mercoledì 7 luglio 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) La riforma di Benedetto - Massimo Camisasca - mercoledì 7 luglio 2010 - Benedetto XVI rimarrà certamente nella storia come un papa riformatore. La riforma della Chiesa è sempre stata una delle sue attenzioni, anche quando era Cardinale. Non a caso, quando parlò al Meeting di Rimini circa 20 anni fa, intitolò il suo intervento: “La Chiesa deve essere sempre riformata”. – ilsussidiario.net
2) IN EUROPA, IL “MATRIMONIO” OMOSESSUALE NON È UN DIRITTO - Sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani
3) Quando i giudici si improvvisano teologi - In Belgio perquisiscono le tombe dei vescovi, negli Stati Uniti chiamano alla sbarra il papa. Si profila una svolta nella cultura giuridica e nella pratica dei tribunali. L'analisi del professor Pietro De Marco - di Sandro Magister
4) Intolleranza e discriminazione contro i cristiani - Libertà religiosa è anche libertà di convertirsi - di Massimo Introvigne - (©L'Osservatore Romano - 7 luglio 2010)
5) 06/07/2010 - IRAQ - Ucciso un altro cristiano a Mosul di Layla Yousif Rahema - Behnam Sabti, siro ortodosso è stato ucciso ieri dall’esplosione di una bomba fissata sotto la sua auto. L’uomo lavorava come infermiere all’ospedale statale Al Jumhuriyia di Mosul. Secondo fonti anonime il movente dell’omicidio è l’identità religiosa.
6) L'aborto grida vendetta al cospetto di Dio … NON UCCIDERE! Questo comandamento di Dio, l’unico Signore, che ha il diritto di vita e di morte, è stato inscritto nel cuore degli uomini fin dagli inizi… Il nostro Creatore ed unico Giudice! - Carlo Di Pietro – dal sito pontifex.roma.it
7) LETTURE/ Waters: noi, poveri ammalati di un "virus" mortale - INT. John Waters - mercoledì 7 luglio 2010 - Mauro Biondi - Nel tuo nuovo libro Beyond Consolation (Soggetti smarriti) fai una analisi molto lucida del plagio fisiologico odierno. Fa paura vedere come questa falsa realtà, la riduzione della realtà che tu descrivi, è ampiamente dentro ciascuno di noi. Vi siamo totalmente immersi.
8) Avvenire.it, 7 luglio 2010 - Legge 40: i dati, gli slogan e i veri nodi - Ma la provetta è tecnica non libertà - Assuntina Morresi
9) Avvenire.it, 7 luglio 2010 - Si chiama Grisha Perelman, è il migliore. Con coerenza e in povertà - Volete un autentico modello? Eccolo: matematico e umanissimo - Gabriella Sartori
10) Avvenire.it, 7 luglio 2010 - LE REGOLE - I punti fermi. Poi le sentenze - Ilaria Nava
11) Avvenire.it, 7 luglio 2010 - LEGGE 40 - Roccella: «Una norma che bilancia i diritti» - Pier Luigi Fornari

La riforma di Benedetto - Massimo Camisasca - mercoledì 7 luglio 2010 - Benedetto XVI rimarrà certamente nella storia come un papa riformatore. La riforma della Chiesa è sempre stata una delle sue attenzioni, anche quando era Cardinale. Non a caso, quando parlò al Meeting di Rimini circa 20 anni fa, intitolò il suo intervento: “La Chiesa deve essere sempre riformata”. – ilsussidiario.net
Questo suo intento riformatore è apparso più chiaramente e in modo insistito durante l’ultimo anno, dopo il ritorno del tema preti-pedofilia all’attenzione mondiale. Ma non può essere assolutamente ridotto ad esso.
Innanzitutto, il campo della riforma è per papa Ratzinger la liturgia (e di conseguenza la comprensione del Vaticano II). È nella celebrazione liturgica che appare più chiaramente la “mondanizzazione” della Chiesa, la sua assunzione di categorie sociologiche o politiche.
Da lì dunque deve partire il rinnovamento, che è un processo sia in avanti verso la liberazione da schemi mondani del passato recente, sia all’indietro verso una riscoperta di quel Principio che è il cuore della vita della Chiesa.
Poi la riforma deve scendere a colpire l’avarizia, la lussuria, la superbia. La ricerca del denaro, del piacere, del potere come fonti della ragione per vivere. La gioia e la realizzazione umana stanno altrove, nell’obbedienza, nella povertà e nella verginità.
Superbia, invidia e avarizia sono le tre faville c’hanno i cuori accesi, aveva scritto Dante. A lui, a san Francesco, a san Bonaventura, a papa Celestino visitato domenica, ma anche a Tommaso Moro, a Newman e a Rosmini può essere accostato il progetto riformatore del Papa.
Sembra che tutto riguardi e vada a colpire solo la Chiesa. Tutto il male, tutte le colpe sono dunque raccolte solo nella sposa di Cristo? Ratzinger deve far pensare a Lutero o comunque a uno spirito che vuole sferzare i cardinali, dimenticando quanto di male c’è al di fuori della Chiesa?
Sarebbe un’ottica veramente sbagliata, assunta purtroppo da alcuni giornalisti e pubblicisti, capaci di falsare le vere intenzioni del Papa. Egli non vuole colpire la Chiesa, all’opposto vuole liberarla dal suo abbraccio col mondo.
Non vuole una Chiesa meno presente nella storia, meno “istituzione”. Il male infatti non è l’istituzione, ma la rincorsa dei beni mondani. Il male è nelle logiche mondane e negli uomini di Chiesa che le sposano spogliandosi della loro vera identità. Il centro dell’amore di Benedetto è la sposa di Cristo.
Da questa riforma (che ora deve riguardare anche le nomine episcopali con l’arrivo del cardinale canadese Ouellet a capo della congregazione per i Vescovi) la Chiesa uscirà più libera e più trasparente per la missione che Cristo le ha affidato.


IN EUROPA, IL “MATRIMONIO” OMOSESSUALE NON È UN DIRITTO - Sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani
STRASBURGO, martedì, 6 luglio 2010 (ZENIT.org).- Lo European Centre for Law and Justice (ECLJ) ha appoggiato la sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani (ECHR) che ha affermato che non esiste un diritto di matrimonio o di partnership registrata per gli omosessuali in base alla Convenzione Europea dei Diritti Umani.
Analizzando la sentenza Schalk e Kopf v. Austria (n° 30141/04), la Corte ha affermato il 24 giugno scorso che il Governo austriaco non ha discriminato la coppia non permettendo a due uomini di contrarre matrimonio.
La Corte ha ribadito all'unanimità che il diritto di sposarsi è garantito solo a “uomini e donne”, come esposto nell'articolo 12 della Convenzione.
Ha anche osservato che tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa “non c'è ancora una maggioranza di Stati per fornire un riconoscimento legale alle coppie dello stesso sesso. L'area in questione, dunque, deve ancora essere considerata uno dei diritti in evoluzione con un consenso non stabilito”.
Visto che “il matrimonio ha connotazioni sociali e culturali profondamente radicate che possono differire ampiamente da una società all'altra, la Corte ribadisce che non deve affrettarsi a sostituire il proprio giudizio a quello delle autorità nazionali, che sono le più adatte ad affrontare e a rispondere alle necessità della società” (§62), e che “gli Stati sono ancora liberi, in base all'articolo 12 della Convenzione e all'articolo 14 considerato insieme all'articolo 8, di restringere l'accesso al matrimonio alle coppie di sesso diverso” (§108).
In altre parole, la Corte ha prudentemente rinunciato, anche se solo per il momento, a imporre agli Stati nazionali il riconoscimento legale delle coppie dello stesso sesso.
Gregor Puppinck, direttore dell'ECLJ, interpreta questa rinuncia prudente alla luce dell'attuale “ribellione” di una dozzina di Stati membri nel caso italiano del crocifisso (Lautsi v. Italia) contro una tendenza della Corte di imporre nuovi diritti umani “post-moderni” che contraddicono i valori sottostanti la Convenzione.
“Gli Stati non possono essere vincolati ad accettare nuovi obblighi che non si trovino nella Convenzione e siano inoltre contrari ad essa”, ha aggiunto Puppinck in alcune dichiarazioni inviate a ZENIT.


Quando i giudici si improvvisano teologi - In Belgio perquisiscono le tombe dei vescovi, negli Stati Uniti chiamano alla sbarra il papa. Si profila una svolta nella cultura giuridica e nella pratica dei tribunali. L'analisi del professor Pietro De Marco - di Sandro Magister
ROMA, 6 luglio 2010 – In questo inizio d'estate, nel dramma della pedofilia è entrato in scena clamorosamente un nuovo attore, il giudice.

Il 24 giugno, in Belgio, forze di polizia agli ordini della magistratura hanno perquisito persone e luoghi nevralgici per la Chiesa del paese: l'arcivescovado di Malines-Bruxelles mentre vi erano riuniti i vescovi, l'abitazione del cardinale Godfried Danneels e la sede della commissione indipendente creata dalla Chiesa belga per indagare sugli abusi sessuali. Qui gli inquirenti hanno sequestrato 475 dossier, molti dei quali riguardanti vittime che si erano rivolte a questa commissione invece che alla giustizia civile per salvaguardare la loro vita privata.

Inoltre, lo stesso giorno, nella cattedrale di Saint Rombout a Malines sono state violate le tombe dei cardinali Desiré-Félicien Mercier, Jozef-Ernest Van Roey e Léon-Joseph Suenens, alla vana ricerca di presunte prove della complicità della Chiesa belga negli abusi.

Il 29 giugno, negli Stati Uniti, la corte suprema ha invece rifiutato di prendere in esame la richiesta della Santa Sede di impedire la chiamata in causa delle massime autorità vaticane, come imputate, in un processo nell'Oregon per abusi sessuali commessi da un religioso.

La richiesta della Santa Sede aveva ricevuto l'appoggio dell'amministrazione Obama. Anche nel 2005, durante la presidenza Bush, il dipartimento di Stato americano aveva definito illegittima la chiamata in causa di Benedetto XVI in un processo nel Texas per abusi sessuali, in forza dell'immunità di ogni capo di Stato e quindi anche del papa. E quella volta il giudice accolse il parere dell'amministrazione.

Ma la corte suprema ha ritenuto di non esprimersi sulla questione, come del resto fa per la stragrande maggioranza delle 7-8 mila richieste di giudizio che riceve ogni anno, delle quali ne prende in esame non più di 60-70.

Di conseguenza, la corte suprema ha rimandato il giudizio a un grado inferiore, in questo caso la corte d'appello federale dell'Oregon. Teoricamente, quindi, questo tribunale potrebbe convalidare la chiamata in causa come imputati di papa Benedetto XVI, del suo segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone, del prefetto della congregazione per la dottrina della fede cardinale William Levada e del nunzio apostolico negli Stati Uniti, l'arcivescovo Pietro Sambi. Ciò diverrebbe possibile qualora la corte dell'Oregon stabilisse che il religioso autore degli abusi, morto nel 1992, fosse un "dipendente della Santa Sede".

Un'analoga chiamata in giudizio delle massime autorità della Chiesa è in atto nel Kentucky e un'altra ne è stata avviata pochi giorni fa a Los Angeles.

Che a questo si arrivi, cioè a tradurre in tribunale il papa per i crimini di un suo "dipendente", è improbabile. Ma che prima o poi una corte si arroghi di stabilire con criteri propri ciò che la Chiesa è e quale rapporto abbia la gerarchia con i suoi "dipendenti" non è più un'ipotesi da escludersi tassativamente.

Le perquisizioni ordinate dalla magistratura belga – definite "brutali" dallo stesso ministro della giustizia di quel paese, Stefaan De Clerck – non sono affatto rassicuranti. Lì la Chiesa è stata considerata alla stregua di una cosca di malfattori.

Non solo in Belgio e negli Stati Uniti, ma un po' ovunque, cresce la tendenza a giudicare la natura e l'organizzazione della Chiesa ignorando ciò che essa è e i suoi ordinamenti originari e peculiari, che pure sono entrati nella migliore cultura giuridica e sono stati riconosciuti da patti di validità internazionale.

L'auspicio, quindi, più volte espresso dalle autorità della Chiesa, che il foro civile e quello canonico operino ciascuno nel proprio ordine per contrastare gli abusi sessuali del clero, non sempre si traduce in pacifica e fruttuosa cooperazione.

La Chiesa, da qualche tempo e soprattutto grazie all'impulso di Joseph Ratzinger cardinale e papa, sta facendo molto per correggere le proprie colpe e omissioni. Ma la giustizia civile deve anch'essa far meglio. Le sue prove nel campo, nei passati decenni, sono state spesso deludenti. Ma se oggi prevaricasse, attribuendosi competenze e ruoli che non le spettano e agendo di conseguenza, farebbe ancor peggio.

Qui di seguito, ecco un'analisi approfondita della questione aperta dai casi belga e americano. L'autore, il professor Pietro De Marco, insegna all'Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell'Italia Centrale.

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SUI GIUDICI E LA CHIESA
di Pietro De Marco
Naturalmente nessuna corte suprema degli Stati Uniti ha dichiarato, come ha titolato un giornale, che “il Vaticano si può processare”, né che sia “civilmente responsabile degli atti di un prete”, come si è espressa un’agenzia. Non solo perché non è nei poteri di una suprema corte nazionale decidere in materia di eventuali illeciti internazionali, ma perché, anzitutto, uno Stato non è “processabile”.

L’imputazione di un comportamento a uno Stato è possibile a partire da una condotta individuale che possa essere attribuita a quello Stato. E la condotta posta in essere è imputabile a uno Stato solo se quell’individuo è un suo organo, non semplicemente un suo membro. Ma un titolo di giornale è solo un titolo, disinformativo quanto basta. Più esatto sarà parlare di una non-decisione della corte riguardo alla "immunity" della Santa Sede, cioè all’immunità che protegge un sovrano dalla giurisdizione e dalla responsabilità derivante dall’esercizio di un potere discrezionale. Semplicemente la corte non ha accolto la richiesta della Santa Sede – che aveva ottenuto il parere favorevole del "solicitor general", il procuratore generale del governo federale presso la corte – di accertare la validità degli atti compiuti dai giudici ordinari presso i quali è pendente il caso John Doe (l'usuale nome generico che copre qui quello della vittima di atti di pedofilia risalenti al 1965, di un prete dell’Oregon deceduto nel 1992).

Con ciò la corte sembra non escludere in principio la praticabilità, in sede di diritto internazionale civile, di una imputazione di responsabilità alla Santa Sede. Lascia a un giudice ordinario la chance di tentare questa strada. Ma lo spiraglio di plausibilità è molto stretto. Non solo un sacerdote, ma neppure un vescovo sono propriamente un "organo" della Santa Sede, non si dica dello Stato della Città del Vaticano (tra parentesi, basterebbe la confusione tra queste dizioni a invalidare sia atti formali che considerazioni giornalistiche). Il clero non la rappresenta, né agisce ordinariamente su suo impulso. L’autorità e la forza di indirizzo della Santa Sede, in ultimo del pontefice, sulle Chiese locali, clero e fedeli, non è quella di una catena di comando, di una linea gerarchica militare o aziendale. La sede di Pietro è una istanza che anima, guida e sanziona, in casi ben circoscritti, con riguardo ai fini ultimi della Chiesa stessa. È importante ricordare che la nozione originaria di "gerarchia", persistente fino all'Ottocento in alcune lingue come la tedesca, designa un ordinamento sacro o un corpo religioso; mentre "gerarchia" come assetto di comando di un qualsiasi apparato è un’innovazione linguistica di fine Settecento. La gerarchia cattolica resta un corpo e un sacramento, non un organigramma aziendale; la posizione di ogni membro della Chiesa è coerente con questo ordine di diritto sacro.

Da un lato, dunque, lo Stato della Città del Vaticano gode sicuramente della "immunity" di ogni Stato; dall’altro lato la Santa Sede, protetta dallo scudo di diritto internazionale dello Stato della Città del Vaticano, non intrattiene con i membri delle Chiese locali i rapporti tipici di una catena di comando.

Tutto questo è espressione di una realtà storica universale che la scienza giuridica del Novecento ha visto bene: la Chiesa è ordinamento originario e peculiare. L’alta dottrina giuridica che riconobbe e sanzionò con rilevanza internazionale questa evidenza millenaria, è alla base, ad esempio, dei Patti Lateranesi del 1929 entrati poi nella costituzione italiana. Nessuna istanza esterna può, infatti, definire ciò che la Chiesa è – chi è suo membro, quale rapporto abbia con la gerarchia – prescindendo dalla regolazione che la Chiesa dà di se stessa. Un’istanza esterna può solo “riconoscere” questa autodefinizione. Quindi la corte americana non ha deciso, ma neppure pensato, credo, che “un sacerdote può essere ritenuto un dipendente del Vaticano”, come ci ha annunciato un altro quotidiano. E non c'è chi abbia autorità di decidere che lo sia. Non è così nell’ordinamento della Chiesa, e questo basta. Insistere è arbitrio ingiustificabile, oppure è – tra gli avvocati e in qualche giudice – giocare d’azzardo.

La "immunity" di diritto internazionale degli organi di governo dello Stato della Città del Vaticano si combina dunque, sotto l’aspetto sostanziale, giuridico-religioso, alla forma peculiare della comunità dei cristiani, della Chiesa, nel suo insediamento e ordinamento terra per terra, popolo per popolo, "unum et plura", una sola realtà e ad un tempo molte. Il governo e il popolo della Chiesa sono individuabili; il suo territorio è l’ecumene; essa si sovrappone, tendenzialmente ovunque, ai territori e ai popoli governati dal sovrano politico. Non è uno Stato di tipo moderno; anzi, istituzionalmente lo precede e lo trascende. Continuerà a esistere anche quando lo Stato moderno sarà sostituito da altra forma politica.
La Chiesa non è nemmeno una "corporation", o una organizzazione internazionale. Commentatori e giuristi farebbero bene a ripassare la distinzione classica tra istituzione e organizzazione. Nella Chiesa vi sono organizzazioni, come ve ne sono nello Stato. Ma essa non è un'organizzazione, come non lo è lo Stato. Così come la famiglia è un’istituzione e non un’organizzazione.

Questo va ricordato, perché l’odierno attacco giuridico alla Chiesa di Roma ha una premessa sociologica, secondo cui la Chiesa sarebbe un’entità solo empiricamente rilevante (fedeli, influenza politica, peso economico: tutte dimensioni che si ritiene vulnerabili) ma non avrebbe una consistenza diversa da una qualsiasi associazione volontaria. Così, nel Belgio di forte tradizione laico-irreligiosa qualcuno ha pensato di sconciare l’immagine pubblica della Chiesa, e quindi indebolirne l’autorità, trattando il consiglio episcopale come una riunione di affiliati a una cosca. Quegli uomini, quell’edificio, quelle tombe (tra cui quella del grande cardinale Mercier) per il giudice istruttore che ne ha ordinato l'ispezione non sono parte di un’istituzione universale, non rappresentano la storia spirituale che ha portato quella terra alla dignità dell’Occidente cristiano. Sono un contingente gruppo di cittadini tra vecchie mura, rispetto ai quali valgono le illazioni ridicole (come si sono poi rivelate) di un prete protagonista.

Il ceto dei giuristi abbia il coraggio di un esame autocritico! La loro incapacità di vedere istituti e storia oltre gli individui è coerente con l’assillo protettivo dell'arbitrio utilitaristico di singoli uomini e donne. Ma la tutela di libertà e diritti fine a se stessi, l’odierna “laicità” insomma, fa di una quota di giudici dei manipolatori di realtà storiche che essi non conoscono in quanto giuristi e che nemmeno dovrebbero osare toccare. Per capirci: un ordinamento giudiziario conosce dei fatti sociali solo ciò che, in essi, richiede la protezione della legge. Il giurista come tale, ad esempio, non “conosce” la famiglia, che eccede il diritto, ma quanto in essa va giuridicamente protetto. Ogni passo ulteriore, che pretenda di ridisegnare in tutto la famiglia, sarebbe una ferita all’istituzione, inferta alla cieca o deliberatamente manipolatoria. Lo stesso deve valere per gli interventi del giurista laico sulle istituzioni religiose, a maggior ragione quando esse siano dotate di ordinamento e scienza giuridica propri. Verrebbe da esclamare: "iudices ne ultra crepidam", non andate al di là di ciò che sapete fare!

Carl Schmitt lo vide bene, quando scrisse che i giuristi legittimano, al posto dei teologi, gli istituti della modernità, e hanno con sé la forza del sovrano, l’esecuzione. Negli ordinamenti mondiali come negli istituti della società, nell’antropologia e nella bioetica come nella decisione su chi governa, agisce oggi una nuova ondata di giuristi "rivoluzionari", alcuni consapevoli e altri no, e non si sa cosa sia peggio. Sfugge a molti analisti che tra gli effetti perversi della tarda modernità questo è uno dei più perniciosi.


Intolleranza e discriminazione contro i cristiani - Libertà religiosa è anche libertà di convertirsi - di Massimo Introvigne - (©L'Osservatore Romano - 7 luglio 2010)
L'intolleranza e la discriminazione contro i cristiani, come contro i membri di altre religioni, possono verificarsi quando la libertà religiosa o non è garantita oppure è travisata. Le mie osservazioni si fondano sulla convinzione che la dottrina sociale della Chiesa, e in particolare i documenti più recenti di Benedetto XVI - che partono da argomenti di ragione e non solo di fede - possono essere d'interesse generale, anche per i non cristiani e i non credenti, e offrire un aiuto a tutti.
I principi della libertà religiosa sono in genere affermati dalle costituzioni e dalle leggi degli Stati membri dell'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce). Rimangono tuttavia tre possibili aree di equivoco.
La prima riguarda lo statuto della libertà religiosa. La libertà di religione non è solo uno fra i tanti elementi di una lunga lista di diritti e di libertà. È la pietra angolare di una vita sociale in cui le altre libertà possono fiorire. Parlando a Washington il 17 aprile 2008, Benedetto XVI ha citato un pensatore francese, non credente, Alexis de Tocqueville (1805-1859), il quale insegnava che "la religione e la libertà sono "intimamente legate" nel contribuire a una democrazia stabile". Quando la libertà religiosa è considerata un diritto minore, o secondario rispetto ad altri, la libertà in generale non può essere veramente garantita.
La seconda concerne l'estensione della libertà religiosa. L'Instrumentum laboris della prossima Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi cita il fatto che in alcuni Paesi "libertà di religione vuol dire solitamente libertà di culto. Non si tratta dunque di libertà di coscienza, cioè della libertà di credere o non credere, di praticare una religione da soli o in pubblico senza alcun impedimento, e dunque della libertà di cambiare religione. (...)Cambiare religione è ritenuto un tradimento verso la società, la cultura e la Nazione costruita principalmente su una tradizione religiosa". Al contrario, una vera libertà religiosa deve comprendere la libertà di predicare, di convertire e di convertirsi.
In terzo luogo, in alcuni Paesi la libertà di religione è considerata da alcuni con sospetto, come se implicasse necessariamente il relativismo e la negazione dell'eredità spirituale nazionale. La Chiesa cattolica ha dovuto affrontare lo stesso problema quando si è trovata di fronte ai problemi d'interpretazione della dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae del concilio ecumenico Vaticano ii. Alcuni, anche all'interno della Chiesa, temevano che la proclamazione della libertà religiosa potesse promuovere il relativismo e l'indifferentismo. Ma in realtà, come Benedetto XVI ha ripetutamente mostrato, la libertà religiosa e una ferma difesa della propria identità religiosa contro il relativismo possono e devono coesistere. La libertà religiosa è relativa all'immunità individuale e collettiva dei credenti da ogni coercizione dello Stato laico moderno nel momento della formazione e dell'annuncio della propria esperienza religiosa. Non implica invece che il credente non abbia il diritto e il dovere di esercitare un "adeguato discernimento" tra le diverse proposte religiose, come il Papa ha sottolineato nella sua enciclica del 2009 Caritas in veritate: "La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali" (n. 55).
Con riferimento alla città sede dell'Osce, possiamo dire che questi tre equivoci creano problemi sia a est di Vienna sia a ovest di Vienna. A est di Vienna, i problemi circa l'estensione della libertà religiosa e il timore che la libertà di religione in senso occidentale possa indurre relativismo e un tradimento delle culture tradizionali può generare forme normative che danneggiano le Chiese e le comunità cristiane. Tra queste ci sono il rifiuto della registrazione legale e dell'esenzione fiscale, e il rifiuto di concedere visti ai missionari o licenze per costruire edifici di culto. In alcuni Paesi una virulenta propaganda anti-cristiana ha portato a una diffusa violenza.
A ovest di Vienna troppo spesso assistiamo alla marginalizzazione dei cristiani, i cui diritti di partecipare pienamente al dialogo sociale annunciando la loro fede sono limitati in nome del laicismo. La causa di questi problemi sembra essere il primo dei tre equivoci che ho citato. La libertà religiosa è considerata solo come uno fra tanti diversi diritti, e la sua importanza cruciale è sistematicamente sottovalutata. E il problema diventa peggiore quando tra i diritti che s'invocano per limitare la libertà religiosa ci sono - secondo l'espressione della Caritas in veritate - "presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario", e perfino "diritti" "addirittura alla trasgressione e al vizio" (n. 42). Il riconoscimento dei diritti delle minoranze religiose è certo uno sviluppo importante dei sistemi giuridici moderni. Ma i diritti delle minoranze non devono essere usati per negare i diritti delle maggioranze. Anche le maggioranze hanno i loro diritti.
Il tempo mi permette di citare solo due esempi. Il primo riguarda un numero ormai ampio d'incidenti in Europa dove predicatori cristiani, compresi predicatori di strada, e istituzioni ecclesiali sono stati incriminati o citati in giudizio per avere criticato stili di vita e atteggiamenti relativi alla sessualità che considerano peccaminosi. Alcuni genitori sono stati multati o incriminati per avere rifiutato di mandare i loro figli a cosiddetti corsi anti-discriminazione che, a loro avviso, promuovono stili di vita che non approvano. In quest'area, come in altre, come minimo dev'essere sempre riconosciuto un ampio diritto all'obiezione di coscienza. Le proposte di legge che intendono punire come incitamento all'odio la critica religiosa di stili di vita alternativi sono percepite da molte Chiese e comunità cristiane come una seria minaccia alla loro libertà di predicazione.
Il secondo esempio riguarda la sentenza del 2009 Lautsi contro Italia, con cui la Corte europea dei Diritti Umani ha deciso che la presenza di crocefissi nelle scuole pubbliche italiane viola i diritti dei non credenti e degli alunni che in Italia, un Paese a larga maggioranza cattolico, appartengono a minoranze religiose. I sondaggi hanno confermato che un'ampia maggioranza degli italiani (82 per cento: cfr. Franco Garelli - Gustavo Guizzardi - Enzo Pace (a cura di), Un singolare pluralismo: Indagine sul pluralismo morale e religioso degli italiani, il Mulino, Bologna 2003, pp. 146-147) - compresa una solida maggioranza degli italiani che non sono cattolici praticanti - è favorevole a mantenere nelle scuole il crocefisso, un simbolo della più alta forma di amore oltre che dell'identità e della storia nazionale particolarmente amato in Italia. Questo sembra un caso particolarmente chiaro dove i diritti di un'ampia maggioranza sono ignorati in nome dei diritti di una minoranza, o dell'opinione di un numero molto limitato di militanti del laicismo.
(©L'Osservatore Romano - 7 luglio 2010)


06/07/2010 - IRAQ - Ucciso un altro cristiano a Mosul di Layla Yousif Rahema - Behnam Sabti, siro ortodosso è stato ucciso ieri dall’esplosione di una bomba fissata sotto la sua auto. L’uomo lavorava come infermiere all’ospedale statale Al Jumhuriyia di Mosul. Secondo fonti anonime il movente dell’omicidio è l’identità religiosa.
Mosul (AsiaNews) – Continua l’agonia della comunità cristiana di Mosul, la città più pericolosa d’Iraq. Ieri 5 luglio, in una vera e propria esecuzione mirata, ha perso la vita l’ennesimo cristiano. Siro-ortodosso, Behnam Sabti - 54 anni - lavorava come infermiere all’ospedale statale Al Jumhuriyia di Mosul. Un ordigno fissato sotto la sua auto è esploso mentre l’uomo era alla guida, uccidendolo sul colpo. Fonti locali di AsiaNews, anonime per motivi di sicurezza, si dicono convinte che il movente dell’omicidio sia proprio “l’identità religiosa” dell’uomo. Sposato e padre di tre figli, Kemal sarà sepolto a Bashiqa, nel suo villaggio natale nel nord del Paese.

Secondo gli ultimi dati, diffusi a fine giugno dai ministeri iracheni della Difesa, della Salute e dell’Interno, la violenza su scala nazionale è diminuita. Nonostante ciò, la gente si dice sfiduciata e ancora vive nel terrore. Il numero degli iracheni uccisi in modo violento, nel mese di giugno, è sceso a 284, rispetto ai 437 dello stesso mese del 2009.

Se l’Iraq sta vivendo uno stallo politico dovuto al protrarsi delle trattative sulla formazione del nuovo governo dopo le elezioni del 7 marzo scorso, Mosul affronta “un vero vuoto di sicurezza”, come raccontano le fonti di AsiaNews. In quella che oggi è la roccaforte di “Al Qaeda in Mesopotamia”, si verificano due tipi di violenze: da una parte quelle terroristiche indirizzate contro gli abitanti locali – in gran parte sciiti - e le minoranze; dall’altra quelle jihadiste che colpiscono le truppe americane i loro alleati delle forze di sicurezza irachene.

Le strade di Mosul sono pattugliate dall’esercito Usa, circa 18 battaglioni dell’esercito iracheno sono dispiegati in tutta la città, insieme a centinaia di poliziotti e checkpoint. Ciò nonostante, la situazione rimane altamente insicura, come rivelano gli stessi ufficiali americani. E i problemi “aumenteranno quando gli Usa completeranno il ritiro”, dichiara Didar Abdulla al-Zibari, un membro del locale consiglio provinciale.


L'aborto grida vendetta al cospetto di Dio … NON UCCIDERE! Questo comandamento di Dio, l’unico Signore, che ha il diritto di vita e di morte, è stato inscritto nel cuore degli uomini fin dagli inizi… Il nostro Creatore ed unico Giudice! - Carlo Di Pietro – dal sito pontifex.roma.it
Affermava Sua Santità Giovanni Paolo II il 1° maggio 1987 a Munster. "[...] Il vescovo Von Galen, contro un movimento totalitario mondiale ha enunciato chiaramente e coraggiosamente le verità elementari dell’etica cristiana: i Dieci Comandamenti. [...] si sta diffondendo una teoria “che afferma che bisogna eliminare gli esseri cosiddetti “inutili”, e quindi uccidere uomini innocenti, quando si ritiene che la loro vita non abbia più valore per il popolo e per lo Stato. Una teoria orrenda, che vuole giustificare l’omicidio degli innocenti, che dà via libera all’assassinio in massa degli invalidi non più in grado di lavorare, degli storpi, degli inguaribili, dei vecchi… Ma qui si tratta di uomini, dei nostri simili, dei nostri fratelli e delle nostre sorelle… Tu ed io abbiamo il diritto di vivere soltanto finché siamo produttivi? Soltanto finché gli altri ci considerano produttivi? … NON UCCIDERE! Questo comandamento di Dio, l’unico Signore, che ha il diritto di ... vita e di morte, è stato inscritto nel cuore degli uomini fin dagli inizi… Dio ci ha dato questo comandamento, il nostro Creatore ed unico Giudice!” (Predica del 3 agosto 1941). Queste parole non devono in alcun modo restare sepolte nei libri di storia e negli archivi; esse sono di grande attualità, anche negli Stati democratici, in cui vige il principio che è il popolo stesso, vale a dire gli uomini che devono gestire la propria vita comune in dignità e libertà.

Eppure esistono ancora oggi nella società delle forze, che minacciano la vita umana. L’eutanasia, la “buona morte” che deriva da una presunta compassione è tornata ad essere una parola terribilmente ricorrente e trova i suoi nuovi smarriti difensori.

E la Chiesa non può tacere di fronte alla quasi totale liberalizzazione dell’aborto nel vostro Paese e in numerosi altri Paesi. Con i suoi assistenti pastorali e i laici responsabili, certamente sarà vicina ad ogni singola donna in attesa, che si trovi in difficoltà, con sincera partecipazione e bontà e le dimostrerà, fin dove è possibile, comprensione ed aiuto concreto per la sua situazione. Di fronte alla società la Chiesa non deve tacere; neanche quando vi è la tentazione di rifiutare una franca discussione sull’attuale situazione dell’aborto come se ci si imbattesse in tabù.

Dai politici e dai formatori della pubblica opinione – che si sentono ancora legati ai fondamenti etici o perfino alla fede cristiana – la Chiesa si attende un aiuto, affinché i risultati scientifici dell’embriologia e della psicologia della gravidanza e dell’aborto vengano portati meglio a conoscenza e determinino in modo sempre più efficace le decisioni pratiche degli uomini. I responsabili dovrebbero rivedere in modo obiettivo le stesse norme legali e la loro applicazione concreta per verificare se – invece di tutelare la vita – non rafforzino piuttosto in molti uomini l’errata convinzione che si tratti di un fatto senza importanza, addirittura legale, in quanto non devono neppure sobbarcarsene l’onere finanziario.

La Chiesa deve anche oggi con insistenza, chiarezza e pazienza impegnarsi per il diritto alla vita di tutti gli uomini, soprattutto dei bambini non ancora nati e per questo più bisognosi di essere tutelati; essa deve impegnarsi per la illimitata validità del 5° Comandamento: NON UCCIDERE. Al di là delle belle parole e del rifiuto della riflessione, la maggioranza ne è ben consapevole: l’aborto è l’omicidio volontario di una vita umana innocente. L'aborto è dunque un gravissimo omicidio, poichè perpetuato ai danni di creature innocenti. Le pene dell'Inferno nell'aldilà per chi impenitente morirà convinto della naturalezza di un crimine tanto orribile, saranno tremende. Alcuni Padri della Chiesa ne hanno parlato così come alcuni testi apocrifi accreditati dalla tradizione hanno messo in luce la gravità dell'aborto e della pena che ne consegue.

Riguardo ai testi apocrifi è bene precisare che sebbene alcuni apocrifi, o alcune parti di questi scritti, furono apertamente respinti come inautentici, falsi, o addirittura eterodossi, tuttavia altre parti o altri scritti furono letti, conosciuti, apprezzati, raccontati e meditati, venendo a rappresentare sia l’espressione che l’alimento della spiritualità dei cristiani. In tal modo, senza ottenere il valore autoritativo degli scritti propriamente “canonici” o “patristici”, costituiscono comunque una preziosa testimonianza circa la fede e il costume della Chiesa antica.

Tra questi sicuramente vanno collocate le visioni di tipo apocalittico nelle quali l’autore descrive la pena più o meno dolorosa dei dannati nell’inferno, rivelandoci così il giudizio circa la gravità morale del peccato che hanno commesso. In tre di queste fonti apocalittiche “apocrife” (Apocalisse di Pietro, Apocalisse di Paolo, Oracoli sibillini cristiani) si descrive espressamente la dannazione e la pena di donne che hanno procurato l’aborto.

Apocalisse di Pietro (135 d.C. ca) = ERBETTA vol.III,209ss Dalla versione etiopica – testo completo (scoperta nel 1910) – probabilmente più vicina all’originale = ERBETTA III,221-222 CLEMENTE ALESSANDRINO, eclogae propheticae 41,1-2 = ed. STÄHLIN 149 = ERBETTA III,215 METODIO DI OLIMPO, Il Simposio II, 6 = ed. BONWETSCH 23s = ERBETTA III,215 Apocalisse di Paolo o Visio Pauli (prima del 250 d.C.), 40 = ERBETTA III,374-375 Oracula Sibyllina (Oracoli Sibillini cristiani, 150 d.C. circa), libro II, vv. 281s = ERBETTA III,502-503

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dall'Enciclica Evangelium Vitae «Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (Gn 4, 8): alla radice della violenza contro la vita. 7. «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza... Sì, Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono» (Sap 1, 13-14; 2, 23-24). Il Vangelo della vita, risuonato al principio con la creazione dell'uomo a immagine di Dio per un destino di vita piena e perfetta (cf. Gn 2, 7; Sap 9, 2-3), viene contraddetto dall'esperienza lacerante della morte che entra nel mondo e getta l'ombra del non senso sull'intera esistenza dell'uomo.

La morte vi entra a causa dell'invidia del diavolo (cf. Gn 3, 1.4-5) e del peccato dei progenitori (cf. Gn 2, 17; 3, 17-19). E vi entra in modo violento, attraverso l'uccisione di Abele da parte del fratello Caino: «Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (Gn 4, 8). Questa prima uccisione è presentata con una singolare eloquenza in una pagina paradigmatica del libro della Genesi: una pagina ritrascritta ogni giorno, senza sosta e con avvilente ripetizione, nel libro della storia dei popoli. Vogliamo rileggere insieme questa pagina biblica, che, pur nella sua arcaicità ed estrema semplicità, si presenta quanto mai ricca di insegnamenti. «Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo.

Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto.

Il Signore disse allora a Caino: "Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua bramosia, ma tu dominala".

Caino disse al fratello Abele: "Andiamo in campagna!". Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: "Dov'è Abele, tuo fratello?". Egli rispose: "Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?". Riprese: "Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra".

Disse Caino al Signore: "Troppo grande è la mia colpa per sopportarla! Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere". Ma il Signore gli disse: "Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!".

Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato. Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nod, ad oriente di Eden» (Gn 4, 2-16). 8. Caino è «molto irritato» e ha il volto «abbattuto» perché «il Signore gradì Abele e la sua offerta» (Gn 4, 4).

Il testo biblico non rivela il motivo per cui Dio preferisce il sacrificio di Abele a quello di Caino; indica però con chiarezza che, pur preferendo il dono di Abele, non interrompe il suo dialogo con Caino. Lo ammonisce ricordandogli la sua libertà di fronte al male: l'uomo non è per nulla un predestinato al male.

Certo, come già Adamo, egli è tentato dalla potenza malefica del peccato che, come bestia feroce, è appostata alla porta del suo cuore, in attesa di avventarsi sulla preda. Ma Caino rimane libero di fronte al peccato. Lo può e lo deve dominare: «Verso di te è la sua bramosia, ma tu dominala!» (Gn 4, 7).

Sull'ammonimento del Signore hanno il sopravvento la gelosia e l'ira, e così Caino s'avventa sul proprio fratello e lo uccide. Come leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica, «la Scrittura, nel racconto dell'uccisione di Abele da parte del fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza nell'uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale.

L'uomo è diventato il nemico del suo simile».10 Il fratello uccide il fratello. Come nel primo fratricidio, in ogni omicidio viene violata la parentela «spirituale», che accomuna gli uomini in un'unica grande famiglia,11 essendo tutti partecipi dello stesso bene fondamentale: l'uguale dignità personale. Non poche volte viene violata anche la parentela «della carne e del sangue», ad esempio quando le minacce alla vita si sviluppano nel rapporto tra genitori e figli, come avviene con l'aborto o quando, nel più vasto contesto familiare o parentale, viene favorita o procurata l'eutanasia.

Alla radice di ogni violenza contro il prossimo c'è un cedimento alla «logica» del maligno, cioè di colui che «è stato omicida fin da principio» (Gv 8, 44), come ci ricorda l'apostolo Giovanni: «Poiché questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino, che era dal maligno e uccise il suo fratello» (1 Gv 3, 11-12). Così l'uccisione del fratello, fin dagli albori della storia, è la triste testimonianza di come il male progredisca con rapidità impressionante: alla rivolta dell'uomo contro Dio nel paradiso terrestre si accompagna la lotta mortale dell'uomo contro l'uomo.

Dopo il delitto, Dio interviene a vendicare l'ucciso. Di fronte a Dio, che lo interroga sulla sorte di Abele, Caino, anziché mostrarsi impacciato e scusarsi, elude la domanda con arroganza: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» (Gn 4, 9). «Non lo so»: con la menzogna Caino cerca di coprire il delitto. Così è spesso avvenuto e avviene quando le più diverse ideologie servono a giustificare e a mascherare i più atroci delitti verso la persona. «Sono forse io il guardiano di mio fratello?»: Caino non vuole pensare al fratello e rifiuta di vivere quella responsabilità che ogni uomo ha verso l'altro. Viene spontaneo pensare alle odierne tendenze di deresponsabilizzazione dell'uomo verso il suo simile, di cui sono sintomi, tra l'altro, il venir meno della solidarietà verso i membri più deboli della società — quali gli anziani, gli ammalati, gli immigrati, i bambini — e l'indifferenza che spesso si registra nei rapporti tra i popoli anche quando sono in gioco valori fondamentali come la sussistenza, la libertà e la pace.

9. Ma Dio non può lasciare impunito il delitto: dal suolo su cui è stato versato, il sangue dell'ucciso esige che Egli faccia giustizia (cf. Gn 37, 26; Is 26, 21; Ez 24, 7-8). Da questo testo la Chiesa ha ricavato la denominazione di «peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio» e vi ha incluso, anzitutto, l'omicidio volontario.12 Per gli ebrei, come per molti popoli dell'antichità, il sangue è la sede della vita, anzi «il sangue è la vita» (Dt 12, 23) e la vita, specie quella umana, appartiene solo a Dio: per questo chi attenta alla vita dell'uomo, in qualche modo attenta a Dio stesso. Caino è maledetto da Dio e anche dalla terra, che gli rifiuterà i suoi frutti (cf. Gn 4, 11-12). Ed èpunito: abiterà nella steppa e nel deserto. La violenza omicida cambia profondamente l'ambiente di vita dell'uomo.

La terra da «giardino di Eden» (Gn 2, 15), luogo di abbondanza, di serene relazioni interpersonali e di amicizia con Dio, diventa «paese di Nod» (Gn 4, 16), luogo della «miseria», della solitudine e della lontananza da Dio. Caino sarà «ramingo e fuggiasco sulla terra» (Gn 4, 14): incertezza e instabilità lo accompagneranno sempre. Dio, tuttavia, sempre misericordioso anche quando punisce, «impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato» (Gn 4, 15): gli dà, dunque, un contrassegno, che ha lo scopo non di condannarlo all'esecrazione degli altri uomini, ma di proteggerlo e difenderlo da quanti vorranno ucciderlo fosse anche per vendicare la morte di Abele. Neppure l'omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante.

Ed è proprio qui che si manifesta il paradossale mistero della misericordiosa giustizia di Dio, come scrive sant'Ambrogio: «Poiché era stato commesso un fratricidio, cioè il più grande dei crimini, nel momento in cui si introdusse il peccato, subito dovette essere estesa la legge della misericordia divina; perché, se il castigo avesse colpito immediatamente il colpevole, non accadesse che gli uomini, nel punire, non usassero alcuna tolleranza né mitezza, ma consegnassero immediatamente al castigo i colpevoli. (...) Dio respinse Caino dal suo cospetto e, rinnegato dai suoi genitori, lo relegò come nell'esilio di una abitazione separata, per il fatto che era passato dall'umana mitezza alla ferocia belluina. Tuttavia Dio non volle punire l'omicida con un omicidio, poiché vuole il pentimento del peccatore più che la sua morte».13

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1 In verità, l'espressione "Vangelo della Vita" non si trova come tale nella Sacra Scrittura. Essa tuttavia ben corrisponde ad un aspetto essenziale del messaggio biblico. 2 Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22. 3 Cf Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), n. 10: AAS 71 (1979), 275. 4 Cf Ibid., n. 14; l.c., 285. 5 Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 27. 6 Cf Lettera a tutti i Fratelli nell'Episcopato circa "Il Vangelo della vita" (19 maggio 1991): Insegnamenti XIV, 1 (1991), 1293-1296. 7 Ibid., l. c., 1294. 8 Lettera alle famiglie Gratissimam sane (2 febbraio 1994), 4: AAS 86 (1994), 871. 9 Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 39: AAS 83 (1991), 842. 10 N. 2259. 11 Cf S. Ambrogio, De Noe, 26, 94-96: CSEL 32, 480-481. 12 Cf Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1867 e 2268. 13 De Cain et Abel, II, 10, 38: CSEL 32, 408.

Aborto e Scomunica dall'Enciclica Evangelum Vitae - La disciplina canonica della Chiesa, fin dai primi secoli, ha colpito con sanzioni penali coloro che si macchiavano della colpa dell'aborto e tale prassi, con pene più o meno gravi, è stata confermata nei vari periodi storici. Il Codice di Diritto Canonico del 1917 comminava per l'aborto la pena della scomunica.69 Anche la rinnovata legislazione canonica si pone in questa linea quando sancisce che «chi procura l'aborto ottenendo l'effetto incorre nella scomunica latae sententiae»,70 cioè automatica.

La scomunica colpisce tutti coloro che commettono questo delitto conoscendo la pena, inclusi anche quei complici senza la cui opera esso non sarebbe stato realizzato: 71 con tale reiterata sanzione, la Chiesa addita questo delitto come uno dei più gravi e pericolosi, spingendo così chi lo commette a ritrovare sollecitamente la strada della conversione. Nella Chiesa, infatti, la pena della scomunica è finalizzata a rendere pienamente consapevoli della gravità di un certo peccato e a favorire quindi un'adeguata conversione e penitenza.

Di fronte a una simile unanimità nella tradizione dottrinale e disciplinare della Chiesa, Paolo VI ha potuto dichiarare che tale insegnamento non è mutato ed è immutabile.72 Pertanto, con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi — che a varie riprese hanno condannato l'aborto e che nella consultazione precedentemente citata, pur dispersi per il mondo, hanno unanimemente consentito circa questa dottrina — dichiaro che l'aborto diretto, cioè voluto come fine o come mezzo, costituisce sempre un disordine morale grave, in quanto uccisione deliberata di un essere umano innocente.

Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale.73 Nessuna circostanza, nessuna finalità, nessuna legge al mondo potrà mai rendere lecito un atto che è intrinsecamente illecito, perché contrario alla Legge di Dio, scritta nel cuore di ogni uomo, riconoscibile dalla ragione stessa, e proclamata dalla Chiesa.

Dal Catechismo della Chiesa Cattolica - 2273 Il diritto inalienabile alla vita di ogni individuo umano innocente rappresenta un elemento costitutivo della società civile e della sua legislazione: "I diritti inalienabili della persona dovranno essere riconosciuti e rispettati da parte della società civile e dell'autorità politica; tali diritti dell'uomo non dipendono né dai singoli individui, né dai genitori e neppure rappresentano una concessione della società e dello Stato: appartengono alla natura umana e sono inerenti alla persona in forza dell'atto creativo da cui ha preso origine.

Tra questi diritti fondamentali bisogna, a questo proposito, ricordare. . . il diritto alla vita e all'integrità fisica di ogni essere umano dal concepimento alla morte" [Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Donum vitae, III]. "Nel momento in cui una legge positiva priva una categoria di esseri umani della protezione che la legislazione civile deve loro accordare, lo Stato viene a negare l'uguaglianza di tutti davanti alla legge. Quando lo Stato non pone la sua forza al servizio dei diritti di ciascun cittadino, e in particolare di chi è più debole, vengono minati i fondamenti stessi di uno Stato di diritto. . .

Come conseguenza del rispetto e della protezione che vanno accordati al nascituro, a partire dal momento del suo concepimento, la legge dovrà prevedere appropriate sanzioni penali per ogni deliberata violazione dei suoi diritti" [Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Donum vitae, III]. 2272 La cooperazione formale a un aborto costituisce una colpa grave. La Chiesa sanziona con una pena canonica di scomunica questo delitto contro la vita umana. "Chi procura l'aborto, ottenendo l'effetto, incorre nella scomunica latae sententiae" [Codice di Diritto Canonico, 1398] "per il fatto stesso d'aver commesso il delitto" [Codice di Diritto Canonico, 1398] e alle condizioni previste dal Diritto [Cf ibid., 1323-1324].

La Chiesa non intende in tal modo restringere il campo della misericordia. Essa mette in evidenza la gravità del crimine commesso, il danno irreparabile causato all'innocente ucciso, ai suoi genitori e a tutta la società. [Articolo tratto dall'interessantissimo sito Difendi la Vita]
Carlo Di Pietro


LETTURE/ Waters: noi, poveri ammalati di un "virus" mortale - INT. John Waters - mercoledì 7 luglio 2010 - Mauro Biondi - Nel tuo nuovo libro Beyond Consolation (Soggetti smarriti) fai una analisi molto lucida del plagio fisiologico odierno. Fa paura vedere come questa falsa realtà, la riduzione della realtà che tu descrivi, è ampiamente dentro ciascuno di noi. Vi siamo totalmente immersi.
John Waters - È un virus; come un virus informatico. La metafora è assai reale perché è come un virus che prendiamo nei nostri sistemi; potete vederlo più chiaramente se un virus entra nel vostro sistema: comincia ad agire dentro la memoria del computer, può impedirle di fare certe cose, comincia a forzarla a fare altre cose che voi non volete, che chi ha ideato il computer non aveva in mente. Entra in noi, in ciascuno di noi. È come se noi fossimo ricettori di questi segnali, che sono tutti attorno a noi, che sono pompati nell’atmosfera come radiazioni e noi li inspiriamo. Penetrano attraverso i pori della pelle, attraverso la mente, gli occhi, da ogni parte. Ogni simbolo che vediamo porta qualche elemento di questo messaggio ed è davvero impressionante pensare a quanto sia stata efficace questa riprogrammazione.
Così quando arriviamo a certe verità su di noi, come per esempio la mortalità che sperimentiamo nella fragile dimensione della nostra incarnazione, restiamo scioccati, prostrati dal dolore più di quanto sarebbe naturale, perché la cultura è riuscita a persuaderci di due cose contraddittorie: la prima, che questa mortalità è definitiva, la fine di ogni cosa, e la seconda, che essa non accade a noi, non riguarda noi. Noi non ci pensiamo; parliamo di questo problema con una certa condiscendenza, ma non andiamo a fondo.
La morte è riconosciuta come un fatto, ma solo in modo molto ridotto, limitato, non come un fatto profondo della vita. La morte è come ogni altra cosa nella realtà nella misura in cui ci rifiutiamo di guardarla negli occhi fino in fondo - e talvolta è difficile cogliere quello che voleva dire don Giussani, parlando di guardare ogni cosa sino in fondo. Se guardate il bricco del latte, come potete guardarlo in profondità se non semplicemente guardandolo? Ma in senso culturale questo è un problema molto reale: puoi guardare qualcosa per un giorno intero, qualcosa come la morte, come la malattia, come la situazione oggettiva di un altro essere umano, e non vederla perché hai gli strumenti sbagliati, le parole sbagliate e le immagini sbagliate, così che sei portato continuamente fuori strada o vai in corto circuito senza afferrare ciò a cui bisogna pensare.
B - Nel tuo libro descrivi molto chiaramente la distinzione tra fede e conoscenza e come questa spaccatura sembra allargarsi nella nostra esperienza. Ma al tempo stesso, nel libro introduci gradualmente il reale “nemico” di questa cultura, capace di resisterle e che ultimamente non può essere sconfitto - cioè la “realtà” stessa. Chesterton era solito definirla la “testardaggine delle cose”…
W - Tra questo libro e Lapsed Agnostic c’è un cammino, ma non è un cammino lineare, per me personalmente. Per tanto tempo ho pensato che le mie difficoltà nella fede fossero dentro di me, ma Giussani mi ha ridestato facendomi capire cosa dovevo cominciare a cercare. E questa idea di conoscenza, che è la acuta osservazione di Giussani sulla differenza della nostra concezione della fede, la parola nella sua apparenza quotidiana e ciò che essa realmente significa - è una di quelle idee cristalline che quando le hai afferrate, sorprendentemente, ti rendi conto che tutto il linguaggio che usavi per cercare di compiere questo cammino era come superfluo, perché il cammino che stavi percorrendo è in una sorta di mondo fantastico, come in uno spazio immaginario, astratto, e non nella realtà. Gira tutto attorno a questa parola, “fede” - se pensi che la fede sia qualcosa a cui tu aderisci nonostante tutto, non ci arriverai mai.
Questo è molto radicato nella cultura irlandese. Noi cantiamo: “La fede dei nostri padri, che vissero tranquilli malgrado la prigionia, il fuoco e la spada”. Così c’è questo tipo di idea fissa che, nonostante tutto, persino nonostante i fatti, noi “crediamo”, il che è proprio l’opposto della fede come la definisce Giussani. Se pensate alla concezione di Giussani, non vi è alcuno sforzo di credere - una volta che avete fatto il lavoro preliminare, che avete capito il metodo, il che non è assolutamente facile. Ma una volta che avete questo metodo, dovete solo guardare alle cose, guardare alla realtà, non dovete muovere nemmeno un muscolo o esercitare l’intelletto in alcun modo, ed è ovvio. Per me questa è l’idea più difficile eppure la più semplice, forse quella che si avvicina di più a contenere o indicare la risposta. Ci offre l’inizio della spiegazione perché ci permette di cominciare a guardare la realtà in modo diverso. Facendo questo dovete ancora rientrare nella cultura, e il trucco è di essere capaci di mantenere il senso della realtà assoluta mentre ci si trova di nuovo nel cuore della cultura. Non si tratta, come dico nel mio libro, di “arrovellarci la mente per credere in qualcosa”. Si tratta di mantenere questo senso della realtà mentre si attraversano quelle zone costruite, prefabbricate, progettate apposta per trascinarci nuovamente nel mondo artificiale.
Non so nemmeno io con certezza dove vado a parare con questo libro. Sono molto indeciso, perché ho scoperto realmente, con Giussani e Carrón negli ultimi anni, che esiste la trappola del sentimentalismo. Appena sei riuscito a capire un pochino di qualcosa c’è la tentazione di imparare tutto il linguaggio e poi ipotecare il resto per ottenere il tutto (per possederlo senza farne prima esperienza). Ho imparato che questa è una falsa pista. Così, in ogni dettaglio, mi trattengo finché non ho le parole per dire esattamente quello che penso sulle cose. E dopo aver letto il mio libro c’è chi mi ha detto: “Tu non sei un vero cattolico, tu non sei davvero questo e quello. Non sei un vero cristiano. Non dici questo e quello, eviti questo e quello”. Io dico quello che posso, quello di cui sono certo. E di quello di cui non sono certo, dico che non ne sono certo. Ne abbiamo avuto abbastanza del consenso tribale, del saltare alle conclusioni ancor prima di aver mosso il primo passo. Questa è la trappola del sentimentalismo: la certezza prima dell’investigazione.


Avvenire.it, 7 luglio 2010 - Legge 40: i dati, gli slogan e i veri nodi - Ma la provetta è tecnica non libertà - Assuntina Morresi
Luci e ombre nella relazione annuale al Parlamento sull’attuazione della legge 40, che regola la procreazione assistita in Italia. I numeri ci dicono che la legge funziona, ma allo stesso tempo che qualcosa sta mutando nel vissuto di chi desidera mettere al mondo dei figli, un campanello di allarme che dobbiamo ascoltare.

I dati presentati si riferiscono al 2008, un periodo precedente alla sentenza della Corte Costituzionale con cui si è abolito il limite massimo dei tre embrioni da formare, e confermano che anche con la norma originaria è aumentato l’accesso alla fecondazione assistita: sempre di più le coppie coinvolte, i cicli di trattamento, le gravidanze e i nati che hanno superato la soglia dei diecimila.

Gli stessi numeri direbbero pure che l’infertilità è in aumento nel nostro Paese. Un fatto preoccupante, ma il condizionale è d’obbligo: quanti dei trattamenti sono dovuti a una prolungata infertilità, e quanti invece a un accesso più rapido delle coppie alla provetta? Per quanti la fecondazione assistita è stato l’ultimo tentativo di avere un figlio, e per quanti invece è stato percepito come un percorso alternativo a quello naturale, che si imbocca alle prime difficoltà? L’insieme dei dati indica anche un disagio che si sta insinuando nel generare: continua ad esempio ad aumentare l’età media delle donne che accedono alla provetta, che adesso ha superato i 36 anni, e un trattamento su quattro è per una donna con più di quarant’anni.

Non è una novità: si comincia a cercare un figlio sempre più tardi, ma con l’età aumentano pure le difficoltà biologiche, e allora ci si rivolge alle nuove tecniche nell’illusione (falsa) che in laboratorio si risolva più facilmente il problema del tempo che passa. Non è così. Ed è difficile accettare che a una prolungata gioventù dei corpi, specie femminili, non possa corrispondere anche una prolungata fecondità: la medicina ha fatto tanto per migliorare le nostre condizioni fisiche, ma il famoso (o famigerato) orologio biologico femminile è rimasto sostanzialmente inalterato, e anche in vitro i tentativi tardivi di maternità sono destinati quasi sempre al fallimento.

D’altra parte, il ricorso alla fecondazione in laboratorio è sempre più spesso dipinto nei mezzi di comunicazione come ulteriore possibilità di pianificazione delle nascite: la possibilità di congelare da giovani i gameti femminili, gli ovociti, per usarli nella fecondazione in vitro più avanti nel tempo è descritta come un’opportunità per posticipare a piacimento la maternità. La provetta, insomma, sta lentamente entrando nell’immaginario collettivo come una possibile alternativa al percorso naturale di maternità, come se il concepimento in vitro fosse non l’estrema opportunità per chi non riesce altrimenti ad avere un figlio, un cammino difficile e assai spesso fallimentare, ma una questione di libertà di scelta, una ulteriore possibilità per ogni coppia, e quindi un indice di modernità e progresso.

Di fronte al fatto che in Europa viene effettuato il 54% dei cicli di fecondazione in vitro di tutto il mondo, si può parlare di "successo" delle tecniche, di "avanguardia" del Vecchio Continente, o forse bisognerebbe esprimere anzitutto preoccupazione rispetto a una sterilità che avanza? Quale sarebbe il "progresso" nell’aumento della fecondazione in vitro? Le critiche feroci alla legge 40 si sono dimostrate ampiamente immotivate, ma resta la perplessità per una tecnica che tende sempre più a modificare nel profondo una delle esperienze più significative della nostra vita: quella del diventare madri e padri.
Assuntina Morresi


Avvenire.it, 7 luglio 2010 - Si chiama Grisha Perelman, è il migliore. Con coerenza e in povertà - Volete un autentico modello? Eccolo: matematico e umanissimo - Gabriella Sartori
Dici Maradona o Michael Jakson e tutti sanno di chi si tratta . Anche da sconfitti, o da morti, l’uno e l’altro restano un “mito “ per milioni (forse miliardi) di persone. Ma se dici Grigorij Perelman, la quasi totalità di queste persone non sa nemmeno chi sia. Eppure, Grigorij Jakovlevic Perelman, Grisha per gli amici, qualche motivo per essere considerato un «mito» lo avrebbe. Specie per i giovani del nostro tempo: sui quali folle di educatori, e specialisti ciclicamente levano lamentele contro la «bassezza» dei nostri tempi incapaci, a loro dire, di offrire alle nuove generazioni alti esempi umani cui ispirarsi.

E se Grisha facesse al caso nostro ? Solo che ci si prenda la briga di sapere (e far sapere) chi è. A 44 anni d’età, Grigorij Perelman, matematico ed “eremita” di San Pietroburgo, è uno dei più grandi geni della matematica, che, come diceva Galileo, è la madre di tutte le scienze. È l’unico scienziato al mondo che sia riuscito a dimostrare per esempio, la «congettura di Poincaré», definita dagli esperti «un’impresa ai limiti dell’impossibile».

Una soluzione, quella trovata bellamente dal nostro Grisha, che potrà avere enormi ricadute anche economiche. Motivo per cui, per chi avesse vinto la sfida, il prestigioso Istituto Matematico Clay aveva messo in palio un premio da un milione di dollari. Che Grisha ha appena rifiutato. Come fa da sempre. Ed è qui che affiora anche l’altra straordinaria faccia del nostro eroe: che, da quando aveva 16 anni, vince a ripetizione i premi più inarrivabili senza mai "ritirarne" il corrispondente valore in denaro e fama. Con la buona ragione che «se la soluzione è quella giusta, non c’è bisogno di alcun altro riconoscimento».

Perelman, tra l’altro, ha rifiutato, negli anni scorsi, anche la prestigiosissima Medaglia Fields: un premio che è molto più arduo da conseguire di un premio Nobel (tutt’altro che immune – come si sa – da spinte politiche e ideologiche), in quanto viene assegnato, all’unanimità, e solo ogni quattro anni, dalla comunità mondiale dei matematici al migliore di loro che abbia meno di 40 anni. Grazie, non mi occorre, disse anche quella volta il nostro Grisha. Che, dopo aver insegnato e lavorato nelle migliori università e nei più considerati centri di ricerca statunitensi, vive e pensa e studia in povertà e nascondimento nella "sua" San Pietroburgo. Snobbando giornalisti, foto, interviste, collaborazioni con le più famose riviste scientifiche, da “Nature” in giù, girando per la sua città, o per gli amati boschi che la circondano, in abiti da mendicante.

Uno studentello che l’ha fotografato col suo cellulare in un angolo della metro cittadina, si duole oggi di non aver saputo “vendere” a dovere quella preziosa foto. Perché così gli è stato insegnato: che fama e denaro sono i soli valori che contano. Però non tutti i suoi coetanei gli somigliano. Nella bellissima San Pietroburgo, ci si può imbattere in giovani che indossano magliette con la foto di Grisha commentate dalla scritta «Non tutto si può comprare». Noi ci auguriamo che molti giovani, e non giovani, di tutto il mondo, li imitino.

La a lungo “impossibile” «congettura di Poincaré», l’aveva formulata nel 1904 questo grandissimo matematico francese che così scriveva: «Lo scienziato non studia la natura perché è utile, ma perché ne prova piacere perché è bella: se la natura non fosse bella,non varrebbe la pena di studiarla per tutta la vita e la vita non varrebbe la pena di essere vissuta». Parole vicine a quanto scriveva Einstein distinguendo, nel «tempio della scienza» coloro che vi entrano per fama, per orgoglio, per soldi, da quelli che lo fanno per l’inesausta ricerca dell’«armonia prestabilita», per una passione tanto pura quanto intensa non diversa da quella che – per lui – anima i mistici, i santi, i veri filosofi, poeti e artisti.

È bello che da Einstein a Poincaré a Perelman, resista forte il filo rosso che unisce attraverso il tempo questi uomini cui l’umanità deve molto più delle loro pur straordinarie scoperte. È triste che questi esempi umani non vengano conosciuti né proposti abbastanza. Un peccato, questo, contro la verità e contro la speranza.
Gabriella Sartori


Avvenire.it, 7 luglio 2010 - LE REGOLE - I punti fermi. Poi le sentenze - Ilaria Nava
Capisaldi chiari. Pensati – e condivisi in Parlamento all’epoca dall’approvazione del testo – affinché la legge 40 tutelasse anche la parte più "debole" della fecondazione in vitro, cioè l’embrione. Ecco i contenuti chiave. ACCESSO SOLO ALLE COPPIE STERILI
La legge consente il ricorso alle tecniche di procreazione artificiale «al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana» e solo «qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità» (art. 1).

I DIRITTI DELL’EMBRIONE
Secondo punto nodale: la legge assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, «compreso il concepito» (sempre art. 1). Tutela, cioè, l’embrione (non solo la donna, e non solo la coppia).

I DIVIETI
Terzo punto fermo: la norma vieta la fecondazione eterologa (art. 4, comma 3): non può essere impiantato l’embrione realizzato con gameti esterni alla coppia. Infine, consente la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano «a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate» (art. 13, comma 2), e dunque vieta «ogni forma di selezione a scopo eugenetico» (art. 13, comma 3), «la crioconservazione e la soppressione di embrioni» (art. 14, comma1), limita la creazione di embrioni al numero «strettamente necessario» (art. 14, comma 2).

LE SENTENZE
Sono stati numerosi gli interventi giudiziari che hanno modificato il testo della legge a colpi di ricorsi. Primo fra tutti il "nodo" della diagnosi pre-impianto (la tecnica attraverso cui si prevede il potenziale stato di salute dell’embrione). Il Tar del Lazio, con la sentenza 398 del 2008, ha annullato le linee guida della legge laddove si statuiva che ogni indagine relativa alla salute degli embrioni creati in vitro dovesse essere «di solo tipo osservazionale», schiudendo così uno spiraglio alla stessa diagnosi preimpianto vietata dal testo della legge. Infine con la sentenza 151 del 2009 la Consulta ha dichiarato incostituzionale la parte della legge 40 che obbligava all’unico e contemporaneo impianto degli embrioni prodotti in un ciclo, e comunque in numero «non superiore a tre» (articolo 14). Un limite non più in vigore.
Ilaria Nava


Avvenire.it, 7 luglio 2010 - LEGGE 40 - Roccella: «Una norma che bilancia i diritti» - Pier Luigi Fornari
«Una legge che funziona». Eugenia Roccella, sottosegretario alla Salute, commenta così la serie di dati, tutti positivi, della relazione sull’applicazione delle norme in merito alla procreazione medicalmente assistita (Pma) approvate nel 2004. «Dunque è smentita tutta la campagna di stampa secondo cui la legge non avrebbe mai funzionato – argomenta il sottosegretario –. Sulla base dei dati del 2008, quando cioè non era ancora entrata in vigore la sentenza della Consulta che ha eliminato il limite di tre embrioni, risulta che cresce il numero delle coppie che accedono alla Pma, dei cicli (più 10% rispetto al 2007), delle gravidanze (11,2%), dei bambini nati (più 13,4%), superando la soglia di 10mila. Certo, mi preme ribadirlo, non è una legge "cattolica", ma un compromesso laico, un bilanciamento sapiente di vari interessi in gioco, dal diritto alla vita ed alla famiglia del nascituro alla saluta della madre. Ma con altrettanta prudenza con la quale è stata elaborata, questa legge va applicata e valutata».

Una considerazione prettamente etica?
Considero il fatto che comunque nelle pratiche di pma c’è sempre una distruzione di embrioni: in media 9 ogni bambino nato. Quindi non si può misurare la civiltà di un Paese dalla diffusione di questi trattamenti. Comunque non ci sono ragioni per il cosiddetto "turismo procreativo". Del resto dai dati di una recente indagine dell’Eshre, realizzata su un piccolo campione, risulta che quasi la metà delle coppie sono male informate, perché vanno all’estero per trattamenti che potrebbero ricevere in Italia. Dati che dimostrano quanta poca conoscenza c’è dell’efficacia della legge.

Proprio qualche giorno fa l’Eshre ha celebrato i 20 anni della diagnosi preimpianto, che è vietata dalla legge 40.
Allora facciamo qualche bilancio. Si dice per esempio che possa evitare succesivi aborti, ma in Gran Bretagna, dove quella diagnosi è largamente consentita, l’autorithy competente sugli embrioni, a giugno, ha documentato che nel 2006 su 11.600 donne rimaste incinte attraverso la pma, 90 hanno abortito, e l’anno succesivo 97 su 12.645. In Italia nel 2008 gli aborti sono stati 76 su 8.173, nell’anno precedente 77 su 7.181. Come si vede le percentuali sono molto simili a quelle inglesi. Del resto sull’attendibilità di quella diagnosi si nutrono ancora enormi dubbi.

Del tipo?
Ad esempio a causa del fenomeno mosaicismo delle cellule può darsi che quella estratta non abbia tutto il patrimonio genetico dell’embrione, con rischio anche di distruggerne uno sano. Poi ci sono altri numerosi fattori di errore.

Si giustifica spesso quella diagnosi con la guarigione di un bambino attraverso un fratellino nato dalla pma..
Un procedura che ha l’effetto dominante di distruggere una enormità di embrioni. Dai dati di due grandi centri europei risulta che 10 trapianti sono il risultato di 4.175 ovociti raccolti (da 139 coppie), di cui sono stati fecondati 2.725. Di questi embrioni solo 250 sono stati impiantati, con la nascita di 51 bambini. Quindi un’efficacia scarsissima: per realizzare dieci di questi interventi sono stati distrutti circa tremila embrioni.

Che dire della tarda età a cui le donne italiane arrivano alla pma?
La media europea nel 2005 era dei 33,8 anni, in Italia nel 2008 è di 36,1. Nel nostro Paese un ciclo su 4 è effettuato da una donna con più di 40 anni, con un aumento ulteriore rispetto al 2007. Quindi un scostamento significativo rispetto alla media europea che incide negativamente sulla efficacia dei trattamenti, in forte calo con l’aumentare dell’età: sotto i 29 anni è del 36%, tra i 40-42 è intorno al 14%. Sopra i 45 è dell’1-2%. Se nonostante ciò, le medie finali sono positive, vuol dire che la legge non ostacola affatto l’efficacia dei trattamenti.

Altri dati da registrare?
La percentuale delle complicanze per iperstimolazione ovarica, già molto più bassa delle media europea, è ancora diminuita (0,45% dei cicli).
Pier Luigi Fornari