggirano senza mèta, frugando tra le rovine, o sono spietati cacciatori dei propri simili. Cannibali. Perché non c'è nient'altro di cui cibarsi.
E allora non resta che l'homo homini lupus, o peggio - come notò acutamente lo scrittore Giulio Mozzi - l'homo homini homo: perché all'uomo sono concessi abissi di bestialità proibiti perfino alla feroce innocenza dell'istinto animale. Eppure Cormac McCarthy ci presenta questo scenario da horror senza alcun compiacimento. Se presenta la fine del mondo non è certo per denunciare future catastrofi ambientaliste, ma per trasformarla in un laboratorio d'indagine buono per comprendere l'oggi. McCarthy scrive per sottrazione, romanzo dopo romanzo, fino a raggiungere qui il grado zero: dell'ambientazione come della scrittura. E si pone alcune domande. Cosa succede se annulliamo lo sfondo - il mondo - e rimangono soltanto gli uomini? Le loro relazioni reggono all'urto? Fino a quando l'uomo è ancora tale? Cos'è, in fondo, un essere umano?
La risposta è affidata ai due protagonisti, un padre e un figlio che viaggiano a piedi, spingendo uno sgangherato carrello della spesa come accattoni del vecchio mondo. Li conosciamo come "l'uomo" e "il bambino": non hanno più neppure il lusso di un nome. Tuttavia, in un mondo in cui perfino la nozione di "direzione" sembra aver perso significato, loro hanno una mèta: vogliono andare verso il mare, a sud, dove le temperature sono più clementi e c'è la possibilità di sopravvivere a un altro inverno. Camminano, si nascondono, cercano e trovano, fanno incontri. Per lo più terribili, ma non solo. Tra loro parlano lo stretto necessario, con dialoghi stringati, limitati talvolta a pochi monosillabi, «sì» oppure «ok». Segnali di reciproca intesa.
Per lo più parla l'uomo, difensore e maestro: insegna al bambino a riconoscere «i buoni» e «i cattivi», a non uccidere se non per legittima difesa, a non rubare ai vivi, a morire di fame piuttosto che... Spesso l'uomo tranquillizza il figlio: «Va tutto bene, non avere paura» riesce a dirgli anche davanti alle scoperte più raccapriccianti. Ma come può il bambino non avere paura davanti a un suo simile che lo sgozzerebbe per mangiarselo? Forse perché proprio in quella parola - paura - è la serratura di questa parabola catastrofista, ma non disperata. Nel mondo di La strada l'umanità è divisa in vittime e carnefici, prede e predatori, eppure tutti sono ugualmente incatenati alla stessa trappola, tutti sono governati dalla stessa paura verso l'altro uomo.
Eppure c'è in atto una rivoluzione. Attraversando questo gelido mondo disumano come pellegrini, l'uomo e il bambino portano con sé un fuoco: quello di un rapporto d'amore gratuito. E reciproco. Perché non è solo il padre a insegnare qualcosa al figlio. Anche il bambino insegna - o meglio, ricorda - all'uomo come conservare la propria umanità. Respingere il male non basta. Difendersi è necessario, ma non sufficiente. Negli atteggiamenti del bambino c'è l'umile dictat della purezza. Stupisciti. Ringrazia. Sii compassionevole. Soprattutto, torna ad avere fiducia negli altri. E lentamente, attraverso gesti minuscoli - una parola o anche un silenzio - i ruoli cominciano a rovesciarsi. L'uomo, dopo aver insegnato al bambino come stare al mondo, si mette alla scuola di questo piccolo essere misterioso, innocente eppure né debole né ingenuo, «calice d'oro, buono per ospitare un dio».
Cos'è l'uomo? Per McCarthy la manifestazione dell'essere umano si trova nella gratuità del dare e accogliere fiducia. Se la paura è la toppa, la fides è la chiave. Nel mondo di La strada i bambini sono diventati rarissimi, perché dare la vita - a partire da quella fisica - è prerogativa di chi non ha perso la speranza, nonostante l'oscurità che turbina all'orizzonte. Solo «i buoni» sono capaci di atti gratuiti, cioè non immediatamente strumentali alla sopravvivenza. La risposta dei "buoni" alla presunta assenza di senso è il sovrasenso, un'esperienza di pienezza così evidente e abbondante da abbattere la ristretta mentalità calcolatrice del razionalismo.
Certo, esiste sempre un'altra estrema alternativa: quella di nutrirsi dell'altro, fisicamente o metaforicamente. «I cattivi» divorano i propri figli, come faceva il dio Crono, o li mercificano per i propri scopi, come fanno divinità più moderne e più blasfeme. McCarthy ha dato la propria risposta. E non è un caso che La strada sia il suo solo romanzo a portare una dedica. A John Francis McCarthy: suo figlio.
Due assaggi dell'opera
Trascinò un armadietto basso sul pavimento e lo piazzò fra le due brandine, lo coprì con un tovagliolo e ci dispose sopra piatti, tazze e posate di plastica. Portò in tavola una ciotola di focaccine coperte con uno strofinaccio, un piatto di burro e una confezione di latte condensato. Sale e pepe. Guardò il bambino: sembrava sotto l'effetto di qualche droga. Tolse la padella dal fuoco e gli mise nel piatto una forchettata di prosciutto abbrustolito, ci aggiunse qualche cucchiaio di uova strapazzate, una bella porzione di fagioli in scatola e versò il caffè nelle tazze. Il bambino lo guardò.
Forza, gli disse lui. Che sennò si fredda.
Cosa devo mangiare per primo?
Quello che ti pare.
Questo è caffè?
Sì. Tieni. Spalmati il burro sulle focaccine. Così.
Ok.
Va tutto bene?
Non lo so.
Ti senti bene?
Sì.
Allora cosa c'è?
Secondo te dovremmo ringraziare questi signori?
Quali signori?
I signori che ci hanno regalato tutte queste cose.
Be'. In effetti potremmo ringraziarli.
Lo fai tu?
E perché non tu?
Non so come si fa.
Sì che lo sai. Lo sai come si fa a dire grazie.
Il bambino rimase seduto a fissare il piatto. Sembrava smarrito. L'uomo stava per parlare quando il bambino disse: Cari signori, grazie per le cose da mangiare e tutto il resto. Sappiamo che le avevate messe da parte per voi, e se voi ci foste ancora noi non mangeremmo niente, neanche se stessimo morendo di fame, e ci dispiace che non siate riusciti a mangiare queste cose ma speriamo che siate sani e salvi in Paradiso vicino a Dio.
Alzò gli occhi. Così va bene?
Sì. Direi che va bene.
* * *
Quando arrivarono alla prima curva il ladro era ancora fermo allo stesso posto. Non aveva dove altro andare. Il bambino continuava a voltarsi e quando non riuscì più a vederlo si sedette in mezzo alla strada piangendo a dirotto. L'uomo si fermò e rimase a guardarlo. Ripescò dal carrello le proprie scarpe e quelle del bambino, si accovacciò e cominciò a levare gli strati che gli avvolgevano i piedi. Devi smetterla di piangere, disse.
Non ce la faccio.
L'uomo gli mise le scarpe, infilò le proprie, si alzò e risalì la strada nella direzione da cui erano venuti, ma non vide il ladro. Tornò indietro e si fermò accanto al bambino. Se n'è andato, disse. Muoviamoci.
Non se n'è andato, disse il bambino. Alzò gli occhi.
Aveva il viso rigato di fuliggine. Non è vero.
Che cosa vuoi fare?
Aiutarlo, papà. Voglio solo aiutarlo.
L'uomo si voltò a guardare la strada.
Papà, aveva solo fame. Adesso morirà.
Sarebbe morto comunque.
Ha tanta paura, papà.
L'uomo si accovacciò e guardò il bambino. Anche io ho paura, disse. Lo capisci? Anche io ho paura.
Il bambino non rispose. Rimase seduto lì a capo chino, scosso dai singhiozzi.
Non tocca a te preoccuparti di tutto.
Il bambino disse qualcosa che l'uomo non capì. Cosa?, disse.
Il bambino alzò gli occhi, il viso sporco e bagnato. Sì, invece, disse. Tocca a me.
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*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L'Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.