Nella rassegna stampa di oggi:
1) BENEDETTO XVI: DEL CRISTIANO, "UN CUORE CHE VEDE" IL PROSSIMO - Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
2) I VERI VINCITORI DEL GIOCO D’AZZARDO - Un rapporto australiano auspica alcune riforme - di padre John Flynn, LC
3) ANCHE IN BIOETICA NON SI RISPONDE ALLE DOMANDE DI SENSO - Intervista al neonatologo Carlo Bellieni - di Antonio Gaspari
4) Per papa Benedetto l'orribile 2010 è anno di grazia - Penitenza, perdono e nuova evangelizzazione. Come e più che nel Giubileo del 2000. Un raffronto sorprendente. Con un'intervista del cardinale Ruini - di Sandro Magister
5) "UN RITORNO ALLE ORIGINI DEL CRISTIANESIMO" - Intervista con Camillo Ruini
6) Eroi della fede - nell’anno di grazia 2010 - di Mario Mauro - Il Sussidiario.net venerdì 9 luglio 2010
7) Vescovo della chiesa clandestina - liberato dopo 15 mesi - di Wang Zhicheng - AsiaNews 08/07/2010
8) I CASI DI PEDOFILIA E LA LEZIONE DEL DIRITTO - Mai confondere i reati con la missione della Chiesa - FRANCESCO D’AGOSTINO - © Copyright Avvenire, 11 luglio 2010
9) Se non si parla più di eutanasia - La posta in gioco - di Ferdinando Cancelli - (©L'Osservatore Romano - 11 luglio 2010)
10) Il mistero della redenzione dal «Convivio» - alla «Divina Commedia» (passando per san Tommaso) - Come si rimargina la ferita dell'origine - di Giovanni Di Giannatale - (©L'Osservatore Romano - 11 luglio 2010)
11) Vacanze divine…- Antonio Socci, da Libero, 11 luglio 2010
12) Avvenire.it, 10 luglio 2010 - IL CARTOON - Il kolossal «Toy Story 3» una lezione per il cinema - Alessandra De Luca
13) San Benedetto e la Croce Medaglia - Carlo Di Pietro – dal sito pontifex.roma.it
14) Massimo Introvigne: 11 luglio, l'Europa celebra San Benedetto
BENEDETTO XVI: DEL CRISTIANO, "UN CUORE CHE VEDE" IL PROSSIMO - Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
CASTEL GANDOLFO, domenica, 11 luglio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole che Benedetto XVI ha pronunciato questa domenica in occasione della recita dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riunittisi nel cortile interno del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
Da qualche giorno - come vedete - ho lasciato Roma per il soggiorno estivo di Castel Gandolfo. Ringrazio Dio che mi offre questa possibilità di riposo. Ai cari abitanti di questa bella cittadina, dove torno sempre volentieri, rivolgo il mio cordiale saluto. Il Vangelo di questa domenica si apre con la domanda che un dottore della Legge pone a Gesù: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (Lc 10,25). Sapendolo esperto nelle Sacre Scritture, il Signore invita quell’uomo a dare lui stesso la risposta, che, infatti, egli formula perfettamente, citando i due comandamenti principali: amare Dio con tutto il cuore, tutta la mente e tutte le forze, e amare il prossimo come se stessi. Allora il dottore della Legge, quasi per giustificarsi, chiede: "E chi è mio prossimo?" (Lc 10,29). Questa volta, Gesù risponde con la celebre parabola del "buon Samaritano" (cfr Lc 10,30-37), per indicare che sta a noi farci "prossimo" di chiunque abbia bisogno di aiuto. Il Samaritano, infatti, si fa carico della condizione di uno sconosciuto, che i briganti hanno lasciato mezzo morto lungo la strada; mentre un sacerdote e un levita erano passati oltre, forse pensando che a contatto con il sangue, in base ad un precetto, si sarebbero contaminati. La parabola, pertanto, deve indurci a trasformare la nostra mentalità secondo la logica di Cristo, che è la logica della carità: Dio è amore, e rendergli culto significa servire i fratelli con amore sincero e generoso.
Questo racconto evangelico offre il "criterio di misura", cioè "l’universalità dell’amore che si volge verso il bisognoso incontrato «per caso» (cfr Lc 10,31), chiunque egli sia" (Enc. Deus caritas est, 25). Accanto a questa regola universale, vi è anche un’esigenza specificamente ecclesiale: che "nella Chiesa stessa, in quanto famiglia, nessun membro soffra perché nel bisogno" (ibid.). Il programma del cristiano, appreso dall’insegnamento di Gesù, è "un cuore che vede" dove c’è bisogno di amore, e agisce in modo conseguente (cfr ivi, 31).
Cari amici, desidero anche ricordare che oggi la Chiesa fa memoria di san Benedetto da Norcia - il grande Patrono del mio Pontificato - padre e legislatore del monachesimo occidentale. Egli, come narra san Gregorio Magno, "fu un uomo di vita santa … di nome e per grazia" (Dialogi, II, 1: Bibliotheca Gregorii Magni IV, Roma 2000, p. 136). "Scrisse una Regola per i monaci … specchio di un magistero incarnato nella sua persona: infatti il santo non poté nel modo più assoluto insegnare diversamente da come visse" (Ivi, II, XXXVI: cit., p. 208). Il Papa Paolo VI proclamò san Benedetto Patrono d’Europa il 24 ottobre 1964, riconoscendone l’opera meravigliosa svolta per la formazione della civiltà europea.
Affidiamo alla Vergine Maria il nostro cammino di fede e, in particolare, questo tempo di vacanze, affinché i nostri cuori non perdano mai di vista la Parola di Dio e i fratelli in difficoltà.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Saluto infine con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare le Suore Apostole del Sacro Cuore di Gesù, in occasione del loro Capitolo Generale. Care Sorelle, prego per voi e vi incoraggio a diffondere l’amore e la devozione al Cuore di Cristo testimoniandolo nei vari campi in cui siete attive: educazione, sanità, pastorale giovanile e familiare, opere sociali per i migranti e i poveri. Saluto l’associazione culturale "La Stella", di Villa Castelli; ed auguro a tutti una buona domenica.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]
I VERI VINCITORI DEL GIOCO D’AZZARDO - Un rapporto australiano auspica alcune riforme - di padre John Flynn, LC
ROMA, domenica, 11 luglio 2010 (ZENIT.org).- Recentemente, in Canada, sono stati vinti 50 milioni di dollari, ma mentre alcuni vincono, altri continuano a discutere sull’impatto sociale del gioco d’azzardo.
Per esempio, nel Massachusetts, il Senato continua a discutere sulla proposta di autorizzare l’apertura di tre casinò nello Stato. I sostenitori della proposta sostengono che ciò creerebbe posti di lavoro e impedirebbe alla gente del luogo di doversi spostare in altri Stati per spendere i soldi, secondo quanto riferito dal Boston Globe il 23 giugno.
Chi si oppone alla proposta, invece, si preoccupa degli effetti collaterali, come la presenza di giocatori problematici e di fenomeni di criminalità e di tossicodipendenza. Dopo sette anni di discussione sulla proposta, il 30 giugno, il Presidente del Senato Therese Murray ha detto che non saranno ammesse altre dilazioni, secondo quanto riferito lo stesso giorno dal Boston Herald.
Nella notte del 1° luglio il Senato ha approvato la proposta sui tre casinò, come ha riferito il Boston Globe il giorno seguente. Ora non resta che coordinare il testo approvato dal Senato con quello approvato dalla Camera lo scorso aprile.
Molti giocatori si lasciano tentare dall’idea di facili guadagni, ma le probabilità di vincita risultano piuttosto scarse, come ha sottolineato un articolo pubblicato prima dell’estrazione della lotteria canadese.
Il 4 giugno, il montepremi della lotteria Lotto Max era arrivato a 50 milioni di dollari (37,6 milioni di euro), non essendoci stati vincitori. Tuttavia, sebbene nessuno avesse vinto, i canadesi avevano comunque speso più di 60 milioni di dollari (45 milioni di euro) per i biglietti, come ha sottolineato il National Post il 24 giugno.
La settimana precedente alla vincita, altri 124 milioni di dollari (93,2 milioni di euro) erano stati spesi per comprare biglietti, nel vano tentativo di aggiudicarsi il premio.
Come evidenziato nell’articolo, il possessore di un biglietto ha una probabilità su 620.000 di vincere uno dei premi in palio, e una probabilità su 28 milioni di vincere il primo premio.
Secondo i matematici citati nell’articolo, è più facile essere colpiti da un fulmine tre volte nella propria vita, o fare uscire croce con una moneta 25 volte di seguito, piuttosto che riuscire a vincere il premio.
I veri vincitori
I veri vincitori di questi giochi sono gli Stati e gestori dell’industria delle scommesse. Come sottolineato dal Wall Street Journal in un articolo pubblicato l’11 maggio, la recessione sta spingendo i governi a fare maggiore leva sui vizi, per cercare di fare cassa di fronte ai forti deficit di bilancio.
Nell’Ohio, dopo anni di opposizione al gioco d’azzardo, si è ceduto, consentendo l’apertura di un casinò che sarà collocato al posto di un impianto automobilistico. Intanto a Oakland, in California, si è iniziato a tassare la vendita di marijuana a scopi terapeutici e altri Stati sanno considerando l’opportunità di legalizzarne la vendita. Altri hanno allentato le leggi sul divieto domenicale di vendita di alcolici. Secondo il Journal, circa una dozzina di Stati hanno recentemente discusso o approvato programmi per allentare le restrizioni al gioco d’azzardo.
Poi ci sono i club e i casinò. La situazione australiana è stata illustrata in un articolo apparso il 10 marzo sul quotidiano Sydney Morning Herald.
I club della zona più popolosa dello Stato del New South Wales hanno ammesso che quasi 800 milioni di dollari (542 milioni di euro) dei loro ricavi, ovvero circa il 40% degli introiti delle slot-machine, potrebbe provenire da giocatori problematici, come ha riferito l’articolo.
Le preoccupazioni sugli effetti del gioco hanno indotto la Australian Productivity Commission a svolgere uno studio, che è stato pubblicato dal governo federale il 23 giugno.
Gli australiani sono sempre stati giocatori accaniti, ma come spiega il rapporto le leggi di liberalizzazione, emanate negli anni ’90, hanno portato ad una rapida espansione delle occasioni per scommettere.
Infatti, la spesa totale (ovvero le perdite della gente) in Australia è stata di più di 19 miliardi di dollari nel 2008-2009, con una media di 1.500 dollari (1.000 euro) per scommettitore.
Per i poco più di 21 milioni di abitanti del Paese, nel periodo 2008-2009 figuravano 5.700, tra hotel e club, che offrivano occasioni per giocare. Inoltre, figuravano 4.500 centri TAB (Totalizator Agency Board), dove si scommette sulle corse e sugli sport, nonché 4.700 centri di lotterie e 13 casinò.
In conseguenza dell’allentamento della normativa, la quota di spesa in slot-machine e casinò è aumentata dal 40% del 1986-87, al 75% del 2006-2007. In Australia, nel 2009, figuravano 198.300 giochi d’azzardo elettronici (EGM), di cui 97.065 solo nel New South Wales.
I ricavi
L’importanza del gioco come fonte di entrata è resa chiaramente evidente dai dati pubblicati nel rapporto. Gli hotel traggono il 28% dei loro redditi dai proventi del gioco, i club il 61% e i casinò il 78%.
Il ricavo annuale dalle EGM, nel periodo 2008-2009, è stato di circa 59.700 dollari (40.400 euro). La perdita annuale media per chi scommette con le EGM è stata di circa 3.700 dollari (2.500 euro) nel New South Wales, di 3.100 dollari (2.100 euro) nel Victoria e di 1.800 dollari (1.200 euro) nel Queensland.
L’espansione del settore è stata una manna per i governi, per i quali oggi il gioco è diventato una delle principali fonti di entrata. Le entrate fiscali statali derivanti dalle scommesse sono state di 5 miliardi (3,4 miliardi di euro) nel 2008-2009: il 10% delle entrate fiscali totali. Lo Stato di Victoria ha fatto registrare la più alta dipendenza, con un 13%.
Per quanto riguarda i problemi derivanti dalle scommesse, il rapporto sostiene che per la maggioranza delle persone il gioco rappresenta un piacevole momento per rilassarsi e che molte forme d’azzardo non comportano grandi rischi.
Esiste tuttavia una notevole preoccupazione per le persone che giocano regolarmente alle poker machine. Le EGM rappresentano in fatti il 62% delle spese totali nel gioco d’azzardo. Secondo il rapporto, circa 600.000 persone giocano almeno settimanalmente. I dati variano, ma i sondaggi mostrano che circa il 15% di questi giocatori – ovvero 95.000 persone – sono giocatori problematici.
Se messi a raffronto con l’intera popolazione adulta, questi rappresentano una quota di circa lo 0,7% / 1,7%. Sembrerebbe un numero piuttosto irrilevante e infatti il rapporto osserva che taluni dell’industria del gioco usano questo dato per sostenere che si tratta di una questione marginale.
Ma il dato non è così irrilevante, sostiene il rapporto, se collocato nel suo contesto. Per esempio, solo circa lo 0,15% della popolazione viene ricoverato in ospedale ogni anno per incidenti stradali, e circa lo 0,2% è stimato di aver fatto uso di eroina nell’anno precedente. “Piccole percentuali di popolazione non equivale a piccoli problemi per la società”, asserisce la Commissione.
I danni
I danni derivanti dal gioco problematico comprendono il suicidio, la depressione, la rottura dei rapporti interpersonali, minore produttività del lavoro, disoccupazione, fallimenti e criminalità, secondo il rapporto.
Da un studio del 2008 risulta che il gioco d’azzardo rappresenta il principale motivo di frode e che la perdita media per incidente è di 1,1 milioni di dollari (750.000 euro).
In aggiunta, il gioco problematico presenta ciò che il rapporto definisce come “effetti striscianti”. Ogni giocatore problematico produce effetti su altre persone che possono essere familiari, amici e colleghi.
Secondo un recente sondaggio svolto nello Stato di Tasmania, la metà degli intervistati ha detto di conoscere personalmente qualcuno che stava attraversando gravi problemi legati al gioco.
Non è facile quantificare esattamente in termini economici la problematicità del gioco d’azzardo, ammette il rapporto. Tuttavia, secondo alcune stime prudenti, il costi ammontano a diversi miliardi di dollari l’anno.
Il rapporto riconosce che nell’ultimo decennio i governi hanno introdotto normative dirette a ridurre l’impatto negativo delle scommesse. Ma, al riguardo, la Commissione ha auspicato una politica più coerente ed efficace.
In particolare il rapporto suggerisce alcune misure concrete tra cui quella di ridurre la velocità di operazione delle poker machine. Infatti, se si gioca ad alta velocità si può perdere anche 1.500 dollari (1.000 euro) in un ora.
Altri accorgimenti che potrebbero migliorare la situazione potrebbero essere quello di limitare la quantità di denaro che un giocatore può immettere nella macchina per ogni giocata, o quello di limitare il numero delle giocate che è possibile fare in un periodo di tempo.
Inoltre, allontanare i bancomat dai luoghi del gioco d’azzardo o imporre un limite di prelievo presso tali luoghi potrebbe contribuire ad aiutare i giocatori a porsi un limite, aggiunge il rapporto.
I ricavi del gioco d’azzardo fanno gola ai governi che cercano facili soluzioni ai loro problemi di bilancio, ma rappresentano un pesante costo per molte famiglie e per la società nel suo insieme.
ANCHE IN BIOETICA NON SI RISPONDE ALLE DOMANDE DI SENSO - Intervista al neonatologo Carlo Bellieni - di Antonio Gaspari
ROMA, domenica, 11 luglio 2010 (ZENIT.org).- Il prof. Carlo Bellieni, neonatologo e bioeticista, ha recentemente pubblicato sull’Osservatore Romano un editoriale dal titolo “Tante tecniche ma poche ragioni” in cui affronta i problemi scottanti della bioetica da un punto di vista innovativo.
Secondo il prof. Bellieni i mezzi di comunicazioni di massa si preoccupano di fornire risposte tecniche, utilitaristiche, commerciali ai problemi di bioetica, invece di approfondire e trovare le risposte alle domande di senso che crescono sempre di più.
ZENIT lo ha intervistato.
Prof. Bellieni, ci vuole parlare di cosa intende dire quando parla di un’etica delle conseguenze?
Bellieni: Si tratta del fatto che chi determina il dibattito sulla bioetica nei mass media, evita di porre assolutamente l’accento sulla prevenzione dei fenomeni, moltiplicando il peso in spazio concesso ai possibili “rimedi” che l’industria produce a piè sospinto. Ad esempio tutti finiamo per dividerci tra “proibizionisti” e “non proibizionisti” sul tema della droga, ma nessuno si interroga sul perché ci si droga. E così si finisce per far sembrare che il problema si risolva o con la prigione o con lo spinello libero. Mentre il problema è più profondo, tocca l’animo dei giovani, che non hanno più un senso per vivere e finiscono nello sballo solo perché nessuno li aiuta a pensare. E questo livello di dibattito, censurato, quello sulle motivazioni, è quello che interessa il mondo laico, in cui troviamo molti alleati.
Ci può fare altri esempi?
Bellieni: L’eutanasia segue lo stesso criterio: sui giornali trova spazio solo il dibattito sulle modalità di esprimere le “ultime volontà”, e nessuno si domanda perché un anziano o un malato chiedono di morire, a fronte di mille altri che nelle stesse condizioni non lo fanno. Ambiente poco stimolante? Depressione non curata? La ricerca scientifica ci spinge a cercare in questo senso, ma sui media questo non appare. Se invece affrontiamo così il problema, non solo troviamo inaspettati alleati tanti scienziati, ma aiutiamo ancor più la popolazione.
Come contrastare questa censura?
Bellieni: Riconoscendola. E riconoscendo che non avviene per caso. E’ una corrente filosofica forte il consequenzialismo, branca dell’utilitarismo, che soppesa le azioni non per i valori che le animano, ma per le conseguenze che determinano. Ed evita che ci si interroghi proprio sui valori, che ormai –vorrebbero - non dovrebbero più interessare nessuno. Ma lascia insoddisfatti, ripeto, soprattutto gli studiosi medici, sociologi e biologi, delle cause dei problemi.
E’ una visione innovativa la sua, dato che tutti rischiamo di seguire il pensiero unico diffuso dai mezzi di comunicazione di massa.
Bellieni: Penso di sì, perché è un richiamo all’uso della ragione, che coniuga l’attenzione verso novità potenzialmente preoccupanti nel comportamento quotidiano, con l’attenzione alle motivazioni che ci spingono ad accettarle. Sottolineo che la ricerca delle cause non significa che ha meno valore la lotta delle conseguenze indesiderate e che fortunatamente c’è chi si dedica con fatica anche a questo versante di frontiera. Ma devono coesistere, altrimenti all’esercito di prima linea manca la fureria, le comunicazioni, la retroguardia, il genieri.
Lei fa l’esempio della procreazione.
Bellieni: certo, perché ci battiamo da anni per evitare le derive dei metodi procreativi artificiali e in Italia abbiamo avuto buoni risultati; ma se una minima parte delle pagine dei giornali dedicate ai dibattiti sui metodi fecondativi fosse dedicata a parlare di sterilità… Ma non ne parla nessuno, di come prevenirla, e finisce che nessuno sa che molte delle cause che impediscono di aver figli sono prevenibili, ma sui giornali si parla solo di come correre ai ripari, spesso quando è troppo tardi. Pensate invece come reagirebbe la gente se si impostasse il dibattito da questo versante: non più parlare solo di corse ai ripari, ma in primo luogo di come aiutare a superare i problemi alla radice. Ne troviamo già dei buoni esempi, di cui la Chiesa è maestra; ma devono essere fatti conoscere, aiutati, fatti crescere, diffusi, diventare cultura.
Per papa Benedetto l'orribile 2010 è anno di grazia - Penitenza, perdono e nuova evangelizzazione. Come e più che nel Giubileo del 2000. Un raffronto sorprendente. Con un'intervista del cardinale Ruini - di Sandro Magister
ROMA, 8 luglio 2010 – La via dolorosa della Chiesa di oggi fa da crudele contrasto con il glorioso tripudio del Giubileo del 2000, apogeo del pontificato di Giovanni Paolo II.
Eppure, se appena si scava in cosa fu davvero quell'anno di grazia, si scopre che la Chiesa di Benedetto XVI semplicemente ne realizza gli annunci.
Il Giubileo fu anno di pentimento e perdono. Di perdono dato e richiesto, per i tanti peccati dei figli della Chiesa nella storia. La prima domenica di Quaresima di quell'anno, il 12 marzo, papa Karol Wojtyla officiò sotto gli occhi del mondo una liturgia penitenziale senza precedenti. Per sette volte come i sette vizi capitali confessò le colpe commesse dai cristiani secolo dopo secolo, e per tutte chiese perdono a Dio. Sterminio degli eretici, persecuzione degli ebrei, guerre di religione, umiliazione delle donne...
Il volto dolente del papa, segnato dalla malattia, era l'icona di questo atto di pentimento. Il mondo lo guardò con rispetto. Con compiacimento, anche. Talora rincarando la pretesa: il papa avrebbe dovuto fare di più.
E in effetti, sui media mondiali, era questa la musica dominante. Bene faceva Giovanni Paolo II a umiliarsi per certe pagine nere della storia cristiana, ma ogni volta c'era chi pretendeva che doveva battersi il petto di più e per altro ancora. La lista non era mai bastante. Ripassando tutte le volte in cui papa Wojtyla chiese perdono per qualcosa, prima e dopo il Giubileo del 2000, si trova che lo fece per crociate, dittature, scismi, eresie, donne, ebrei, Galileo, guerre di religione, Lutero, Calvino, indios, ingiustizie, inquisizione, integralismo, islam, mafia, razzismo, Ruanda, schiavismo. E forse manca qualche voce. Di sicuro però mai chiese pubblicamente perdono per gli abusi sessuali sui bambini. Né si ricorda che qualcuno sia mai saltato su a rimproverargli questo silenzio, né tanto meno ad esigere che il papa aggiungesse alla lista la pedofilia.
Era solo dieci anni fa. Ma questo era lo spirito del tempo, dentro e fuori la Chiesa. Uno spirito poco attento allo scandalo dei giovanissimi abusati, nonostante fossero già esplosi in Austria il caso Groër, l'arcivescovo di Vienna colpito da accuse mai accertate, negli Stati Uniti il caso Bernardin, l'arcivescovo di Chicago falsamente accusato che perdonò il suo accusatore, e ovunque il caso Maciel, il fondatore dei Legionari di Cristo di cui si verificò poi la colpevolezza.
C'era però a Roma un cardinale che vedeva lontano, di nome Joseph Ratzinger.
Più che ai peccati dei cristiani del passato, sui quali il giudizio storico è sempre problematico, egli guardava ai peccati del presente. E tra questi egli ne vedeva alcuni che più di altri sporcavano il volto della Chiesa "santa", tanto più quando commessi da chierici.
Nel 2001, da prefetto della congregazione per la dottrina della fede, egli rese più stringenti le procedure con cui affrontare i casi di pedofilia tra il clero.
Quando nel 2002 negli Stati Uniti scoppiò lo scandalo in proporzioni clamorose, sostenne la linea del rigore.
Il venerdì santo del 2005, nello scrivere il testo dell'ultima Via Crucis del pontificato di Giovanni Paolo II, denunciò la "sporcizia" nella Chiesa con gli accenti di una lamentazione profetica.
Poche settimane dopo fu eletto papa e cinque anni dopo, nel decennale del Giubileo del 2000, lo scandalo della pedofilia investì la Chiesa e lui con un'asprezza senza precedenti.
Ebbene, sotto l'ondata travolgente delle accuse, Benedetto XVI ha fatto per le colpe dei cristiani di oggi quello che il Giubileo del 2000 fece per le colpe dei cristiani del passato.
Ha predicato che la più grande tribolazione per la Chiesa non nasce da fuori, ma dai peccati commessi dentro di lei.
Ha messo la Chiesa in stato penitenziale. Ha chiesto a tutti i cristiani di purificare sì la "memoria", ma più ancora la loro vita presente.
Ai cattolici dell'Irlanda, più di altri contagiati dallo scandalo, ha ordinato di far pulizia di tutto, di confessarsi spesso, di fare penitenza tutti i venerdì per un anno intero e ai loro vescovi e sacerdoti di sottoporsi a speciali esercizi spirituali.
Ai preti, soprattutto, ha dedicato una cura particolarissima. Prima ancora che le polemiche toccassero l'apice, Benedetto XVI ha indetto un Anno Sacerdotale per ravvivare nei chierici l'amore per la loro missione e la fedeltà ai loro impegni, castità compresa. Come modello di vita ha offerto loro l'esempio del santo Curato d'Ars, un umile curato di campagna nella Francia anticlericale dell'Ottocento, che passava le intere sue giornate nel confessionale, ad accogliere i peccatori e a perdonare.
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Ma il perdono non fu il solo elemento che caratterizzò il Giubileo del 2000. Giovanni Paolo II volle quell'Anno Santo soprattutto per ridare slancio all'evangelizzazione del mondo.
E anche qui, di nuovo, il pontificato di Benedetto XVI non è altro che l'attuazione sistematica di quel progetto.
Quale sia infatti la "priorità" che papa Ratzinger si è assegnata, come successore di Pietro, non è un mistero. L'ha ribadita lui stesso con queste parole, nella lettera ai vescovi di tutto il mondo del 10 marzo 2009:
"Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l'accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell'amore spinto sino alla fine, in Gesù Cristo crocifisso e risorto".
Benedetto XVI è talmente convinto che condurre gli uomini a Dio sia "la priorità suprema e fondamentale" della Chiesa e del successore di Pietro, che non solo ne ha fatto il centro della sua predicazione ma ne ha tratto la decisione di creare nella curia romana un dicastero espressamente finalizzato alla "nuova evangelizzazione" dei paesi dove è più marcata la moderna eclisse di Dio.
Il nuovo ufficio l'ha istituito lo scorso 30 giugno e lo stesso giorno ha chiamato a Roma, a occuparsi della selezione dei futuri vescovi in tutto il mondo, il cardinale canadese Marc Ouellet, teologo molto in sintonia con lui, ma soprattutto diretto conoscitore del Québec, una delle aree dell'Occidente in cui la scristianizzazione è avvenuta in forma più drammatica e repentina.
Tornando lo scorso autunno da un viaggio in un'altra delle regioni più scristianizzate, Praga e la Boemia, Benedetto XVI ha maturato anche un'altra idea: quella di istituire un simbolico "cortile dei gentili", chiamato come il cortile aperto ai pagani dell'antico tempio di Gerusalemme, nel quale aprire un dialogo con gli uomini più lontani da Dio.
Anche questo progetto sta prendendo corpo. Il papa l'ha affidato al suo ministro della cultura, l'arcivescovo Gianfranco Ravasi. Il "cortile dei gentili" sarà inaugurato a Parigi nel marzo del 2011 in tre sedi volutamente prive di ogni insegna religiosa: la Sorbona, l'Unesco e l'Académie Française. Vi hanno già aderito importanti personalità agnostiche e non credenti, a cominciare dalla psicoanalista e semiologa Julia Kristeva.
Quanto alle giovani generazioni, pupilla di Giovanni Paolo II, che per esse istituì le Giornate Mondiali della Gioventù delle quali la più grandiosa fu proprio quella del Giubileo, Benedetto XVI sa bene che il futuro della fede in Occidente si gioca in buona misura qui.
Anche in Italia, il paese d'Europa in cui la Chiesa continua ad avere una presenza solida e diffusa, già si intravedono i segnali del crollo. Un'indagine per "Il Regno" del professor Paolo Segatti, dell'Università di Milano, ha evidenziato il distacco nettissimo, tra i nati dopo il 1981, dalla pratica religiosa, dalla preghiera, dalla fede in Dio, dalla fiducia nella Chiesa.
Quando questi giovani avranno anch'essi dei figli, la trasmissione della fede cattolica alle future generazioni subirà una drastica cesura. Il "cortile dei gentili" dovrà far posto anche a loro.
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"UN RITORNO ALLE ORIGINI DEL CRISTIANESIMO" - Intervista con Camillo Ruini
Nel 2000 Camillo Ruini era il cardinale vicario di Giovanni Paolo II. Era il suo primo collaboratore a Roma e in Italia. Niente è andato perduto di quell'Anno Santo, dice: "Il pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, istituito in questi giorni da Benedetto XVI, ne è l'ultimo grande rilancio".
D. – Cardinale Ruini, che cosa è stato per la Chiesa il Giubileo del 2000?
R. – È stato per la Chiesa cattolica un tempo di straordinaria intensità, fortemente voluto e accuratamente preparato da Giovanni Paolo II, in particolare attraverso la lettera apostolica "Tertio millennio adveniente" che ha precisato il senso del Giubileo e scandito l'itinerario della sua preparazione. Nello spirito del Concilio Vaticano II, si è trattato di un ritorno alle origini, cioè di mettere al centro Gesù Cristo, cuore e fonte perenne della fede e della vita cristiana, in funzione di proporre il medesimo Cristo agli uomini del nostro tempo, quindi di quella nuova evangelizzazione che è l'anima del pontificato di Giovanni Paolo II, come già di Paolo VI e anzitutto del Concilio Vaticano II. Ad esempio, l'evento che più mi ha coinvolto, cioè la Giornata mondiale della gioventù a Tor Vergata, è stato il vertice del tentativo di evangelizzare e coinvolgere con Cristo i giovani, ossia il nuovo mondo che sta nascendo. Ma tanti altri eventi che hanno caratterizzato il grande Giubileo, dalla richiesta di perdono per i peccati dei membri della Chiesa alla memoria dei martiri del XX secolo, si iscrivono nella medesima prospettiva di evangelizzazione attraverso il ritorno alle sorgenti del cristianesimo.
D. – E che cosa resta di tutto ciò, dieci anni dopo?
R. – La sostanza rimane tutta: restare ancorati a Cristo e annunciare la fede in lui a tutti gli uomini, proponendola tutta intera, senza timori e senza omissioni. Certo, l'impressione è che oggi le condizioni siano meno favorevoli, ed effettivamente allora alcune grandi difficoltà erano ancora fuori dai nostri orizzonti, o comunque non apparivano centrali come oggi. Basti pensare all'11 settembre 2001, o all'irrompere di quella che amo chiamare la nuova questione antropologica, cioè la grande domanda, e la grande sfida, su chi è l'uomo: un semplice epifenomeno della natura o l'essere che, pur appartenendo alla natura, la supera infinitamente, con tutte le conseguenze che derivano dall'una o dall'altra alternativa. È normale, del resto, che il futuro sia imprevedibile: per definizione esso ci è nascosto, ma è anche sempre aperto, è il campo della libertà dell'uomo, e prima ancora della libertà di Dio, al di là di tutti i determinismi che pur esistono nella natura e nella storia. Perciò nei momenti difficili il cristiano non può disperare o rassegnarsi, deve piuttosto approfondire la sua conversione a Dio e ricavare da essa le energie per un impegno più forte.
D. – Giovanni Paolo II chiese perdono a Dio e al mondo per tutta una fila di colpe passate dei cristiani. Ma oggi le accuse alla Chiesa sono ancor più martellanti e mirate. E Benedetto XVI che fa?
R. – Con quella sua iniziativa Giovanni Paolo II sorprese anche il mondo ecclesiale. A molti parve un gesto gratuito, non necessario, e potenzialmente pericoloso, ma poi si è capito che non era così. In ogni caso egli chiese perdono per colpe commesse dai cristiani nel passato. Oggi è diverso. L'attenzione è focalizzata su alcune colpe non di ieri ma di oggi. Benedetto XVI riconosce i peccati commessi nel presente e per questi chiede perdono anzitutto a Dio e quindi anche ai fratelli nella Chiesa e nell'umanità. Il perdono implica la volontà di riparare il male causato alle vittime, richiede la fede e la conversione del cuore. Altra cosa è però l'atteggiamento di coloro che accusano la Chiesa per colpirla, non per una positiva volontà di costruire. Di fronte a questi attacchi occorre forza spirituale, non debolezza. Maritain affermava giustamente che la Chiesa non deve genuflettersi di fronte al mondo.
D. – Il Giubileo fu un grande appello alla conversione dei cuori e a un'autoriforma della Chiesa. Se ne vedono oggi i frutti? Quale riforma della Chiesa ha in mente Benedetto XVI?
R. – La riforma della Chiesa che Benedetto XVI vuole non è in primo luogo una riforma di strutture esteriori, di apparati organizzativi. La vera riforma riguarda anzitutto l'anima profonda della Chiesa, il suo rapporto con Dio. D'altra parte la parola "autoriforma" non è la più esatta: la Chiesa non può far da sé. Deve lasciarsi plasmare e riformare dall'alto, prendendo vita e forma dallo Spirito di Dio.
D. – L'anno giubilare fu anche l'anno della "Dominus Iesus", della riaffermazione di Gesù come unico salvatore del mondo, un documento che fu molto contestato. Ce n'era bisogno?
R. – Certamente. Ce n'era bisogno e ce n'è bisogno anche oggi. Semmai, si potrebbe dire che sia arrivato in ritardo, perché ormai da qualche decennio c'era, anche nella Chiesa, chi metteva in dubbio una verità, quella di Cristo unico salvatore, che per i credenti in Cristo è fondamentale e vorrei dire ovvia, dato che fa parte del messaggio cristiano primigenio. Il Nuovo Testamento è tutto centrato su questo: all'infuori di Gesù Cristo non c'è sotto il cielo altro nome nel quale gli uomini possano essere salvati.
D. – Ma il cristianesimo non è credibile se i cristiani si presentano al mondo disuniti. Che ne è oggi del cammino ecumenico di riconciliazione tra le Chiese?
R. – In dieci anni molti passi avanti sono stati compiuti, in particolare con le Chiese ortodosse e con quelle precalcedonesi d'Oriente, tutte di origine apostolica. Meno positivo è il bilancio con le Chiese uscite dalla riforma protestante. Le difficoltà principali su questo versante sono due. La prima è il progressivo allontanamento di queste Chiese dal modello apostolico quanto al modo di concepire e attuare i ministeri ecclesiastici. La seconda riguarda l'antropologia, le questioni su chi è l'uomo, sulla bioetica, sulla famiglia. Su entrambi questi fronti varie comunità protestanti hanno intrapreso un cammino di apparente modernizzazione che in realtà le porta sempre più lontane dal centro del cristianesimo.
D. – E con gli ebrei? E con l'islam? Giovanni Paolo II sognava un incontro sul Sinai fra le tre religioni...
R. – Con gli ebrei vi sono stati certamente dei progressi di sostanza, anche se in certi momenti tormentati da incomprensioni, errori procedurali e fraintendimenti. Con l'islam, rispetto al Giubileo di dieci anni fa, il quadro è stato segnato dall'11 settembre del 2001. Ma sia la Chiesa sia alcune componenti dell'islam hanno cercato e cercano di superare questa frattura e di giungere a una migliore comprensione reciproca. La convinzione comune è che abbiamo tutti il dovere di servire l'unità del genere umano, in un mondo sempre più piccolo e interdipendente, nel quale abbiamo sempre più bisogno gli uni degli altri.
Eroi della fede - nell’anno di grazia 2010 - di Mario Mauro - Il Sussidiario.net venerdì 9 luglio 2010
La liberazione di Mons. Giulio Jia Zhiguo, vescovo sotterraneo di Zhengding (Cina), avvenuta ieri mattina, è una bellissima notizia, che purtroppo non rappresenta alcun segnale di cambiamento da parte del regime comunista di Pechino. Monsignor Jia è infatti già stato arrestato parecchie volte e poi rilasciato dopo mesi.
Asianews riporta che durante questi periodi “egli viene segregato in una stanza e sottoposto a sessioni politiche personali, in cui si cerca di convincerlo a sottoscrivere l’appartenenza all’Associazione patriottica, l’organizzazione del Partito comunista che vuole edificare una chiesa nazionale senza legami con la Santa Sede”.
Martedì sera il vescovo, circondato da centinaia di suoi fedeli, ha potuto celebrare la Messa nella cattedrale del villaggio di Wuqiu, dove risiede.
Anche se Pechino ha pubblicato un piano di azione nazionale per la tutela dei diritti, il 2009 è stato in Cina, secondo il rapporto mondiale del gruppo Human Rights Watch, l’anno nero per i diritti umani e la democrazia. E il 2010 non è di certo iniziato meglio.
“La persecuzione contro cattolici, protestanti e le altre religioni” - scrive Bernardo Cervellera in un editoriale sui 60 anni della Repubblica popolare cinese, celebrati il 1° ottobre 2009 - “è avvenuta subito all’indomani della proclamazione della RPC. Fin dall’inizio, infatti, il maoismo si propone in modo programmatico di distruggere ogni religione come superstizione, o assorbirla come strumento di governo, controllata da organizzazioni alle dipendenze del partito. Così, da subito, personalità delle Chiese che lavoravano per il popolo - e che all’inizio avevano perfino guardato con simpatia l’arrivo dei comunisti” - “si trovano a resistere alla divinizzazione e all’assolutismo del potere, salvaguardando la libertà della propria coscienza”.
Spesso i religiosi vengono internati insieme agli altri oppositori politici nei Laogai, ovvero in campi di lavoro pensati per intimidire, indottrinare e, allo stesso tempo, fornire un enorme forza lavoro a costo zero. La «rieducazione» è un processo che avviene mediante «lezioni di studio» giornaliere che seguono i lavori forzati. Successivamente il detenuto è costretto a dichiarare pubblicamente le proprie colpe. Così nasce la «nuova persona socialista» che, al fine di mostrare la propria lealtà al partito, spesso denuncia i suoi amici e parenti. Secondo la corte amministrativa i cristiani sono colpevoli di «crimini contro lo Stato, organizzati durante gli incontri di un culto diabolico».
Ma nonostante l’oppressione in Cina accade qualcosa di incredibile. Delle vere e proprie catacombe resistono e anzi si espandono continuamente da 60 anni a questa parte. “Dall’incontro con vescovi e sacerdoti della Cina ci si accorge di essere davanti a una Chiesa giovane, dinamica, vibrante. È pure vero che si vede una Chiesa divisa e perseguitata, dove la fede è messa alla prova. Ma sebbene la Chiesa sia controllata, essa trasuda energia e vitalità… I cattolici in Cina sono forti nella fede e sapranno resistere alla persecuzione. Mi piacerebbe tanto poterli vedere un giorno vivere la loro fede in piena libertà, riuniti con la Chiesa universale”.
Le parole di Mons. Nugent, rappresentante della Santa Sede di Hong Kong, dimostrano come davvero la speranza cristiana è più forte di tutto e di tutti, anche di chi si serve del potere e dell’ideologia per cancellare la dimensione religiosa dell’uomo, che è la libertà da cui dipendono tutte le altre.
Vescovo della chiesa clandestina - liberato dopo 15 mesi - di Wang Zhicheng - AsiaNews 08/07/2010
Pechino (AsiaNews) – Mons. Giulio Jia Zhiguo, vescovo sotterraneo di Zhengding (Hebei) è stato liberato dopo 15 mesi di detenzione in un luogo sconosciuto. La sua liberazione è avvenuta ieri mattina. Ieri sera il vescovo, circondato da centinaia di suoi fedeli, ha potuto celebrare la Messa nella cattedrale del villaggio di Wuqiu (v. foto), dove risiede.
Non sono chiari i motivi del governo per la sua liberazione. In passato mons. Jia è stato spesso arrestato e poi rilasciato dopo mesi. In questi periodi egli viene segregato in una stanza e sottoposto a sessioni politiche personali, in cui si cerca di convincerlo a sottoscrivere l’appartenenza all’Associazione patriottica, l’organizzazione del Partito comunista che vuole edificare una chiesa nazionale senza legami con la Santa Sede.
Parlando con i suoi fedeli, mons. Jia ha spiegato che egli non ha per nulla deciso di appartenere all’Associazione patriottica, né di sottomettersi all’autorità del Consiglio dei vescovi ufficiali [una specie di conferenza episcopale, non riconosciuta dal Vaticano, perché mancante dei vescovi sotterranei].
Secondo fonti di AsiaNews, quest’ultimo suo arresto voleva colpire al cuore i tentativi del Vaticano nel voler riconciliare Chiesa ufficiale e sotterranea dell’Hebei, la regione a massima concentrazione di cattolici. Mons. Jia, vescovo sotterraneo, si era riconciliato con mons. Jang Taoran, vescovo di Shijiazhuang (Hebei), la diocesi ufficiale. I due vescovi si sono incontrati spesso e hanno cominciato a costruire un piano pastorale comune. Ma non appena l’Associazione patriottica lo ha scoperto, ha obbligato i due vescovi a non più incontrarsi e li ha messi sotto custodia della polizia 24 ore su 24. Secondo alcuni fedeli locali, la polizia avrebbe detto a mons. Jia Zhiguo che “questa unità [fra i due vescovi – ndr] è cattiva perché è voluta da una potenza straniera come il Vaticano. Se unità ci deve essere, deve avvenire attraverso il governo e l’Ap”. Data la resistenza di mons. Jia a sottoscrivere l’adesione all’Ap, la polizia si è messa a irridere il vescovo, dicendo che il governo metterà un altro vescovo al suo posto e che per lui “è tempo di andare in pensione, dato che è malato”.
Dopo ciò, mons. Jia è stato arrestato il 30 marzo 2009, in concomitanza con l’incontro in Vaticano della Commissione plenaria sulla Chiesa in Cina. All’epoca, il Vaticano aveva espresso “profondo dolore” per l’arresto di mons. Jia e per la situazione di altri vescovi e sacerdoti “privati della libertà”.
Con la sua liberazione, rimangono ancora sequestrati due vescovi sotterranei: mons. Giacomo Su Zhimin (diocesi di Baoding, Hebei), 76 anni, arrestato e scomparso dal 1996; mons. Cosma Shi Enxiang (diocesi di Yixian, Hebei), 87 anni, arrestato e scomparso il 13 aprile 2001. In prigtione o ai lavori forzati rimangono anche una decina di sacerdoti.
I CASI DI PEDOFILIA E LA LEZIONE DEL DIRITTO - Mai confondere i reati con la missione della Chiesa - FRANCESCO D’AGOSTINO - © Copyright Avvenire, 11 luglio 2010
Le numerose, reiterate accuse di pedofilia rivolte a sacerdoti e a vescovi sono così dolorose che si prova il desiderio di volgere il viso da un’altra parte, per chiudere la questione nel modo più rapido possibile e immaginabile e con un solo auspicio: che la giustizia faccia il suo corso. Che si svolgano tutte le indagini utili e necessarie. Nulla va coperto, niente va rimosso. Ci pensino i giudici, ci pensi lo Stato, con la massima severità possibile.
Si tolga alla Chiesa ogni immunità, si rovisti in ogni archivio, si aprano tutte le tombe. I colpevoli vanno puniti duramente, le vittime vanno indennizzate secondo giustizia. La Chiesa pensi a fare penitenza, come peraltro ha ribadito diverse volte, e con toni accorati, il Papa.
Tutto qui? No. Molti diranno che è troppo poco e continueranno a invocare ancora maggiore severità e indagini ancora più stringenti. Io penso piuttosto che sia arrivato il momento di riflettere su tutto l’insieme della questione pedofilia con una freddezza che non ci viene spontanea (data la dolorosità delle vicende), ma che pur tuttavia è indispensabile, se vogliamo capire davvero qualcosa di più di ciò che ci viene dettato dall’emotività, individuale e collettiva.
Le violenze pedofile sono insieme peccati e reati e come tali coinvolgono sia l’etica che il diritto. Diversamente da quanto predica da decenni e decenni il positivismo giuridico, etica e diritto non possono essere separati, come se appartenessero a sfere autonome di esperienza. La Chiesa l’ha sempre saputo. È maestra di morale ed è maestra di diritto e insegna, da sempre, che non si può togliere al diritto il suo radicamento etico. Ma essa insegna altresì che non si può nemmeno, nel nome del primato dell’etica, umiliare il diritto (e il diritto canonico in particolare).
Che cosa comporta tutto questo? Innanzi tutto, che bisogna prendere sul serio come il tempo opera sul diritto. Un peccato è sempre, a suo modo, atemporale, come ben sanno coloro in cui non riesce a spegnersi il rimorso per colpe lontane nel tempo. Non è così per un delitto, che si radica nel tempo: tranne casi estremi, il passare degli anni impone la prescrizione del reato. Mantenere attive accuse che concernono delitti commessi decenni e decenni addietro o rivolte contro (pretesi) criminali defunti da tempo è, per il diritto, un’assurdità. Il tempo cancella o rende comunque improponibili le prove. La morte dell’imputato o del condannato vanifica l’azione processuale o addirittura estingue il reato. Anche il trasformare le imputazioni penali in richieste civilistiche di risarcimento del danno (come si fa da anni in specie negli Stati Uniti) fa sorgere il fondato sospetto che si voglia lucrare su vicende che sono assolutamente odiose, ma il cui vero risarcimento non potrà mai avere un carattere esclusivamente monetario. Giungere, come si fa ormai da anni, a coinvolgere le diocesi per reati compiuti da sacerdoti è un’assurdità giuridica. La responsabilità penale è sempre e solo personale; per trascinare una diocesi davanti al giudice civile bisogna maliziosamente considerare la Chiesa come un’azienda e trattare i preti come dipendenti dei loro vescovi. Dopo la sentenza della Corte Suprema degli Usa, sostengono alcuni avvocati, un giudice americano potrà chiamare il Papa come testimone in un processo e – chissà-– addirittura imputarlo.
Incredibile.
I canonisti, in secoli di lavoro, hanno elaborato la teoria della Chiesa come ordinamento giuridico sovrano, responsabile davanti a Dio e a nessun altro. In quanto operano in questo 'secolo', cioè nella società civile, utilizzandone le strutture socio-economiche, i membri del clero sono ovviamente sottoposti alla legge dello Stato e soprattutto alla legge penale. In quanto però operano per la realizzazione del Regno di Dio, essi sono e devono sentirsi non vincolati dalla legge dello Stato, ma dalla legge della Chiesa, che ha un unico fine, la salus animarum. Il prete, nel momento in cui commette il delitto di pedofilia, viola la legge dello Stato (e di conseguenza va punito) e tradisce la sua vocazione. Ma questa sua responsabilità non può essere scaricata sul vescovo (tranne ovviamente nelle ipotesi di correità nel delitto) e a maggior ragione sulla diocesi. Non è in gioco solo l’autonomia della Chiesa, bene peraltro preziosissimo, ma ancor più la capacità dello Stato di saper riconoscere i propri limiti. Spetta allo Stato punire i criminali; guai quando, con la pretesa di punirli, pretende di qualificare arbitrariamente la realtà spirituale e canonica della Chiesa e di umiliarla, riducendola a una qualsiasi, semplice associazione tra cittadini.
© Copyright Avvenire, 11 luglio 2010
Se non si parla più di eutanasia - La posta in gioco - di Ferdinando Cancelli - (©L'Osservatore Romano - 11 luglio 2010)
Dai dibattiti sollevati anche da casi recenti in merito alla bioetica di fine vita sembrano emergere con chiarezza due dati: la grande confusione sulla definizione di malato "terminale" e la progressiva scomparsa dell'uso del termine "eutanasia". Anche quello di Erika Kuellmer - una donna tedesca entrata in stato vegetativo circa otto anni fa in seguito a un incidente vascolare cerebrale, e poi deceduta per cause naturali dopo il tentativo della figlia di interromperne la nutrizione fornita attraverso un sondino - non sembra fare eccezione.
Questa donna è stata una paziente terminale durante i suoi anni di vita nella condizione di stato vegetativo? Ma quando si può definire "terminale" un malato? La medicina palliativa definisce un paziente in fase di fine vita quando la sua sopravvivenza presunta si può considerare uguale o inferiore a quattro mesi, e ciò anche quando siano in atto mezzi di sostegno vitale come idratazione, nutrizione o ventilazione.
Va da sé che casi come quello sopra ricordato - e in generale pressoché tutti i casi di pazienti in stato vegetativo - non sono da inquadrare in una fase di fine vita sino al momento in cui non intervengano complicazioni, ad esempio infettive, che ne mutino le condizioni, o fino a quando qualcuno non smetta di fornire ai malati acqua ed elementi nutrienti.
Una situazione completamente diversa si ha quindi con i malati cronici, come quelli oncologici, giunti in fase finale di malattia: in tali casi il sostegno di nutrizione e idratazione andrà mantenuto fino al momento in cui la valutazione medica non ne riconosca l'inutilità o la nocività per l'incapacità dell'organismo di sfruttare l'acqua e gli elementi nutrienti. Ciò in generale si verifica solamente negli ultimi giorni di vita, quando la sospensione di idratazione e nutrizione non abbreviano più il decorso della malattia, ormai comunque in fase finale.
Tali rilievi sono strettamente legati alla seconda considerazione: i sostenitori della possibilità di accelerare la morte di pazienti dipendenti da mezzi di sostegno vitale - come la ventilazione meccanica mediante tracheostomia, o la nutrizione e l'idratazione in via enterale (tramite ad esempio gastrostomia) o parenterale (endovenosa) - tendono a non parlare più di eutanasia: anche nella campagna a favore del cosiddetto testamento biologico, il termine viene accuratamente evitato a favore di un molto più accettabile "evitamento dell'accanimento terapeutico".
In altre parole, smettere di idratare o nutrire un paziente in stato vegetativo - che anche il recente libro bianco del ministero della Salute italiano, redatto con la consulenza delle associazioni che rappresentano i familiari dei malati, ha definito un "disabile grave" - sarebbe, secondo costoro, evitare un accanimento terapeutico, e non praticare un forma di eutanasia mediante l'omissione di ciò che andrebbe fatto per mantenere il paziente in vita. Su questo punto sono stati molto chiari anche i vescovi tedeschi che, in una dichiarazione del marzo 2007, hanno nettamente rifiutato la possibilità di sospendere il sostegno vitale a pazienti in stato vegetativo, coma vigile o demenza grave.
Il fatto che a scegliere tale opzione sia il paziente stesso non cambia la sostanza; se infatti la sospensione di un mezzo di sostegno vitale porta come conseguenza l'abbreviare la vita di un malato, il termine da utilizzare, più coerentemente, sarebbe quello di eutanasia. Anche se tale parola dovesse incutere maggior timore in chi la ascolta, forse il suo uso, definendo più onestamente la questione, indurrebbe a una riflessione più profonda sulla posta in gioco.
(©L'Osservatore Romano - 11 luglio 2010)
Il mistero della redenzione dal «Convivio» - alla «Divina Commedia» (passando per san Tommaso) - Come si rimargina la ferita dell'origine - di Giovanni Di Giannatale - (©L'Osservatore Romano - 11 luglio 2010)
Dante e la redenzione. Il poeta esprime alcune considerazioni sul tema sia nelle opere minori sia nella Commedia, rielaborando e mediando la dottrina di san Tommaso immagini suggestive. Per inquadrare il suo pensiero, occorre partire dal Convivio, in cui, riflettendo sull'incarnazione del Verbo, dichiara che questa fu stabilita da Dio per riconciliare a sé la natura umana, privata dei doni soprannaturali e vulnerata nei doni naturali, a causa del peccato originale: "Volendo l'incommensurabile bontà divina l'umana natura a sé riconformare che per lo peccato de la prevaricazione del primo uomo da Dio era partita e disformata, eletto fu in quell'altissimo e congiuntissimo consistorio divino della Trinità che il Figliuolo di Dio in terra discendesse a far questa concordia" (iv, 5, 3).
In questo passo Dante sviluppa due concetti teologici: la redenzione come libero atto di amore e di misericordia di Dio; l'incarnazione del Verbo come soddisfazione adeguata all'atto da riparare.
Dante, non a caso, parla di "elezione", cioè di scelta, del Dio uno e trino, ritenendo perciò, in linea con la dogmatica tomistica, che egli non fosse in nessun modo costretto a redimere gli uomini (sant'Atanasio, fondandosi sulla Lettera agli Efesini parlava apertamente di gratuità della redenzione). Così insegna il Dottore Angelico, dopo aver utilizzato ex ratione il quarto libro della Metafisica di Aristotele sulla molteplice accezione del termine anankàion (necessarium): Et sic manifestum est quod non fuit necessarium Christum pati: neque ex parte Dei, neque ex parte hominis (Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, iii, quaestio 46, 1).
La passione di Cristo è stata tuttavia necessaria in quanto il peccato originale, commesso dai progenitori era così grave, che poteva essere compensato solo con un atto infinito di riparazione, cioè solo da una persona divina (perciò Tommaso - in Summa theologiae, iii, quaestio 1, 1 - parla di necessitas congruentiae, necessità indotta dalla convenienza/ adeguazione del "riparante" alla natura da riparare: Unde manifestum est quod conveniens fuit Deum incarnari).
Dante riprende gli argomenti esposti nel citato passo del Convivio nel sesto e nel settimo canto del Paradiso. Nel primo connota l'opera della redenzione come "vendetta del peccato antico": la passione, morte e resurrezione di Cristo è intesa come la "giusta punizione" richiesta dal peccato originale, nel senso che giusta fu la morte di Cristo sulla croce, come giusta fu, nell'imprescrutabile disegno di Dio, l'esecuzione della pena da parte dell'Impero romano, nella persona del legato imperiale, Ponzio Pilato.
Sul punto Dante ritiene che, nel piano provvidenziale di Dio, la condanna di Gesù fu un atto di onore per l'Impero romano, al quale Dio ha concesso la "gloria di far vendetta alla sua ira" (Paradiso, vi, 90), cioè di "soddisfare la giusta ira di Dio per colpa di Adamo con la giusta punizione di quella colpa".
Addirittura, esercitando un ardito artificio logico, il poeta arriva a sostenere che il peccato di Adamo non sarebbe stato punito attraverso Cristo, se la giurisdizione imperiale non fosse stata legittima secondo il volere divino: Si romanum imperium de iure non fuit, peccatum Adae in Cristo non fuit punitum (De monarchia, ii, 12, 1-5).
Tornando al canto settimo, Dante, attraverso la lectio magistralis di Beatrice, che rivendica a sé l'"infallibile avviso", spiega perché la punizione inflitta a Cristo con il supplizio della croce è da considerarsi giusta. Utilizzando la subtilitas della teologia scolastica, che faceva leva sulle distinzioni, Dante così dichiara: "La pena dunque che la croce porse, / s'alla natura assunta si misura, / nulla già mai sì giustamente morse; / e così nulla fu di tanta ingiura, / guardando alla persona che sofferse, / in che era contratta tal natura" (Paradiso, vii, 40-45).
Il poeta invita a distinguere la "natura umana" assunta dal Verbo e la "natura divina" della seconda Persona: la pena della croce e la morte che ne conseguì furono giuste e convenienti alla gravità della colpa, se si considera la natura umana; furono, invece, inique (di tanta ingiura), se si considera la "natura divina" di Cristo ("guardando alla persona che sofferse/ in che era contratta tal natura").
(©L'Osservatore Romano - 11 luglio 2010)
Vacanze divine…- Antonio Socci, da Libero, 11 luglio 2010
Siamo tutti in cerca del paradiso perduto. Anche se non lo sappiamo. E l’estate, la vacanza, è specialmente il tempo di questa ricerca dell’Eden. Avremmo una mappa per questa caccia al tesoro, per questa ricerca, ma non la sappiamo leggere.
Così ci accontentiamo di paradisi artificiali, a portata di mano e per tutti i portafogli. Eden di plastica. Può essere il surrogato “tutto compreso” dell’Agenzia di viaggi che ti spedisce a Sharm el sheik o il fai-da-te giovanilistico che si inebria nel chiassoso divertimentificio di Ibiza o della costa romagnola.
Illusioni, si capisce, ma la nostalgia del paradiso, del ritrovarsi del corpo e del’anima, questa attesa dell’estasi, di una felicità dello spirito e dei sensi, finalmente in armonia, questo desiderio della divinizzazione non ci abbandona mai.
In fondo la mappa (sconosciuta) che ci mette sulle tracce del vero paradiso perduto è dentro di noi, nel nostro stesso cuore.
E’ una “zona”, come quella del film tarkovskijano “Stalker”: una zona dove si avverano i desideri, piena di lussureggianti foreste e laghi, oceani e panorami sconfinati, una “zona” vergine perché non posseduta neanche da noi stessi, una “zona” sacra perché abitata da una presenza misteriosa e immensa: Dio.
Ma oltreché in noi, la mappa del paradiso perduto è leggibile pure nei segni e nella cultura della nostra Europa, se vogliamo ancora comprenderla.
Una geografia fatta di antiche abbazie, monasteri, eremi, che, nei secoli selvaggi succeduti alla caduta dell’Impero romano, furono la sorgente da cui scaturì tutto quello che di bello, luminoso, umano ha avuto la nostra civiltà
Fra quelle mura il Cielo tocca la Terra e si sente la brezza dell’Eden. John Milton dedicò a Vallombrosa, la regale abbazia dell’appennino toscano, i versi famosissimi del suo “Paradise Lost”, e dal momento dell’uscita del suo poema, nel 1667, “per gli inglesi, e non solo per loro, Vallombrosa sarà emblema e ritratto di un ‘Paradise Lost’ sognato e, per miracolo della poesia, descritto e quindi visibile”, scrive Alessandro Tosi.
Che aggiunge: “a partire dai pochi, ma così ispirati versi miltoniani, Vallombrosa diventava mèta irrinunciabile del viaggio in Italia”.
Iniziava il moderno turismo, che era l’antico pellegrinaggio medievale travestito laicamente.
Vallombrosa del resto è una perla nella geografia della santità, quella di san Giovanni Gualberto il cui nome è legato pure alla meraviglia di San Miniato, che domina Firenze, a un altro eden appenninico, la Camaldoli di san Romualdo, e all’abbazia di Passignano, fra Siena e Firenze.
Anche al nome di Francesco d’Assisi è legata una mappa di meravigliosi luoghi del cuore: dall’eremo delle carceri di Assisi, alla Verna, dalle Celle di Cortona a san Damiano, fino agli eremi delle clarisse nelle nostre città, che d’improvviso – lasciandoti alle spalle il traffico e la vita congestionata – ti spalancano davanti un panorama di pace.
Penso anche alle monache agostiniane di Lecceto, per stare in Toscana, o alle trappiste di Valserena e a quelle di Vitorchiano. O ai monaci delle Tre fontane a Roma.
Benedettini, clarisse, agostiniane, trappisti, carmelitani e tanti altri. I silenzi che loro abitano attraggono irresistibilmente tante persone, talvolta per l’ordinata bellezza di quei luoghi, di quelle mura antiche, di quei boschi, di quegli orti e giardini, per la pulizia dell’aria e la freschezza incontaminata delle acque, perfino per la genuinità delle cose che i monaci coltivano e offrono ai visitatori: miele, vini, marmellate…
In tutte queste cose si gustano dei sapori e degli odori che sembra di non trovare altrove, un gusto di autenticità che in realtà è in noi il riflesso dell’autenticità della loro vita, di un’esistenza fedele al grido del proprio cuore.
Il contatto con questa autenticità è vertiginoso per noi. Tempo fa la Bbc ha realizzato una sorta di “reality” nel quale cinque uomini di oggi, con tutti gli impegni e la vita di un inglese moderno, per 40 giorni e 40 notti hanno condiviso la vita dei monaci di un’abbazia benedettina.
Tre milioni di spettatori hanno seguito questa sfida. Al termine della quale quell’impatto col silenzio e con l’autenticità, con la propria stessa interiorità, aveva trasformato visibilmente i cinque.
I monaci, uomini e donne di Dio, sono gli esseri più pacifici e inoffensivi del mondo, ma hanno una luce nel volto e una pace nei gesti, sconosciuti al mondo e questo rende dirompente l’incontro con la loro vita.
Peraltro silenziosamente verso questi eremi si convogliano immensi fiumi di dolore, dalle nostre città, dalle nostre vite.
Qui tante esistenze ferite trovano chi le abbraccia, chi per loro implora giorno e notte, chi instancabilmente e gratuitamente offre se stesso in riscatto per l’esaudimento dei loro desideri e il lenimento delle loro pene.
Sono uomini e donne che aiutano Gesù a portare tutto il dolore del mondo sulle sue spalle. E a redimerlo. Mutandolo in vita e gioia.
L’ascesi, la preghiera, la contemplazione è come se – con il tempo – trasfigurassero già ora le loro persone, rendendo trasparente la loro pelle all’anima che vibra, canta e ama. Così loro custodiscono – per chiunque voglia ritrovarlo – il nostro paradiso perduto.
A cui sanno dare un nome e un volto, quello del “più bello fra i figli dell’uomo”. Il grande Agostino – che si lasciò alle spalle una vita turbolenta – è uno dei luminosi maestri di chi cerca la felicità: “Ci hai fatti per te, Signore e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”.
Tutti i cinque sensi nell’adorazione della sua Bellezza si esaltano e si trasfigurano.
“Che cosa amo quando amo te?”, si chiedeva sant’Agostino. “Amo una certa luce, una voce, un profumo, un cibo e un amplesso che sono la luce, la voce, il profumo, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce che nessun fluire di secoli può portar via, dove si espande un profumo che nessuna ventata può disperdere, dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire, dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare. Tutto questo io amo quando amo il mio Dio”.
L’audacia del linguaggio di Agostino è in realtà il linguaggio abituale dei monaci e delle monache.
Che è sempre un linguaggio sponsale: “Ormai te solo amo, te solo seguo, te solamente cerco, te soltanto sono disposto a servire perché tu solo giustamente governi, e perciò voglio essere tua proprietà” (Agostino).
Anche un maestro del monachesimo come san Bernardo di Chiaravalle sottolinea il carattere sponsale che ha la vita monastica: “amplesso veramente, dove il volere e non volere le medesime cose ha fatto uno solo di due spiriti”.
In fondo il silenzio di questi eremi riecheggia in ogni chiesa. Ed è lei la mèta del nostro viaggio, la dimora del cuore. Lo scoprì perfino Jack Kerouac, che del viaggiare, della strada, fu il poeta e che trovò proprio così il vero significato della sua “beat generation”.
Scrisse:
“Fu da cattolico che un pomeriggio andai nella chiesa della mia infanzia (una delle tante), Santa Giovanna d’Arco a Lowell, e a un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio della chiesa (ero solo lì dentro, erano le cinque del pomeriggio; fuori i cani abbaiavano, i bambini strillavano, cadevano le foglie, le candele brillavano debolmente solo per me), ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola ‘Beat’, la visione che la parola Beat significava beato…”.
Scriverà espressamente che il fenomeno beat esprime “una religiosità ancora più profonda, il desiderio di andarsene, fuori da questo mondo (che non è il nostro regno), ‘in alto’, in estasi, salvi, come se le visioni dei santi claustrali di Chartres e Clairvaux tornassero a spuntare come l’erba sui marciapiedi della Civiltà stanca e indolenzita dopo le sue ultime gesta”.
Antonio Socci
da Libero, 11 luglio 2010
Avvenire.it, 10 luglio 2010 - IL CARTOON - Il kolossal «Toy Story 3» una lezione per il cinema - Alessandra De Luca
Che la saga dei giocattoli Pixar inaugurata ben quindici anni fa da Toy Story, pietra miliare dell’animazione, e giunta al suo secondo sequel dopo Woody e Buzz alla riscossa potesse ancora riservare al pubblico di adulti e bambini un’esplosiva carica di fantasia, emozione, creatività, garbo e intelligenza, proprio non ce lo aspettavamo. A Hollywood, si sa, seguiti e remake sono sinonimo di penuria di idee, ma di John Lasseter, unico grande erede dello spirito disneyano, ci si può fidare. Non ha mai sbagliato un colpo e ogni volta ci sorprende con storie coraggiose e originali, scritte con grande attenzione, ma soprattutto «rispetto, per il pubblico più esigente e sottovalutato che esista, quello dei bambini».
Diretto da Lee Unrich, Toy Story 3 – La grande fuga (da vedere con gli occhialini 3D) orchestra una tale quantità di spunti narrativi, stili e generi da bastare per almeno una decina di film. Comincia come un western, prosegue come una commedia, poi diventa dramma e melò per sfociare nel carcerario (il genere più lontano dal mondo dei bambini, ma azzeccatissimo in questo contesto) e tornare al sorriso passando per l’azione mozzafiato. Eppure la storia, magnificamente costruita, ruota intorno a valori molto semplici come l’amicizia, la lealtà, la solidarietà, lo spirito di gruppo.
Ricordate il piccolo Andy che nella sua stanzetta giocava con Woody il cowboy e Buzz l’astronauta, il tirannosauro Rex, Mr. Potato e il cane a molla Slinky? Ebbene, quel bambino ora ha diciassette anni e sta per andare al college. Per i suoi giocattoli la partenza del loro amico è fonte di grande preoccupazione: solo Andy lo seguirà, mentre alcuni di loro, i più fortunati, finiranno in soffitta, gli altri nella pattumiera. Per uno spiacevole equivoco finiranno tutti al Sunnyside, un asilo dove i giocattoli sono governati da Lotso Grandi Abbracci (Riccardo Garrone), un morbido orsacchiotto rosa che profuma di fragola, ma gronda rabbia e risentimento da ogni cucitura. Il perché lo scopriremo strada facendo.
Per sfuggire alla sua dittatura Andy (Fabrizio Frizzi), Buzz (Massimo Dapporto) e amici si lanceranno in una rocambolesca fuga degna di quella di Steve McQueen che li porterà dritti a una minacciosa discarica illuminata dall’orrida luce del forno per lo smaltimento di rifiuti. Ma il lieto fine per tutti i balocchi del mondo è una certezza finché al mondo ci saranno bambini disposti a giocare con loro.
Tra le felicissime new entry di questa geniale avventura, c’è il malinconico Chuckles (Giorgio Faletti), il Telefono Chiacchierone (Gerry Scotti), ma soprattutto la coppia Barbie (Claudia Gerini) e Ken (Fabio De Luigi) che ha scatenato le insulse, se non ridicole polemiche di un gruppo di femministe americane offese per «il sessismo e l’omofobia del film». Possiamo solo dire che solo chi non ha mai trascorso interi pomeriggi in compagnia di questi due giocattoli (o chi non sa più che fare per attirare l’attenzione) può partorire una simile sciocchezza.
Alessandra De Luca
San Benedetto e la Croce Medaglia - Carlo Di Pietro – dal sito pontifex.roma.it
Uno degli episodi più noti di possessione diabolica, riportato in vari libri per la documentazione storicamente esatta che ci ha tramandato i fatti, è quello riguardante i due fratelli Burner, di Illfurt (Alsazia), che furono liberati con una serie di esorcismi nel 1869. Ebbene, un giorno, tra i tanti gravissimi dispetti del demonio, si sarebbe dovuta rovesciare la carrozza che trasportava l’esorcista, accompagnato da un monsignore e da una suora. Ma il demonio non poté attuare il suo proposito perché, al momento della partenza, era stata data al cocchiere una medaglia di San Benedetto, a scopo protettivo e il cocchiere se l'era messa devotamente in tasca. (da Don Gabriele Amorth, "Un esorcista racconta" Ed. Dehoniane, Roma). Le origini della medaglia di San Benedetto sono antichissime. Benedetto XIV ne ideò il disegno e col "Breve" del 1742 approvò la medaglia concedendo delle indulgenze a coloro che la portano con fede. ...
... Sul diritto della medaglia, San Benedetto tiene nella mano destra una croce elevata verso il cielo e nella sinistra il libro aperto della santa Regola. Sull'altare é posto un calice dal quale esce una serpe per ricordare un episodio accaduto a San Benedetto: il Santo, con un segno di croce, avrebbe frantumato la coppa contenente il vino avvelenato datogli da monaci attentatori. Attorno alla medaglia, sono coniate queste parole: "EIUS IN OBITU NOSTRO PRESENTIA MUNIAMUR" (Possiamo essere protetti dalla sua presenza nell'ora della nostra morte).
Sul rovescio della medaglia, figura la croce di San Benedetto e le iniziali dei testi. Questi versi sono antichissimi. Essi appaiono in un manoscritto del XIV sec. a testimonianza della fede nella potenza di Dio e di San Benedetto.
La devozione della Medaglia o Croce di San Benedetto, divenne popolare intorno al 1050, dopo la guarigione miracolosa del giovane Brunone, figlio del conte Ugo di Eginsheim in Alsazia. Brunone, secondo alcuni, fu guarito da una grave infermità, dopo che gli fu offerta la medaglia di San Benedetto. Dopo la guarigione, divenne monaco benedettino e poi papa: é san Leone IX, morto nel 1054. Tra i propagatori bisogna annoverare anche san Vincenzo de' Paoli.
Spiegazione delle Iniziali presenti sulla Medaglia:
C.S.P.B. Crux Sancti Patris Benedicti La Croce del Santo Padre Benedetto
C.S.S.M.L. Crux Sacra Sit Mihi Lux La Croce Santa sia la mia luce
N.D.S.M.D. Non Drago Sit Mihi Dux Non sia il demonio il mio condottiero
V.R.S. Vade Retro, Satana! Allontanati, Sanata!
N.S.M.V. Numquam Suade Mihi Vana Non mi attirare alle vanità
S.M.Q.L. Sunt Mala Quae Libas Son mali le tue bevande
I.V.B. Ipse Venena Bibas Bevi tu stesso i tuoi veleni
Preghiera: Croce del Santo Padre Benedetto. Croce santa sii la mia luce e non sia mai il demonio mio capo. Va' indietro, Satana; non mi persuaderai mai di cose vane; sono cattive le bevande che mi offri, bevi tu stesso il tuo veleno. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.
La Medaglia di San Benedetto non è magica! Numerosi sono gli effetti benefici attribuiti alla stessa: guarigioni, protezione contro il demonio, grazia di preparazione ad una santa morte... Ma attenzione, la medaglia non e un talismano che annullerebbe le prove della nostra vita, ma un mezzo che ci può aiutare a superarle.
Le parole scritte attorno alla croce sono quelle che Benedetto pronunciò rispondendo alla tentazione del demonio. Possiamo farle nostre in uno spirito di fede, sapendo che la Croce di Cristo é pegno della nostra vittoria e della nostra salvezza. Questa medaglia è un sacramentale della Chiesa Cattolica, un segno sacro dal quale sono signifìcati e ottenuti effetti, grazie alla preghiera della Chiesa. Per trarre vantaggi da questa preghiera e da questa medaglia, non basta farla benedire e portarla come se fosse un portafortuna: i benefici che speriamo di ottenere sono proporzionati alla crescita della nostra fede e della nostra fiducia in Dio e in San Benedetto! [tratto dal web]
Carlo Di Pietro
Massimo Introvigne: 11 luglio, l'Europa celebra San Benedetto
L'11 luglio gli italiani, gli europei, gli occidentali festeggiano un santo che è alle origini della loro storia e che Benedetto XVI ha voluto ricordare fin dalla scelta del suo nome da Pontefice, San Benedetto. Lo celebriamo con un testo di un grande monaco e abate benedettino che appartiene a pieno titolo alla storia del pensiero contro-rivoluzionario, dom Gérard Calvet, tradotto per l'eccellente blog Romualdica da un militante di Alleanza Cattolica che è oblato benedettino
La festa di San Benedetto (11 luglio)
Nei nostri messali antichi il 21 marzo si trova ancora la festa di san Benedetto da Norcia, abate. Era il suo dies natalis, il giorno della sua morte preziosa, la sua nascita al Cielo. Questa data, che segna il primo giorno di primavera, faceva dire a Papa Giovanni XXIII, in un saluto ai benedettini di Montecassino: “Voi appartenete a un ordine primaverile”.
In verità, l’espansione dell’ordine benedettino fu nei primi secoli della Chiesa come un annuncio della primavera. In un’Italia in piena anarchia, verso l’anno 530, san Benedetto s’installa a Montecassino, gli eserciti di Bisanzio fanno razzia a nord della penisola, la Scuola di filosofia di Atene chiude i battenti, Augustolo – l’ultimo imperatore romano – muore assassinato. In quest’epoca continuamente turbata dalle invasioni barbariche, i primi benedettini si riuniscono in comunità e sotto la Regola del loro Padre svolgono l’apprendistato della vita eterna.
Come? Vivendo sotto lo sguardo di Dio, in umiltà e con il canto – non vi è orgoglio ad anticipare il Cielo –, mediante le sante letture, con la pazienza e la carità fraterna. Se i barbari si convertirono è perché i monaci vivevano meglio, con maggiore dignità e dolcezza: essi recavano la prova di quanto annunciavano.
Ricorrendo la data del 21 marzo durante il tempo quaresimale, i figli di san Benedetto ritaglieranno nel tessuto dell’anno liturgico una festa più solenne, nella quale durante otto giorni d’ottava, per mezzo di processioni e alleluia, si darà libero corso all’allegria di bambini che cantano l’opera della grazia nell’anima del loro Padre. Questa l’origine della festa dell’11 luglio. I monaci francesi che avevano tradotto con sé le reliquie di san Benedetto, la cui tomba non era più sicura nella sua patria, ne profitteranno per celebrare in tale giorno la festa della traslazione del santo d’Italia in Francia.
La riforma del calendario liturgico, che aveva soppresso la festa del 21 marzo, conserva quella dell’11 luglio, nella quale si celebra dunque san Benedetto, non più soltanto quale Patriarca dei monaci d’Occidente, ma come Patrono d’Europa. Di per sé, i cambiamenti introdotti nella liturgia non sono una buona cosa. Un giurista faceva notare che è soprattutto la grande antichità delle leggi a renderle sante e venerabili: il popolo disprezza ben presto quelle che vede cambiare tutti i giorni. Ma la festa benedettina dell’11 luglio estesa alla Chiesa universale non può che rallegrare il cuore di un monaco, e si apporterà la più gran cura nel preparare questa solennità, meditando su una delle figure più elevate dei tempi antichi, quella stessa che ha dato il suo stile e il suo accento all’intero cristianesimo occidentale, a tal punto che i Papi hanno voluto porre sotto il suo patrocinio la cultura e lo spirito della civiltà cristiana.
Chi dice civiltà cristiana dice costumi cristiani. Ebbene, i costumi cristiani sono i costumi del Cielo. Poiché san Benedetto è stato un gigante della contemplazione e della santità, i suoi discepoli hanno osato vivere imitando gli abitanti del Cielo; è essenzialmente per questo, e non anzitutto per lo sviluppo delle scienze, che costoro sono stati i padri dell’Europa. Il termine PAX sormontato dalla croce che presiedeva la facciata dei loro edifici significava che la pace del Cielo era discesa sullo spazio terrestre.
Chi era san Benedetto? Ci sembra che la bellezza soprannaturale della sua anima si possa esprimere in alcuni tratti essenziali.
Un’anima del desiderio – Quando il giovane Benedetto, deluso dallo spettacolo delle vanità, lascia Roma – nella cui aria fluttua ancora una tara del paganesimo –, egli è spinto essenzialmente dalla sete di conoscere Dio, di amarlo, di vivere solo per lui. “Soli Deo placere desiderans”, dice di lui il suo biografo san Gregorio: desiderando di piacere solo a Dio. L’idea di consacrazione religiosa che ha dato al mondo cristiano una delle sue istituzioni più belle e più sante, è nata da questa sete, da questa fuga dal mondo di un giovane innamorato d’amore assoluto. Tutti i grandi fondatori d’ordini hanno seguito questa corsa sfrenata verso il Cielo, o verso ciò che sulla Terra vi si avvicina di più: l’unione a Dio lontani dal mondo.
Benedetto, il giovane studente romano appena coinvolto nel cursu honorum – che un gioco di parole potrebbe tradurre con “corsa agli onori” – ha iniziato a fuggire la città degli uomini per vivere solitario nella grotta di Subiaco, come un angelo.
Dopo di lui tutti gli ordini religiosi, che lo Spirito Santo farà nascere per rispondere a una necessità particolare – insegnamento, cura dei malati, riscatto dei prigionieri – avranno per finalità primaria e fondamentale la ricerca della perfezione evangelica, cioè della santità.
Ci sia consentito insistere su questa sete. Si tratta dell’espressione di una chiamata di Dio, poiché è anzitutto il segno fondamentale di tutte le creature: l’uomo creato a immagine di Dio, orientato verso Dio, in uno stato di tensione e desiderio verso il suo fine. Da migliaia di anni, dalle prime manifestazioni dell’arte e del pensiero, si percepisce quest’aspirazione inquieta, quest’ardente singulto che rotola di epoca in epoca, riassunto nella famosa preghiera di sant’Agostino: “Signore […], ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché riposa in te”.
Se fosse rimasto nella sua solitudine, Benedetto da Norcia avrebbe raggiunto l’immensa schiera dei mistici anonimi in cerca del regno invisibile di cui ogni uomo è portatore, e di cui così pochi rendono testimonianza. Ma Dio ha suscitato taluni per essere i capi di un grande esercito, nel quale a migliaia altri uomini verranno ad arruolarsi, per militare sotto l’influenza e l’irradiamento di una grazia iniziale, che è l’avvenimento fondatore.
Il raccoglitore – È appropriato che gli avvenimenti gettino una luce sugli esseri che li hanno provocati, la loro fisionomia essendo stata nel corso delle epoche ricoperta dalle ombre. Come gli artisti dei tempi antichi, il Patriarca dei monaci svanisce dietro la sua opera. Come la luce di una radura in piena foresta parla del sole, il lungo lignaggio dei discepoli di san Benedetto ci parla della sua anima pacifica e unificata. Non è il monaco a essere andato al mondo, ma il mondo che – per permesso di Dio – è andato dal monaco, nel corso di una visione celeste. In tal guisa un giorno fu posto davanti ai suoi occhi tutto intero il mondo, non nelle dimensioni delle grandezze terrestri, bensì umilmente raccolto sotto un unico raggio della luce divina. Allora, ci dice san Gregorio, l’uomo di Dio percepì quanto ogni creatura è ben piccola cosa, “quam angusta essent omnia creatura”.
La pochezza del mondo creato non fu per Benedetto un pretesto per disprezzarlo, o distruggerlo, ma per considerarlo interamente illuminato da una luce soprannaturale, dotato per ciò stesso di un carattere sacro; un mondo la cui stessa pochezza renderebbe facilitata la restaurazione: san Benedetto è il patrono d’Europa perché fu prima di tutto l’educatore che raddrizza e corregge gli elementi informi di una civiltà allo stato infantile. San Benedetto ha radunato le componenti sparse dell’esperienza monastica orientale – i Padri del deserto, Giovanni Cassiano, Pacomio, Basilio – e le ha adattate al carattere organizzatore del genio romano. Ha conciliato l’arte e la religione, la contemplazione e l’azione, il lavoro e la preghiera, lo studio e le opere servili, il nobile e il servo.
Se un barbaro incolto veniva a bussare alla porta del monastero, lo mescolava fraternamente al figlio del patrizio, e insegnava a tutti e due a vivere come i figli di un medesimo Padre. “Siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!”.
Il duro combattimento contro le passioni, le prodezze ascetiche e le straordinarie penitenze, avrebbero potuto assorbire i discepoli di san Benedetto, come accadde un secolo prima ai monaci di san Colombano; ma vi è nella Regola una dolcezza soprannaturale più adatta a scoraggiare l’uomo dalle follie del mondo: mediante una lunga e tenera distrazione a fianco delle cose di Dio, con il canto dei Salmi, il casto amore dei fratelli, l’innocenza di una terra da coltivare.
Se ci si chiede in qual modo l’ordine benedettino abbia compiuto la sua duplice missione di ripulitura della terra e delle anime, la storia risponderà invariabilmente che ovunque si trova un gusto familiare e terreno che fissava le popolazioni al suolo, una proiezione del Vangelo su quel dato naturale rappresentato dalla famiglia romana. Lo stesso san Benedetto ne dava l’esempio, con un accento posto sulla comunità, la pace interiore, i legami fraterni, lo spirito filiale: ciò che gli storici hanno chiamato una civiltà della bontà.
Come dice Jean de La Varende in Guillaume le conquérant: “Tali ambienti monastici, con le loro aziende agricole, le loro scuole, i loro ospedali, crearono un’immensa poetica umana, un candore, una bonomia, una dilezione, una pace, una felicità contro la quale nulla poteva prevalere. È necessario impregnarsi di tali nozioni per spiegare questa specie di controllo sulla terra realizzato dalle abbazie”.
Attingendo alle fonti del Vangelo sin dall’inizio dell’era cristiana, lo spirito dei primi monaci si è trovato naturalmente estraneo ai conflitti dottrinali che, in seguito, chiederanno agli ordini religiosi un servizio ecclesiale fondato sulla sorveglianza e l’opposizione. La Regola alla quale si sottomettevano non li spingeva a comporre gli elementi di una strategia dottrinale, bensì a riunire gli sforzi degli uomini laddove – in uno spirito di confidenza e aiuto fraterno – tutto concorreva alla lode divina. Così si esprime Henri Pourrat in La véritable histoire de France: “L’ordine divino vuole che tutto salga verso la sua luce. Ma le nature non si elevano se non sono guidate e assistite da nature più elevate: l’intero universo è assistenza e amicizia. Gli esseri umani non saprebbero salire se non seguissero i santi davanti a loro; e i santi se non fossero a ciò chiamati dagli angeli”. In questo spirito di unità e di riunione le comunità monastiche uscite da san Benedetto hanno messo in onore l’ordine della preghiera sociale, l’ospitalità, la risoluzione delle liti, l’architettura e la musica, il gusto della vita armoniosa alla quale si associano tutte le creature.
La semplicità – Il cardinale John Henry Newman, storico dei primi tempi del monachesimo, è rimasto colpito dalla semplicità di vita dei monaci antichi: “Il loro obiettivo era il riposo e la pace; il loro stato, il ritiro; la loro occupazione, qualche semplice lavoro, quasi opposto al lavoro intellettuale, cioè la preghiera, il digiuno, la meditazione, lo studio, la trascrizione, il lavoro manuale e altri impieghi calmi e lenitivi. Tale era la loro pratica nel mondo intero. Erano fuggiti dal mercato affollato, dalle vincite truccate, dal banco dei cambi, dal commercio del bottegaio. Avevano girato le spalle al foro litigioso, all’assemblea politica e al bazar del commercio. Avevano trattato i loro ultimi affari con architetti e sarti, macellai e cuochi. Tutto ciò che volevano, tutto ciò che desideravano, era la dolce presenza pacificatrice della terra, del cielo e del mare, la grotta ospitevole, il candido ruscello che discende, i doni semplici dati dalla terra materna – justissima tellus – quando la si prega appena”.
Condivisa la tenerezza newmaniana per il carattere virgiliano con il quale egli designa il monachesimo, rimane che una delle costanti del monachesimo benedettino è il ritorno a una vita che si è sbarazzata di tutto ciò che costituisce ostacolo alla pura ricerca di Dio, nella pace di una ritrovata innocenza.
Una natura affettuosa – Questa semplicità di vita va di pari passo con una carità dolce e affettuosa, presa dal vivo presso taluni cronisti. Ecco il ritratto dell’abate Easterwine di Wearmouth che ci ha lasciato Simeone di Durham, nel secolo VII: “Sebbene fosse stato al servizio di re Egfrido, una volta abbandonati gli affari del secolo e avere messo da parte le armi, non fu altro che un umile monaco, in tutto uguale a ognuno dei suoi fratelli, lavorando assieme a loro con grande gioia, alla mungitura delle pecore e delle mucche, andando al forno del pane, in giardino, in cucina, in tutti i lavori domestici, gioioso e obbediente. E quando ricevette il titolo d’abate, egli fu ancora in spirito esattamente quel che era stato prima con ciascuno, dolce, affabile e buono.
Se si era compiuta qualche mancanza, certamente la correggeva, in nome della Regola, ma ciò nonostante guadagnava così bene il colpevole con il suo modo immediato, sincero, a tal punto che non si desiderava per nulla di commettere mai più la propria manchevolezza o di oscurare la radiosità di quel volto chiarissimo con la nube di una trasgressione. Spesso, quando si recava qui o là, di corsa per il monastero, e vedeva i suoi fratelli al lavoro, vi si associava all’istante, guidava l’aratro, martellava il ferro, trainava il carro, o faceva altre cose simili. Era giovane e robusto, con una voce dolce, un carattere gioioso, un cuore generoso, un bel volto. Mangiava le stesse pietanze dei suoi fratelli e sotto lo stesso tetto. Dormiva nel dormitorio comune, come prima di essere abate.
Continuò a comportarsi in tal modo durante i primi due giorni della sua malattia, quando la morte l’aveva già avvicinato, come egli sapeva bene. Ma durante gli ultimi cinque giorni, si ritirò in un locale più appartato. Allora, uscendo all’aperto, si sedette, chiamò a sé tutti i monaci, com’era d’abitudine con la sua natura affettuosa, diede il bacio della pace ai monaci in lacrime e spirò durante la notte, mentre cantavano le Lodi”.
Sono trascorsi appena pochi decenni dalla morte di san Benedetto e già si delineano nella vita dei suoi discepoli i tratti essenziali dell’anima del loro Padre.
Lo spirito d’infanzia – Se nell’universo benedettino vi è una parentela con i primi anni dell’esistenza umana, è anzitutto perché il Vangelo c’invita a ciò dall’altezza della sua autorità morale. Inoltre, poiché la vita vi è concepita come quella dei bambini attorno al loro padre, in un’atmosfera di dolcezza nella quale fioriscono volentieri i sentimenti che sono propri alla giovane età: l’innocenza, la pace dell’anima, la confidenza filiale, la gioia di sapersi amati nell’assenza di preoccupazioni per il domani. Aggiungiamo, il gusto per la liturgia.
Dom Filibert, abate fondatore di Tournay, al quale certi visitatori chiedevano, non senza enfasi, una definizione formale della vocazione monastica, rispondeva tutt’a un tratto: “Il monaco è un bambino che canta e gioca”. Non si tratta di una definizione scolastica per il genere e la differenza specifica, ma ciò faceva del monaco un cantore e un liturgo, qualcuno che anzitutto s’interessa a Dio e che anticipa il Regno. Non s’insisterà mai troppo sul potere educatore della liturgia, sull’influenza che essa esercita ben presto sull’anima e sul corpo, per ricordare all’uomo la sua appartenenza sociale, visibile, alla Chiesa di Cristo, per ridargli il senso della sua dignità soprannaturale, il senso dell’adorazione. Infine, la liturgia, elevandosi al di sopra delle categorie dell’utile e del redditizio, proietta l’uomo in un universo di gratuità, che è la nozione la più dimenticata del mondo moderno.
Ritrovare il candore che ha fatto i mondi, raggiungere quel Dio pieno d’inventiva e di gioia che ha “fissato la luna e il sole” (Sal 73,16), che non ha avuto paura d’imprimere il suo marchio su una materia promessa alla cenere, che ha plasmato “il Leviatàn […] per giocare con lui” (Sal 103,26), significa entrare nello spirito d’infanzia, che canta, che ammira, e che ama. Questa felice contemplazione inscritta nei cantici di lode del giorno e della notte reclama una freschezza, un’imprevedibilità, una gioventù dell’anima, di cui non tutti – ahimé! – sono capaci, ma che è il segno di questo spirito del quale lo stesso Dio fece l’elogio. Così, quando il Signore compare nel Vangelo, non prevale un sentimento di paura, ma un canto di ammirazione e di gratitudine. Lo testimoniano i cantici della storia sacra: il Gloria degli angeli sopra la grotta, il Magnificat della Vergine Maria, il Benedictus di Zaccaria, il Nunc dimittis di Simeone. Alla presenza di Dio, la creatura canta. Esulta. Rende gloria a Dio.
Un’ultima immagine si presenta per completare questa successione di pennellate destinate a chiarire la fisionomia di un Padre. San Gregorio ci ha mostrato il grande Patriarca realizzare miracoli, come un tempo i veri amici di Dio. Ma un’immagine si staglia sopra le altre nei Dialoghi, più emozionante e più cara di tutte le altre al cuore dei suoi discepoli. È un’immagine silenziosa. Si tratta di quella veglia notturna di san Benedetto, in piedi, vicino alla finestra, mentre i suoi figli dormivano. Niente è più bello di questa veglia del Padre sui suoi figli, nel silenzio della notte, immagine della paterna bontà di Dio proteso verso le sue creature, funzione di guardiano che san Benedetto prosegue nell’eternità, nel mezzo di una grande luce, al livello più alto di un potere d’intercessione richiesto dallo stato della Chiesa e del mondo, lo sguardo fisso sull’immenso esercito di monaci neri, talora mal guidati, scarsamente illuminati, attorniati da tutte le trappole del mondo, ma partiti con un coraggio infantile alla ricerca della patria celeste.
[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La Saint-Benoît d’été (11 juillet), in Itinéraires, n. 335, luglio-agosto 1989, pp. 83-93, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]