Nella rassegna stampa di oggi:
1) 04/07/2010 – VATICANO - Papa: Come Maria e san Pietro Celestino, testimoniare il Vangelo con una vita semplice e sobria
2) “NON ABBIATE PAURA DEL SILENZIO”, CHIEDE BENEDETTO XVI - Omelia in Piazza Garibaldi a Sulmona
3) Mentre Roma è sotto assedio, i cardinali litigano - Schönborn contro Sodano, Sepe contro Bertone. Il caso serio dell'arcivescovo di Vienna. Benedetto XVI castiga, pacifica e guarda lontano. Anche con tre nomine in tre posti chiave della curia - di Sandro Magister
4) L’offensiva massonica contro la Chiesa belga - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 4 luglio 2010
5) L'avventura di Celestino V - Un Papa fra il mito e la storia - di Paolo Vian (©L'Osservatore Romano - 4 luglio 2010)
6) «Il divorzio dal notaio? - Insulto al matrimonio» - No senza appello di Belletti, presidente del Forum delle famiglie, alla proposta del Consiglio del notariato appoggiata da Alfano - DA MILANO ANTONELLA MARIANI – Avvenire, 4 luglio 2010
7) CAMICI BIANCHI NETTI CONTRO L’EUTANASIA - E la vera medicina parlò tedesco - GIAN LUIGI GIGLI – Avvenire, 4 luglio 2010
8) «Ru486? L’Umbria farà da sé». Le associazioni insorgono - il caso - L’assessore regionale: «Metteremo a punto noi le linee guida per l’utilizzo del farmaco anche con la partecipazione popolare» Forum e Scienza&Vita: «Non sa di cosa sta parlando» - Anche l’Udc si schiera contro il progetto: le decisioni regionali non potranno scostarsi da quanto indicato a livello ministeriale - DA PERUGIA - MARIA RITA VALLI – Avvenire, 4 luglio 2010
9) Sporadici casi di pedoflia nel clero hanno scatenato una indegna caccia al prete. Anche il cattivo uso delle ricchezze o la malversazione fanno scandalo. Bisogna reagire con vigore e coerenza davanti alle calunnie anti cattoliche - La Chiesa cattolica é sotto attacco e lo dimostrano gli eventi degli ultimi giorni, culminati con stravaganti iniziative giudiziarie, vedi Belgio. Ne discutiamo con il professor Massimo Introvigne rintracciato in terre lontane. - Bruno Volpe – dal sito pontifex.roma.it
10) POSSIBILI SOLUZIONI ALL’AIDS - Un libro sostiene la necessità di cambiare strategia - di padre John Flynn, LC - ROMA, domenica, 4 luglio 2010 (ZENIT.org).- La Chiesa cattolica è regolarmente messa alla berlina per il suo rifiuto di avallare l’uso del preservativo nella lotta alla diffusione dell’Hiv e dell’Aids. Questa posizione non è solo frutto di un sano insegnamento morale, ma è sostenuta da solidi elementi scientifici.
11) Lo spazio etico nella postmodernità: natura, persona e situazionismo - don Roberto Piemonte – robpiem@libero.it – pontifex.roma.it
12) Fede e ragione nell’era Ratzinger - di Luigi Vicinanza - © Copyright Il Centro, 4 luglio 2010 - http://paparatzinger3-blograffaella.blogspot.com
13) PILLOLA ABORTIVA (RU 486): UN DELITTO IN SOLITUDINE - del prof. Giuseppe Noia* - *Giuseppe Noia è professore di Ginecologia e Ostetricia e Chirurgia Fetale Invasiva all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, Responsabile del Centro Diagnosi e Terapia Fetale - Day Hospital di Ginecologia del Policlinico Agostino Gemelli di Roma. Vicepresidente de “La Quercia Millenaria”, è autore di decine di libri e saggi, tra cui "Le terapie fetali invasive" e "Terapie fetali", e co-autore del libro "Il figlio terminale".
14) Avvenire.it, 3 Luglio 2010 IDEE - Come parlare con Dio faccia a faccia - Vittorio Possenti
04/07/2010 – VATICANO - Papa: Come Maria e san Pietro Celestino, testimoniare il Vangelo con una vita semplice e sobria
Benedetto XVI in visita a Sulmona e ai luoghi dove ha vissuto 800 anni fa l’eremita Pietro da Morrone, poi divenuto papa col nome di Celestino V. È necessaria una vita sobria per essere liberi nella mente e nel cuore e condividere quanto abbiamo con i fratelli. La vita di preghiera è legata alla passione per l’annuncio.
Sulmona (AsiaNews) – Benedetto XVI ha chiesto alla Chiesa di oggi di “dare buona testimonianza del Vangelo” con “una vita semplice ed umile” e uno “stile di vita sobrio”, vissuti dalla Madonna e da s. Pietro del Morrone, eremita del divenuto poi papa Celestino V.
Il papa ha visitato alcuni dei luoghi in cui ha vissuto san Pietro, nell’ottavo centenario della sua nascita.
Alla fine della messa celebrata nella piazza Garibaldi a Sulmona, prima della recita dell’Angelus, il pontefice ha sottolineato che “in Maria, Vergine del silenzio e dell’ascolto, san Pietro del Morrone trovò il modello perfetto di obbedienza alla volontà divina, in una vita semplice e umile, protesa alla ricerca di ciò che è veramente essenziale, capace di ringraziare sempre il Signore riconoscendo in ogni cosa un dono della sua bontà”.
“Anche noi – ha aggiunto - che viviamo in un’epoca di maggiori comodità e possibilità, siamo chiamati ad apprezzare uno stile di vita sobrio, per conservare più liberi la mente ed il cuore e per poter condividere i beni con i fratelli. Maria Santissima, che animò con la sua presenza materna la prima comunità dei discepoli di Gesù, aiuti anche la Chiesa di oggi a dare buona testimonianza del Vangelo”.
In precedenza, all’omelia durante la messa, il papa aveva sottolineato che la santità di Pietro del Morrone “non cade nell’oblio, non passa mai di moda”. In particolare , egli ha detto che “san Pietro Celestino, pur conducendo vita eremitica, non era ‘chiuso in se stesso’, ma era preso dalla passione di portare la buona notizia del Vangelo ai fratelli”.
Benedetto XVI ha poi elencato “gli impegni essenziali del discepolo”: “l’annuncio sereno, chiaro e coraggioso del messaggio evangelico - anche nei momenti di persecuzione – senza cedere né al fascino della moda, né a quello della violenza o dell’imposizione; il distacco dalle preoccupazioni per le cose - il denaro e il vestito – confidando nella Provvidenza del Padre; l’attenzione e cura in particolare verso i malati nel corpo e nello spirito (cfr Lc 10,5-9). Queste furono anche le caratteristiche del breve e sofferto pontificato di Celestino V e queste sono le caratteristiche dell’attività missionaria della Chiesa in ogni epoca.
“NON ABBIATE PAURA DEL SILENZIO”, CHIEDE BENEDETTO XVI - Omelia in Piazza Garibaldi a Sulmona
SULMONA, domenica, 4 luglio 2010 (ZENIT.org).- Il silenzio è uno strumento prezioso per ascoltare la voce di Dio e di chi ci sta accanto, ha sottolineato Benedetto XVI questa domenica mattina nell'omelia che ha pronunciato durante la concelebrazione eucaristica in Piazza Garibaldi a Sulmona.
La visita pastorale del Papa in terra abruzzese ha avuto luogo in occasione dello speciale Anno Giubilare indetto dai Vescovi dell’Abruzzo e del Molise per celebrare gli ottocento anni della nascita di Pietro da Morrone, diventato Papa con il nome di Celestino V.
192° Papa della Chiesa cattolica, venne eletto nel 1294, ma rinunciò pochi mesi dopo e tornò alla vita eremitica che aveva condotto prima del pontificato.
Da quel Pontefice, canonizzato da Papa Clemente V nel 1313, si possono trarre “alcuni insegnamenti, validi anche nei nostri giorni”, ha sottolineato Benedetto XVI, ricordando in primo luogo che Celestino V “è stato un 'cercatore di Dio', un uomo desideroso di trovare risposte ai grandi interrogativi della nostra esistenza: chi sono, da dove vengo, perché vivo, per chi vivo?”.
“Egli si mette in viaggio alla ricerca della verità e della felicità, si mette alla ricerca di Dio e, per ascoltarne la voce, decide di separarsi dal mondo e di vivere da eremita. Il silenzio diventa così l'elemento che caratterizza il suo vivere quotidiano”.
Per noi che “viviamo in una società in cui ogni spazio, ogni momento sembra debba essere 'riempito' da iniziative, da attività, da suoni”, al punto che “spesso non c’è il tempo neppure per ascoltare e per dialogare”, questo è un messaggio importante, ha osservato il Papa.
“Non abbiamo paura di fare silenzio fuori e dentro di noi, se vogliamo essere capaci non solo di percepire la voce di Dio, ma anche la voce di chi ci sta accanto, la voce degli altri”, ha esortato.
Il ruolo della grazia
Un secondo elemento importante che si apprende dalla vita di Celestino V, ha proseguito il Papa, è il fatto che la sua scoperta del Signore “non è il risultato di uno sforzo, ma è resa possibile dalla Grazia stessa di Dio, che lo previene”.
“Ciò che egli aveva, ciò che egli era, non gli veniva da sé: gli era stato donato, era grazia, ed era perciò anche responsabilità davanti a Dio e davanti agli altri”.
“Sebbene la nostra vita sia molto diversa”, ha riconosciuto il Pontefice, “anche per noi vale la stessa cosa: tutto l’essenziale della nostra esistenza ci è stato donato senza nostro apporto”.
“Il fatto che io viva non dipende da me; il fatto che ci siano state persone che mi hanno introdotto nella vita, che mi hanno insegnato cosa sia amare ed essere amati, che mi hanno trasmesso la fede e mi hanno aperto lo sguardo a Dio: tutto ciò è grazia e non è fatto da me”.
“Da noi stessi non avremmo potuto fare nulla se non ci fosse stato donato”, ha ribadito, indicando che “Dio ci anticipa sempre e in ogni singola vita c’è del bello e del buono che noi possiamo riconoscere facilmente come sua grazia, come raggio di luce della sua bontà”.
Per questo motivo, il Vescovo di Roma ha esortato a “tenere sempre aperti gli 'occhi interiori', quelli del nostro cuore”.
“Se noi impariamo a conoscere Dio nella sua bontà infinita, allora saremo capaci anche di vedere, con stupore, nella nostra vita – come i Santi – i segni di quel Dio, che ci è sempre vicino, che è sempre buono con noi, che ci dice: 'Abbi fede in me!'”.
Mentre Roma è sotto assedio, i cardinali litigano - Schönborn contro Sodano, Sepe contro Bertone. Il caso serio dell'arcivescovo di Vienna. Benedetto XVI castiga, pacifica e guarda lontano. Anche con tre nomine in tre posti chiave della curia - di Sandro Magister
ROMA, 2 luglio 2010 – È stata una vigilia laboriosa, per il papa, quella della festa dei santi apostoli Pietro e Paolo, patroni della Chiesa romana.
Come sempre, ha celebrato i vespri nella basilica di San Paolo fuori le Mura assieme a una delegazione del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, ricevuta in Vaticano la mattina stessa.
Nell'omelia ha annunciato la creazione di un nuovo organismo vaticano "per una rinnovata evangelizzazione" nei paesi di antica cristianità in cui è intervenuta una "eclissi del senso di Dio".
Ma in più Benedetto XVI ha lavorato sodo per riportare un po' di pace tra alcuni cardinali che nelle ultime settimane si erano pubblicamente affrontati tra loro. L'ha fatto con due comunicati piuttosto irrituali e con un'udienza anch'essa speciale a tre dei litiganti.
Per una curiosa coincidenza, il giorno precedente, domenica, nelle chiese di tutto il mondo si era letto il passo della lettera di san Paolo ai Galati nella quale l'apostolo ammoniva: "Se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri".
Un monito che Benedetto XVI aveva già ripreso e citato nella memorabile lettera da lui scritta ai vescovi il 10 marzo del 2009, anche allora dopo aspri scontri tra uomini di Chiesa.
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Il primo dei due comunicati del 28 giugno ha riguardato la congregazione per l'evangelizzazione dei popoli e in particolare il cardinale Crescenzio Sepe che l'ha presieduta tra il 2001 e il 2006, prima di essere trasferito all'arcidiocesi di Napoli.
Sepe era una potenza nella curia di Giovanni Paolo II. E infatti, quando lo scorso 20 giugno la magistratura italiana aprì un'indagine su di lui per sospette irregolarità nella gestione del patrimonio edilizio della congregazione, egli immediatamente disse di aver sempre operato con l'approvazione e l'apprezzamento della segreteria di Stato vaticana dell'epoca, retta dal cardinale Angelo Sodano.
Coinvolgendo Sodano nei suoi affari e nello stesso tempo polemizzando implicitamente con l'attuale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, che aveva voluto il suo trasferimento da Roma a Napoli, Sepe aveva prodotto una notevole irritazione ai vertici del Vaticano, che traspariva dal gelido distacco con cui "L'Osservatore Romano" seguiva la sua vicenda giudiziaria.
Ebbene, col comunicato del 28 giugno la Santa Sede ha voluto riaffermare la finalità esclusivamente missionaria dei proventi del patrimonio edilizio della congregazione per l'evangelizzazione dei popoli – proprietaria a Roma di decine di palazzi di pregio – e nello stesso tempo dissociarsi dagli eventuali "errori di valutazione" compiuti da Sepe e dai suoi collaboratori nella loro individua responsabilità.
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Il secondo comunicato del 28 giugno ha riguardato invece il cardinale Christoph Schönborn (nella foto), arcivescovo di Vienna, ricevuto dal papa la mattina stessa.
Schönborn aveva fatto notizia, nelle settimane scorse, per aver proposto a più riprese un "ripensamento" della disciplina del celibato del clero e per aver aspramente criticato atti e parole del cardinale Sodano in materia di pedofilia.
Tanto più Schönborn aveva fatto notizia in quanto egli è ritenuto vicinissimo a Joseph Ratzinger. Ne fu brillante allievo, è stato da lui sempre molto apprezzato. Per questo, un'opinione largamente diffusa era che egli avesse detto quelle cose con la sostanziale approvazione del papa.
Ma non era così. Sia la sortita sul celibato, sia gli attacchi a Sodano non piacquero per nulla a Benedetto XVI. Che rimproverò severamente Schönborn sia a voce che per iscritto.
Ma per fugare l'impressione di un'intesa tra i due, c'era bisogno di un atto pubblico. Ed è ciò che è avvenuto il 28 giugno, dapprima con un colloquio a tu per tu tra il papa e l'arcivescovo di Vienna, poi con l'allargamento dell'udienza ai cardinali Sodano e Bertone, e infine con un comunicato che ha reso pubblici i contenuti dell'incontro.
Ecco il testo integrale del comunicato, seguito da un commento e da un riepilogo degli ultimi cambiamenti decisi da Benedetto XVI nella curia vaticana.
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COMUNICATO DELLA SALA STAMPA VATICANA, 28 GIUGNO 2010
1) Il Santo Padre ha ricevuto oggi in udienza il Cardinale Christoph Schönborn, Arcivescovo di Vienna e Presidente della Conferenza Episcopale Austriaca. Questi aveva chiesto di poter riferire personalmente al Sommo Pontefice circa la presente situazione della Chiesa in Austria. In particolare, il Cardinale Christoph Schönborn ha voluto chiarire il senso esatto di sue recenti dichiarazioni circa alcuni aspetti dell’attuale disciplina ecclesiastica, come pure taluni giudizi sull’atteggiamento tenuto dalla Segreteria di Stato, ed in particolare dall’allora Segretario di Stato del Papa Giovanni Paolo II di v.m., nei riguardi del compianto Cardinale Hans Hermann Groër, Arcivescovo di Vienna dal 1986 al 1995.
2) Successivamente, sono stati invitati all’incontro i Cardinali Angelo Sodano, Decano del Collegio Cardinalizio, e Tarcisio Bertone, Segretario di Stato.
Nella seconda parte dell’Udienza, sono stati chiariti e risolti alcuni equivoci molto diffusi e in parte derivati da alcune espressioni del Cardinale Christoph Schönborn, il quale esprime il suo dispiacere per le interpretazioni date.??In particolare:
a) Si ricorda che nella Chiesa, quando si tratta di accuse contro un Cardinale, la competenza spetta unicamente al Papa; le altre istanze possono avere una funzione di consulenza, sempre con il dovuto rispetto per le persone.
b) La parola "chiacchiericcio" è stata interpretata erroneamente come una mancanza di rispetto per le vittime degli abusi sessuali, per le quali il Cardinale Angelo Sodano nutre gli stessi sentimenti di compassione e di condanna del male, come espressi in diversi interventi del Santo Padre. Tale parola, pronunciata nell'indirizzo Pasquale al Papa Benedetto XVI, era presa letteralmente dall'Omelia pontificia della Domenica delle Palme ed era riferita al "coraggio che non si lascia intimidire dal chiacchiericcio delle opinioni dominanti".
3) Il Santo Padre, ricordando con grande affetto la sua visita pastorale in Austria, invia tramite il Cardinale Christoph Schönborn il Suo saluto ed incoraggiamento alla Chiesa che è in Austria ed ai suoi Pastori, affidando alla Celeste protezione di Maria, tanto venerata in Mariazell, il cammino di una rinnovata comunione ecclesiale.
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Il comunicato non lascia spazio a dubbi: Schönborn si è recato dal papa con la cenere sul capo e ha dovuto ritrattare quanto da lui detto contro il cardinale Sodano e a proposito del celibato.
Ma tutto ciò non sarebbe stato reso pubblico dalla Santa Sede se a sua volta le parole e i gesti di Schönborn non avessero quella risonanza mediatica che hanno.
Perché ciò che distingue l'arcivescovo di Vienna da tanti altri cardinali è proprio questo suo saper essere protagonista sulla scena della pubblica opinione. Alle cui inclinazioni e pressioni si mostra sensibilissimo.
Infatti, quasi sempre il successo mediatico gli arride. Sul celibato ha detto e non detto, ma le sue allusioni a un possibile "ripensamento" di questa disciplina sono bastate ad assicurargli alti indici d'ascolto e di consenso.
Con le rivendicazioni del movimento di riforma cattolica neomodernista "Noi siamo Chiesa", nato in Austria e lì piuttosto diffuso, non ha mai detto di concordare. Ma la sera dello scorso mercoledì santo, nella cattedrale di Vienna, ha voluto al suo fianco i capi del movimento, mentre chiedeva perdono per gli abusi sessuali del clero.
Quanto poi alle procedure per contrastare gli abusi, l'arcivescovo di Vienna si caratterizza come l'interprete più deciso della cosiddetta "trasparenza": il sistematico rinvio dei casi alla giustizia civile e comunque a collegi giudicanti indipendenti dalla gerarchia. Anche su questo riscuotendo un esteso consenso.
Accusando il cardinale Sodano di insensibilità e inettitudine riguardo allo scandalo della pedofilia, Schönborn ha colpito un bersaglio fin troppo facile, un personaggio che per vari motivi riscuoteva già molte critiche.
Ma ciò che più preoccupa le autorità vaticane e lo stesso papa è la debolezza di guida che l'arcivescovo di Vienna manifesta, rispetto alla Chiesa austriaca nel suo insieme.
Negli anni Ottanta, l'allora cardinale Joseph Ratzinger affidò a Schönborn e a pochi altri vescovi fidati la stesura del Catechismo della Chiesa cattolica. Ma da poco eletto papa, ricevendo il 5 novembre 2005 i vescovi austriaci in visita "ad limina", li rimproverò proprio di insegnare la dottrina "in maniera incompleta", omettendo "quelle cose che si ascoltano meno volentieri o che suscitano reazioni di protesta e derisione". Schönborn era lì anche lui ad ascoltare.
Il 15 e 16 giugno del 2009 i vescovi austriaci furono chiamati di nuovo a Roma a rapporto. Evidentemente, a giudizio del papa, la lezione impartita loro nel 2005 non era bastata.
In più, c'era stata poco prima la sollevazione di una larga parte dei cattolici e del clero contro la nomina a Linz di un vescovo, Gerhard Maria Wagner, osteggiato come troppo conservatore. Sia Schönborn che altri vescovi lasciarono correre la protesta e nel giro di un mese Roma cedette e revocò la nomina, nel tripudio di tutti coloro che rivendicano che il criterio giusto per scegliere i vescovi sia il gradimento popolare.
Anche dopo l'incontro del 15 e 16 giugno 2009 la Santa Sede emise un comunicato pubblico, che dava conto dei richiami rivolti ai vescovi austriaci.
Il comunicato del 28 giugno sull'incontro tra il papa e Schönborn è quindi il terzo rimprovero della serie. Nel frattempo sono quasi passati i canonici cinque anni dalla visita "ad limina" del 2005 e di conseguenza i vescovi austriaci torneranno presto a incontrare il papa, per un quarto, prevedibile, rimprovero pubblico.
Ciò non toglie che Ratzinger continui ad apprezzare le qualità del suo ex allievo Schönborn, che nel suo intimo è assolutamente ortodosso. Nell'ultimo fine settimana di agosto, quando il circolo degli ex alunni del papa si riunirà attorno a lui a Castel Gandolfo, la relazione introduttiva la terrà proprio Schönborn, su un tema cruciale come l'interpretazione del Concilio Vaticano II.
Di Schönborn, Benedetto XVI conosce però anche i difetti, il primo dei quali è l'incoerenza tra ciò che pensa – del tutto in linea col papa – e ciò che dice e fa, per farsi ascoltare e approvare.
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Tornando al comunicato, c'è un passaggio che esige di essere spiegato. È quello in cui il papa rimprovera Schönborn per le accuse da lui rivolte a Sodano a proposito del "compianto" cardinale Hans Hermann Groër, arcivescovo di Vienna dal 1986 al 1995.
In pratica Schönborn accusò Sodano di aver coperto gli abusi sessuali commessi da Groër.
Commessi? In realtà Groër non ammise mai alcuna colpa, né fu mai sottoposto ad alcun processo, né canonico né civile.
La ricostruzione più precisa del caso è quella pubblicata il 1 luglio da "il Foglio":
"Il caso Groër scoppia nel 1995 quando, dopo le accuse di abusi propalate sui media, al cardinale, che aveva già compiuti i 75 anni, vengono accettate le dimissioni. Al suo posto viene nominato Schönborn, che in pochi mesi da ausiliare diventa coadiutore e arcivescovo pieno di Vienna. In quella prima fase il giovane presule domenicano non si mostra colpevolista nei confronti del suo predecessore benedettino.
"Il caso Groër riesplode con virulenza nel gennaio 1998, quando ad accusarlo sono alcuni suoi confratelli monaci. Il 21 febbraio di quell’anno è previsto il concistoro in cui Schönborn riceve la berrette cardinalizia, e lui cerca di fare il possibile per evitare che alla cerimonia sia presente anche Groër. In quel momento infatti il nuovo arcivescovo di Vienna ha già maturato un giudizio colpevolista a riguardo del predecessore. Giovanni Paolo II però non solo non impedisce la venuta di Groër ma, il 20 febbraio, lo riceve anche in udienza.
"Al rientro dal concistoro, in Austria si riunisce il consiglio permanente dell’episcopato. Vi partecipano il neocardinale Schönborn e altri quattro vescovi: Kapellari, Eder, Weber e Aichern. Alla fine in quattro firmano una nota in cui si dichiarano 'moralmente certi' della colpevolezza del cardinale Groër. L’unico a non firmare è Aichern, anche lui benedettino, che forse conosceva meglio degli altri le liti tra confratelli in cui erano maturate le accuse a Groër.
"A questo punto Schönborn scende a Roma per chiedere che la Santa Sede ratifichi la condanna espressa dai presuli. Ma senza successo. Il diniego viene manifestato – con toni chiari e netti – durante la settimana santa di quell’anno, quando Giovanni Paolo II e il cardinale Sodano ricevono in udienza Schönborn, Weber e Eder. La Santa Sede non ritiene probanti le accuse. Comunque dopo Pasqua Groër emette un comunicato in cui chiede perdono nel caso abbia fatto qualcosa di male ma non ammette nessuna colpa.
"Nel giugno di quell’anno c’è poi la visita del papa in Austria. Schönborn assieme ad altri vescovi, ma non tutti, chiede che Groër non sia presente alla visita e che il Vaticano esprima una condanna nei suoi confronti. La prima condizione viene accordata, la seconda no. Groër si assenterà per alcuni mesi ma poi tornerà in patria. Morirà nel 2003 senza che Giovanni Paolo II, l’unico che aveva questo potere – come ha ribadito il comunicato del 28 giugno scorso –, abbia espresso una parola di condanna nei suoi confronti."
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Il 30 giugno e il 1 luglio sono state ufficializzate anche una serie di nomine nella curia vaticana. Le principali sono tre.
La prima è quella dell'arcivescovo Salvatore Fisichella a presidente del neonato pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione.
Fisichella era rettore della Pontificia Università Lateranense e presidente della pontificia accademia per la vita. Dove a lui succederanno, rispettivamente, il sacerdote salesiano Enrico dal Covolo e monsignor Ignacio Carrasco de Paula.
La seconda nomina importante è quella del cardinale canadese Marc Ouellet a prefetto della congregazione per i vescovi, al posto del cardinale Giovanni Battista Re.
Ouellet, 66 anni, sulpiziano, finora arcivescovo di Quebec, discepolo del grande teologo Hans Urs von Balthasar, è un ratzingeriano di ferro. Come vescovo nel Canada francofono ha operato in uno dei luoghi dove la scristianizzazione è intervenuta più drammatica e repentina. Nel scegliere i futuri vescovi, si prevede quindi che sarà molto in sintonia con la visione che ha indotto Benedetto XVI a istituire il nuovo organismo per la nuova evangelizzazione.
Di questo nuovo organismo, però, non si conoscono ancora i compiti precisi, che saranno definiti da un "motu proprio" papale. Ad esempio, non sono chiari i confini tra le sue competenze e quelle del pontificio consiglio della cultura, che già si occupa del "Cortile dei gentili" e cioè dell'evangelizzazione dei non credenti.
Inoltre, l'affidamento del nuovo organismo a monsignor Fisichella potrebbe rinfocolare le polemiche che hanno tormentato la sua presidenza della pontificia accademia per la vita, a motivo di un suo controverso articolo su "L'Osservatore Romano" in difesa di una fanciulla brasiliana alla quale era stato imposto un doppio aborto: polemiche non placate neppure da una successiva dichiarazione della congregazione per la dottrina della fede.
Infine, la terza nomina importante è quella del vescovo svizzero Kurt Koch a presidente del pontificio consiglio per l'unità dei cristiani, al posto del cardinale Walter Kasper.
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Il 1 luglio Benedetto XVI ha inoltre ricevuto il vescovo emerito di Augsburg, Walter Mixa. Anche qui per pacificare uno scontro dentro la gerarchia ecclesiastica. E anche qui con un comunicato emesso al termine del colloquio.
In questo caso, la “polemica spesso fuori misura” cui accenna il comunicato ha avuto come protagonisti due pesi massimi dell’episcopato della Germania, che si sono particolarmente accaniti contro Mixa con critiche e accuse non tutte fondate, inducendolo alle dimissioni: il presidente della conferenza episcopale tedesca, Robert Zollitsch, arcivescovo di Friburgo in Brisgovia, progressista, e l’arcivescovo di Monaco di Baviera, Reinhard Marx, conservatore.
Per questo l’esortazione alla pace e alla reciproca benevolenza, espressa dal papa nel comunicato, si è indirizzata primariamente proprio ai “confratelli nel ministero episcopale”.
Con questo appello conclusivo:
"In un tempo di contrasti ed insicurezze, il mondo attende dai cristiani la concorde testimonianza che essi, in base al loro incontro col Signore risorto, sono in grado di offrire e nella quale essi sono di aiuto gli uni agli altri come anche all’intera società, per trovare la via giusta verso il futuro".
L’offensiva massonica contro la Chiesa belga - Autore: Amato, Gianfranco Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - domenica 4 luglio 2010
24 giugno 2010, una data destinata a lasciare il segno nei travagliati rapporti tra la Santa Sede ed il Regno del Belgio.
Quel giorno, mentre è in corso una riunione della locale Conferenza Episcopale, una trentina di poliziotti fanno irruzione nell’Arcivescovado di Malines-Bruxelles in pieno stile sovietico. I Vescovi presenti vengono trattenuti per nove ore in stato di fermo, previa perquisizione e sequestro dei rispettivi telefoni cellulari. L’intento del blitz, disposto su ordine della magistratura, è quello di rinvenire documenti ritenuti utili ai fini di un’indagine su casi di pedofilia. Vengono sequestrati tutti i 475 dossier oggetto di esame da parte di una Commissione indipendente nominata dalla curia. Sarebbe stato sufficiente chiederne l’acquisizione senza il plateale coup de theatre, ma evidentemente i magistrati hanno preferito la ribalta dei riflettori al buon senso.
Giudici e poliziotti, in realtà, puntavano in alto, cercando prove del coinvolgimento diretto di Sua Eminenza il Cardinal Godfried Danneels, la cui abitazione personale non è stata risparmiata dall’onta della perquisizione. Persino il computer del Cardinale è stato sequestrato e messo a disposizione della magistratura.
L’ossessione spasmodica di rinvenire presunti dossier segreti ha portato i poliziotti a compiere persino un atto sacrilego. Armati di martelli pneumatici, sono scesi nella cripta della cattedrale di Saint Rombout a Mechelen, ed hanno aperto le tombe dei cardinali Jozef-Ernest Van Roey e Léon-Joseph Suenens, defunti Arcivescovi di Malines-Bruxelles. La furia giacobina è rimasta però delusa, e la violazione dei sepolcri si è rivelata un’inutile profanazione, perché ciò che è stato rinvenuto nelle tombe divelte ha rivelato la stessa consistenza delle suggestive teorie di Dan Brown: un nulla assoluto. Resta la profonda amarezza di uno spregio che non ha precedenti né durante il regime comunista sovietico, né durante quello nazista. Qualcosa del genere si può forse rinvenire negli efferati episodi anticristiani della guerra civile spagnola. Non proprio un bel precedente per il “cattolico” Belgio.
Che qualcosa di strano stesse accadendo in quel Paese, l’avevo intuito quando il 3 aprile 2009 il Parlamento belga aveva formalmente approvato una «condanna delle dichiarazioni inaccettabili del Papa in occasione del suo viaggio in Africa», superando, quanto ad anticlericalismo, la Spagna zapaterista e la laicissima Francia. Certo il Belgio non poteva, ora, farsi sfuggire l’occasione della crociata antipedofila lanciata contro la Santa Sede, per sferrare un attacco frontale alle istituzioni cattoliche.
Il motivo di questo fanatico accanimento ha una chiave di lettura alquanto semplice.
In Belgio esiste la più anticlericale e laicista delle massonerie del mondo.
Essere massoni in quel Paese, tra l’altro, è requisito essenziale per accedere e far carriera in magistratura ed in tutte le più alte cariche dello Stato. Da più di centocinquant’anni l’opinione pubblica belga è condizionata dalla pressione ideologica del “libero pensiero”, soprattutto attraverso l’educazione. Due sono i centri di cultura che formano la classe dirigente: l’Université Libre di Bruxelles e la fiamminga Vrije Universiteit Brussel. Entrambe “libere” come il pensiero che lì si insegna.
Ricordo di aver letto di un dossier realizzato da Derk Jan Eppink e pubblicato il 19 agosto 1999 dall’autorevole quotidiano di lingua fiamminga De Standaard, da cui emergeva che tre quarti dei ministri liberali e socialisti del governo federale dell’epoca erano membri di una loggia. I socialisti, circa 10.000 “fratelli”, erano affiliati prevalentemente al Grande Oriente, mentre i liberali, circa 4.000 frammassoni, facevano parte della Gran Loggia.
Liberi muratori erano anche belgi del calibro di Karel Van Miert, ex commissario europeo alla Concorrenza e Willy Claes, già segretario generale della NATO.
Quanto è accaduto lo scorso 24 giugno, in realtà, non mi ha meravigliato più di tanto, se non per i metodi stalinisti usati in quell’occasione e per la barbara profanazione di tombe.
Non bisogna dimenticare, infatti, l’offensiva anticlericale che il potere massonico belga scatenò nel 1997 contro le associazioni religiose. Fu addirittura istituita, allora, una commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta dal deputato socialista Serge Moureaux, per la lotta alle «pratiques illegale des sectes et le danger qu’elles représentent pour la société et pour les personnes, particulièrement les mineurs d’âge». Il 28 aprile 1997 la commissione depositò il famigerato “rapporto anti sette”, il quale conteneva una lista di 189 «sectes dangereuses», nella quale venivano affiancati a movimenti dichiaratamente satanici, anche associazioni cattoliche quali l’Opus Dei e la Comunità di Sant’Egidio, considerate, appunto, sette pericolose. Tutto finì, poi, in una bolla di sapone, ma l’episodio costituì un sintomatico indizio del clima culturale.
Laicismo ideologico ed anticlericalismo viscerale costituiscono il milieu della massoneria belga, al punto che essa ha ritenuto di mantenere rapporti internazionali quasi esclusivamente con il laicissimo Grande Oriente di Francia.
Non è un caso, ad esempio, che la “comunione” con le massonerie anglosassoni si sia rotta proprio perché queste ultime (che mantengono, invece, un buon rapporto con le chiese protestanti) hanno contestato ai “fratelli” belgi un anticlericalismo esasperato ed eccessivo.
Da questo quadro complessivo della situazione è forse possibile trarre qualche elemento di valutazione in più rispetto a quanto è successo all’Arcivescovado di Malines-Bruxelles dalle 10.30 alle 19.30 del 24 giugno 2010.
L'avventura di Celestino V - Un Papa fra il mito e la storia - di Paolo Vian (©L'Osservatore Romano - 4 luglio 2010)
"Nel grande dramma tra Ecclesia spiritualis e Ecclesia carnalis Celestino V è una breve apparizione, ma così rivelatrice, che ne è quasi simbolo. E però la sua personalità mantiene una indeterminatezza che né i suoi antichi biografi né gli studiosi più recenti hanno potuto rimuovere efficacemente, per cogliere tratti individuali e concreti". Al punto che, nelle diverse ricostruzioni, il vecchio eremita del Morrone non riesce ad avere una sua fisionomia propria neppure quando il conclave di Perugia (1294) lo elegge con sorpresa di molti dopo una sede vacante durata ventisette mesi. Sono le riflessioni con le quali Arsenio Frugoni, uno dei grandi maestri della medievistica italiana del Novecento, apriva il suo Celestiniana, pubblicato a Roma nel 1954 per i tipi del glorioso Istituto Storico Italiano per il Medio Evo.
Forse anche per questo - proseguiva Frugoni - gli studi allora più recenti, quelli di Franz Xaver Seppelt (1921) e di Friedrich Baethgen (1943), "si sono limitati ad affrontare particolari momenti ed aspetti senza tentare la monografia conclusiva". Tentata più recentemente (1981) dal medievista tedesco Peter Herde, con la biografia ormai classica uscita nella collana di Hiersemann "Päpste und Papsttum" e tradotta in italiano nel 2004. Ma nonostante il corposo volume, che chiarisce questioni (come quella del luogo d'origine di Pietro del Morrone) sinora molto discusse, la personalità dell'eremita della Maiella continua ad apparire misteriosa e sfuggente. Come in fondo appare a chi legga gli scritti che a lui vennero presto dedicati, dall'Opus metricum del cardinal Iacopo Caetani Stefaneschi, testimone oculare dell'elezione e del pontificato di Celestino, alle molteplici vite che, da Bartolomeo da Trasacco e Tommaso da Sulmona agli inizi del Trecento sino al bergamasco Stefano Tiraboschi nella prima metà del Quattrocento, cercarono di ricostruire il suo lungo percorso.
Probabilmente non si tratta di un caso. Chi legga gli atti del processo di canonizzazione, svoltosi sotto la direzione di Federico de Lecto e dell'agostiniano Giacomo da Viterbo fra il maggio e il giugno 1306 con l'escussione di quasi trecento testimoni tra Napoli, Capua, Castel di Sangro, Sulmona, nel monastero dello Spirito Santo e a Ferentino, chi scorra le molteplici testimonianze che erompono con la freschezza della loro autenticità attraverso la ripetitiva griglia dei formulari di domande prestabilite, avverte subito che tutta la vita di Pietro del Morrone si è svolta in una tensione dialettica, in qualche modo mai risolta, fra il concedersi alle folle che lo cercano per la fama di santità che presto lo aveva avvolto nei diversi luoghi in cui aveva soggiornato e il ritrarsi, quando l'eremita si rende conto che il concorso dei devoti minaccia le condizioni stesse della sua conversatio monastica e del suo rapporto con Dio, l'unica realtà che per lui veramente conta.
Concedersi e ritrarsi, abbandonarsi alle folle che lo cercano e che trovano in lui anche un taumaturgo che guarisce e risana, ma poi fuggirle, per ritrovare quella pace che l'anima cerca e nella quale solo trova riposo. In fondo la breve avventura pontificale di Celestino era in qualche modo già scritta nei suoi precedenti, ripetizione di uno schema che aveva prima costantemente vissuto.
A ben vedere però è quell'"indeterminatezza" di cui scriveva Frugoni nel 1954 all'origine del conflitto di interpretazioni sulla figura del Papa e del suo trapasso nell'ambito del mito: quasi che l'immagine dell'eremita molisano, vissuto consapevolmente nel chiaroscuro del concedersi e del ritrarsi, possa essere riempita di contenuti diversi a seconda dell'interprete che l'avvicina. Di Celestino effettivamente sappiamo poco; non ci aiutano gli atti e i gesti del suo breve pontificato, probabile frutto del gioco di influenze diverse; la cosiddetta Autobiografia, che proprio Frugoni riscattò da fantasiosa leggenda a memoria fedele di esperienze vere, ci offre un clima, un ambiente, un quadro spirituale, non l'espressione di una personalità.
Certo, Pietro del Morrone non fu l'ingenuo e lo sprovveduto che molti dipinsero. Basterebbe a smentirlo la constatazione che fu all'origine e a capo di una congregazione di eremiti che si diffuse e si ramificò, lui vivente, in molteplici fondazioni, fra Italia centrale e meridionale, giungendo presto a varcare le Alpi; per difendere la sua creatura Pietro ebbe la forza e il coraggio di recarsi verso la fine del 1274 a Lione, presso la Curia pontificia, ove ottenne da Gregorio X un solenne privilegio che, incorporando la congregazione nella famiglia benedettina, ne confermava le proprietà, allora già consistenti. Fu a capo di comunità, come quelle di Santa Maria di Faifoli presso Montagano, nel Molise, o San Giovanni in Piano, vicino a Lucera, in Puglia, che riformò e consolidò, anche economicamente.
Ha dunque ragione Frugoni a vedere in Celestino non "quel vegliardo svanito nei silenzi della montagna e nelle maceranti penitenze" ma "l'anima ardente e volitiva che aveva per tanti anni guidato il suo gruppo di monaci, fattosi per lui sempre più grande. Vibrante di una religiosità che si nutriva d'attese escatologiche e rifiutava certo la Chiesa politica come peccato. E peccato gli sarà parsa l'esperienza, ricca di compromessi e di calcoli degli uomini di Chiesa, così diversi dal suo appassionato ideale. Onde un sentirsi meno intimamente insidiato dall'appoggio dei laici che parevan offrirgli devozione e aiuto, e insieme lo sospingevano, in complicità coi monaci, sospettosi del potere di altri ecclesiastici sul loro Padre, contro la Curia canonistica, mondana". Ma quando si accorse che quell'appoggio dei laici, quella devozione premurosa e interessata di Carlo d'Angiò, poteva rivelarsi per la sua Chiesa insidioso e nefasto, Celestino ebbe il coraggio di dimettersi. Il "gran rifiuto" (Inferno, iii, 60) non va interpretato in chiave di viltà ma, comprese ancora acutamente Frugoni, come l'"espressione dello stesso temperamento volitivo, ardente, che ha accettato, quasi inspirante Deo, la prova del concreto governo, e, di fronte al fallimento, ha il coraggio di rinunciare e la tenacia, che in verità occorse grande, per riuscire a rinunciare".
La vita storica di Pietro del Morrone prima e poi di Celestino è dunque tutta giocata in questo concedersi/ritrarsi, nell'andare tra i fratelli per fedeltà al Vangelo e nell'appartarsi di nuovo per una fedeltà ancora più profonda: una storia in qualche modo normale, fra rivelazione e mistero, città e deserto, forse nella consapevolezza che i due poli del binomio sono entrambi necessari all'equilibrio della vita cristiana, come lo erano stati nella vita di Gesù.
Eppure il mito s'impadronisce di Celestino quando, fra l'agosto e l'inizio di ottobre del 1294, il Papa riceve una piccola delegazione di francescani marchigiani emigrati in Oriente per sfuggire all'ostilità e alla persecuzione dei confratelli e per proseguire la loro esperienza di fedeltà intransigente al testamento di Francesco d'Assisi. Celestino li conosce, ha probabilmente avuto contatti con loro negli anni precedenti, ne apprezza l'austerità ascetica e quel gusto per la solitudine che in fondo li rendono così simili ai suoi monaci; si dice dunque pronto ad accoglierli nella sua congregazione e poi, al loro rifiuto, a costituirli in gruppo autonomo come "poveri eremiti del Papa Celestino", francescani ma al di fuori dell'Ordine. L'unità francescana, che pur un teologo e uno spirituale della levatura di Pietro di Giovanni Olivi riteneva un bene supremo, andava in frantumi.
Forse il Papa non si rese conto delle conseguenze del suo gesto, che si discostava dalla linea che tutti i suoi predecessori avevano seguito nel corso del Duecento di tenere faticosamente insieme le diverse anime dell'Ordine francescano. La reazione dei confratelli fu durissima, il successore di Celestino, Bonifacio VIII, cassò, con gli altri atti del predecessore, anche questo e i "poveri eremiti di Papa Celestino" dovettero ancora fuggire, dando però sfogo nei loro scritti - il più alto dei quali è senz'altro la Historia septem tribulationum di Angelo Clareno - al risentimento nei confronti di quella successione bonifaciana che aveva drammaticamente capovolto le sorti della loro vicenda.
L'inserimento del pontificato celestiniano nelle tensioni interne all'Ordine francescano non è certo l'unico motivo di quanto accadrà in seguito; le linee critiche di frattura, nell'ambito romano, italiano e internazionale, sono diverse, ma il coinvolgimento di Celestino nella grande querelle tra francescani conventuali e spirituali, che solo apparentemente trovò soluzione con le drastiche decisioni di Giovanni xxii, appare per molti versi decisivo. A questo punto gli insoddisfatti del nuovo corso bonifaciano - sul piano religioso i francescani spirituali, nell'ambito romano i cardinali Colonna, nello scenario internazionale i fautori della causa francese e angioina - s'impadroniscono della figura di Celestino per oscurare e calunniare quella del successore, accusato di essere il protagonista occulto di un'abdicazione illegittima estorta con mezzi fraudolenti, persino responsabile di una morte violenta nella rocca di Fumone.
Alla Chiesa tutta politica e mondana di Bonifacio si contrappone la presunta Chiesa spirituale di Celestino. E a Celestino - già nel 1295-1296 da parte del domenicano provenzale Robert d'Uzès - si applicano le profezie relative a un Papa angelico; esse ancora una volta sono riconducibili a gruppi di spirituali italiani protetti da Celestino, vettori in Occidente di vaticini greci attribuiti all'imperatore Leone il Saggio che, nella traduzione latina, trasferiscono a un Papa le caratteristiche di un sovrano degli ultimi tempi, fautore del diritto e della giustizia. Il filone profetico del Papa angelico ha nella figura di Celestino un punto di partenza che si proietta nel futuro, attraversa il Trecento, influenza Cola di Rienzo, che ne è venuto a conoscenza dagli eremiti della Maiella e ne diffonde il contenuto nella Boemia di Carlo iv, ma compare ancora in Savonarola, arriva persino a Nostradamus e alla fine del Cinquecento allo pseudo-Malachia. Se Dante, anche per motivi personali, condanna la rinuncia di Celestino come atto di viltà, Petrarca nella sua difesa della vita solitaria lo esalta come gesto di suprema libertà evangelica. Ma Celestino continua a essere sino a tutto il Novecento il simbolo di una Chiesa diversa, profetica, non mondana ma tutta religiosa: dalle Lettere agli uomini di papa Celestino Vi (1946) in cui si trasfonde tutto lo slancio profetico e apocalittico dell'ultimo Papini, a L'avventura di un povero cristiano (1968), l'estremo libro dell'abruzzese Ignazio Silone.
Ormai però Celestino è divenuto uno schermo bianco sul quale proiettare i propri desideri e le proprie aspirazioni: il mito ha divorato la storia, per molti versi l'ha piegata, strumentalizzata, contraffatta. Celestino e Bonifacio non sono in realtà araldi di Chiese diverse, così come Pietro del Morrone non è né l'ingenuo vegliardo catapultato in scenari troppo grandi per lui né l'intrepido riformatore impedito dall'apparato mondano di una Curia tutta terrena. Sarà Bonifacio VIII, quel Papa Caetani che aveva dovuto evitare la strumentalizzazione della figura del predecessore a fini scismatici, a celebrare a Roma la sua messa funebre. L'avventura reale di quel "povero cristiano" che fu Celestino V è molto più bella del mito che l'ha voluto alterare: in definitiva quella di un outsider uscito dalle pieghe tenaci e profonde della millenaria storia religiosa e monastica italiana, una figura che sembra balzar fuori dalle pagine dei Dialogi di Gregorio Magno e che può vivere alla fine del vi secolo come nel cuore del xiii perché, nell'uno come nell'altro, animata dalla stessa ansia divorante e irrequieta della ricerca di Dio.
(©L'Osservatore Romano - 4 luglio 2010)
«Il divorzio dal notaio? - Insulto al matrimonio» - No senza appello di Belletti, presidente del Forum delle famiglie, alla proposta del Consiglio del notariato appoggiata da Alfano - DA MILANO ANTONELLA MARIANI – Avvenire, 4 luglio 2010
I l matrimonio come la compravendita di una casa. Come un qualunque contratto. Si va dal notaio, si firma, si paga la parcella e amici come prima: il divorzio è fatto.
Basta con le lungaggini dei processi, basta con giudici e udienze, basta carte bollate. Scenari? Non proprio. Ha destato sorpresa e qualche preoccupazione la proposta, lanciata venerdì nel corso del Consiglio nazionale del notariato, di trasferire ai notai la gestione delle separazioni coniugali quando non ci sono figli. È stato lo stesso Guardasigilli Angelino Alfano, ospite d’onore della riunione del Consiglio, a confermare che i suoi tecnici, al lavoro per tentare di snellire la giustizia civile, stanno esaminando l’ipotesi di delegare ai notai alcune competenze, tra cui appunto le separazioni in assenza di figli, prima limitatamente agli aspetti patrimoniali, ma «se c’è la volontà, nel giro di qualche mese anche l’intera separazione».
«Una logica di mercato che secondo noi non appartiene a quella della famiglia»: è lapidario Francesco Belletti, sociologo e presidente nazionale del Forum delle associazioni familiari. «Siamo nella logica della privatizzazione del rapporto di coppia. È un modo indiretto per banalizzare ciò che banale non è, cioè il matrimonio, che invece per noi è un legame rilevante per la società».
In tempi di trasformismo, cambiano le parole ma la sostanza no. In passato più di una volta si è parlato di «divorzio breve» – esistono varie proposte di legge al proposito –, ma ora per raggiungere lo stesso scopo si parla di necessità di semplificazione amministrativa e di alleggerire il lavoro dei giudici. «Si vuole addolcire la pillola. Il punto è che il problema di 5 milioni di processi pendenti solo in ambito civile – riprende Belletti – non lo si risolve con indulti, amnistie e altre scorciatoie, o togliendo dal foro giudiziario ciò che da esso è ragionevolmente tutelato, come il processo di separazione tra marito e moglie».
L’aspetto che preoccupa il Forum delle famiglie, però, è la privatizzazione del rapporto di coppia: «Così si stabilisce che chi è sposato e non ha figli può fare ciò che vuole. Ma per noi il legame matrimoniale è socialmente rilevante, è un impegno preso non solo tra due persone ma con l’intera società, davanti a un pubblico ufficiale. Noi vediamo in questo legame la principale fonte della coesione sociale. È una alleanza tra una scelta libera e privata di un uomo e una donna e la responsabilità pubblica.
Delegando ai notai la gestione della separazione, si sancisce invece che il matrimonio è solo un contratto, un fatto privato».
E c’è anche un altro aspetto: se possono rivolgersi al notaio solo gli sposi che non hanno figli, il provvedimento avrà un effetto paradossale: «Il messaggio è che i figli sono un peso, un vincolo alla libertà. Se una coppia senza figli potrà andare dal notaio, perché non una coppia con figli che opta per una separazione consensuale? Insomma, ci sarebbe subito chi si sente discriminato...», nota Belletti.
Infine, una stoccatina al governo: «In Italia c’è un pensiero bipartisan, trasversale, contro la famiglia come valore sociale. Però a questo governo, che spesso proclama il valore della famiglia, si chiederebbero maggiori coerenza e consapevolezza. Queste idee, che apparentemente riguardano la semplificazione amministrativa, in realtà sono minacce reali al valore famiglia».
«È una logica del mercato che non appartiene alla famiglia Quel legame è rilevante per la società, rimanda a una responsabilità che non si può banalizzare. Così invece sembrerà un fatto privato»
CAMICI BIANCHI NETTI CONTRO L’EUTANASIA - E la vera medicina parlò tedesco - GIAN LUIGI GIGLI – Avvenire, 4 luglio 2010
Nella nostra società il medico corre il rischio di diventare mero esecutore di volontà altrui. Ma non sempre, e non necessariamente, tutti si adeguano: soprassalti valoriali e deontologici riemergono potentemente dal profondo dell’ethos professionale. È appena accaduto in Germania, a seguito della sentenza con la quale la Corte federale di giustizia (l’equivalente della nostra Corte Costituzionale) ha assolto nei giorni scorsi il legale che aveva incoraggiato la figlia di una paziente a staccare l’alimentazione che teneva in vita la madre. Sarà per i sensi di colpa che si riattivano quando vengono richiamati alla memoria i fantasmi storici dell’eutanasia – e ciò è tanto più vero in Germania –, ma è un fatto che per giustificare la sua decisione la Corte ha dovuto arrampicarsi sugli specchi ricorrendo a improbabili distinzioni tra eutanasia attiva e passiva. In realtà, l’intenzione era solo quella di accelerare la morte della paziente: si sarebbe dunque dovuto parlare semmai di eutanasia 'omissiva'. Alla base della decisione giudiziaria vi è invece, ancora una volta, una concezione estensiva e illimitata del diritto all’autodeterminazione del paziente. Peraltro, come già nel caso Englaro, non sembra vi fossero a disposizione dichiarazioni scritte ma solo una presunta manifestazione verbale di volontà, riferita dalla figlia. In questa situazione estremamente confusa, una parola di chiarezza è arrivata dai medici tedeschi. Sia la Marburger Bund
(il sindacato ospedaliero) che la Federazione nazionale degli ordini dei medici hanno invitato a non dare per scontata l’equazione tra stato vegetativo e presunta volontà di morire da parte dei pazienti in quelle condizioni. I medici hanno anche ribadito l’assoluta preminenza del mantenimento in vita quando la volontà del paziente non possa essere accertata in modo inequivocabile, auspicando il pieno rispetto del diritto alle cure migliori anche per i pazienti con disturbi prolungati di coscienza. Infine, hanno invitato a mantenere netta la distinzione tra morte su richiesta e accompagnamento alla morte con cure palliative, sottolineando il dovere di assicurare queste ultime. Un simile orientamento culturale è testimoniato, nella pratica, dall’atteggiamento del personale cui era affidata la donna, che morì per altre cause dopo che le erano state ripristinate l’idratazione e la nutrizione interrotte dalla figlia. In Italia si è voluto invece che la vicenda di Eluana si concludesse per mano dei sanitari, nel tentativo di cambiare per sempre la fisionomia stessa della professione medica e delle istituzioni che la rappresentano. Una bella differenza di approccio.
Se nel nostro Paese affiorasse un nuovo caso emblematico, con ogni probabilità ben poche sarebbero le speranze di un esito diverso da quello consumatosi a Udine diciassette mesi fa, malgrado il documento del Comitato nazionale di bioetica del dicembre 2005 e la recente ratifica, da parte italiana, della Convenzione Onu sui disabili.
Per questo motivo è fondamentale che si concluda l’iter parlamentare del disegno di legge sulle disposizioni anticipate di trattamento nel rispetto dell’impianto uscito dal Senato oltre un anno fa.
Opportuno sarebbe anche un nitido pronunciamento della Corte Costituzionale, tale da riconoscere che il diritto all’autodeterminazione in sanità non può avere valore assoluto, come affermano anche i medici tedeschi. L’idratazione e la nutrizione, infatti, sono necessarie a ogni uomo, sia esso sano o gravemente disabile a causa di uno stato vegetativo. Riconoscere il diritto a interrompere l’alimentazione significherebbe ammettere l’esistenza di un inesistente diritto al suicidio. Tanto più se per sospendere la nutrizione è richiesto un intervento di altri soggetti, camici bianchi in primis: sarebbe omicidio del consenziente, sul quale il nostro Codice penale è tutt’altro che tenero. I medici tedeschi ci mostrano che fermare questa deriva si può e si deve.
«Ru486? L’Umbria farà da sé». Le associazioni insorgono - il caso - L’assessore regionale: «Metteremo a punto noi le linee guida per l’utilizzo del farmaco anche con la partecipazione popolare» Forum e Scienza&Vita: «Non sa di cosa sta parlando» - Anche l’Udc si schiera contro il progetto: le decisioni regionali non potranno scostarsi da quanto indicato a livello ministeriale - DA PERUGIA - MARIA RITA VALLI – Avvenire, 4 luglio 2010
«È inaccettabile che si imponga il ricovero ospedaliero della donna a prescindere da motivate esigenze sanitarie». A parlare è l’assessore alla sanità della Regione Umbria riferendosi allelinee guida del Ministero sulla somministrazione della pillola abortiva Ru486. Nella breve intervista pubblicata ieri su 'La Nazione-Umbria', ribadisce che in Umbria saranno applicate «le indicazioni che verranno dal Comitato scientifico» istituito dal suo assessorato, e le linee guida regionali saranno emanate entro settembre. «Stante la delicatezza dell’argomento – ha aggiunto – farò transitare tali indicazioni attraverso un’attenta partecipazione popolare».
Insomma, potere al popolo. Ben più che una 'disobbedienza istituzionale'. Si rischia quasi una 'rivolta' della Regione rispetto alle indicazioni del ministero.
Inevitabili che le dichiarazioni non siano piaciute a 'Scienza&Vita' e al Forum delle Famiglie dell’Umbria che in un comunicato congiunto contestano l’assessore che già giovedì, rispondendo alle domande di Avvenire, pubblicate sull’inserto È vita, aveva affermato di voler seguire le indicazioni di «un comitato tecnico scientifico, perché non spetta né ai politici, né alle consulenze del Ministero, stabilire le modalità di un atto medico». «L’assessore Riommi evidentemente non conosce l’argomento su cui sta esternando». si legge nella nota di Mpv e Scienza &vita, che continua ricordando all’assessore il fatto che «le linee di indirizzo del Ministero si basano su ben tre pareri del Consiglio Superiore di Sanità che è la più importante autorità scientifica istituzionale in ambito sanitario nel nostro paese». I tre pareri, elaborati da differenti Consigli, aggiunge la nota, «sono concordi sulla necessità di un ricovero ordinario per chi sceglie di abortire con la Ru486. Se il suddetto comitato non dovesse seguirne le indicazioni, l’amministrazione regionale tutta dovrà prendersene pubblicamente la responsabilità, e risponderne ai cittadini».
Sulla stessa linea la nota del capogruppo Udc in Consiglio regionale, Sandra Monacelli, per la quale se le linee guida della regione si dovessero discostare da quanto indicato dal Consiglio Superiore di Sanità dovrà essere «l’amministrazione regionale a assumersene pubblicamente l’intera responsabilità nei confronti dei cittadini e delle donne in particolare, chiarendone le motivazioni». Per Monacelli l’assessore dovrebbe tenere conto anche delle implicazioni legali nel caso dovesse confermare la scelta di discostarsi dalle linee guida del ministero avendo già il governo espresso alla Commissione Europea il proprio parere circa la compatibilità della procedura abortiva farmacologica con la legge italiana. «Tale parere ricorda Monacelli - afferma che l’uso della pillola Ru486 è compatibile con la nostra legislazione solo in regime di ricovero ordinario». Il confronto è appena iniziato. Scienza&vita e Forum Famiglie hanno dato da subito la loro disponibilità al coinvolgimento alla fase di partecipazione popolare annunciata dall’assessore. Il settimanale cattolico regionale 'La Voce' poco più di un mese fa aveva già criticato lo 'zelo' del nuovo assessore regionale alla sanità. «Atto dovuto ma non urgente», aveva scritto, evidenziando l’inopportunità di aprire la legislatura con l’istituzione del Comitato per la Ru486, in una regione che è ai primi posti per anzianità della popolazione e per abortività.
Sporadici casi di pedoflia nel clero hanno scatenato una indegna caccia al prete. Anche il cattivo uso delle ricchezze o la malversazione fanno scandalo. Bisogna reagire con vigore e coerenza davanti alle calunnie anti cattoliche - La Chiesa cattolica é sotto attacco e lo dimostrano gli eventi degli ultimi giorni, culminati con stravaganti iniziative giudiziarie, vedi Belgio. Ne discutiamo con il professor Massimo Introvigne rintracciato in terre lontane. - Bruno Volpe – dal sito pontifex.roma.it
Professore intanto grazie della sua cortese disponibilità, pur impegnato all' estero: " é sempre un piacere rispondere e voi e lo faccio volentieri, in fondo il vostro sito intrerpreta quella che un tempo era la apologetica che forse avrebbe bisogno di maggior attenzione". Eppure molti ci criticano: " non date importanza. Chi dice la verità é scomodo e infastidisce i paladini del pensiero unico. Le assicuro che se fossi incerto della vostra coerenza e bontà, non parlerei". Che cosa sta accadendo oggi alla Chiesa cattolica?: " le vedono anche i bambini, é in atto una indecente caccia al prete, tutto quello che é cattolico sembra fonte di malcostume o di cattiveria e tanto mi pare ingiusto ed ingeneroso". Che cosa ha ... scatenato questa reazione?: " la mia sensazione é che fosse almeno in parte premeditata. Alcuni settori laicisti, massoni ed anticlericali, hanno aspettato con gioia e piacere delle scivolate di qualche ministro infedele e speculando su casi sporadici di pedoflia nella chiesa, hanno avviato una persecuzione senza pari, dimenticando che il Papa sta mostrando tutta la sua fermezza, rigore e pulizia nel reprimere questa piaga che non appartiene solo alla Chiesa cattolica, ma si trova in ogni parte del vissuto. Non elogio la pedofilia che é un crimine orrendo, ma non appartiene solo al clero cattolico, anzi in minima parte".
Come spiega allora che i giornali inveiscano solo quando capitano scivolate a preti?: " direi che si tratta di cattiva fede e costoro altro non attendono che poter sparare sulla Chiesa, lo ribadisco, é un vile attacco premeditato e aspettato da ambienti tradizionalmente anticlericali, spesso guidati e manovrati da massoni e poteri occulti".
Certamente la pedoflia incide, come anche l' uso talora disinvolto delle ricchezze e dei soldi: "anche da questo punto di vista il Papa ha lanciato un allarme molto chiaro invitando tutti alla sobrietà e alla corretteza di vita, se qualcuno sbaglia fa parte della fragilità umana".
Il caso Sepe?: " non parlo di cose che non conosco e quindi non posso dare una valutazione. Certo che vedo una strana disparità in alcuni mezzi di informazione. Fosse accaduto ad un cardinale di area conservatrice sarebbe statto già condannato, ma Sepe é l' uomo del dialogo ed ha buona stampa anche se La Stampa non ha avuto sconti particolari. In vero esistono uomini di chiesa che si definisconi anti pedofili, come alcuni stravaganti teologi del Belgio, cacciatori di scandali che poi danno scandalo loro con teorie e tesi al limite dell' eresia se non chiaramente eretiche e questo non va bene per niente".
Che tipo di eresie?: " alcuni uomini di chiesa spesso credono di accattivarsi fama e popolarità sparandole grosse come sulla reicarnazione, sul celibato dei preti e l' omosessualità, bisognerebbe stare maggiormente attenti a non infrangere la dottrina e la Tradizione".
Come giudica sin qui la linea della Santa Sede?: " ottima e molto ragionevole. Non si é mai chiusa a difesa dei privilegi, ma ha saputo riconoscere errori e colpe. Con la stessa onestà ha ribattuto colpo su colpo alle calunnie che si spargono contro di essa denotando grande coerenza e questo le fa onore,penso che il nuovo dicastero sulla evangelizzazione creato dal Papa sia una idea davvero buona. Insomma, i cattolici mai come in questo tempo sono chiamati a reagire ad una feroce campagna di odio e discredito".
Bruno Volpe
POSSIBILI SOLUZIONI ALL’AIDS - Un libro sostiene la necessità di cambiare strategia - di padre John Flynn, LC - ROMA, domenica, 4 luglio 2010 (ZENIT.org).- La Chiesa cattolica è regolarmente messa alla berlina per il suo rifiuto di avallare l’uso del preservativo nella lotta alla diffusione dell’Hiv e dell’Aids. Questa posizione non è solo frutto di un sano insegnamento morale, ma è sostenuta da solidi elementi scientifici.
E' questa la tesi di un libro pubblicato recentemente dal National Catholic Bioethics Center di Philadelphia. Nel volume, dal titolo “Affirming Love, Avoiding AIDS: What Africa Can Teach the West” (Affermare l’amore, evitare l’Aids: ciò che l’Africa può insegnare all’Occidente), gli autori Matthew Hanley e Jokin de Irala spiegano perché il tentativo di fermare la diffusione dell’Hiv in Africa ha avuto così poco successo e come tale tentativo si sia basato soprattutto sull’uso del preservativo.
Hanley è stato il consigliere tecnico per l’Hiv/Aids del Catholic Relief Services fino al 2008 ed è specializzato nella prevenzione del contagio da Hiv. De Irala è vicedirettore del Dipartimento di medicina della prevenzione e di salute pubblica dell’Università di Navarra, in Spagna.
Il libro inizia osservando che quasi tutte le istituzioni occidentali attive in questo campo condividono l’opinione che le politiche di riduzione del rischio, come quelle di promozione dell’uso del preservativo, debbano essere prioritarie. Tali soggetti, che gli autori definiscono come “l’Aids establishment”, si concentrano sulle soluzioni tecniche anziché su quelle comportamentali.
Solo gli Stati Uniti fanno eccezione, avendo cambiato politica adottando la “Strategia ABC”, in seguito al successo che questa ha avuto in Uganda. La “A” sta per astinenza, la “B” per “be faithful” (essere fedele) e la “C” per “condom use” (uso del preservativo).
Secondo il libro, la parte essenziale di questa strategia è data dai primi due elementi. Di fatto, ovunque vi sia stata una riduzione dei tassi di contagio di Hiv in Africa, ciò è dovuto a cambiamenti fondamentali nel comportamento sessuale.
Prevenzione
Cercare di modificare il comportamento delle persone non solo è più efficace, ma rappresenta un ritorno al buon senso del principio medico della prevenzione primaria, sottolineano gli autori. Prevenire la trasmissione dell’Hiv costituisce un’urgenza soprattutto in alcune parti del mondo come l’Africa, dove vi sono grandi difficoltà a fornire cure mediche adeguate.
Per rendere l’idea, Hanley e de Irala ricorrono all’analogia con il consumo del tabacco. Forse un tempo poteva sembrare utopistico voler cambiare una situazione in cui il 75% della gente fumava, ma le autorità sanitarie hanno intrapreso politiche tali da aver portato a modificare tale comportamento.
Per quale motivo, si chiedono, quando si parla di tabacco, colesterolo, vita sedentaria, eccessivo consumo di alcol, le autorità considerano necessario e opportuno cambiare i relativi comportamenti, mentre ciò non avviene per le malattie associate al comportamento sessuale?
Uno dei problemi associati alle politiche di riduzione del rischio che si affidano a soluzioni tecniche anziché a cambiamenti comportamentali è quella che viene definita compensazione del rischio, cioè che i benefici ottenuti grazie all’intervento tecnico diretto a ridurre il rischio possano essere vanificati da un successivo cambiamento comportamentale maggiormente a rischio.
Gli autori portano l’esempio della cintura di sicurezza, la cui efficacia può essere annullata se insorge il pensiero di poter guidare in modo meno prudente proprio perché si ha una maggiore protezione. Allo stesso modo, l’uso del preservativo può portare le persone a pensare di poter avere un’attività sessuale meno controllata.
Questo è particolarmente rilevante in Africa, dove gli studi mostrano che quando un numero significativo di persone intraprende rapporti sessuali multipli le probabilità di infezione sono molto più alte rispetto a quelle di comunità in cui le persone riducono le partnership multiple.
Ridurre i rapporti sessuali multipli è essenziale per ridurre i tassi di infezione di Hiv, affermano gli autori.
L’esempio migliore a conferma di questo viene dall’Uganda, dove i tassi di infezione da Hiv sono diminuiti dal 15% del 1991 al 5% del 2001. Ciò che ha prodotto questa forte riduzione è stato il grande cambiamento nei comportamenti sessuali, osserva il libro.
“Questa decisione di impedire la diffusione di una malattia mortale e traumatica attraverso il cambiamento comportamentale ha in definitiva risparmiato la vita di milioni di persone”, affermano gli autori.
Uso del preservativo
Mentre il tasso di utilizzo del preservativo in Uganda era a livelli simili di Zambia, Kenya e Malawi, il numero dei partner “irregolari” in Uganda era bruscamente diminuito. E mentre in questo Paese i tassi di diffusione dell’Hiv sono diminuiti, non è avvenuto lo stesso negli altri.
Uno dei fattori che sta dietro al successo del cambiamento comportamentale in Uganda, sottolineano gli autori, è il lavoro delle suore e dei medici cattolici. I primi presidenti della Commissione per l’Aids del Paese, peraltro, sono stati un Vescovo cattolico e uno anglicano.
Purtroppo negli ultimi anni “l’Aids establishment” ha guadagnato terreno in Uganda e le politiche si sono dirette maggiormente verso la promozione dell’uso del preservativo. A questo ha fatto seguito un aumento nei tassi di trasmissione dell’Hiv.
Gli autori citano anche i dati di altri Paesi quali Kenya, Thailandia e Haiti, da cui emerge come i cambiamenti nei comportamenti abbiano portato a una riduzione dei tassi di trasmissione dell’Hiv.
Per contro, in Sudafrica, dove ci si è concentrati soprattutto sulla promozione del preservativo, la persistenza di un’elevata diffusione dei rapporti multipli ha contribuito a mantenere i tassi di infezione a un livello definito dagli autori di “incidenza allarmante”.
L’idea dell’astinenza non trova facilmente posto nella cultura contemporanea, ma come sottolineano Hanley e de Irala, sebbene la fedeltà sia stata il fattore più importante del successo africano, anche l’astinenza è importante.
L’astinenza influenza il comportamento futuro – secondo gli autori –, e prima una persona inizia l’attività sessuale, maggiore sarà il numero dei partner che potrà avere nella sua vita sessuale, e maggiore sarà quindi il rischio di contagio con l’Hiv.
Il libro cita uno studio, svolto dalla United States Agency for International Development, che ha preso in esame le variabili associate all’incidenza dell'Hiv in Benin, Camerun, Kenya e Zambia.
Dallo studio risulta che gli unici fattori associati a una minore incidenza dell'Hiv sono il minor numero di partner (fedeltà), un debutto sessuale meno precoce (astinenza) e la circoncisione maschile. Non rientrano, invece, tra i fattori associati a una minore incidenza dell'Hiv lo status socio-economico e l’uso del preservativo.
Nonostante questi fatti e altri elementi probatori forniti nel libro, gli autori sottolineano che i documenti delle Nazioni Unite sull’Aids continuano a considerare l’uso del preservativo la tecnica più efficace per la prevenzione della malattia.
Il condom può ben essere la “tecnica” più efficace nella riduzione dei rischi di infezione, ammettono gli autori, ma non è certo la misura di prevenzione più efficace.
Sessualità umana
Sebbene il dibattito su come arginare l’Hiv assuma spesso un linguaggio scientifico, secondo Hanley e de Irala la questione è piuttosto espressione del contrasto fra due diversi approcci filosofici e morali alla sessualità umana. Da un lato vi è la tradizione giudaico-cristiana, che considera la sessualità come interna al matrimonio. Secondo questa tradizione, l’adozione di confini morali e la pratica dell’autolimitazione sono necessarie per raggiungere la piena realizzazione umana.
Dall’altro lato vi è la cultura occidentale che esalta la libertà assoluta nella ricerca del piacere. Ciò spiega perché questo approccio concettuale cerchi soluzioni tecniche alle conseguenze indesiderate dell’attività sessuale.
Il 9 giugno, l’Arcivescovo Celestino Migliore, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, ha parlato all’Assemblea Generale della questione dell'Hiv/Aids.
“Se l'Aids si deve combattere affrontando in modo realistico le sue cause più profonde e i malati devono ricevere le cure amorevoli di cui hanno bisogno, noi dobbiamo offrire alle persone maggiore conoscenza, capacità, competenza tecnica e strumenti”, ha affermato.
Maggiore attenzione e più risorse devono essere dedicate al sostegno di un approccio basato sui valori e sulla dimensione umana della sessualità, ha sottolineato il presule.
Dobbiamo riconoscere, ha proseguito, l’esigenza di una “onesta valutazione delle modalità utilizzate in passato, che potrebbero essersi basate più sull'ideologia che sulla scienza e sui valori, e di una azione determinata che rispetti la dignità umana e promuova lo sviluppo integrale di ogni persona e di tutta la società”.
Un appello per tutti a mettere da parte pregiudizi e preconcetti per affrontare adeguatamente questo gravissimo problema.
Lo spazio etico nella postmodernità: natura, persona e situazionismo - don Roberto Piemonte – robpiem@libero.it – pontifex.roma.it
L’etica si colloca in uno spazio intermedio tra sapere teorico e sapere pratico, dal momento che coniuga e deve conciliare un’istanza conoscitiva astratta con un’altra di tipo pratico-operativo. Le sfide del nostro tempo, che mettono a disposizione dell’uomo conoscenze nuove e possibilità applicative un tempo inimmaginabili, ci invitano a pensare, a riflettere prima ancora di agire e riportano così ai contenuti e alla metodologia tradizionali dell’etica: accanto alle nuove competenze e abilità tecnologiche e scientifiche va esercitata la capacità etica di valutare il loro impatto, di prendere decisioni e agire, infine, di conseguenza: «Di fronte alla disgregazione di questa totalità, in una prima fase, la cultura ha reagito come in preda all’ebbrezza dell’esaltazione della differenza, della frammentazione, della nascita di nuove individualità. Davanti a ciascuno si aprono orizzonti di senso illimitati. Qualsiasi scelta diventa comparabile con ... qualsiasi altra. Non c’è niente che possa essere rivisto; ogni cosa che facciamo è sempre possibile altrimenti. Così sembra che non abbia più senso distinguere il vero dal falso; si vive ormai in forma ipotetica» .
Si avverte perciò, sempre più, l’esigenza di discernere, al di là di quello che si può fare, quel che si vuole fare, come uomini, per capire dove si vuole arrivare. La postmodernità ci offre un importante contributo quando solleva e cerca di interpretare la fenomenologia del mondo contemporaneo che, in molti punti, si presenta continuamente interrogato circa i risvolti etici soggiacenti ai vari ambiri della cultura e dell’universo di comportamenti che sollevano le nuove tecnologie.
La rinascita dell’etica nel nostro tempo acquista meramente un ruolo di delimitazione e di normativismo che hanno fatto diventare questo ambito della filosofia pratica un fenomeno di portata essenzialmente sociale e politico.
Ci viene rivolto un invito a riappropriarci della nostra esistenza di uomini che vivono in questo presente, con una responsabilità che si estende oltre l’oggi, anche sul futuro e sulle generazioni a venire. Un invito a esercitare quella libertà e quella responsabilità che sono i caratteri distintivi dell’uomo.
La responsabilità e la libertà investono il soggetto nel suo ruolo centrale di soggetto morale e o coinvolgono entro una duplice prospettiva, individuale e collettiva insieme: l’etica, che ci riguarda sempre direttamente in quanto persone, non può però essere solamente vissuta solo come fenomeno individuale, perché verrebbe così ridotta a morale privata, demandando al solo assetto giuridico e deontologico la gestione dello spazio pubblico comune.
Venuta meno la pretesa di fondare un’etica universale, che entro un contesto di pluralismo culturale ed etico risulterebbe arduo ottenere, si cercano dei presupposti etici comuni, minimi sì, ma in un certo senso, ma insieme forti nella loro portata.
La percezione del rischio di produrre molte etiche frammentate e frammentarie, eccessivamente specialistiche, le quali si conferiscano, ciascuna per sé, uno statuto interno e delle norme rispetto alle quali si dovrebbe solo prendere atto, è alto e porterebbe in realtà ad abdicare al senso proprio dell’etica.
Per evitare questa chiusura e questo rischio è necessario tornare alla più vasta riflessione filosofica, per interrogarsi sulle finalità dell’agire e sulle modalità con cui agire e per non perdere di vista l’orizzonte più vasto del significato dell’esperienza morale in quanto tale: «Dall’analisi di ciò che l’uomo è si può comprendere cosa sia bene per l’uomo. Tale analisi può essere condotta proprio grazie alla comprensione delle inclinazioni umane attraverso la ragione pratica che si applica all’esperienza concreta» .
L’intensità dell’appello etico che il presente ci rivolge esorta l’uomo a riappropriarsi della propria costitutiva responsabilità morale, a conciliare, per il tramite della responsabilità e di una coscienza creativa, la dimensione universale e astratta di principi e norme con la dimensione, assai concreta, delle situazioni e delle decisioni quotidiane, a vivere in senso pieno la sua libertà di uomo.
L’uomo non è mai puramente esistenza, ma anche e sempre natura; l’individuo non è solo tale, ma anche espressione e realizzazione di un’essenza; esso è libero riguardo alla possibilità di realizzarsi o meno nel tempo, non è però libero riguardo alla sua natura né riguardo al suo fine.
La cultura è molteplice, ma la natura è una. Il problema della società multiculturale, da questo punto di vista, presenta la problematica dell’uno e del molteplice: o le culture sono fra loro contrapposte e finiscono col frammentarsi, impoverendosi man mano che si moltiplicano, oppure si arricchiscono reciprocamente, unificandosi attorno ad una realtà centrale e trascendente.
Questa realtà non può essere opera della cultura, poiché in questo caso non sarebbe che una delle sfaccettature della produzione umana. La natura non è opera della ragione: è data, è là. L’uomo nasce con essa. Essa è un dato che precede ogni pensiero e deve costituire la base concorde di tutti. Ora, il pensiero è necessariamente aperto al reale: è pensiero di ciò che è. Di conseguenza la cultura, che è opera del pensiero umano, deve essere essa stessa indissociabile dalla natura e da questa preceduta. Infatti, la cultura fa parte della natura dell’uomo che è animale razionale: «E’ proprio della natura umana il non poter raggiungere un livello di vita veramente e pienamente umano se non mediante la cultura, coltivando cioè i beni e i valori della natura. Perciò, ogniqualvolta si tratta della vita umana, natura e cultura sono quanto mai strettamente connesse. Con il termine generico di cultura si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l’uomo affina e sviluppa le molteplici capacità della sua anima e del suo corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale, sia nella famiglia che in tutta la società civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l’andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano» .
Ecco perché non possiamo accettare una pura etica della situazione, che neghi natura e leggi ed imperativi riferiti a questa natura. Un atto la cui struttura intrinseca contraddicesse la retta ragione e le esigenze della natura umana, non potrebbe mai essere scusato, anzi non bisogna farlo mai. Ma è pur vero che le regole universali non sempre bastano per determinare ciò che si debba fare in un dato caso. L’uomo, come natura esistente nel tempo, esiste in uno stato d’apertura, in un futuro dalle possibilità infinite. Suo compito e di non scomparire anonimo in esse, ma di realizzarle, di coglierle come possibilità proprie della sua esistenza. Ma ciò avviene in quanto egli le afferra nella definitività della decisione storicamente unica ed irrevocabile.
Mediante la decisione morale egli si determina storicamente, dandosi un volto invece che un altro. È attraverso questa decisione che egli diventa ciò che sarà. Ora la morale non ha solo una funzione negativa; essa non deve soltanto indicare ciò che assolutamente non va fatto; non ha solo il compito di mettere paletti, o di essere una ringhiera che impedisce all’uomo di cadere in un baratro, tanto per usare due immagini classiche applicate spesso alla funzione della legge morale.
Essa ha anche una funzione positiva: indicare come quella decisione mediante la quale l’uomo fissa il suo essere storicamente sia perfettamente adeguata a tutte le esigenze del momento. La morale ha il compito di condurre la persona ad un agire quanto più consono alla sua dignità, perché attinga ad una perfezione sempre più piena. Ma in questo senso la norma morale non è mai adeguata al particolare, poiché necessariamente ragiona in termini universali: «Non meno importante della ricerca in ambito teoretico è quella in ambito pratico: intendo alludere alla ricerca della verità in rapporto al bene da compiere. Con il proprio agire etico, infatti, la persona, operando secondo il suo libero e retto volere, si introduce nella strada della felicità e tende verso la perfezione. Anche in questo caso si tratta di verità. Se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancora prima l’obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta. È necessario, dunque, che i valori scelti e perseguiti con la propria vita siano veri, perché soltanto valori veri possono perfezionare la persona realizzandone la natura. Questa verità dei valori, l’uomo la trova non rinchiudendosi in se stesso ma aprendosi ad accoglierla anche nelle dimensioni che la trascendono. È questa una condizione necessaria perché ognuno diventi se stesso e cresca come persona adulta e matura» .
In questo senso è necessario riproporre il diritto naturale come suprema istanza degli atti della persona: «La legge naturale è la sorgente da cui scaturiscono, insieme a diritti fondamentali, anche imperativi etici che è doveroso onorare. Nell’attuale etica e filosofia del diritto, sono largamente diffusi i postulati del positivismo giuridico. La conseguenza è che la legislazione diventa spesso solo un compromesso tra diversi interessi: si cerca di trasformare in diritti interessi privati o desideri che stridono con i doveri derivanti dalla responsabilità sociale. In questa situazione è opportuno ricordare che ogni ordinamento giuridico, a livello sia interno che internazionale, trae ultimamente la sua legittimità dal radicamento nella legge naturale, nel messaggio etico iscritto nello stesso genere umano. La legge naturale è, in definitiva, il solo valido baluardo contro l’arbitrio del potere o gli inganni della manipolazione ideologica. La conoscenza di questa legge iscritta nel cuore dell’uomo aumenta con il progredire della coscienza morale» .
È fondamentale il rapporto tra gnoseologia (verità dell’uomo e del mondo) ed etica, fra antropologia e morale. Prima di capire cos’è bene e cos’è male, devo vedere che idea ho dell’uomo. Bisogna chiarire la natura, l’origine e il fine dell’uomo; ciò che è bene e ciò che è male in ordine al raggiungimento di quel fine.
L’uomo oggi, e spesso anche nel passato, è oggetto di riduzionismi: solo corporeità, affettività, spiritualità. Per quanto riguarda il metodo corriamo il rischio di scomporre l’uomo in tanti pezzi od organi e di perdere la visione d’insieme, fermandoci così solamente all’esperienza immediata, al presente. La visione ontologica postmoderna porta con sé tutti questi rischi perché pone la debolezza del pensiero a paradigma e matrice concettuale dell’agire
don Roberto Piemonte – robpiem@libero.it
Fede e ragione nell’era Ratzinger - di Luigi Vicinanza - © Copyright Il Centro, 4 luglio 2010 - http://paparatzinger3-blograffaella.blogspot.com
Via crucis. Un viaggio tra le spine e le croci della sua amata Chiesa quello che intraprende oggi Papa Ratzinger. Benvenuto a Sulmona, cittadina di antica spiritualità, poco più di un'ora di auto dalla capitale della cristianità. Ma qual è l'unità di misura per calcolare la distanza tra il Vaticano e quella parte del mondo cattolico sempre più disorientata di fronte alle notizie inquietanti che coinvolgono le gerarchie ecclesiastiche?
Celestino e Benedetto: l'incontro tra la Storia e l'attualità. Il pontefice di oggi ha ammesso con sofferenza che i pericoli più grandi per la Chiesa provengono dal suo stesso corpo: «Il danno maggiore lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità». Parole sincere quanto coraggiose. Che rimbalzano nel passato.
«Il popolo cristiano bada di più a quello che i preti o i frati fanno che a quello che essi dicono».
Così parla Pietro Angelerio dal Morrone, l'umile eremita diventato Celestino V. O almeno così lo fa parlare Ignazio Silone in «L'avventura di un povero cristiano». Lo scrittore marsicano - socialista senza partito, cristiano senza chiesa - dedicò nel 1968 il suo ultimo romanzo alla parabola del Papa del gran rifiuto. Ecco come in una Napoli medioevale, sotto la invadente protezione della corte angioina, l'anziano Celestino - secondo Silone - si rivolge ai chierici del tempo, così scettici e irridenti: «Il cristianesimo non è un modo di dire, ma un modo di vivere. E non si può decentemente predicare il cristianesimo agli altri, se non si vive da cristiani.
Questa è dunque la mia paterna avvertenza; predicatori miei cari, volete essere creduti? Cercate di essere dei buoni cristiani, fate il bene e fatelo di cuore. Non lo fate per furberia, non per tornaconto, non per essere popolari, non per far carriera».
Sette secoli dopo Benedetto XVI si ritrova a dover fronteggiare un potere gerarchico - di cui pure egli stesso è stato autorevole e influente esponente - restio alla trasparenza, resistente al principio di responsabilità, a volte compromesso con gruppi affaristici. Come il Pietro Angelerio del 1294 così il Joseph Ratzinger del 2010 si trova al bivio: le lusinghe della mondanità o la purezza dei principii. La carne e lo spirito.
Dante collocò Celestino V all’Inferno, nel girone degli ignavi, tacciandolo di viltà. E però resta unico nella storia della Chiesa, Sommo Pontefice che in vita rinuncia al trono di Pietro. Simbolo eterno per i cristiani di un dilemma irrisolto: essere nel mondo senza essere del mondo. Santo sì, dunque, ma inquietante per il potere costituito. Eccolo dunque relegato con l’aiuto del tempo in una dimensione provinciale: venerato all’Aquila, ignorato a Roma.
Si comprende meglio - anche per chi è lontano dalla vita della Chiesa cattolica - il valore simbolico della visita odierna.
E’ il momento più alto delle celebrazioni celestiniane; mai in epoca recente un Papa ha celebrato in forma così solenne la figura dell’eremita del Morrone. E’ la scelta di Ratzinger, il teologo che intende coniugare fede e ragione, due mondi tuttora separati. Suscitando incomprensioni e polemiche. Notevole lo sforzo di modernizzazione compiuto con l’ultima enciclica, complesso lavoro di aggiornamento delle posizioni della Chiesa rispetto ai conflitti sociali e allo sviluppo economico globalizzato del nuovo millennio: la dottrina sociale - si afferma - è «aperta alla verità da qualsiasi parte provenga». («Caritas in veritate», 9). Chi ha il dono della fede e chi esercita il laico dubbio: come non essere d’accordo?
Se durante il pontificato di Giovanni Paolo II ha prevalso la presenza fisica del Pastore di Roma tra le folle osannanti del mondo, in Benedetto XVI sembra prevalere il peso della parola. Con le ambiguità e le insidie proprie di una società di comunicazione di massa abituata a messaggi semplificati e iperveloci. Oggi però è il gesto stesso - la giubilazione di Celestino - a prevalere sul ragionamento. E’ una giornata da ricordare. Non solo in Abruzzo. Benvenuto Benedetto.
© Copyright Il Centro, 4 luglio 2010
PILLOLA ABORTIVA (RU 486): UN DELITTO IN SOLITUDINE - del prof. Giuseppe Noia* - *Giuseppe Noia è professore di Ginecologia e Ostetricia e Chirurgia Fetale Invasiva all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, Responsabile del Centro Diagnosi e Terapia Fetale - Day Hospital di Ginecologia del Policlinico Agostino Gemelli di Roma. Vicepresidente de “La Quercia Millenaria”, è autore di decine di libri e saggi, tra cui "Le terapie fetali invasive" e "Terapie fetali", e co-autore del libro "Il figlio terminale".
ROMA, domenica, 4 luglio 2010 (ZENIT.org).- Uno dei teoremi più diffusi e radicati nel mondo medico e nella cultura popolare è quello di pensare che l’aborto volontario sia meno traumatico se effettuato nelle epoche precoci della gravidanza, consegnando così la pratica abortiva (e tra queste la RU486, detta anche la “pillola di Erode”) al criterio della “proporzionalità traumatica”: più piccolo è l’embrione, più sicuro e più accettabile è l’aborto, con minori conseguenze per la donna.
La sicurezza della pratica abortiva, da togliere alla clandestinità e al privato per consegnarla al mondo della Sanità pubblica, è stato uno dei capisaldi della legge 194.
Abbiamo assistito negli ultimi vent’anni, anche nel campo del prenatale, a una corsa vertiginosa all’anticipazione della diagnosi: il prelievo dei villi coriali (10-12 settimane) al posto dell’amniocentesi, il bi-test al posto del tri-test, la valutazione del liquido retronucale, fatta precocemente fra nove e quattordici settimane di gestazione, esprimono il diffuso atteggiamento dell’anticipazione temporale che insegue la “sindrome del feto perfetto”.
Tale sindrome non è scritta in alcun libro, ma oggi la respiriamo profondamente tutti ed è caratterizzata da un iter compulsivo di esami diagnostici sempre più precoci e sempre più ansiogeni: è il teorema della “proporzionalità traumatica”, l’idea, cioè, che la diagnosi precoce di un’anomalia corrisponda a una scelta più precoce e, in caso di malformazione, a una scelta abortiva meno traumatica sul piano fisico e psichico.
E’ ovvio che sul piano fisico-biologico la precocità dell’interruzione possa essere gravata da minori complicazioni. Ma quando parliamo della persona umana la sicurezza non può essere valutata solo sotto l’aspetto della tecnica abortiva e degli aspetti fisico-biologici: la salute psichica delle donne è un fatto riconosciuto da tutti come estremamente importante, e per la sua salvaguardia viene invocato il diritto all’interruzione di gravidanza dopo i 90 giorni.
Mi chiedo allora: come si può continuare ad accettare, nella prassi medica soprattutto, il criterio di proporzionalità traumatica quando tutta la letteratura scientifica evidenzia la devastante conflittualità psicologica post-abortiva, quando l’elaborazione del lutto (anche di aborti precoci e spontanei) è la causa di depressioni profonde, di perdita di libido, di infertilità e di perdita di capacità gestazionale successiva, quando nei nostri studi le donne ci gridano che la perdita di un figlio non è proporzionale al suo peso in grammi o alla sua lunghezza?
Il tasso di sofferenza che evidenziano le donne dopo un aborto, in effetti, non è altro che la dimostrazione esperienziale di una evidenza profonda che il mondo medico si rifiuta di vedere o di cui non valuta la reale gravità: che, cioè, si può interrompere una percezione biologica, ma non è possibile eliminare quella psichica né anticiparla. In definitiva, il vissuto relazionale col proprio figlio non viene eliminato con l’eliminazione dell’embrione.
La RU486 riconduce la pratica abortiva volontaria sotto l’apparente finalità della precocità e della sicurezza (il 13% richiede un’evacuazione chirurgica, si veda Ojidu JI et all., J. Obstet. Gynacol. 2001) nel tunnel dell’aborto fai-da-te (Faucher P. et all., Gynecol. Onstet Fertil. 2005), invertendo e contraddicendo le motivazioni storiche e psico-sociali che hanno motivato fortemente la legge 194: un aborto privato, per quanto precoce e sicuro sia, aggiunge solitudine a solitudine. Inoltre, mentre nell’aborto chirurgico l’interruzione di gravidanza viene delegata tecnicamente a una terza persona, nell’aborto chimico da RU486 è la stessa madre che si autosomministra il veleno che ucciderà il proprio figlio.
Gli effetti fisici sono gli stessi di un aborto chirurgico eseguito in anestesia: contrazioni, espulsione, emorragia, ma con la RU486 la donna vive tutto questo in diretta, senza neanche l’assistenza medica. E’ il massimo della responsabilizzazione psicologica!!
Colgo queste profonde contraddizioni di tipo scientifico, etico e umano nel momento in cui si vorrebbe un uso estensivo dell’aborto farmacologico alla società italiana, già pesantemente colpita da un malessere diffuso che ci fa assistere, sempre più frequentemente, a malattie dell’anima e della psiche, e in cui, purtroppo, i protagonisti sono spesso una madre e un figlio, la diade preziosa che la cultura pseudo-scientifica sembra voler sempre più separare e dividere.
Avvenire.it, 3 Luglio 2010 IDEE - Come parlare con Dio faccia a faccia - Vittorio Possenti
«Dio non morirà il giorno in cui noi non crederemo più in una divinità personale, ma saremo noi a morire il giorno in cui la nostra vita non sarà più pervasa dallo splendore del miracolo sempre rinnovato, le cui fonti sono oltre ogni ragione». Così Dag Hammarskjöld nel 1950 quando in un Occidente che camminava spedito verso il deserto del secolarismo, si diffondeva l’idea che Dio e la religione fossero cose del passato, inesorabilmente travolte dalla modernità. Era allora l’epoca in cui una parte della cultura, che si autopromuoveva ad avanguardia, teneva fermo che l’ateismo fosse il destino più certo della modernità. Diventava allora difficile pensare ad un atrio dei gentili, perché la <+corsivo>notitia Dei<+tondo> pericolava, ben più grave che altrove era l’eclissi di Dio, e l’invocazione al Dio ignoto della coscienza più flebile. Mezzo secolo più tardi si è iniziato a parlare di epoca postsecolare, mentre indietreggia nel passato la tesi di un cammino verso un tempo postreligioso. Il declino o almeno la privatizzazione della religione non sono più certi, ma alta risuona la domanda su come ricominciare a parlare di Dio. L’eclissi di Dio non terminerà se non inizieremo di nuovo ad annunciarlo: come farlo?
Questo è il punto centrale in cui ogni equivoco si paga caro, in specie per noi occidentali che abbiamo introiettato i metodi delle scienze, oggettivanti e neutri, che reificano tutto ciò che toccano. Ma Dio non è un oggetto che possa essere misurato da strumenti, né cade sotto la presa di una gnoseologia scientistica. Dio non può farsi noto attraverso la gabbia di acciaio della razionalità strumentale ed i nuovi atei sono troppo convinti di aver ragione per averla veramente: hanno adottato uno schema di conoscenza talmente ristretto da perdere quasi tutta la realtà. Bisogna ripartire dall’esperienza umana basale che nelle sue luci e nelle sue ombre porta significati trascendenti, per riprendere a parlare di lui: esperienza della vita e della morte, dell’amore e degli affetti, del bene e del male, della paternità e della figliolanza.
Per ricominciare a parlare di Dio abbiamo bisogno di testimoni affidabili che liberino la nostra anima dal carcere in cui si trova rinchiusa, dall’affanno dell’azione, dallo stordimento dell’inessenziale. Questi testimoni sono i mistici che sulla scorta dell’amicizia con Dio, ce lo fanno sentire vicino. I mistici cristiani vissuti nell’epoca moderna non sono inferiori a quelli fioriti in epoca medievale. Nonostante questa considerazione, non è facile allontanare il sospetto che la cultura e la teologia cristiane, tinte in vario modo di razionalismo o subendone la pressione, non abbiano fatto dall’epoca del Concilio di Trento il dovuto spazio alla mistica e ne abbiano lasciato in sordina il problema per un lungo periodo. L’insistenza della Chiesa e della teologia moderne su quanto era considerato strettamente necessario alla salvezza, in particolare l’elemento etico e i doveri, distinguendolo da quanto veniva ritenuto facoltativo e supererogatorio, ha lasciato un poco in disparte la contemplazione e la via mistica. Sembrava ovvio che bastasse adempiere gli obblighi morali e che la via della sopramorale e della mistica evangelica fossero riservate a pochissimi, e così il richiamo alla perfezione e alla santità. La Chiesa del XX secolo e il Concilio hanno messo fine a questi equivoci, eppure un notevole cammino resta da compiere.
L’uomo desidera conoscere Dio, chiamandolo per nome. Nessun desiderio umano è tanto grande come questo e nessuno è più difficile per l’uomo. Dio è uno, nessuno e centomila, una realtà sfuggente e misteriosissima: forse il Nome assoluto, il Nome autentico di Dio lo conosce solo Lui, noi conosciamo i suoi molti nomi e da millenni continuiamo a chiedere come si articoli il suo Vero e Unico Nome.
Vi sono certo dei linguaggi non verbali che possono aiutare a "dire Dio", e tra questi la musica con la sua capacità di alludere all’invisibile e allo spirituale. Parlo della grande musica, non della musica prevalente nel contemporaneo, spesso semplice prodotto di consumo, segnata in senso materialistico, in quanto portata ad esprimere solo l’immediatezza delle pulsioni umane più basali. Ma meglio ancora è l’esperienza mistica di Dio che non nasce dallo sforzo dell’uomo ma dalla grazia dello Spirito santo infusa nei nostri cuori. È un’unione d’amore tra l’amato e l’amante, in cui il soggetto umano esperisce le profondità di Dio e ce ne comunica qualcosa, aiutandoci a ricominciare a parlare di Dio. Le scoperte dei mistici su Dio e la vita spirituale non hanno perso il loro significato.
Dag Hammarskjöld attingeva ispirazione ai mistici medievali (Eckhart, Taulero, Suso, Caterina da Siena, Giuliana di Norwich), a san Giovanni della Croce, a santa Teresa d’Avila, a L’imitazione di Cristo. Egli tendeva a dimenticare il proprio io e agire come uno strumento di Dio. Scrisse di sé: «La spiegazione di come l’uomo debba vivere una vita di servizio attivo verso la società in completa armonia con se stesso, l’ho trovata negli scritti di quei grandi mistici medievali per i quali "la sottomissione" è stata la via della realizzazione di sé e che hanno trovato nell’"onestà della mente" e nell’ "interiorità" la forza di dire di sì a ogni richiesta che i bisogni del loro prossimo mettevano loro davanti, e di dire sì a qualsiasi destino la vita avesse in serbo per loro». Nel 1954, l’anno dopo quello in cui divenne segretario generale dell’Onu, vergò queste righe: «Possa tutto il mio essere volgersi a tua gloria/ e possa io non disperare mai/ Perché io sono sotto la tua mano/ E in te è ogni forza e bontà». Proprio di questo Dio, vicino e affidabile, si deve ricominciare a parlare.
Vittorio Possenti