giovedì 22 luglio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Le sperimentazioni di certe case farmaceutiche - Scienza disinvolta - di Giulia Galeotti - (©L'Osservatore Romano - 22 luglio 2010)
2) L'Europa e il crocifisso - Un'alleanza contro il secolarismo - di Grégor Puppinck - Direttore dell'European Centre for Law and Justice (Strasburgo) - (©L'Osservatore Romano - 22 luglio 2010)
3) È cominciata l'era della biologia sintetica – iltempo.it - 22/07/2010
4) Avvenire.it, 22 luglio 2010 - Matrimoni più fragili, società più fragile - Sicuri che l'urgenza sia il «divorzio breve»?


Le sperimentazioni di certe case farmaceutiche - Scienza disinvolta - di Giulia Galeotti - (©L'Osservatore Romano - 22 luglio 2010)
Ogni Paese ha i suoi miti eziologici ed episodi storici fondativi. Se nella maggior parte delle occasioni si tratta di vicende edificanti, altre volte, invece, lo scopo di ricordarli è quello di veicolare moniti di particolare importanza e, purtroppo, tuttora attuali. Rientra in questo secondo caso il tristemente celebre Tuskegee Syphilis Study, divenuto la metafora americana della degenerazione cui può condurre l'intreccio tra razzismo, ricerca medica senza scrupoli, e disumanità.
Non che nella recente storia scientifica statunitense non vi siano stati (se possibile) esperimenti ancor più mostruosi - come è il caso della somministrazione di sostanze radioattive a detenuti e disabili mentali, tra cui anche donne incinte - ma quello di Tuskegee ebbe un connotato razziale che lo ha reso particolarmente ributtante.
Nell'esperimento, che fu condotto tra gli anni Trenta e Settanta del Novecento a Tuskegee dal sistema sanitario pubblico - all'insaputa, però, dell'università locale - gli oltre 500 neri coinvolti, provenienti da tutta la regione, vennero reclutati con la promessa di una cura. In realtà, invece, non ricevettero mai le necessarie medicine: volendoli utilizzare per osservare e studiare gli effetti della sifilide, infatti, i ricercatori propinarono loro solo innocue pozioni (basti pensare che nel 1947, scoperta la penicillina, rifiutarono di somministrargliela onde evitare di "alterare" il campione).
Solo nel 1972 il Paese venne a conoscenza della vicenda, grazie alla stampa che la fece diventare di dominio pubblico. Si scoprì che, dall'inizio della sperimentazione, 28 uomini erano morti di sifilide, 100 per complicazioni associate alla malattia, 40 mogli erano state infettate e 19 bambini erano nati affetti da sifilide congenita (le cavie umane e i congiunti, seimila persone circa, vennero poi risarcite con dieci milioni di dollari; il 16 maggio 1997 Bill Clinton pronunciò un discorso in cui chiedeva ufficialmente scusa).
Gli Usa si svegliarono sotto shock. Nulla di simile era mai venuto alla luce in una nazione civile. Non solo uomini afroamericani e le loro famiglie erano stati trattati in disprezzo dei più elementari diritti umani, ma per anni non si era dato seguito alle norme sul consenso informato fissate con tanta enfasi dopo Norimberga, norme concepite proprio per delimitare il confine tra la tortura e la sperimentazione medica legittima.
Da allora la sperimentazione biomedica ha fatto molti progressi, ma ha anche posto nuovi problemi. Non a caso, il dibattito su ciò che sia lecito, e su ciò che non lo sia, non si è mai interrotto. Un punto cardine, unanimemente condiviso, è che quanti partecipino alle sperimentazioni debbano essere adeguatamente informati e consenzienti. Ma come è possibile ottenere il consenso informato da persone, ad esempio, troppo incolte per capire davvero cosa si propone loro, o troppo deboli perché si trovano in carcere o in altre situazioni di disagio sociale? Scriveva lo scrittore russo Varlam Salamov: "Dicono che un interrogatorio è uno scontro tra due volontà, quella dell'inquirente e quella dell'accusato. Sarà senz'altro così. Ma come si fa a parlare di volontà nel caso di un uomo costantemente torturato, nel corso di molti anni, dalla fame, dal freddo e da un pesante lavoro, quando le cellule del suo cervello si sono completamente prosciugate e hanno perso le loro proprietà?".
Se il giudizio sul caso Tuskegee è stato chiaro fin da subito - o meglio, sin da quando lo si è conosciuto - molte delle domande centrali che la vicenda ha sollevato non hanno ancora trovato una risposta definitiva. Dinanzi a condizioni sociali e scientifiche di contorno che cambiano in continuazione, costringendoci a un inevitabile e incessante sforzo per comprendere cosa sia di volta in volta giusto o non giusto fare (nella speranza di evitare ulteriori innocenti vittime), colpisce la dualità dell'approccio americano.
Da un lato, è ammirevole il fatto che gli Stati Uniti non abbiano smesso di interrogarsi su quell'esperimento. Ne è una riprova la pubblicazione di vari saggi, come, tra le più recenti, quello di Susan M. Reverby, Examining Tuskegee. The Infamous Syphilis Study and its Legacy (The University of North Carolina Press, 2009). Dall'altro, però, è indubbio che oltre trent'anni dopo quello scandalo, alcune compagnie farmaceutiche statunitensi perseverino nel condurre oltre confine sperimentazioni scarsamente regolamentate. Negli ultimi decenni, infatti, data l'insufficienza di candidati statunitensi disposti a sottoporsi alle sperimentazioni, tali aziende hanno esportato il proprio business nei Paesi in via di sviluppo, dove le tutele sono minime.
Nelle pagine finali del suo monumentale Corpi e anime, drammatico atto d'accusa contro un certo modo di fare e intendere la medicina, il medico e scrittore francese Maxence Van Der Meersch (1907-1951) fa dire a uno dei suoi tanti personaggi "vi sono quesiti ai quali non si può rispondere. Accanto alla scienza, ci vuole un'altra cosa... La morale. - completò a voce bassa, quasi a malincuore".
(©L'Osservatore Romano - 22 luglio 2010)


L'Europa e il crocifisso - Un'alleanza contro il secolarismo - di Grégor Puppinck - Direttore dell'European Centre for Law and Justice (Strasburgo) - (©L'Osservatore Romano - 22 luglio 2010)
Il caso Lautsi ha suscitato scalpore in Europa dopo la condanna dell'Italia da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo per la presenza dei crocifissi nelle scuole pubbliche, presenza che violerebbe i diritti dell'uomo. Per dare una base legale alla sua decisione, la Corte ha creato un obbligo nuovo, per il quale lo Stato sarebbe "tenuto alla neutralità confessionale nel campo dell'educazione pubblica". La Corte ha aggiunto di non vedere "come l'esposizione, nelle classi delle scuole pubbliche, di un simbolo che è ragionevole associare al cattolicesimo (religione maggioritaria in Italia) potrebbe servire il pluralismo educativo, che è essenziale per preservare una "società democratica" così come la concepisce la Convenzione". Così, secondo la Corte, gli Stati europei dovrebbero essere religiosi (neutralità confessionale) per servire il pluralismo, che sarebbe il movente costitutivo di una società democratica. In altri termini, la Corte afferma che una società, per essere democratica, deve rinunciare alla sua identità religiosa. L'Italia è ricorsa in appello contro questa decisione presso la Grande Chambre della Corte di Strasburgo. L'appello è stato esposto il 30 giugno scorso e il giudizio della Corte è atteso per l'autunno.
Questo caso è estremamente importante. È emblematico, poiché mette in gioco la legittimità stessa della presenza visibile di Cristo nelle scuole italiane e, per estensione, dell'intera Europa. È divenuto un simbolo nel conflitto attuale sul futuro dell'identità culturale e religiosa dell'Europa. Un conflitto che oppone i sostenitori della secolarizzazione completa della società e i difensori di un'Europa aperta e fedele alla sua identità profonda. I primi vedono il secolarismo come la soluzione che permette di gestire il pluralismo religioso e il pluralismo come un argomento che permette d'imporre il secolarismo. La secolarizzazione non è un fenomeno completamente spontaneo o ineludibile. Procede persino attraverso scelte politiche, come la politica anticlericale della Francia all'inizio del Novecento.
L'Europa è diversa. Il pluralismo religioso, il cosmopolitismo che serve da paradigma alla riflessione della Corte, è in realtà una finzione estranea alla maggior parte del territorio europeo. È però vero che siamo in un'epoca in cui le identità nazionali sono messe in causa, ma nello stesso tempo il bisogno d'identità è molto forte. L'Europa occidentale dalla fine della seconda guerra mondiale ha vissuto giuridicamente in un regime conclamato di libertà religiosa; ma, di fatto, quello che abbiamo conosciuto è più che altro un regime di semplice tolleranza religiosa. Ciò si spiega con il fatto che le minoranze religiose erano a quel tempo poco visibili e non pretendevano di modificare l'identità religiosa delle Nazioni dove erano immigrate.
Oggi la situazione è diversa. La presenza dell'islam obbliga ormai l'Europa a prendere realmente posizione sulla libertà religiosa. Tale scelta non è solo una presa di posizione filosofica ma ha anche importanti conseguenze concrete sulla realtà dell'identità religiosa occidentale. Risulta sempre più evidente che le istituzioni pubbliche dell'Europa occidentale - e la sentenza Lautsi ne è una dimostrazione - hanno fatto la scelta di limitare la libertà religiosa e d'imporre una secolarizzazione della società per promuovere un preciso modello culturale in cui l'assenza di valori (neutralità) e il relativismo (pluralismo) sono valori in sé a sostegno di un progetto politico che si vorrebbe post-religioso e post-identitario. Questo progetto politico, in quanto sistema filosofico, pretende di avere il monopolio.
In questo contesto di radicalizzazione della secolarizzazione si è inserito il caso Lautsi. È l'ultimo e principale ostacolo contro il quale si è scontrato il processo di secolarizzazione dopo il dibattito relativo sulle "radici cristiane" nel preambolo del Trattato costituzionale europeo. Il fatto che una giurisdizione abbia potuto, in nome della libertà religiosa, concludere che una società, per essere democratica, deve rinunciare alla sua identità religiosa, esige una riflessione sull'evoluzione del concetto. Il caso Lautsi mostra come questo concetto, ideato per proteggere la società dall'ateismo di Stato, sia divenuto alla fine uno strumento di delegittimazione sociale e di privatizzazione della religione. Questo caso, insomma, mostra come questo modo di intendere la libertà religiosa può rivoltarsi contro la religione ed essere il principale strumento concettuale della secolarizzazione della società.

Se si negano le identità collettive

La prima e principale carenza che il caso Lautsi rivela è l'incapacità della concezione moderna della libertà religiosa di pensare e di rispettare la dimensione religiosa della vita sociale e la dimensione sociale della religione. La teoria, che ha portato alla sentenza Lautsi, è basata sul riconoscimento esclusivo dei diritti dell'individuo, che si suppone dotato di una coscienza ritenuta infallibile per natura e destinato a evolversi in una società immaginata come assiologicamente (moralmente) neutrale. Questa libertà è considerata universale in quanto fondata sulla natura dell'uomo ed è imperativa poiché è l'espressione di uno degli aspetti della dignità umana. All'opposto, la società pubblica, in quanto considerata un'entità artificiale al servizio dell'individuo, deve annullarsi di fronte alla sola autorità legittima: la libertà derivante dalla dignità individuale.
L'identità religiosa della società non ha più, di per sé, valore e legittimità. È considerata un semplice fatto ereditato dalla storia. In molti campi, è riconosciuto nel diritto internazionale che le Nazioni possono essere titolari di diritti soggettivi, come il diritto di proteggere e di trasmettere alle generazioni future la loro identità culturale, linguistica, ecologica; ciò però non vale per la loro identità religiosa, sebbene si tratti di una delle componenti identitarie più profonde. In materia religiosa, le Nazioni non sono titolari di alcun diritto. Secondo la concezione moderna della libertà di religione, solo gli individui, presi isolatamente, possiedono diritti religiosi che si esercitano nei limiti fissati dalle legislazioni nazionali. La religione e le varie società intermediarie non beneficiano di una protezione particolare: solo ogni credente, individualmente, è titolare di diritto, e questo diritto si esercita innanzitutto e soprattutto verso terzi e verso società.
Questa libertà religiosa implicherebbe dunque la neutralizzazione dell'identità religiosa della società, ma tale neutralità è profondamente illusoria. Di fatto, se il potere civile può essere indifferente alle convinzioni intime delle persone, non può però esserlo del tutto verso la religione in quanto essa è per sua natura un fenomeno sociale. Così, pretendere di essere indifferente verso la religione alla fine significa negare la dimensione fondamentalmente sociale della religione e limitarla alla sfera privata delle convinzioni intime.
È espressione di un'opzione filosofica affermare nel caso Lautsi che lo Stato dovrebbe agire come se la società e la cultura italiane non avessero niente di religioso. Eppure uno Stato, un popolo, ha necessariamente un'identità, e questa identità ha necessariamente una dimensione religiosa. Uno Stato non è un concetto, non è una struttura neutrale, non ha la freddezza di un'istituzione sovranazionale; uno Stato è l'emanazione di un popolo, con la sua storia e la sua identità. In quest'ottica, i simboli servono proprio a rappresentare, a incarnare le componenti dell'identità sociale. L'identità collettiva si costruisce attorno a simboli. La dimensione religiosa dell'identità sociale di un popolo è costituita e manifestata da tutta una serie di usi sociali e abitudini, come le feste, i nomi, un certo tipo di rapporti umani, l'abbigliamento o anche l'alimentazione. È manifestata pure da simboli visibili, come i crocifissi nelle scuole, negli ospedali o nelle piazze e nei monumenti pubblici.
Per essere coerente con se stessa, la Corte europea dovrebbe rinunciare a chiudere a Natale e a Pasqua, e adottare, come avevano fatto i rivoluzionari francesi, un calendario nuovo senza riferimenti alla vita di Cristo. Di fatto, l'identità religiosa di una società non può essere neutralizzata: può essere negata, combattuta e sostituita, ma non neutralizzata. Di conseguenza, la vera questione al centro del caso Lautsi è quella della legittimità di un'autorità sovranazionale che pretende di modificare d'imperio la dimensione religiosa dell'identità di un Paese. La teoria giuridica della libertà religiosa non è in grado di tener conto dell'identità cristiana dell'Europa; è proprio questo che il caso Lautsi ha rivelato. La reazione politica senza precedenti suscitata dalla sentenza del novembre 2009 riveste di conseguenza una grande importanza, in quanto è una vera riaffermazione della legittimità propria e particolare del cristianesimo nell'identità dell'Europa, di fronte alla dinamica della secolarizzazione.

Individuo e società

Il caso Lautsi rivela anche come il modo di affrontare la libertà religiosa da parte della Corte di Strasburgo si fondi su una concezione conflittuale delle relazioni fra l'individuo e la società. La società e la persona non vengono considerate in una relazione di complementarità, ma di opposizione: la società è il principale ostacolo alla libertà individuale; sono le società a limitare la libertà; esse dovrebbero dunque annullarsi, divenire il più possibile neutrali al fine di liberare lo spazio per il libero esercizio della coscienza individuale.
Tale concezione conflittuale porta a una logica di rivendicazione esclusiva del "mio diritto particolare" contro l'insieme della società. Il diritto dei figli della signora Lautsi a non essere costretti a vedere il simbolo di Cristo dovrebbe prevalere, senza alcun compromesso possibile, sul desiderio maggioritario di un intero popolo, e persino di tutti i popoli membri del Consiglio d'Europa. L'assolutizzazione della dignità e dell'autonomia individuale porta all'assolutizzazione del diritto che la garantisce, e all'annullamento degli interessi della comunità.

La libertà contro la religione

Il caso Lautsi deve anche indurre a interrogarsi sul pericolo costituito dalla logica della libertà religiosa quando questa viene estremizzata, in quanto porta a negare la religione in nome della libertà di religione, a difendere la libertà di religione sopprimendo socialmente la religione. È quanto la Corte ha fatto: ha preteso di difendere la libertà religiosa sopprimendo il simbolo religioso. Si tratta di un vero e proprio ribaltamento storico e concettuale, poiché la libertà religiosa è stata voluta, nel dopoguerra, come strumento di difesa della trascendenza dell'uomo dinanzi al nichilismo di Stato. La libertà di religione è probabilmente il diritto maggiormente leso in Europa nel XX secolo; i suoi nemici si rifiutano di ammettere che la religione e la libertà non sono necessariamente antinomiche - essi utilizzano la libertà contro la religione - e ritengono addirittura che la libertà religiosa venga violata dalla semplice manifestazione della religione degli altri.
Infine, come risulta dalla giurisprudenza della Corte europea, la libertà religiosa non è più un diritto primario, fondamentale, direttamente derivante dalla natura trascendente della persona umana, ma è un diritto secondario, concesso dall'autorità civile e derivante dall'ideale di pluralismo democratico. Si tratta di un capovolgimento concettuale. Sono così sempre più frequenti nella giurisprudenza formule come: la libertà di religione garantisce il pluralismo e a tale titolo merita una tutela particolare. La manifestazione delle convinzioni religiose si ritrova così inquadrata dalle esigenze di un ordine pubblico assimilato alla neutralità.
Non solo, ma nella realtà la libertà di religione viene sempre più limitata alla sola libertà di fede, vale a dire alla libertà interiore di credere o di non credere. Sarebbe un errore ritenere che la fede sia indipendente dalla religione in quanto una è interiore e l'altra esteriore. Limitare la libertà di religione (a motivo della non legittimità sociale della religione) per proteggere la sola libertà di fede (come espressione pura della trascendenza umana) corrisponderebbe, in una famiglia, a proibire le preghiere e il catechismo in nome della libertà dell'atto di fede dei figli. Di fatto, si avrebbero così pochissime possibilità di trasmettere la fede ai figli. Lo stesso vale per la società. Togliere la religione dalla società equivale a togliere la fede dai cuori delle generazioni future.

Reazione senza precedenti

La sentenza Lautsi ha provocato una reazione sociale e politica senza precedenti nella storia del Consiglio d'Europa. Mai una decisione della Corte di Strasburgo è stata così contestata, con così tanto vigore, non solo dai credenti, ma anche dalla società civile e da molti Governi. Tre settimane dopo l'udienza dinanzi alla Grande Chambre, è sempre più evidente che è stata riportata una grande vittoria contro la dinamica della secolarizzazione. Se giuridicamente l'Italia non ha ancora vinto, politicamente ha di fatto già riportato una vittoria magistrale. In effetti, finora, non meno di venti Paesi europei hanno manifestato il loro sostegno ufficiale all'Italia difendendo pubblicamente la legittimità della presenza di simboli cristiani nella società e in particolare nelle scuole.
In un primo tempo, dieci Paesi si sono impegnati nel caso Lautsi come "terzi intervenuti" (amicus curiae). Ognuno di questi - Armenia, Bulgaria, Cipro, Grecia, Lituania, Malta, Monaco, Romania, Federazione Russa, San Marino - ha consegnato alla Corte una memoria scritta invitandola a ritornare sulla sua prima decisione. Queste memorie non hanno un valore solamente giuridico, ma sono anche e prima di tutto importanti testimonianze di difesa del patrimonio e dell'identità di questi Paesi dinanzi all'imposizione di un modello culturale unico. La Lituania, ad esempio, non ha esitato a mettere in parallelo la sentenza Lautsi e la persecuzione religiosa che ha subito e che si manifestava soprattutto nella proibizione dei simboli religiosi.
A questi dieci Paesi se ne sono finora aggiunti altri dieci. In effetti i Governi di Albania, Austria, Croazia, Ungheria, ex Repubblica Iugoslava di Macedonia, Moldavia, Polonia, Serbia, Slovacchia e Ucraina hanno pubblicamente messo in questione il giudizio della Corte e chiesto che le identità e le tradizioni religiose nazionali vengano rispettate. Molti Governi hanno insistito nel dire che tale identità religiosa è all'origine dei valori e dell'unità europea.
Così, con l'Italia è già quasi la metà degli Stati membri del Consiglio d'Europa (21 su 47) a essersi pubblicamente opposta a questo tentativo di secolarizzazione forzata e ad affermare la legittimità sociale del cristianesimo nella società europea. Al di là degli argomenti reali di difesa delle identità, delle culture e delle tradizioni cristiane nazionali, questi venti Stati hanno di fatto affermato e difeso pubblicamente il loro attaccamento a Cristo stesso; hanno ricordato che è conforme al bene comune che Cristo sia presente e onorato nella società.
Questa coalizione, che raggruppa quasi tutta l'Europa centrale e orientale, rivela il persistere di una divisione culturale interna all'Europa; rivela anche che tale divisione può essere superata, come testimonia l'importanza del sostegno all'Italia da parte dei Paesi di tradizione ortodossa.

Chiese ortodosse e secolarismo

L'importanza del sostegno offerto da Paesi di tradizione ortodossa risulta in gran parte dalla determinazione del patriarcato di Mosca a difendersi contro il progredire del secolarismo. Mettendo in atto la richiesta del Patriarca Cirillo di "unire le Chiese cristiane contro l'avanzata del secolarismo", il metropolita Ilarione ha proposto la creazione di un'alleanza strategica fra cattolici e ortodossi per difendere insieme la tradizione cristiana contro il secolarismo, il liberalismo e il relativismo che prevalgono nell'Europa moderna: "Il secolarismo che prospera oggi in Europa - ha scritto il presidente del Dipartimento delle relazioni esterne del patriarcato - è anch'esso una pseudo-religione con i suoi dogmi, le sue norme, il suo culto e la sua simbologia. Sull'esempio del comunismo russo del XX secolo, mira al monopolio e non sopporta alcuna concorrenza. Per questo motivo, i leader del secolarismo reagiscono in modo eccessivo a qualsiasi manifestazione religiosa e alla menzione del nome di Dio. (...) Il secolarismo attuale, come pure l'ateismo russo, si considera il sostituto del cristianesimo. Perciò non può restare neutrale e indifferente nei confronti di quest'ultimo. Gli è apertamente ostile". Questa analisi è in sintonia con quella fatta dal Papa, che il 24 gennaio 2008 ha detto ai vescovi della Conferenza episcopale di Slovenia che il secolarismo è "diverso ma non meno pericoloso del marxismo".
Questo importante fenomeno denota che la transizione democratica nei Paesi dell'est non è stata accompagnata dalla transizione culturale vivamente auspicata dall'ovest. Oggi si assiste piuttosto a un movimento inverso di riaffermazione identitaria che passa per una forma di restaurazione del modello ortodosso di relazione fra la Chiesa e il potere civile. Di fatto, il muro della separazione fra il potere civile e quello religioso viene meno a favore di una collaborazione al servizio del bene comune. Il potere civile e quello religioso considerano questa collaborazione legittima e di per sé buona; hanno molte difficoltà a comprendere la loro regolare condanna da parte della Corte di Strasburgo, che vigila sulla rigida separazione fra la sfera religiosa e quella civile.
Il massiccio sostegno giunto dall'est potrebbe inoltre annunciare un grande cambiamento nella dinamica di costruzione dell'unità europea. In effetti si è sempre pensato che l'unità europea si sarebbe inevitabilmente realizzata dall'ovest verso l'est attraverso una conquista di quest'ultimo al liberalismo economico e culturale occidentale. Ora, evento raro, il caso Lautsi ha provocato un movimento inverso, dall'est verso l'ovest. L'est dell'Europa, appoggiandosi al cattolicesimo, si oppone all'ovest nella difesa della cultura cristiana e di una giusta concezione della libertà religiosa. Chiaramente i difensori della libertà dinanzi al materialismo non sono più là dove erano un tempo.
Si è potuto percepire durante il procedimento dinanzi alla Corte di Strasburgo un certo disagio nei confronti di quelle Nazioni orientali che osavano contestare la correttezza dell'operato della Corte. Questo disagio è stato percepito, ad esempio, quando gli Stati "terzi intervenuti" hanno cercato di ottenere la parola durante l'udienza. Normalmente una simile richiesta non crea difficoltà, e trenta minuti vengono concessi a ogni Stato affinché possa esporre le proprie argomentazioni. Nel caso Lautsi, invece, questi Stati si sono scontrati contro un rifiuto categorico. Solo dopo molte insistenze hanno ottenuto, tutti insieme, quindici minuti. Questo è stato vissuto da alcuni di quei Paesi come un affronto e un riflesso di autodifesa della Corte. Questo intervento comune presso la Corte è comunque un avvenimento storico. Fra le questioni da porsi nell'immediato futuro ci sarà quella di sapere se la Corte sarà capace di rimettere in discussione il suo paradigma ideologico in materia religiosa. Ventuno Paesi del Consiglio d'Europa su quarantasette l'hanno espressamente invitata a farlo; rifiutare in modo perentorio questo invito minerebbe direttamente la legittimità della Corte.
Il Consiglio d'Europa, da cui dipende la Corte di Strasburgo, nella sua Carta di fondazione afferma "l'attaccamento incrollabile" dei popoli dell'Europa ai "valori spirituali e morali che sono il loro patrimonio comune". Questi valori spirituali e morali non sono di natura privata; essi sono costitutivi dell'identità religiosa dell'Europa e riconosciuti come fondanti il progetto politico europeo. Come il Papa ha ricordato di recente, il cristianesimo è la fonte di questi valori spirituali e morali. L'alleanza di questi ventuno Paesi indica che è possibile costruire il futuro della società europea su questo fondamento, al prezzo di una riflessione lucida sul modello culturale occidentale contemporaneo e nella fedeltà cristiana. L'Europa non può affrontare il futuro rinunciando a Cristo.
(©L'Osservatore Romano - 22 luglio 2010)


È cominciata l'era della biologia sintetica – iltempo.it - 22/07/2010
Un'affermazione che racchiude per i profani migliaia di domande, scenari impensabili: eppure, questo futuro non è lontano anni luce ma a portata di mano. Lo afferma Craig Venter, scienziato americano di fama mondiale, che nell'aprile scorso ha ottenuto in laboratorio il primo genoma artificiale in grado di replicarsi dando vita a una nuova specie di microrganismo sintetico. L'autorevole ricercatore è intervenuto ieri a Roma al convegno organizzato al Senato dal Centro Studi Sviluppo Relazioni per la Sicurezza. Ad ascoltarlo una platea di genetisti quali Giuseppe Novelli e Bruno Dallapiccola, virologi come Giuseppe Ippolito e Ilaria Capua, astrofisici come Remo Mandolesi, i presidenti dell'Istituto nazionale di Astrofisica Tommaso Maccarano e dell'Isituto nazionale di Fisica Nucleare Roberto Petronzio e Sergio Dompè per Farmindustria. Scienziati italiani, protagonisti nelle loro specialità che, riassunte per sommi capi, hanno tutte a che fare con la "vita". Ad ascoltare Craig Venter anche il presidente di Palazzo Madama, Renato Schifani. «Se il Dna artificiale è il software della vita sintetica, in pochi anni si potrà creare una cellula dal nulla - ha detto Venter - . Un contenitore del tutto nuovo nel quale inserire il Dna sintetico creato al computer, che segua le sue indicazioni e dia vita a un organismo interamente artificiale. Una specie nuova e vivente inesistente prima in natura. Il tutto realizzando Dna sintetico, trapiantato su una cellula ospite, riconvertita dalle indicazioni del genoma artificiale». Ma non è finita. Per riconoscere il Dna artificiale da quello naturale Venter e il suo team americano hanno aggiunto dei marcatori: i nomi di 46 scienziati, delle citazioni, un indirizzo web. Una sorta di carta di identità. Nel corso del suo intervento Graig Venter ha sottolineato le potenzialità immense in molti ambiti come l'industria, la medicina, l'ambiente, l'energia e la sicurezza. Una risorsa che potrebbe migliorare la nostra vita, addirittura risolvere il problema dello smog, salvando il Pianeta assediato dai gas serra. C'è anche questo nella panacea dalla vita artificiale. Impieghi che per Venter sono più che delle ipotesi. Con la Sorcener II, una barca-laboratorio (ce l'aveva anche Guglielmo Marconi) l'équipe dell'illustre scienziato ha fatto il giro del mondo, raccogliendo e catalogando genomi batterici sconosciuti. E adesso fa tappa in Italia sul nostro mare. «Stiamo prendendo campioni del mondo marino per disegnare i componenti chiave per la progettazione del futuro». Finora, Venter ha raccolto 40 milioni di geni. Una collezione incredibile destinata ad ampliarsi, «anche grazie alle particolarità dell'ecosistema marino italiano». «In futuro la biologia sintetica consentirà di creare cellule con cui ripulire l'aria, disinquinare i terreni e decontaminare l'acqua. E, poi, produrre energia illimitata a emissioni zero e in tempi brevi, utilizzando alghe ingegnerizzate al posto del petrolio». Insomma, musica per le orecchie di quanti confidano nel progresso della scienza e delle biotecnologie per curare il mondo e migliorare la vita per molti. Se non per tutti. Ma la vera sfida di Venter è nell'affermare che dalle ricerche della biologia sintetica «potremo scoprire importanti indizi sull'origine della vita. Anche se - ammette - ancora non siamo alla spiegazione di un organismo complesso come il nostro». In principio fu l'era del fuoco, poi del bronzo, del ferro, dell'acciaio, del silicio, delle nanotecnologie. E ora forse chissà della vita artificiale. Intanto il mistero dell'uomo è ancora intatto.


Avvenire.it, 22 luglio 2010 - Matrimoni più fragili, società più fragile - Sicuri che l'urgenza sia il «divorzio breve»?
L’Istat ha diffuso ieri i dati relativi ai divorzi e alle separazioni. Cifre che parlano da sole: «Nel 2008 le separazioni sono state 84.165 e i divorzi 54.351, con un incremento rispettivamente del 3,4 e del 7,3% rispetto all’anno precedente. (...) Rispetto al 1995 le separazioni sono aumentate di oltre una volta e mezza (+61%) e i divorzi sono praticamente raddoppiati (+101%)». Colpisce la rapidità con cui cresce il fenomeno di chi si separa e chi divorzia, ancor più dei numeri assoluti. È il segno della facilità con cui si considera reversibile l’amore che ci si è giurato per sempre, ed è al tempo stesso un indicatore della fragilità con cui nasce oggi la famiglia, con la prospettiva di una via di fuga.

Un secondo dato fa pensare: «La crisi coniugale coinvolge sempre più frequentemente anche le unioni di lunga durata. Le separazioni (...) oltre i 25 anni sono quasi triplicate». Dunque aumentano le coppie che dopo molti anni di matrimonio decidono di mettere fine alla loro unione, come se i figli, le esperienze, le gioie, difficoltà condivise non fossero riuscite a costruire un patrimonio comune significativo.

Su questi dati deve riflettere la politica, che sta facendo troppo poco per sostenere la famiglia; e devono riflettere tutte le istituzioni che hanno a cuore la coesione della società. La famiglia è un suo capitale, da non sperperare a cuor leggero; essa è continuerà a essere un soggetto portante e importante, che permette di affrontare le difficoltà dei singoli in quella solidarietà degli affetti che si traduce in aiuto reciproco quando vi è un anziano in casa, quando va in crisi il lavoro, quando qualcuno si ammala... Ogni volta che una famiglia diviene più debole, anche la società lo è un po’ di più.
E allora, anziché pensare a come rendere più veloci le pratiche di separazione, perché non investire (energie, soldi, idee, progetti...) per aiutare le coppie a restare insieme, a reggere alle difficoltà, a riconciliarsi?

Certo non si affrontano le crisi quando sono diventate troppo aspre; occorre piuttosto pensare a come rendere forte la coppia e la famiglia. Occorrono ad esempio reti familiari di sostegno nella normalità della vita coniugale, nella convinzione che nessuna coppia è così forte da non trarre vantaggio da momenti di confronto con altre coppie; per sostenersi nell’elaborazione delle esperienze, per condividere le fatiche, superando quella concezione così privata della famiglia che porta a tenere tutto al proprio interno. Anche il saper chiedere aiuto con naturalezza è da adulti.

Ma occorre guardare ancor più da lontano il carattere impegnativo dell’esperienza familiare affrontando con serietà la sfida educativa, nell’età in cui i giovani si preparano a compiere le scelte importanti della loro vita. Quella educativa è veramente la questione seria della nostra società e dovrebbe avere espressioni qualificate quando ci si misura con scelte grandi e concrete: la capacità di sacrificio, la tenuta di fronte alle difficoltà, il senso di responsabilità verso le proprie scelte, la disponibilità a riconciliarsi e a ricominciare...

Le storie drammatiche di questi giorni dicono come sia necessario imparare a riconoscere le proprie emozioni insieme all’alfabeto dell’amore, che non è travolgente passione, ma rispetto e gentilezza, dominio dei propri impulsi, responsabilità. Pena il distruggere la vita dell’altro, quando non basta compromettere la relazione.

Siamo disposti a ricominciare da questo essenziale alfabeto? Questo è il punto, non certo il «divorzio breve». E in gioco è il futuro della nostra società.
Paola Bignardi