martedì 7 settembre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) I MEDIA NON HANNO COMPRESO IL MESSAGGIO DI BENEDETTO XVI AI GIOVANI - Lo presentano come se il Papa non capisse i loro problemi lavorativi
2) Le confessioni del giovane Ratzinger - I tre passaggi autobiografici inclusi da Benedetto XVI nel messaggio per la prossima Giornata Mondiale della Gioventù di Sandro Magister
3) MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA XXVI GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ 2011
4) La sapienza del Papa – G.M. Vian (©L'Osservatore Romano - 6-7 settembre 2010)
5) Avvenire.it, 5 settembre 2010 - A proposito di incredibili concetti e frasi attribuiti a Benedetto XVI - Rispetto per i giovani e per ciò che il Papa dice - Marco Tarquinio
6) Gli apostoli del nulla - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 6 settembre 2010
7) Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - Mio padre minatore e Napolitano - Antonio Socci - da “Libero” 4 settembre 2010
8) DIO E LA SCIENZA, L’AMMONIMENTO DI KARL POPPER - PIERO BENVENUTI – Avvenire, 7 settembre 2010
9) Avvenire.it, 4 settembre 2010 - SULLA CREAZIONE - Caro Hawking, e l’istante prima del Big Bang?

I MEDIA NON HANNO COMPRESO IL MESSAGGIO DI BENEDETTO XVI AI GIOVANI - Lo presentano come se il Papa non capisse i loro problemi lavorativi
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 6 settembre 2010 (ZENIT.org).- I mezzi di comunicazione hanno “trascurato o frainteso” il Messaggio che Benedetto XVI ha inviato ai giovani, motivo per il quale il direttore del quotidiano vaticano “L'Osservatore Romano” propone in un editoriale di prima pagina di leggere questo documento di “sapienza”.
Giovanni Maria Vian fa riferimento agli articoli pubblicati tra il 3 e il 5 settembre sul Messaggio papale per la prossima Giornata Mondiale della Gioventù, che si celebrerà a Madrid nell'agosto 2011.
Molti hanno messo in bocca al Papa parole che non ha mai scritto.
Secondo alcuni titoli, il Vescovo di Roma avrebbe detto ai giovani che “Dio sta prima del posto fisso”, quasi a volerlo presentare come una persona alla quale importa poco della vita reale dei giovani, e men che meno delle loro difficoltà lavorative.
Questa stessa constatazione è stata espressa dal direttore del quotidiano “Avvenire”, Marco Tarquinio, che ha confessato: “Apriamo i quotidiani e restiamo storditi. Il messaggio del Papa viene spacciato come un invito alla precarietà”.
Il Pontefice parla invece del “lavoro come problema grande e pressante”, un dramma che, come denuncia il direttore di “Avvenire”, nelle cronache “scompare”.
Tarquinio si rivolge ai giornalisti per chiedere rispetto per i giovani e per ciò che il Papa ha scritto ed esorta: “la comprensione del testo, colleghi”.
Il Papa, come spiega il direttore de “L'Osservatore Romano”, questa domenica, in occasione dell'Angelus, ha presentato personalmente questo testo, una cosa poco abituale e che permette di comprendere l'importanza che gli attribuisce.
“Un testo finora trascurato o frainteso dai media - agenzie, televisioni, radio, giornali - e che invece presenta molti segni di quella sapienza che Benedetto XVI ha definito caratteristica soprattutto dell'insegnamento papale e descritto come combinazione di 'fede e vita, verità e realtà concreta'”, indica Giovanni Maria Vian.
“Così, in una cultura 'indecisa riguardo ai valori di fondo' il Papa ha di nuovo presentato come risolutivo l'incontro con Gesù sostenuto dalla fede della Chiesa”, ricorda.
“Non ha senso 'pretendere di eliminare Dio per far vivere l'uomo'”, spiega Vian sintetizzando il Messaggio papale, che definisce un “testo appassionato e fitto di testimonianze personali: dal ricordo della giornata di Sydney a quello lontano di una giovinezza asfissiata dalla dittatura nazista e desiderosa di superare la 'normalità della vita borghese nell'incontro con Cristo'”.
“Quasi una lettera scritta con la passione inesauribile di una vita. E con la sapienza di chi davvero ha incontrato Gesù”, conclude.
Per scoprire la “sapienza” di questo Messaggio, come riconoscono ad ogni modo i direttori dei due quotidiani cattolici, bisogna leggerlo.


Le confessioni del giovane Ratzinger - I tre passaggi autobiografici inclusi da Benedetto XVI nel messaggio per la prossima Giornata Mondiale della Gioventù di Sandro Magister
ROMA, 6 settembre 2010 – "Autobiografia di un pontificato": questo era il titolo del precedente servizio di www.chiesa. Per una curiosa coincidenza, lo stesso giorno dell'uscita di quel servizio Benedetto XVI ha diffuso un messaggio insolitamente ricco di suoi tratti autobiografici.

È il messaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù che si terrà a Madrid nell'agosto del 2011. È un testo visibilmente scritto di persona dal papa, una sintesi efficace della sua visione. Dal Dio perduto al Dio che si rifà vicino in Gesù. Un Gesù che è possibile "toccare" nei sacramenti della Chiesa.

È un testo che esige d'essere letto per intero. Ma per cominciare, ecco qui di seguito i tre passaggi nei quali papa Joseph Ratzinger parla di sé, della sua fanciullezza durante il nazismo e la guerra, dello sbocciare della sua vocazione al sacerdozio, della nascita dell'idea di scrivere un libro su Gesù: "quasi per aiutare a vedere, udire, toccare il Signore".

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DURANTE IL NAZISMO E LA GUERRA

[...] Certamente, ricordando la mia giovinezza, so che stabilità e sicurezza non sono le questioni che occupano di più la mente dei giovani. Sì, la domanda del posto di lavoro e con ciò quella di avere un terreno sicuro sotto i piedi è un problema grande e pressante, ma allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande.

Se penso ai miei anni di allora: semplicemente non volevamo perderci nella normalità della vita borghese. Volevamo ciò che è grande, nuovo. Volevamo trovare la vita stessa nella sua vastità e bellezza. Certamente, ciò dipendeva anche dalla nostra situazione. Durante la dittatura nazionalsocialista e nella guerra noi siamo stati, per così dire, “rinchiusi” dal potere dominante. Quindi, volevamo uscire all’aperto per entrare nell’ampiezza delle possibilità dell’essere uomo.

Ma credo che, in un certo senso, questo impulso di andare oltre all’abituale ci sia in ogni generazione. È parte dell’essere giovane desiderare qualcosa di più della quotidianità regolare di un impiego sicuro e sentire l’anelito per ciò che è realmente grande. Si tratta solo di un sogno vuoto che svanisce quando si diventa adulti? No, l’uomo è veramente creato per ciò che è grande, per l’infinito. Qualsiasi altra cosa è insufficiente. Sant’Agostino aveva ragione: il nostro cuore è inquieto sino a quando non riposa in Te. [...]

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LA CHIAMATA AL SACERDOZIO

[...] C’è un momento, da giovani, in cui ognuno di noi si domanda: che senso ha la mia vita, quale scopo, quale direzione dovrei darle? È una fase fondamentale, che può turbare l’animo, a volte anche a lungo. Si pensa al tipo di lavoro da intraprendere, a quali relazioni sociali stabilire, a quali affetti sviluppare…

In questo contesto, ripenso alla mia giovinezza. In qualche modo ho avuto ben presto la consapevolezza che il Signore mi voleva sacerdote. Ma poi, dopo la guerra, quando in seminario e all’università ero in cammino verso questa meta, ho dovuto riconquistare questa certezza. Ho dovuto chiedermi: è questa veramente la mia strada? È veramente questa la volontà del Signore per me? Sarò capace di rimanere fedele a lui e di essere totalmente disponibile per lui, al suo servizio? Una tale decisione deve anche essere sofferta. Non può essere diversamente. Ma poi è sorta la certezza: è bene così! Sì, il Signore mi vuole, pertanto mi darà anche la forza. Nell’ascoltarlo, nell’andare insieme con lui divento veramente me stesso. Non conta la realizzazione dei miei propri desideri, ma la sua volontà. Così la vita diventa autentica. [...]

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PERCHÉ IL LIBRO SU GESÙ

[...] Nel Vangelo ci viene descritta l’esperienza di fede dell’apostolo Tommaso nell’accogliere il mistero della croce e risurrezione di Cristo. Tommaso fa parte dei dodici apostoli; ha seguito Gesù; è testimone diretto delle sue guarigioni, dei miracoli; ha ascoltato le sue parole; ha vissuto lo smarrimento davanti alla sua morte. La sera di Pasqua il Signore appare ai discepoli, ma Tommaso non è presente, e quando gli viene riferito che Gesù è vivo e si è mostrato, dichiara: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” (Giovanni 20, 25).

Noi pure vorremmo poter vedere Gesù, poter parlare con lui, sentire ancora più fortemente la sua presenza. Oggi per molti, l’accesso a Gesù si è fatto difficile. Circolano così tante immagini di Gesù che si spacciano per scientifiche e gli tolgono la sua grandezza, la singolarità della sua persona. Pertanto, durante lunghi anni di studio e meditazione, maturò in me il pensiero di trasmettere un po’ del mio personale incontro con Gesù in un libro: quasi per aiutare a vedere, udire, toccare il Signore, nel quale Dio ci è venuto incontro per farsi conoscere.

Gesù stesso, infatti, apparendo nuovamente dopo otto giorni ai discepoli, dice a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!” (Giovanni 20, 27). Anche a noi è possibile avere un contatto sensibile con Gesù, mettere, per così dire, la mano sui segni della sua passione, i segni del suo amore: nei sacramenti egli si fa particolarmente vicino a noi, si dona a noi. Cari giovani, imparate a “vedere”, a “incontrare” Gesù nell’eucaristia, dove è presente e vicino fino a farsi cibo per il nostro cammino; nel sacramento della penitenza, in cui il Signore manifesta la sua misericordia nell’offrirci sempre il suo perdono. Riconoscete e servite Gesù anche nei poveri, nei malati, nei fratelli che sono in difficoltà e hanno bisogno di aiuto. [...]


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA XXVI GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ 2011


"Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede" (cfr. Col 2,7)

Cari amici,

ripenso spesso alla Giornata Mondiale della Gioventù di Sydney del 2008. Là abbiamo vissuto una grande festa della fede, durante la quale lo Spirito di Dio ha agito con forza, creando un’intensa comunione tra i partecipanti, venuti da ogni parte del mondo. Quel raduno, come i precedenti, ha portato frutti abbondanti nella vita di numerosi giovani e della Chiesa intera. Ora, il nostro sguardo si rivolge alla prossima Giornata Mondiale della Gioventù, che avrà luogo a Madrid nell’agosto 2011. Già nel 1989, qualche mese prima della storica caduta del Muro di Berlino, il pellegrinaggio dei giovani fece tappa in Spagna, a Santiago de Compostela. Adesso, in un momento in cui l’Europa ha grande bisogno di ritrovare le sue radici cristiane, ci siamo dati appuntamento a Madrid, con il tema: “Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede” (cfr Col 2,7). Vi invito pertanto a questo evento così importante per la Chiesa in Europa e per la Chiesa universale. E vorrei che tutti i giovani, sia coloro che condividono la nostra fede in Gesù Cristo, sia quanti esitano, sono dubbiosi o non credono in Lui, potessero vivere questa esperienza, che può essere decisiva per la vita: l’esperienza del Signore Gesù risorto e vivo e del suo amore per ciascuno di noi.

1. Alle sorgenti delle vostre più grandi aspirazioni

In ogni epoca, anche ai nostri giorni, numerosi giovani sentono il profondo desiderio che le relazioni tra le persone siano vissute nella verità e nella solidarietà. Molti manifestano l’aspirazione a costruire rapporti autentici di amicizia, a conoscere il vero amore, a fondare una famiglia unita, a raggiungere una stabilità personale e una reale sicurezza, che possano garantire un futuro sereno e felice. Certamente, ricordando la mia giovinezza, so che stabilità e sicurezza non sono le questioni che occupano di più la mente dei giovani. Sì, la domanda del posto di lavoro e con ciò quella di avere un terreno sicuro sotto i piedi è un problema grande e pressante, ma allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande. Se penso ai miei anni di allora: semplicemente non volevamo perderci nella normalità della vita borghese. Volevamo ciò che è grande, nuovo. Volevamo trovare la vita stessa nella sua vastità e bellezza. Certamente, ciò dipendeva anche dalla nostra situazione. Durante la dittatura nazionalsocialista e nella guerra noi siamo stati, per così dire, “rinchiusi” dal potere dominante. Quindi, volevamo uscire all’aperto per entrare nell’ampiezza delle possibilità dell’essere uomo. Ma credo che, in un certo senso, questo impulso di andare oltre all’abituale ci sia in ogni generazione. È parte dell’essere giovane desiderare qualcosa di più della quotidianità regolare di un impiego sicuro e sentire l’anelito per ciò che è realmente grande. Si tratta solo di un sogno vuoto che svanisce quando si diventa adulti? No, l’uomo è veramente creato per ciò che è grande, per l’infinito. Qualsiasi altra cosa è insufficiente. Sant’Agostino aveva ragione: il nostro cuore è inquieto sino a quando non riposa in Te. Il desiderio della vita più grande è un segno del fatto che ci ha creati Lui, che portiamo la sua “impronta”. Dio è vita, e per questo ogni creatura tende alla vita; in modo unico e speciale la persona umana, fatta ad immagine di Dio, aspira all’amore, alla gioia e alla pace. Allora comprendiamo che è un controsenso pretendere di eliminare Dio per far vivere l’uomo! Dio è la sorgente della vita; eliminarlo equivale a separarsi da questa fonte e, inevitabilmente, privarsi della pienezza e della gioia: “la creatura, infatti, senza il Creatore svanisce” (Con. Ecum. Vat. II, Cost. Gaudium et spes, 36). La cultura attuale, in alcune aree del mondo, soprattutto in Occidente, tende ad escludere Dio, o a considerare la fede come un fatto privato, senza alcuna rilevanza nella vita sociale. Mentre l’insieme dei valori che sono alla base della società proviene dal Vangelo – come il senso della dignità della persona, della solidarietà, del lavoro e della famiglia –, si constata una sorta di “eclissi di Dio”, una certa amnesia, se non un vero rifiuto del Cristianesimo e una negazione del tesoro della fede ricevuta, col rischio di perdere la propria identità profonda.

Per questo motivo, cari amici, vi invito a intensificare il vostro cammino di fede in Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo. Voi siete il futuro della società e della Chiesa! Come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani della città di Colossi, è vitale avere delle radici, delle basi solide! E questo è particolarmente vero oggi, quando molti non hanno punti di riferimento stabili per costruire la loro vita, diventando così profondamente insicuri. Il relativismo diffuso, secondo il quale tutto si equivale e non esiste alcuna verità, né alcun punto di riferimento assoluto, non genera la vera libertà, ma instabilità, smarrimento, conformismo alle mode del momento. Voi giovani avete il diritto di ricevere dalle generazioni che vi precedono punti fermi per fare le vostre scelte e costruire la vostra vita, come una giovane pianta ha bisogno di un solido sostegno finché crescono le radici, per diventare, poi, un albero robusto, capace di portare frutto.

2. Radicati e fondati in Cristo

Per mettere in luce l’importanza della fede nella vita dei credenti, vorrei soffermarmi su ciascuno dei tre termini che san Paolo utilizza in questa sua espressione: “Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede” (cfr Col 2,7). Vi possiamo scorgere tre immagini: “radicato” evoca l’albero e le radici che lo alimentano; “fondato” si riferisce alla costruzione di una casa; “saldo” rimanda alla crescita della forza fisica o morale. Si tratta di immagini molto eloquenti. Prima di commentarle, va notato semplicemente che nel testo originale i tre termini, dal punto di vista grammaticale, sono dei passivi: ciò significa che è Cristo stesso che prende l’iniziativa di radicare, fondare e rendere saldi i credenti.

La prima immagine è quella dell’albero, fermamente piantato al suolo tramite le radici, che lo rendono stabile e lo alimentano. Senza radici, sarebbe trascinato via dal vento, e morirebbe. Quali sono le nostre radici? Naturalmente i genitori, la famiglia e la cultura del nostro Paese, che sono una componente molto importante della nostra identità. La Bibbia ne svela un’altra. Il profeta Geremia scrive: “Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia. È come un albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi, nell’anno della siccità non si dà pena, non smette di produrre frutti” (Ger 17,7-8). Stendere le radici, per il profeta, significa riporre la propria fiducia in Dio. Da Lui attingiamo la nostra vita; senza di Lui non potremmo vivere veramente. “Dio ci ha donato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio” (1 Gv 5,11). Gesù stesso si presenta come nostra vita (cfr Gv 14,6). Perciò la fede cristiana non è solo credere a delle verità, ma è anzitutto una relazione personale con Gesù Cristo, è l’incontro con il Figlio di Dio, che dà a tutta l’esistenza un dinamismo nuovo. Quando entriamo in rapporto personale con Lui, Cristo ci rivela la nostra identità, e, nella sua amicizia, la vita cresce e si realizza in pienezza. C’è un momento, da giovani, in cui ognuno di noi si domanda: che senso ha la mia vita, quale scopo, quale direzione dovrei darle? E’ una fase fondamentale, che può turbare l’animo, a volte anche a lungo. Si pensa al tipo di lavoro da intraprendere, a quali relazioni sociali stabilire, a quali affetti sviluppare… In questo contesto, ripenso alla mia giovinezza. In qualche modo ho avuto ben presto la consapevolezza che il Signore mi voleva sacerdote. Ma poi, dopo la Guerra, quando in seminario e all’università ero in cammino verso questa meta, ho dovuto riconquistare questa certezza. Ho dovuto chiedermi: è questa veramente la mia strada? È veramente questa la volontà del Signore per me? Sarò capace di rimanere fedele a Lui e di essere totalmente disponibile per Lui, al Suo servizio? Una tale decisione deve anche essere sofferta. Non può essere diversamente. Ma poi è sorta la certezza: è bene così! Sì, il Signore mi vuole, pertanto mi darà anche la forza. Nell’ascoltarLo, nell’andare insieme con Lui divento veramente me stesso. Non conta la realizzazione dei miei propri desideri, ma la Sua volontà. Così la vita diventa autentica.

Come le radici dell’albero lo tengono saldamente piantato nel terreno, così le fondamenta danno alla casa una stabilità duratura. Mediante la fede, noi siamo fondati in Cristo (cfr Col 2,7), come una casa è costruita sulle fondamenta. Nella storia sacra abbiamo numerosi esempi di santi che hanno edificato la loro vita sulla Parola di Dio. Il primo è Abramo. Il nostro padre nella fede obbedì a Dio che gli chiedeva di lasciare la casa paterna per incamminarsi verso un Paese sconosciuto. “Abramo credette a Dio e gli fu accreditato come giustizia, ed egli fu chiamato amico di Dio” (Gc 2,23). Essere fondati in Cristo significa rispondere concretamente alla chiamata di Dio, fidandosi di Lui e mettendo in pratica la sua Parola. Gesù stesso ammonisce i suoi discepoli: “Perché mi invocate: «Signore, Signore!» e non fate quello che dico?” (Lc 6,46). E, ricorrendo all’immagine della costruzione della casa, aggiunge: “Chiunque viene a me e ascolta le mie parole e le mette in pratica… è simile a un uomo che, costruendo una casa, ha scavato molto profondo e ha posto le fondamenta sulla roccia. Venuta la piena, il fiume investì quella casa, ma non riuscì a smuoverla perché era costruita bene” (Lc 6,47-48).

Cari amici, costruite la vostra casa sulla roccia, come l’uomo che “ha scavato molto profondo”. Cercate anche voi, tutti i giorni, di seguire la Parola di Cristo. Sentitelo come il vero Amico con cui condividere il cammino della vostra vita. Con Lui accanto sarete capaci di affrontare con coraggio e speranza le difficoltà, i problemi, anche le delusioni e le sconfitte. Vi vengono presentate continuamente proposte più facili, ma voi stessi vi accorgete che si rivelano ingannevoli, non vi danno serenità e gioia. Solo la Parola di Dio ci indica la via autentica, solo la fede che ci è stata trasmessa è la luce che illumina il cammino. Accogliete con gratitudine questo dono spirituale che avete ricevuto dalle vostre famiglie e impegnatevi a rispondere con responsabilità alla chiamata di Dio, diventando adulti nella fede. Non credete a coloro che vi dicono che non avete bisogno degli altri per costruire la vostra vita! Appoggiatevi, invece, alla fede dei vostri cari, alla fede della Chiesa, e ringraziate il Signore di averla ricevuta e di averla fatta vostra!

3. Saldi nella fede

Siate “radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede” (cfr Col 2,7). La Lettera da cui è tratto questo invito, è stata scritta da san Paolo per rispondere a un bisogno preciso dei cristiani della città di Colossi. Quella comunità, infatti, era minacciata dall’influsso di certe tendenze culturali dell’epoca, che distoglievano i fedeli dal Vangelo. Il nostro contesto culturale, cari giovani, ha numerose analogie con quello dei Colossesi di allora. Infatti, c’è una forte corrente di pensiero laicista che vuole emarginare Dio dalla vita delle persone e della società, prospettando e tentando di creare un “paradiso” senza di Lui. Ma l’esperienza insegna che il mondo senza Dio diventa un “inferno”: prevalgono gli egoismi, le divisioni nelle famiglie, l’odio tra le persone e tra i popoli, la mancanza di amore, di gioia e di speranza. Al contrario, là dove le persone e i popoli accolgono la presenza di Dio, lo adorano nella verità e ascoltano la sua voce, si costruisce concretamente la civiltà dell’amore, in cui ciascuno viene rispettato nella sua dignità, cresce la comunione, con i frutti che essa porta. Vi sono però dei cristiani che si lasciano sedurre dal modo di pensare laicista, oppure sono attratti da correnti religiose che allontanano dalla fede in Gesù Cristo. Altri, senza aderire a questi richiami, hanno semplicemente lasciato raffreddare la loro fede, con inevitabili conseguenze negative sul piano morale.

Ai fratelli contagiati da idee estranee al Vangelo, l’apostolo Paolo ricorda la potenza di Cristo morto e risorto. Questo mistero è il fondamento della nostra vita, il centro della fede cristiana. Tutte le filosofie che lo ignorano, considerandolo “stoltezza” (1 Cor 1,23), mostrano i loro limiti davanti alle grandi domande che abitano il cuore dell’uomo. Per questo anch’io, come Successore dell’apostolo Pietro, desidero confermarvi nella fede (cfr Lc 22,32). Noi crediamo fermamente che Gesù Cristo si è offerto sulla Croce per donarci il suo amore; nella sua passione, ha portato le nostre sofferenze, ha preso su di sé i nostri peccati, ci ha ottenuto il perdono e ci ha riconciliati con Dio Padre, aprendoci la via della vita eterna. In questo modo siamo stati liberati da ciò che più intralcia la nostra vita: la schiavitù del peccato, e possiamo amare tutti, persino i nemici, e condividere questo amore con i fratelli più poveri e in difficoltà.

Cari amici, spesso la Croce ci fa paura, perché sembra essere la negazione della vita. In realtà, è il contrario! Essa è il “sì” di Dio all’uomo, l’espressione massima del suo amore e la sorgente da cui sgorga la vita eterna. Infatti, dal cuore di Gesù aperto sulla croce è sgorgata questa vita divina, sempre disponibile per chi accetta di alzare gli occhi verso il Crocifisso. Dunque, non posso che invitarvi ad accogliere la Croce di Gesù, segno dell’amore di Dio, come fonte di vita nuova. Al di fuori di Cristo morto e risorto, non vi è salvezza! Lui solo può liberare il mondo dal male e far crescere il Regno di giustizia, di pace e di amore al quale tutti aspiriamo.

4. Credere in Gesù Cristo senza vederlo

Nel Vangelo ci viene descritta l’esperienza di fede dell’apostolo Tommaso nell’accogliere il mistero della Croce e Risurrezione di Cristo. Tommaso fa parte dei Dodici apostoli; ha seguito Gesù; è testimone diretto delle sue guarigioni, dei miracoli; ha ascoltato le sue parole; ha vissuto lo smarrimento davanti alla sua morte. La sera di Pasqua il Signore appare ai discepoli, ma Tommaso non è presente, e quando gli viene riferito che Gesù è vivo e si è mostrato, dichiara: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” (Gv 20,25).

Noi pure vorremmo poter vedere Gesù, poter parlare con Lui, sentire ancora più fortemente la sua presenza. Oggi per molti, l’accesso a Gesù si è fatto difficile. Circolano così tante immagini di Gesù che si spacciano per scientifiche e Gli tolgono la sua grandezza, la singolarità della Sua persona. Pertanto, durante lunghi anni di studio e meditazione, maturò in me il pensiero di trasmettere un po’ del mio personale incontro con Gesù in un libro: quasi per aiutare a vedere, udire, toccare il Signore, nel quale Dio ci è venuto incontro per farsi conoscere. Gesù stesso, infatti, apparendo nuovamente dopo otto giorni ai discepoli, dice a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!” (Gv 20,27). Anche a noi è possibile avere un contatto sensibile con Gesù, mettere, per così dire, la mano sui segni della sua Passione, i segni del suo amore: nei Sacramenti Egli si fa particolarmente vicino a noi, si dona a noi. Cari giovani, imparate a “vedere”, a “incontrare” Gesù nell’Eucaristia, dove è presente e vicino fino a farsi cibo per il nostro cammino; nel Sacramento della Penitenza, in cui il Signore manifesta la sua misericordia nell’offrirci sempre il suo perdono. Riconoscete e servite Gesù anche nei poveri, nei malati, nei fratelli che sono in difficoltà e hanno bisogno di aiuto.

Aprite e coltivate un dialogo personale con Gesù Cristo, nella fede. Conoscetelo mediante la lettura dei Vangeli e del Catechismo della Chiesa Cattolica; entrate in colloquio con Lui nella preghiera, dategli la vostra fiducia: non la tradirà mai! “La fede è innanzitutto un’adesione personale dell’uomo a Dio; al tempo stesso ed inseparabilmente, è l’assenso libero a tutta la verità che Dio ha rivelato” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 150). Così potrete acquisire una fede matura, solida, che non sarà fondata unicamente su un sentimento religioso o su un vago ricordo del catechismo della vostra infanzia. Potrete conoscere Dio e vivere autenticamente di Lui, come l’apostolo Tommaso, quando manifesta con forza la sua fede in Gesù: “Mio Signore e mio Dio!”.

5. Sorretti dalla fede della Chiesa, per essere testimoni

In quel momento Gesù esclama: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” (Gv 20,29). Egli pensa al cammino della Chiesa, fondata sulla fede dei testimoni oculari: gli Apostoli. Comprendiamo allora che la nostra fede personale in Cristo, nata dal dialogo con Lui, è legata alla fede della Chiesa: non siamo credenti isolati, ma, mediante il Battesimo, siamo membri di questa grande famiglia, ed è la fede professata dalla Chiesa che dona sicurezza alla nostra fede personale. Il Credo che proclamiamo nella Messa domenicale ci protegge proprio dal pericolo di credere in un Dio che non è quello che Gesù ci ha rivelato: “Ogni credente è come un anello nella grande catena dei credenti. Io non posso credere senza essere sorretto dalla fede degli altri, e, con la mia fede, contribuisco a sostenere la fede degli altri” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 166). Ringraziamo sempre il Signore per il dono della Chiesa; essa ci fa progredire con sicurezza nella fede, che ci dà la vera vita (cfr Gv 20,31).

Nella storia della Chiesa, i santi e i martiri hanno attinto dalla Croce gloriosa di Cristo la forza per essere fedeli a Dio fino al dono di se stessi; nella fede hanno trovato la forza per vincere le proprie debolezze e superare ogni avversità. Infatti, come dice l’apostolo Giovanni, “chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?” (1 Gv 5,5). E la vittoria che nasce dalla fede è quella dell’amore. Quanti cristiani sono stati e sono una testimonianza vivente della forza della fede che si esprime nella carità: sono stati artigiani di pace, promotori di giustizia, animatori di un mondo più umano, un mondo secondo Dio; si sono impegnati nei vari ambiti della vita sociale, con competenza e professionalità, contribuendo efficacemente al bene di tutti. La carità che scaturisce dalla fede li ha condotti ad una testimonianza molto concreta, negli atti e nelle parole: Cristo non è un bene solo per noi stessi, è il bene più prezioso che abbiamo da condividere con gli altri. Nell’era della globalizzazione, siate testimoni della speranza cristiana nel mondo intero: sono molti coloro che desiderano ricevere questa speranza! Davanti al sepolcro dell’amico Lazzaro, morto da quattro giorni, Gesù, prima di richiamarlo alla vita, disse a sua sorella Marta: “Se crederai, vedrai la gloria di Dio” (cfr Gv 11,40). Anche voi, se crederete, se saprete vivere e testimoniare la vostra fede ogni giorno, diventerete strumento per far ritrovare ad altri giovani come voi il senso e la gioia della vita, che nasce dall’incontro con Cristo!

6. Verso la Giornata Mondiale di Madrid

Cari amici, vi rinnovo l’invito a venire alla Giornata Mondiale della Gioventù a Madrid. Con gioia profonda, attendo ciascuno di voi personalmente: Cristo vuole rendervi saldi nella fede mediante la Chiesa. La scelta di credere in Cristo e di seguirlo non è facile; è ostacolata dalle nostre infedeltà personali e da tante voci che indicano vie più facili. Non lasciatevi scoraggiare, cercate piuttosto il sostegno della Comunità cristiana, il sostegno della Chiesa! Nel corso di quest’anno preparatevi intensamente all’appuntamento di Madrid con i vostri Vescovi, i vostri sacerdoti e i responsabili di pastorale giovanile nelle diocesi, nelle comunità parrocchiali, nelle associazioni e nei movimenti. La qualità del nostro incontro dipenderà soprattutto dalla preparazione spirituale, dalla preghiera, dall’ascolto comune della Parola di Dio e dal sostegno reciproco.

Cari giovani, la Chiesa conta su di voi! Ha bisogno della vostra fede viva, della vostra carità creativa e del dinamismo della vostra speranza. La vostra presenza rinnova la Chiesa, la ringiovanisce e le dona nuovo slancio. Per questo le Giornate Mondiali della Gioventù sono una grazia non solo per voi, ma per tutto il Popolo di Dio. La Chiesa in Spagna si sta preparando attivamente per accogliervi e vivere insieme l’esperienza gioiosa della fede. Ringrazio le diocesi, le parrocchie, i santuari, le comunità religiose, le associazioni e i movimenti ecclesiali, che lavorano con generosità alla preparazione di questo evento. Il Signore non mancherà di benedirli. La Vergine Maria accompagni questo cammino di preparazione. Ella, all’annuncio dell’Angelo, accolse con fede la Parola di Dio; con fede acconsentì all’opera che Dio stava compiendo in lei. Pronunciando il suo “fiat”, il suo “sì”, ricevette il dono di una carità immensa, che la spinse a donare tutta se stessa a Dio. Interceda per ciascuno e ciascuna di voi, affinché nella prossima Giornata Mondiale possiate crescere nella fede e nell’amore. Vi assicuro il mio paterno ricordo nella preghiera e vi benedico di cuore.

Dal Vaticano, 6 agosto 2010, Festa della Trasfigurazione del Signore.
BENEDICTUS PP. XVI


La sapienza del Papa – G.M. Vian (©L'Osservatore Romano - 6-7 settembre 2010)
Parlando di Leone XIII nel bicentenario della nascita, il suo attuale successore ha spiegato il compito di ogni Papa (e "di ogni Pastore della Chiesa"): trasmettere ai fedeli la sapienza.
E cioè non verità astratte, ma un messaggio che combina "fede e vita, verità e realtà concreta". Non basta infatti riproporre dottrine che a molti possono apparire lontane dai problemi dell'esistenza, bisogna farlo con un'attenzione costante al contesto storico: nella fedeltà alla tradizione e "misurandosi con le grandi questioni aperte". Come seppe appunto fare quel Pontefice, "molto anziano, ma saggio e lungimirante", che traghettò nel nuovo difficile secolo una Chiesa "ringiovanita" e capace di affrontare sfide inedite.
Di Papa Pecci, "uomo di grande fede e di profonda devozione", Benedetto XVI ha voluto sottolineare in primo luogo appunto la dimensione religiosa, in genere poco rilevata e che invece "rimane sempre la base di tutto, per ogni cristiano, compreso il Papa". Ma tutta la rilettura benedettina del pontificato di Leone XIII ha spunti di grande interesse: nei cenni riservati non solo alla Rerum novarum ma all'intero magistero sociale del predecessore, "corpo organico" e fondativo della dottrina cattolica in materia. Che si può riassumere nell'espressione "fraternità cristiana", alla quale non a caso il giovane Ratzinger dedicò, dopo le due tesi su Agostino e su Bonaventura, la sua prima pubblicazione monografica importante (Die christliche Brüderlichkeit).
La novità di Cristo porta all'abolizione della schiavitù - annullata già dall'apostolo Paolo e a cui Papa Pecci dedicò l'enciclica Catholicae Ecclesiae - e al superamento di "altre barriere che tuttora esistono", secondo il metodo evangelico del seme e del lievito. Che sono rappresentati nelle diverse società dalla "forza benefica e pacifica di cambiamento profondo" costituita dai cristiani. Anche in contesti difficili, come il tempo seguito alla bufera rivoluzionaria e poi napoleonica su cui Benedetto XVI si è significativamente soffermato con tratti brevi e pertinenti: i molteplici e reiterati tentativi di sradicare ogni espressione della cultura cristiana, l'aspro anticlericalismo, le accese manifestazioni contro il Papa.
E nel giorno in cui ha ricordato con accenni molto eloquenti il suo predecessore, il Pontefice ha scelto di presentare il messaggio appena pubblicato in vista della giornata di Madrid.
Un testo finora trascurato o frainteso dai media - agenzie, televisioni, radio, giornali - e che invece presenta molti segni di quella sapienza che Benedetto XVI ha definito caratteristica soprattutto dell'insegnamento papale e descritto come combinazione di "fede e vita, verità e realtà concreta". Così, in una cultura "indecisa riguardo ai valori di fondo" il Papa ha di nuovo presentato come risolutivo l'incontro con Gesù sostenuto dalla fede della Chiesa.
Non ha senso "pretendere di eliminare Dio per far vivere l'uomo", ha ripetuto Benedetto XVI nel messaggio, testo appassionato e fitto di testimonianze personali: dal ricordo della giornata di Sydney a quello lontano di una giovinezza asfissiata dalla dittatura nazista e desiderosa di superare la "normalità della vita borghese" nell'incontro con Cristo. Quasi una lettera scritta con la passione inesauribile di una vita. E con la sapienza di chi davvero ha incontrato Gesù.

g. m. v.
(©L'Osservatore Romano - 6-7 settembre 2010)


Avvenire.it, 5 settembre 2010 - A proposito di incredibili concetti e frasi attribuiti a Benedetto XVI - Rispetto per i giovani e per ciò che il Papa dice - Marco Tarquinio
Per fare cronaca non basta saper scrivere, bisognerebbe saper leggere. Leggere quel che davvero è scritto, non ciò che ci piacerebbe fosse scritto. Magari per 'fare titolo'. E prima ancora per sparare delle belle virgolette: ipse dixit, l’ha detto proprio lui e proprio in quei termini testuali.

Peccato che a volte queste virgolette siano un colpo di pennarello per conferire (falsa) autorevolezza a parole mai dette da alcuno. Com’è successo ieri addirittura al Papa e al suo Messaggio per la XXVI Gmg dell’anno prossimo a Madrid.Benedetto XVI accenna alla «domanda del posto di lavoro» e di un «terreno sicuro sotto i piedi».Sottolinea che «è un problema grande e pressante» e aggiunge che « allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande». Allo stesso tempo. Tra virgolette.

Poi apriamo i quotidiani e restiamo storditi. Un giornale romano fa dire al Papa, nel titolo, tra virgolette: «Il posto fisso non fa la felicità, meglio credere in Dio». Chiaro? Dio contrapposto al posto di lavoro, e quel «meglio» al posto di «allo stesso tempo». Una manipolazione pesante.

Un altro quotidiano romano, nell’attacco del suo vaticanista, mette tra virgolette parole che il Papa non ha mai scritto: «I giovani, prima di pensare al posto di lavoro fisso, è bene che riscoprano la fede in Dio e i valori del Vangelo». Nel titolo, altre virgolette di fantasia: «La fede viene prima del posto fisso». Significativa anche la scelta del principale quotidiano milanese. Titolo, senza virgolette: «Il Papa ai ragazzi: il posto fisso non è tutto, cercate Dio». Il lavoro come «problema grande e pressante» scompare. E il Messaggio viene spacciato come un invito alla precarietà.

Packard più di mezzo secolo fa denunciava i «persuasori occulti». Oggi è l’epoca dei dissuasori palesi, che magari sanno scrivere meglio di chiunque altro, ma hanno dei problemi con la lettura. Come certi studenti delle medie: la comprensione del testo, colleghi. E rispetto: dei giovani, delle loro attese, della loro intelligenza e – se non vi dispiace – di ciò che il Papa in un mondo sufficiente e ostile sa dire loro.
Marco Tarquinio


Gli apostoli del nulla - Autore: Mangiarotti, Don Gabriele Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 6 settembre 2010
È come se l’uomo non volesse o potesse imparare la lezione: eppure appare così chiara. Risuonano come ammonimento le parole della Gaudium et spes: «La creatura […] senza il Creatore svanisce. […] Anzi, l’oblio di Dio rende opaca la creatura stessa.» Viviamo in un’epoca in cui sono diventate chiare le conseguenze della negazione di Dio. Abbiamo tutti constatato quanto il testo di De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo sia stato profetico. Nazismo e comunismo hanno mostrato la loro disumanità, ed erano posizioni che volevano liberare l’uomo dall’influenza nefasta della fede cristiana. Ma ancora di più si nota come una concezione religiosa che non nasce dal cristianesimo abbia in sé potenzialità negative che nessun antidoto sembra contrastare. La frase attribuita ad Heidegger «Ormai solo un dio ci può salvare» mostra la sua verità se la si accosta alla fede nel Signore Gesù. Solo una ripresa della fede cristiana potrà salvare l’uomo dal nulla incombente. Oggi molti ritengono che si possa fare a meno di Dio, sia per spiegare il mondo che per costruire una comunità umana degna di questo nome.
Abbiamo tutti ascoltato le varie affermazioni, amplificate a dismisura, di quello scienziato che afferma che per spiegare l’origine dell’universo non c’è più bisogno di riconoscere un Dio creatore. Che il nulla sarebbe a sua volta creatore. Abbiamo ascoltato le varie confutazioni, e molte di queste ci paiono pertinenti, capaci di mostrare come questa pretesa della ragione di essere misura di tutto cada poi nella sua stessa negazione. C’è un aspetto della questione che mi pare decisivo. Una volta si parlava di orgoglio, di questa pretesa di comprendere tutto, di possedere la realtà riducendola alla propria misura, e in questo modo di poterla dominare, metterla al servizio dell’uomo che, se era poi scienziato, avrebbe condotto tutto a un bene maggiore. Il tutto condito da un disprezzo per il passato, da una disistima per chi aveva nel tempo cercato di fare luce sull’enigma della vita e della realtà. Un orgoglio che produceva tesi che venivano spazzate via in pochissimo tempo, ma che, nonostante tutto, si volevano comunicare e imporre. E per fare questo c’era solo bisogno del potere, politico ed economico.
In tutto questo l’uomo, quello di carne e di ossa, di sudore e di sangue, di fatica e amore, scompariva. Ora non sappiamo che farcene di una cosiddetta cultura che non ha più il culto dell’uomo, che non ne coltiva la fragilità e la grandezza, che si diletta a distruggere senza sapere poi indicare una strada percorribile da tutti.
Quello che mi ha sempre affascinato di Gesù è stata la sua capacità di incontrare il cuore di ogni uomo, anche di coloro che «lo mettevano alla prova», che «lo osservavano» per coglierlo in fallo. Per Lui non ci sono mai stati «sentieri interrotti», per questo vale la pena ricominciare da lui. Forse, invece che apostoli e apologeti del nulla, abbiamo bisogno di testimoni di verità, libertà e amore che sappiano riappassionarci alla vita e alla grandezza dell’essere uomini.
Andando per alcune strade di Milano, ho trovato per terra questa scritta: «Non sarà lo jogging a farvi appassionare a questa vita di merda». No, amici, abbiamo bisogno di persone che ci mostrino che questa è una vita bella, e che vale la pena di viverla. E che il Signore Gesù, amante della vita, ce lo rende possibile.


Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - Mio padre minatore e Napolitano - Antonio Socci - da “Libero” 4 settembre 2010
Napolitano come autorità morale della nazione? Non mi piace l’idea che viene prospettata sempre più spesso da giornali e sondaggi e vagheggiata implicitamente pure dal cardinal Bagnasco, a proposito della vicenda di Melfi.

Napolitano è un funzionario dello Stato, il primo in quanto presidente della Repubblica. Mi auguro che faccia quel rispettabile mestiere in modo super partes, come un notaio, non come lo sta facendo adesso, vistosamente impegnato a tessere delle sue politiche (per esempio verso la Lega) con modi ovattati e furbi che ricordano la sua precedente vita nel Pci di Togliatti.

Riconosco che certe volte si è mostrato super partes e non mi pare che sia, dal punto di vista caratteriale, livoroso e ampolloso come il pessimo predecessore Scalfaro. A differenza di costui, Napolitano, essendo ateo, non si ritiene il padreterno. E’ già qualcosa.

Ma quanto a “padri della patria” e autorità morali, se permettete, guardo altrove. A Napolitano personalmente preferisco il suo opposto speculare: mio padre, Silvano, che ha passato tutta la vita a “combattere i Napolitano”.

I due hanno fatto una vita antitetica. Sono nati entrambi nel 1925. Napolitano in una famiglia benestante che lo ha fatto studiare, mio padre in una famiglia di minatori, che a nove anni gli ha fatto lasciare le elementari e lo ha mandato a guadagnarsi il pane.

Nel 1938-39, a 14 anni, Napolitano fu iscritto al liceo classico Umberto I di Napoli e mio padre alle miniere di carbone di Castellina in Chianti.

Nel 1942 Napolitano entrava all’università, facoltà di Giurisprudenza, e mio padre, desideroso di studiare, usava il poco tempo fuori della miniera leggendo i libri datigli dal parroco del paese.

In questi anni di guerra Napolitano si iscrive al Guf, il Gruppo universitario fascista, collaborando col settimanale “IX Maggio”. Mentre mio padre approfondisce la sua fede cattolica e comincia a detestare la barbarie della guerra, l’ingiustizia che vede attorno a sé e le dittature.

Nel 1945 Napolitano aderisce al Partito Comunista italiano e mio padre prende contatto con la Democrazia cristiana. Nel 1947 Napolitano si laurea e partecipa alle epiche elezioni del 1948, a Napoli, come dirigente del Pci di cui Togliatti è il “commissario” e Stalin il padrone indiscusso.

Mio padre vive quelle elezioni – decisive per il futuro e la libertà dell’Italia – facendo campagna elettorale per la Dc nella terra più rossa d’Italia, prendendosi insulti e minacce (che per fortuna rimangono tali dal momento che a vincere è la Dc).

Nel 1953 Napolitano viene eletto deputato del Pci e come tutti i dirigenti comunisti che non hanno mai lavorato un giorno in una fabbrica, in un campo o in una miniera pretende di rappresentare i lavoratori italiani e di parlare a nome loro.

Nello stesso anno mio padre, che lavoratore lo era, in un incidente di miniera subisce l’amputazione di una mano e rischia di morire dissanguato (salvato solo dal gelo della notte invernale che ghiacciò il sangue e lo fermò).

In quel 1953 morì Stalin. Il più sanguinario e longevo dei tiranni aveva soggiogato con i carri armati metà Europa e minacciava pure l’Italia, ma il Pci lo faceva venerare alle masse come il più grande benefattore dell’umanità.

Il giorno dopo la sua morte, infatti, il 6 marzo 1953, “l’Unità” uscì con questa monumentale prima pagina: “Stalin è morto. Gloria eterna all’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’umanità”.

Seguivano pagine e pagine di encomi adoranti. Mio padre che già nel 1950 era riuscito a procurarsi una copia di “Buio a mezzogiorno” di Arthur Koestler, cercava di spiegare la verità su questo bestiale tiranno a tanti suoi compagni di lavoro, imbrogliati dalla propaganda del Pci, partito complice di Stalin e propalatore in Occidente dalle sue stomachevoli menzogne.

Fior di intellettuali e politici che in quei decenni avevano tutti i mezzi per riconoscere cos’era il comunismo e denunciarne gli abomini (anche perché si recavano in Urss) si rifiutarono di farlo, continuando a prendersi gioco di milioni di lavoratori, a farsi beffe della loro povertà, dei loro sogni, nutrendoli di odio e di un’ideologia violenta che rubava loro perfino l’anima: la fede in Dio.

Nel 1956 i carri armati sovietici schiacciarono nel sangue il moto di libertà dell’Ungheria. Il Pci e l’Unità applaudirono i cingolati del tiranno e condannarono gli operai che chiedevano pane e libertà come “controrivoluzionari”, “teppisti” e “spregevoli provocatori”.

Napolitano – che era appena diventato membro del Comitato centrale del Pci per volere di Togliatti – mentre i cannoni sovietici sparavano fece questa solenne e memorabile dichiarazione: “L’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo”.

Passano gli anni e Napolitano diventa uno dei leader più importanti del Pci, mentre l’Urss delle mummie di Breznev continua a soffocare la libertà dovunque, dalla Polonia alla Cecoslovacchia, dal Sud est asiatico all’Africa, all’Afghanistan.

Mio padre, che alla mia nascita era disoccupato per la chiusura delle miniere ed era passato a fare un altro lavoro operaio, dedicherà molte energie alla militanza politica (nella Dc contro il Pci), alla militanza sindacale e alle opere di solidarietà cattoliche, ma anche alla letteratura e alla pittura.

Da lui, negli anni Settanta, a 14 anni, ho imparato i fondamentali della politica. E quello che fa un uomo degno di questo nome. Scoppia il caso Solzenicyn e leggo un suo pamphlet “Vivere senza menzogna” e poi “Arcipelago Gulag”. Mio padre me lo indica come un uomo vero.

Al liceo che frequento, pieno di figli di papà di estrema sinistra, lo chiamano invece “fascista”. Per il Pci è un reazionario. Napolitano sull’Unità definisce “aberranti” i giudizi politici del dissidente russo e spiega che esiliarlo era la “soluzione migliore”.

Di errore in errore il Pci di Napolitano continua a professarsi comunista fino a farsi crollare il Muro di Berlino in testa nel 1989. In un Paese normale quando quell’orrore è sprofondato nella vergogna e il Pci ha dovuto frettolosamente cambiar nome e casacca, tutta la vecchia classe dirigente che aveva condiviso con Togliatti e Longo la complicità con Stalin e l’Urss, avrebbe dovuto scegliere la via dei giardinetti e della pensione. Anche per l’età ormai avanzata.

In Italia accade il contrario. Avendo sbagliato tutto, per tutta la sua vita politica, Napolitano diventa Presidente della Camera nel 1992, ministro dell’Interno con Prodi, senatore a vita nel 2005 grazie a Ciampi e nel 2006 addirittura Presidente della Repubblica italiana.

Mio padre muore nel 2007, in una casa modesta, a causa della miniera che gli ha riempito i polmoni di polvere di carbone che, a distanza di decenni, lo porta a non poter più respirare.

Mio padre fa parte di quegli uomini a cui si deve la nostra libertà e il nostro benessere, ma la loro morte – come scriveva Eliot – non viene segnalata dai giornali.

Gli onori invece vanno a coloro che vengono da quel comunismo che per anni ha minacciato la nostra libertà. Sono questo tipo di uomini a essere considerati autorità morali e padri della nazione.

L’Italia ha avuto il più forte e pericoloso Pc d’Occidente, che è stato una delle grandi sciagure della nostra storia. Ma ancora oggi sembra non si possa dire.

Napolitano è il primo Capo dello Stato proveniente dal Pci. E l’Italia è l’unico Paese dell’Occidente ad aver fatto una scelta simile. Del resto assai contrastata. Infatti fu eletto da metà parlamento, che rappresentava una minoranza degli italiani.

All’inizio sembrò tenerlo presente e guadagnò consenso tenendosi super partes. Oggi assai meno. Il protagonismo politico di Napolitano si fa sempre più evidente. E arrivano anche sermoni moraleggianti e richiami da padre della Patria.

Vorrei dirgli: no grazie, ce li risparmi. Abbiamo altri padri.
Antonio Socci
da “Libero” 4 settembre 2010


DIO E LA SCIENZA, L’AMMONIMENTO DI KARL POPPER - PIERO BENVENUTI – Avvenire, 7 settembre 2010

L’onda mediatica generata dalla dichiarazione del cosmologo inglese Stephen Hawking («non c’è posto per Dio nelle teorie sulla creazione dell’Universo»), merita qualche ulteriore commento. L’evento può essere archiviato classificandolo per quello che è: un’astuta azione di marketing editoriale che, approfittando della imminente visita di Benedetto XVI in Inghilterra, ha ottenuto un duplice vantaggio. Quello di trovare gratuitamente ampio spazio nei media anglosassoni, particolarmente aggressivi nei confronti del Pontefice, e di conseguenza di far rimbalzare in tutto il mondo la notizia dell’uscita del nuovo libro di Hawking 'The Grand Design', proiettandolo tra i best seller del momento. Nulla da eccepire sulla machiavellica efficacia dell’azione, ma a quale prezzo? Dal punto di vista scientifico e filosofico Hawking non ne esce molto bene, mostrando di credere apoditticamente nella Teoria del Tutto, cioè in una teoria astratta in grado di spiegare ogni fenomeno fisico osservabile nell’Universo.

Fino ad una decina d’anni fa, i cosmologi, pur disponendo di un modello soddisfacente di evoluzione dell’Universo, non sapevano ancora nulla della cosiddetta 'energia oscura', un’entità fisica che, unitamente alla materia non luminosa distribuita nel Cosmo, rappresenta il 95% di tutto ciò che esiste. La presenza di questa nuova entità è stata evidenziata dalle osservazioni di galassie lontanissime, ottenute con strumenti spaziali fino ad allora non disponibili. Di conseguenza i modelli di evoluzione dell’Universo hanno dovuto essere opportunamente modificati, ma chi ci assicura che nuove osservazioni non rivelino altre 'entità', altri dettagli che li 'falsifichino' e impongano nuove modifiche? Credere di poter giungere al capolinea della scienza con una teoria astratta che tutto spiega appare di una incredibile ingenuità epistemologica, soprattutto dopo che filosofi come Karl Popper e Thomas Kuhn hanno teorizzato il progredire del metodo scientifico proprio grazie alle 'crisi' derivanti dalle nuove osservazioni, grazie alla intrinseca falsificabilità della scienza. È curioso come Hawking non si renda conto che credere nella Teoria del Tutto, sia assimilabile ad un atto di fede, indimostrabile con un processo razionale, così come lo è l’atto di fede in Dio. Da qui discende l’altra ingenuità filosofica e teologica di Hawking: il 'dio demiurgo' da lui descritto non ha nulla a che fare con il Dio in cui credono i cristiani. Ipotizzando un incontro tra il fisico inglese (tra l’altro membro dell’Accademia Pontificia) e Benedetto XVI durante la sua prossima visita, sarebbe bello che il Papa gli facesse omaggio della sua Enciclica 'Deus Caritas est', così forse Hawking si renderebbe conto che il 'dio' che pretende di eliminare non è né il Dio di Abramo, né il Logos incarnato, né alcun’altra Persona della Santissima Trinità. Rimane comunque l’impatto mediatico che affermazioni ateistiche del genere riescono ad avere quando provengono da personaggi di grandissima notorietà come Hawking Vista la superficialità delle loro esternazioni, di atei come questi non se ne sente davvero la necessità. Lo scienziato credente si alza molte volte ateo al mattino e lotta tutta la giornata per cercare di coricarsi la sera nuovamente credente. In questo combattimento quotidiano sarebbe bello potersi accompagnare con un 'fratello ateo, nobilmente pensoso' che onestamente si confronti con noi sul terreno della razionalità e con cui sperare, 'attraversando assieme il deserto e superando la foresta delle fedi', di veder scoccare all’orizzonte la scintilla della Verità. Questi sono gli atei di cui abbiamo nostalgia.


Avvenire.it, 4 settembre 2010 - SULLA CREAZIONE - Caro Hawking, e l’istante prima del Big Bang?
Stephen Hawking ha recentemente affermato, in un libro uscito in questi giorni in Inghilterra («The Grand Design»), che la creazione dell’universo si può spiegare anche senza scomodare la presenza di Dio. Niente «fiat lux», dunque, perché l’universo, sostiene Hawking, si è fatto da sé. Non è la prima volta, e non sarà nemmeno l’ultima, che uno scienziato si prende la briga di spiegare urbi et orbi di poter fare a meno dell’intervento divino nella creazione del mondo. Pierre Simone De Laplace, in pieno clima illuminista, era uscito con una battuta simile.

Quando, infatti, Napoleone gli chiese un suo parere sull’esistenza di Dio, Laplace gli rispose: «Sire, non ho bisogno di questa ipotesi». La fisica moderna, e in particolare la complicatissima «meccanica quantistica», si è tuttavia posta, magari indirettamente, il problema della creazione e paradossalmente è arrivata ad una conclusione in linea con la Genesi. La «meccanica quantistica», infatti, e in particolare il «principio di indeterminazione» di Heisenberg, ammette l’apparizione dal nulla di piccole quantità di energia (si parla di «fluttuazioni») e pertanto anche il nostro universo potrebbe essere nato proprio da una fluttuazione, che è pur sempre un ammettere una sorta di «fiat lux». Ormai tutti gli scienziati sono d’accordo nell’ammettere che il nostro universo sia nato da quella grande esplosione chiamata «big bang» e la moderna cosmologia è in grado di raccontare minuto per minuto tutto il film dell’universo che si è dipanato da quel lontanissimo evento avvenuto circa 13.7 miliardi di anni fa.

L’unico «buco» è l’intervallo di tempo che va dall’istante zero a un tempo valutato in «10 alla meno 43», che significa un decimale con 43 zeri dopo la virgola. Un tempo incredibilmente piccolo (è detto «tempo di Planck»), che non riusciamo nemmeno ad immaginare tanta è la sua pochezza. Eppure in quell’intervallo è avvenuta la nascita del nostro universo. La vogliamo chiamare «creazione»? E prima cosa c’era? Il nulla. Ma questo «nulla» è proprio un nulla o un qualcosa di più complesso? Evidentemente deve essere qualcosa di più complesso se è vero che dal nulla possono verificarsi queste «fluttuazioni». E se con il «Big Bang» sono nati sia lo spazio che il tempo, cosa faceva Dio prima del «Big Bang»? A questa domanda un astronomo fornì questa risposta: «Cosa stava facendo Dio prima del Big Bang? È molto semplice: stava creando l’inferno per metterci dentro chi avrebbe formulato domande di questo genere!».

Paul Davies, nel suo "La mente di Dio", scrive che la maggioranza degli scienziati diffida profondamente del misticismo ma è anche vero che la ricerca delle risposte ultime porta inevitabilmente a confrontarci con l’infinito. È anche vero che misticismo e metodo scientifico non vanno, né possono andare, d’accordo. Ma il misticismo, lo si voglia o no, è nella natura stessa delle cose. E aveva ragione Fred Hoyle quando diceva: «Ho sempre trovato strano che, benché la maggior parte degli scienziati dica di volerla evitare, in realtà la religione domini i loro pensieri ancora più di quelli dei preti».
Franco Gàbici