Nella rassegna stampa di oggi:
1) La Natività della Madre di Dio nella tradizione siro-occidentale- Inizia la redenzione della natura umana di Manuel Nin - (©L'Osservatore Romano - 8 settembre 2010)
2) Avvenire.it, 8 settembre 2010 - L'UDIENZA - Il Papa: «Penitenza e conversione vero rinnovamento della Chiesa»
3) Intervista sul Beato Newman. Parla la scrittrice Cristina Siccardi - Di Giuliano Guzzo (del 07/09/2010 @ 09:12:06, in Le interviste di Libertà e Persona…- dal sito http://www.libertaepersona.org
4) LE RIFORME DOPO LA CRISI DEGLI ABUSI SESSUALI - Intervista agli autori Gregory Erlandson e Matthew Bunson - di Karna Swanson – da zenit.org
5) NELL'ORISSA PIÙ DI 4.000 CRISTIANI SUBISCONO SOPRUSI E CONVERSIONI FORZATE
6) Non sempre i Vescovi hanno ragione. La risposta di Maroni é stata impeccabile e Tettamanzi dovrebbe riflettere prima di fare certe dichiarazioni – intervista a Massimo Introvigne di Bruno Volpe – dal sito http://www.pontifex.roma.it
7) William Paley, da “Evidences of the Existence and Attributes of the Deity”, “Testimonianze dell'Esistenza e degli Attributi della Divinità”)
8) Avvenire.it, 8 settembre 2010 - Senza maestri che appassionino restano le «vogliuzze» - Chi abbandona è abbandonato di Alessandro D’Avenia
9) Solo la fede della Chiesa ci fa liberi. Il Messaggio ai giovani di Benedetto XVI nota pubblicata da Massimo Introvigne il giorno mercoledì 8 settembre 2010
10) MA SE IL MONDO È SENZA SCOPO , SPIEGATECI PERCHÉ - ROBERTO TIMOSSI – Avvenire, 8 settembre 2010
La Natività della Madre di Dio nella tradizione siro-occidentale- Inizia la redenzione della natura umana di Manuel Nin - (©L'Osservatore Romano - 8 settembre 2010)
La tradizione liturgica siro-occidentale celebra, con le altre liturgie di oriente e occidente, la natività della Madre di Dio l'8 settembre. Di origine gerosolimitana, la festa - legata alla dedicazione di una chiesa nel luogo ritenuto casa di Gioacchino e Anna, genitori di Maria - venne introdotta a Costantinopoli nel VI secolo e a Roma da Papa Sergio I (687-701). Personaggi e temi sono presi dal Protovangelo di Giacomo, con la narrazione della storia di Gioacchino e Anna, anziani ambedue e sterile lei, che accolgono nello stupore e nella gioia la benedizione di Dio con la nascita della loro figlia.
Questa benedizione è collegata con quella di altre coppie bibliche: "Signore Dio, consolatore degli afflitti e sollievo dei provati, tu hai consolato l'afflizione di Abramo e Sara con la nascita di Isacco, figlio del prodigio, e rallegrato il sacerdote Zaccaria e la sterile Elisabetta con la nascita di Giovanni, nobile profeta. Tu anche oggi procuri la gioia ai giusti Gioacchino e Anna, per mezzo di Maria, tua madre diletta, gioia delle vergini e ornamento dei casti". Diversi testi, prendendo spunto della verginità di Maria, parlano dei vergini e delle vergini, degli uomini casti e delle donne caste, sinonimi che la letteratura monastica siro-occidentale adopera per i monaci e le monache.
La nascita di Maria viene presentata come l'inizio della redenzione della natura umana: "Per mezzo di Maria iniziano i beni e terminano i mali; per lei l'amarezza cambia in dolcezza e delizie spirituali; per lei è rimosso l'inganno del serpente". Con un parallelo tra la nascita di Maria e quella di Cristo, entrambe annunciate dall'arcangelo: "Colui che plasma tutti i fanciulli e governa su ogni creatura si è prescelto una madre per apparire da lei al mondo. Dall'alto Gabriele discese presso il giusto Gioacchino e gli annunciò la nascita della tutta pura e benedetta. Anna, colma della gioia dello Spirito Santo, disse a Gioacchino: Benedetto Dio che ha benedetto il frutto del mio seno! Ambedue esultano e giubilano: Il Signore si è ricordato della sua alleanza e ha fatto misericordia ad Abramo".
La liturgia dipende dalla narrazione del Protovangelo di Giacomo, e nel vespro e nel mattutino dopo la nascita di Maria prosegue col suo soggiorno nel tempio: "Dopo averla votata fin dall'infanzia e portata nel tempio, Maria fu accolta nel tempio dai sacerdoti che supplirono con zelo e gioia i suoi genitori. Maria visse nel tempio crescendo nelle virtù e nella santità". Introducendo poi il suo matrimonio con Giuseppe, la liturgia rilegge cristologicamente un testo di Isaia (29, 11): "Si verificò la parola del profeta: Un libro sigillato sarà consegnato a un uomo versato nella legge divina, colto e rispettato, al quale si dirà: Leggi questo libro! Ma lui risponderà: Non posso, è sigillato per il Cristo Signore! Con ciò il profeta alludeva al suo misterioso connubio e al sigillo della sua verginità che sussiste nell'eternità dei secoli. Già prima che nascesse i profeti l'avevano benedetta e indicata con simboli e misteri".
La natività di Maria e la sua maternità divina sono collegate con la vita della Chiesa: "Tu sei beata, o vergine Maria, pura e piena di grazia, fonte di beni e di vita duratura; tu sei beata perché hai messo al mondo colui che gli apostoli hanno predicato, colui per il quale i martiri si sono lasciati trucidare con amore, il cui desiderio fece abbandonare il mondo ai confessori e che infiamma del suo amore le vergini". E la natività di Maria esalta la donna: "Oggi tutta l'assemblea dei vergini e delle vergini esulta per la natività della Vergine Maria: per suo tramite le donne sono state esaltate dopo l'umiliazione subita dal serpente crudele; il maligno è nella confusione, scorgendo in lei il tempio puro della gloria di Dio altissimo".
La preghiera finale del vespro riunisce i diversi aspetti della festa: "O Cristo Dio nostro, rallegraci tutti come hai rallegrato i giusti Gioacchino e Anna per la nascita della Vergine tua madre. Donaci la gioia del perdono dei peccati e della remissione delle colpe. Possa questa festa solenne portare a noi le gioie spirituali e la pace; siano guariti i nostri mali e possa la luce della tua sapienza splendere nelle nostre anime. Risplenda questo giorno con la promessa di un futuro luminoso e favorevole; trasforma il nostro uomo interiore e donaci di progredire con gli angeli sino alla fine".
L'icona della festa riprende quella della nascita di Giovanni Battista e ha molte somiglianze con quella della nascita di Cristo. Nella parte centrale Anna è sdraiata sul letto, dopo aver partorito Maria. La vecchiaia di Elisabetta, la sterilità di Anna, la verginità di Maria: tutte e tre sono simbolo della Chiesa diventata feconda per mezzo del battesimo, a cui allude la scena del neonato lavato in un catino.
(©L'Osservatore Romano - 8 settembre 2010)
Avvenire.it, 8 settembre 2010 - L'UDIENZA - Il Papa: «Penitenza e conversione vero rinnovamento della Chiesa»
«Anche la teologia» può «ricevere un contributo peculiare dalle donne, perché esse sono capaci di parlare di Dio e dei misteri della fede con la loro peculiare intelligenza e sensibilità». Lo ha detto il Papa nella catechesi dell’udienza generale di oggi, dedicata ancora una volta – come mercoledì scorso – alla figura di Ildegarda di Bingen, «importante figura femminile del Medioevo, che si distinse per saggezza spirituale e santità di vita».
Sulla scorta dell’esempio della mistica, di cui durante la catechesi ha citato diverse opere, Benedetto XVI ha incoraggiato in particolare «tutte coloro che svolgono questo servizio a compierlo con profondo spirito ecclesiale, alimentando la propria riflessione con la preghiera e guardando alla grande ricchezza, ancora in parte inesplorata, della tradizione mistica medievale». Le visioni mistiche di Ildegarda, ha ricordato infatti il Santo Padre prima dell’appello alle teologhe, «sono ricche di contenuti teologici», perché «fanno riferimento agli avvenimenti principali della storia della salvezza e adoperano un linguaggio principalmente poetico e simbolico».
Da una parte c’è la «sfida dei vizi», dall’altra lo «stile di esistenza cristiana coerente e impegnato». Ha continuato il Papa. Citando alcuni scritti di Ildegarda, che completano le intuizioni presenti nella sua opera più nota, intitolata “Scivias” (“Conosci le tue vie”), Benedetto XVI ha fatto notare come alcuni di essi siano incentrati «sulla relazione tra virtù e vizi, per cui l’essere umano deve affrontare quotidianamente la sfida dei vizi, che lo allontanano nel cammino verso Dio e le virtù, che lo favoriscono».
Per il Papa, «le visioni mistiche di Ildegarda somigliano a quelle dei profeti dell’Antico Testamento: esprimendosi con le categorie culturali e religiose del suo tempo, interpretava nella luce di Dio le Sacre Scritture applicandole alle varie circostanze della vita». In questo modo, «tutti coloro che l’ascoltavano si sentivano esortati a praticare uno stile di esistenza cristiana coerente e impegnato”. In altri scritti, infine, Ildegarda “manifesta la versatilità di interessi e la vivacità culturale dei monasteri femminili del Medioevo, contrariamente ai pregiudizi che ancora gravano su quell’epoca»
«Con l’autorità spirituale di cui era dotata, negli ultimi anni della sua vita Ildegarda si mise in viaggio, nonostante l’età avanzata, per parlare di Dio alla gente». La sua «popolarità spingeva molte persone a interpellarla», tanto che «a lei si rivolgevano comunità monastiche maschili e femminili, vescovi e abati».
«Tutti l’ascoltavano volentieri – ha proseguito il Papa - anche quando adoperava un tono severo. Richiamava soprattutto le comunità monastiche e il clero a una vita conforme alla loro vocazione». In particolare, Ildegarda contrastò il movimento dei catari tedeschi, che «propugnavano una riforma radicale della Chiesa, soprattutto per combattere gli abusi del clero».
La santa «li rimproverò aspramente di voler sovvertire la natura stessa della Chiesa, ricordando loro che un vero rinnovamento della comunità ecclesiale non si ottiene tanto con il cambiamento delle strutture, quanto con un sincero spirito di penitenza e un cammino operoso di conversione».
«Questo è un messaggio che non dovremmo mai dimenticare», il commento del Papa, che ha concluso auspicando «donne sante e coraggiose, come santa Ildegarda di Bingen, che diano il loro prezioso e peculiare contributo per la crescita spirituale delle nostre comunità e della Chiesa del nostro tempo».
Intervista sul Beato Newman. Parla la scrittrice Cristina Siccardi - Di Giuliano Guzzo (del 07/09/2010 @ 09:12:06, in Le interviste di Libertà e Persona…- dal sito http://www.libertaepersona.org
Far rivivere sulle pagine di un libro personaggi del passato richiede pazienti lavori d’archivio, ricerche e talento. Tutte qualità che alla torinese Cristina Siccardi, classe 1966, non mancano affatto; così, dopo essersi occupata delle donne di casa Savoia e di Paolo VI, si è imbattuta, attratta dal campo religioso, nel ritratto del Cardinale John Henry Newman (“Nello specchio del Cardinale John Henry Newman”, Fede & Cultura, pp. 205) , indubbiamente una delle figure più affascinanti della storia della Chiesa. Basti dire che, nel corso della sua vita, da posizioni anglicane, che lo convinsero che il Papa fosse nientemeno che l'Anticristo – tesi che ribadì pure in pubblico - non solo si convertì al cattolicesimo, ma fondò il primo Oratorio di San Filippo Neri in Inghilterra, fu per quattro anni Rettore dell'Università Cattolica di Dublino per poi, dulcis in fundo, esser fatto Cardinale da Papa Leone XIII, che gli riconobbe "genio e dottrina". Una vita straordinaria, insomma. Che si interruppe serenamente l’11 Agosto 1890, quando il Cardinale, ormai ottantanovenne e consapevole, condotta la buona battaglia, di esser giunto alla fine della sua corsa, si spense. Sulla sua tomba, a memoria della sua incredibile avventura spirituale, è scolpito un epitaffio da lui stesso voluto: « Ex umbris et imaginibus in veritatem » ,«Dall'ombra e dai simboli alla verità». Il giorno successivo alla sua morte, il londinese Times pubblicò un elogio funebre che si concludeva con una piccola profezia:”il santo che è in sui sopravvivrà”.Ci ha lasciato un’Opera omnia imponente, un epistolario di oltre diecimila lettere e, soprattutto, la testimonianza di chi ha vissuto nella convinzione che sia la santità «il grande fine». Così, dopo averlo reso venerabile nel gennaio del ’91, la Chiesa si prepara, il prossimo 19 settembre, a beatificarlo. Non c’era davvero momento migliore, dunque, per incontrare l’autrice di una biografia, peraltro fresca di stampa e redatta sulla base di una robusta bibliografia, del celebre Cardinale.
Dottoressa Siccardi, che cosa l’ha spinta ad accostarsi alla figura del convertito e “dottore” della Chiesa, il Cardinale John Henry Newman? Com’è nata la sua curiosità verso questo straordinario cristiano? Da sempre ho visto nel grande convertito inglese una delle immagini più plastiche della irrinunciabilità della Fede e dei dogmi cattolici. Quando ho notato che, in prossimità della beatificazione, stava uscendo un florilegio di biografie che, invece, avevano il preciso scopo di descriverlo, nella linea Tyrrell-Buonaiuti, come un antesignano del modernismo e del relativismo, ho sentito il dovere etico di cercare di ribadire la verità storica, poiché questa stessa beatificazione è un segnale forte di riaffermazione, da parte della Chiesa, del suo monopolio della Verità.
Newman, a ben vedere, fu un caso di “pluri-convertito”: da piccolo era, come lui stesso ebbe a definirsi, “molto superstizioso”, poi divenne calvinista, anglicano e infine cattolico. Come si spiega questa continua metamorfosi? Questo cammino spirituale è, potremmo dire, la logica conseguenza della ricerca di Dio e della Verità, ricerca che fu, per tutta la sua vita, l’essenza della sua spiritualità. Newman ebbe sempre chiarissimo il principio cattolico che la Verità non può contraddire la ragione e che, quindi, la vera Fede può essere spiegata e, soprattutto, capita. Si pensi, a questo riguardo alla splendida lectio magistralis di Benedetto XVI a Ratisbona. Newman fu educato dalla madre nel credo calvinista e la superstizione lo accompagnò in questa Fede, almeno fino a quando, soprattutto per merito dell’incontro con il pastore Walter Mayers, purificò l’etica evangelica, in quanto ad essa non contraria: il Calvinismo elimina dalla religione l’aspetto razionale a favore di un’eticizzazione neofarisaica del Credo: il ripetere delle azioni per il fatto che sono comandate, indipendentemente dalla loro razionalità aiuta ad essere schiavi della superstizione. Non appena il futuro Cardinale iniziò a sottoporre a critica razionale la sua Fede, critica razionale cui sottoporrà tutta la vita ogni suo credo, si rese pressoché immediatamente conto della insostenibilità della dottrina del riformatore ginevrino. Ecco che la sua sete di razionalità lo portò alla Chiesa alta d’Inghilterra, vale a dire all’adesione a tutti i dogmi cattolici, sia pure in un contesto scismatico ed in una cornice di sentimenti ostili a Roma ed al Papa. Ancora una volta, però, è la sottoposizione ad analisi razionale dell’Anglicanesimo che lo conduce alla pienezza della verità cattolica. La razionalità gli impone il principio dell’immutabilità della Fede: se Dio ha rivelato la religione, essa è eternamente vera, come eternamente vero è Dio. Ogni evoluzione, mutamento o nuova interpretazione della dottrina è, dunque, dimostrazione di falsità della medesima. In base a questo principio Newman inizia a studiare i Padri della Chiesa, sicuro di ritrovare in loro la stessa Fede e validi motivi per permanere nella sua ostilità antiromana. Ma i Padri della Chiesa, come tutta la storia della Chiesa, testimoniano che solo la cattolicità romana, con tutte le sue pretese, primato petrino incluso, è rimasta immutata dalle origini ad oggi. Diviene, pertanto, esigenza etica imprescindibile l’adesione alla Sposa di Cristo. Quando Newman afferma che la sua spiritualità non è mai mutata, nonostante le conversioni, intende dire che da sempre lo guidò unicamente la sete di Verità e che tale sete si è placata solo con l’adesione alla vera Fede.
Di tutti i numerosi personaggi incontrati nella vita e negli studi, quale fu, secondo lei, la figura che esercitò maggior influenza su Newman? il compagno di studi John William Bowden? Il confidente Ambrose St. John, il grande amico Hurrell Froude oppure Papa Gregorio XVI? Newman fu sempre profondamente grato alle persone e ai tanti amici che conobbe e frequentò, perché da ciascuno di loro seppe trarre insegnamenti ed ammaestramenti. Tuttavia nessuno ebbe su di lui un’influenza totalizzante: rifuggì sempre l’eccessiva adesione all’altrui pensiero, come una vera e propria idolatria. Ecco che anche gli influssi che altri esercitarono su di lui divennero, nella sua mente e nella sua anima, pensieri e sentimenti assolutamente suoi, di cui è riconoscibile l’origine, ma è ancor più evidente la trasformazione e l’inserimento in un sistema di pensiero ed in una spiritualità armonici. Tutto ciò premesso possiamo ritenere che ci siano state delle persone da cui Newman trasse di più, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Il pastore evangelico della Chiesa d’Inghilterra Walter Mayers, ad esempio, insegnò al giovane Newman a coltivare la serietà religiosa, senza indulgere a facili concessioni al mondo: fu il passaggio da un Calvinismo superstizioso ad una interiorizzazione, sia pur non ancora razionale, dell’etica evangelica. Inoltre il ventunenne Newman imparò dal professor Richard Whately di Oxford ad utilizzare l’autonomia di pensiero. Confesserà nell’ Apologia pro vita sua: «Nel 1822, quando ero ancora timido e impacciato, egli mi prese per mano e si assunse nei miei riguardi la parte del maestro gentile e incoraggiante. Mi aprì, per così dire, la mente, mi insegnò a pensare, ad usare la ragione […] mi aveva insegnato a vedere con i miei occhi e a camminare con le mie gambe. Non che non avessi ancora da imparare molte cose da altre persone, ma queste le influenzai anch’io quanto loro influenzarono me, e fu una cooperazione piuttosto che un semplice incontro». Stima e profonda amicizia stabilì con Hurrell Froude, il quale gli diede la spinta decisiva ad innescare quel processo razionale che lo condurrà ad abbracciare il Cattolicesimo. Fu il tirare le estreme conseguenze dall’Anglicanesimo rigido del Tract 90: dalla liberazione dalle scorie evangeliche della Chiesa alta d’Inghilterra non poteva che conseguire la sua confluenza nel Cattolicesimo, alveo naturale per tutti coloro che hanno un Cristianesimo razionale. Delle altre persone citate nella sua cortese domanda nessuna ebbe particolare influenza sul pensiero e la spiritualità di Newman. Un cenno merita la concordanza antiliberale e antimodernista di Newman con Gregorio XVI (si pensi all’enciclica Mirari vos ed al Biglietto Speech del Cardinale inglese); ma fu una concordanza cui l’oratoriano giunse autonomamente.
In una lettera del 1830 il futuro Cardinale confessò il suo desiderio “di non fare mai carriera nella Chiesa”, ma l’Onnipotente, almeno su questo, non lo accontentò. Ed oggi è pure Beato. Ma come seppe fronteggiare, lui che sin da ragazzo era estremamente riservato e talora pure irriso per questo, l’impegno della carriera ecclesiastica? Newman non svolse nessun ruolo nella gerarchia ecclesiastica, fatto salvo, ovviamente, il suo impegno sacerdotale e l’organizzazione del primo oratorio inglese. Fu creato Cardinale, che lo ricordiamo, non è una funzione ed un grado all’interno della gerarchia, ma un titolo ed un riconoscimento, tanto è vero che prima della riforma di Giovanni XXIII per divenirlo non era necessario essere nemmeno sacerdoti e tantomeno vescovi: e Newman non fu Vescovo.
Impressiona molto leggere di come, nonostante l’isolamento anche universitario che gli procurò la sua conversione al Cattolicesimo, Newman non sia mai indietreggiato di un millimetro dalle sue posizioni. Anzi, attaccò frontalmente l’Anglicanesimo, credo che definì, con parole assai pesanti, “infelice e penoso”. Non andò meglio al Protestantesimo, che definì “nel migliore dei casi […] una bella statua di cera”. Questo spirito da apologeta maturò in lui tardivamente oppure gli apparteneva già prima? L’assoluta e totale intolleranza per qualunque dottrina si distanzi, anche minimamente, dalla Verità, fu sempre la faccia militante ed apologetica dell’amore per la Verità di Newman, in ogni fase della sua vita. Parole di fuoco ebbe, da anglicano, contro il Protestantesimo, tanto da sognare una Chiesa d’Inghilterra liberata dalle tossine della Chiesa Bassa e, di fatto, cattolica. Si può quasi affermare che, non essendo riuscito a far confluire tutto l’Anglicanesimo nella Cattolicità, si arrese a convertirsi da solo, anche se fu, poi, seguito da molti discepoli.
Tra i numerosissimi ammiratori di Newman ci fu anche Francesco Cossiga, da poco scomparso. Il presidente emerito, in un articolo scritto per la rivista "Vita e Pensiero”, riprese un intervento del Cardinale nel quale il futuro Beato ebbe a sostenere che vi sarebbero dei casi “nei quali la coscienza può entrare in conflitto con la parola del Papa e che, nonostante questa parola, debba essere seguita”. Letta così, si direbbe una legittimazione dei “cattolici-adulti”, non crede? L’affermazione che la coscienza è il supremo tribunale dell’individuo è corretta solo se interpretata nella sua lettura tomista, vale a dire solo se la coscienza non è corrotta, anche ex ante, da colpevoli pregiudiziali. La persona ha il dovere morale di aderire alla Verità e di formare la propria coscienza alla luce di questa. Una coscienza formata alla luce della Verità diviene, almeno nel lungo periodo, pressoché infallibile, perché la Verità la plasma e la abitua a non lasciarsi sedurre dal mondo. Ecco che è vero che la coscienza così formata deve guidare la persona più delle stesse parole del Papa, perché essa porta alla Verità. Si pensi, ad esempio, alla strenua battaglia di sant’Atanasio contro le influenze ariane tollerate, quando non favorite dal Pontefice. Egli, per Cristo e la Verità, patì persino la scomunica. Se si vuole un esempio più recente si pensi alla strenua difesa della Verità cattolica di Monsignor Marcel Lefebvre, che con il grande santo del IV secolo, condivise zelo, determinazione e dedizione assoluta del dogma. Ogni legittimazione dei cattolici adulti in base al principio dell’ossequio ai dettami della propria coscienza è viziata ab origine dall’accettazione delle influenze mondane contro il dogma e la Tradizione. Dogma e Tradizione sono sinonimi, come molto bene ha espresso san Vincenzo di Lérins quando ha definito il primo come ciò che tutti, sempre e dovunque hanno creduto nella Chiesa. In conclusione, si può affermare che la coscienza rettamente formata può essere invocata solo dai difensori della Verità di sempre e mai dai novatori, cui ben si addicono le parole di san Paolo: «Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» (2Tim 4, 3-4).
A parer suo qual è l’elemento oggi più attuale del pensiero di Newman? L’attualità di Newman è la sua inattualità, vale a dire la capacità, che egli condivide con ogni cattolico di essere eternamente attuale ed eternamente fuori tempo, perché legato indissolubilmente alla Verità eterna e, quindi, irrimediabilmente nemico di ogni adeguamento ai tempi, che, in fondo, non è altro che resa al Principe di questo mondo. Tanto come dire che la persona pervasa dalla Verità trasuda eternità.
A proposito, com’è possibile che un convertito di razza, per giunta stimatissimo anche da Benedetto XVI, sia stato talora additato come una sorta di precursore del modernismo e di propiziatore della nouvelle theologie? «Datemi una frase e vi condannerò un uomo» recita un antico adagio popolare. È esattamente ciò che hanno fatto, a partire da Tyrrell e Buonaiuti, tutti i modernisti, nouvelles theoligistes compresi, nei confronti di Newman. Prendendo alcune frasi, soprattutto della Grammatica dell’assenso, ed estrapolandole dal contesto e, soprattutto, non applicando quell’altro splendido proverbio che dovrebbe guidare l’esegesi di ogni testo, vale a dire «prendete le parole dalla bocca da cui vengono», hanno attribuito a Newman una lettura soggettivistica della gnoseologia, dimenticando che egli dava per scontata l’oggettività del reale e si concentrava sulla capacità del soggetto di adeguarsi all’oggetto. Hanno scambiato un’introiezione e spiritualizzazione, quasi ascetica, del già conosciuto come lo strumento stesso del conoscere. Tyrrell, ad esempio, era convinto di trovare nelle dottrine sul «senso illativo» della Fede del Cardinale Newman l’anello di congiunzione tra il Cattolicesimo e il pensiero moderno, fraintendendo il concetto di evoluzione del dogma del grande convertito inglese dell’Ottocento, che era sempre il cattolico sviluppo endogeno del dogma, vale a dire la possibilità e capacità della Chiesa di dire in modo sempre nuovo e più ricco ciò che ha sempre detto e solo quello: nove et non nova. Newman si è scagliato contro l’antidogmatismo protestante già quando era anglicano, potremmo dire, almeno in parte, già quando subiva le suggestioni calviniste della Chiesa Bassa d’Inghilterra. Attribuirgli queste posizioni, da cattolico, è ribaltare completamente il suo pensiero. Spesso il Cardinale inglese viene usato dagli assertori dell’ ecumenismo come un anticipatore dei temi a loro congeniali, affermando che è un precursore della comunione fra i diversi cristiani, ma Newman non ebbe mai a porsi di fronte ad un inverosimile ecumenismo delle religioni, lo avrebbe visto come una pericolosa teoria sincretista: la Chiesa di Cristo è unicamente quella romana e cattolica e l’obbedienza è la prova della Fede. L’ortodossia di Newman fu del resto difesa dallo stesso san Pio X nella lettera al Vescovo di Limerick del 10 marzo 1908.
Passiamo al gossip storico. Maligni internauti insinuano, sottolineando la sua lunga convivenza col già citato Ambrose St. John, da lei definito “grande amico d’anima” (p.40) del Cardinale, che Newman fosse gay. Scomoda verità o bufala? Ella ha, giustamente, ascritto questa questione al genus del pettegolezzo; e, per questa ragione, in sede di biografia storica abbiamo deciso di non occuparcene, ma, in sede giornalistica ella ha fatto molto bene a sollevare la questione, perché mi permette di spiegare la genesi di questa vera e propria calunnia, scientificamente diffusa. Le lobbies omosessuali, in cerca di legittimazione nel mondo cattolico, appoggiate, purtroppo, anche dai loro amici all’interno della Chiesa, hanno diffuso questa calunnia, che trova facile terreno di coltura in una sedicente civiltà che, riducendo tutto a materia e l’uomo a corpo, quasi freudianamente a sesso, non comprende più che cosa sia un’amicizia d’anima. Per questi moralisti di Satana, non può esistere un rapporto unicamente spirituale, una comunione tra due anime, che si sorreggono reciprocamente nel duro cammino ascetico per giungere a Dio. Possiamo immaginare che cosa le loro blasfeme menti penserebbero, se si dovessero soffermare sul rapporto fra santa Scolastica e san Benedetto, su quello fra san Francesco e santa Chiara, su quello fra santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce o su quello fra san Francesco di Sales e santa Giovanna di Chantal, per citare solo alcuni esempi di amicizia d’anima. Si tratta dell’espressione più mefistofelicamente perversa del vizio, siamo al vizioso che fa il moralista, al fine di giustificare il proprio vizio.
Se Newman vedesse i giovani d’oggi, così sovente sconfortati ma al tempo stesso incapaci di accostarsi alla Fede e di ammettere la loro nostalgia d’infinito, secondo Lei che farebbe? Esattamente ciò che fece allora: affermare con assoluta, totale e rigidissima nettezza la Verità dogmatica, da cui discende, tramite la retta ragione, la morale. Solo la contemplazione di Dio e la sequela di Nostro Signore Gesù Cristo, anche nel comportamento, possono eliminare il tedio della vita e dare, a tutte le età, la gioia dell’Infinito.
Per concludere, un parere personale: che cosa ha imparato scrivendo questo libro? Anche lei deve un ringraziamento al venerabile Cardinale? Ciò che mi è risultato molto più chiaro e, soprattutto, ha acquisito un sapore particolare, una sua fragranza spirituale è la strumentalità della ragione e, quindi, della teologia, alla Fede. Studiando il Cardinale Newman, si vede come questo principio non abbia solo una valenza negativa, ma, soprattutto, ne abbia una positiva. Non è solo vero che, staccando la ragione dalla Fede ed orientandola contro di essa, si uccide la stessa ragione; tale principio mi è sempre stato chiaro e gli esempi di molti pensatori, soprattutto contemporanei (si pensi a Kant, Voltaire, Marx, Freud…), stanno lì statuariamente a dimostrarlo. Ma, con il santo oratoriano inglese, si può valutare quanto la ragione possa, con la sua azione incessante, sostenuta dalla volontà, implorare la Fede a Dio; come il lavoro intellettuale possa assurgere al rango di preghiera e possa, con la sua fatica ed il suo dolore, muovere Dio a compassione ed indurLo a concederci il dono della vera Fede… È questo il motivo di maggiore gratitudine che conservo per questo grande santo, dopo, ovviamente, la riconoscenza che mi unisce a tutta la Chiesa per il gran numero di conversioni dallo scisma da lui prodotte ed agevolate.
LE RIFORME DOPO LA CRISI DEGLI ABUSI SESSUALI - Intervista agli autori Gregory Erlandson e Matthew Bunson - di Karna Swanson – da zenit.org
HUNGTINGTON (Indiana), lunedì 6 settembre 2010 (ZENIT.org).- Come nel 2002, la Chiesa sta nuovamente attraversando il doloroso processo di gestione di un’ondata di scandali sessuali. La differenza è che questa volta la Chiesa ha maggiore consapevolezza della gravità della pedofilia e può contare su 10 anni di esperienza maturata dai vescovi americani.
Queste sono le conclusioni a cui giungono Matthew Bunson e Gregory Erlandson nel loro libro "Pope Benedict XVI and the Sexual Abuse Crisis: Working for Reform and Renewal" (Our Sunday Visitor, 2010), di recente pubblicazione. Erlandson è presidente ed editore di Our Sunday Visitor Publishing, mentre Bunson è l’editore di The Catholic Almanac e di The Catholic Answer magazine (entrambi pubblicati da Our Sunday Visitor), oltre ad essere un punto di riferimento per la stampa sui temi cattolici.
In questa prima parte dell’intervista rilasciata a ZENIT, gli autori discutono sull’ultima serie di scandali legati ad abusi sessuali e spiegano perché è importante essere precisi nell’uso di termini tecnici come peodofilia, efebofilia o ebofilia, e perché la risposta dei vescovi statunitensi alla crisi del 2002 sia un importante modello per le altre conferenze episcopali.
Nei servizi giornalistici si sente molto usare il termine pedofilia. Nel vostro libro spiegate che solo il 6% circa di tutti i casi riportati sono effettivamente casi di pedofilia, che è tecnicamente definita come abuso sessuale su bambini in prepubertà. Perché questa confusione terminologica? E quanto è importante usare correttamente le parole? La Chiesa sta minimizzando gli scandali degli abusi sottolineando che i bambini abusati erano già ragazzi e adolescenti?
Bunson e Erlandson: Anzitutto è bene chiarire definitivamente che un abuso è un abuso ed è una cosa orrenda, quale che sia l’età del minore. È sia un crimine che un peccato. Che un adulto, con potere e autorità – e nel caso dei preti, con la veste dell’autorità divina – abusi sessualmente di un minore è intollerabile. Punto.
Quando la discussione assume contorni più scientifici, occorre tuttavia riconoscere che uno degli aspetti più problematici nell’affrontare il problema degli abusi sessuali è stata la necessità di approfondire la nostra conoscenza sulla pedofilia. Mentre la pedofilia è conosciuta dalla psichiatria da più di un secolo, solo negli anni Cinquanta è stata formalmente identificata e solo nel 1980 è stata corredata di parametri diagnostici da parte dei medici della salute mentale. Le distinzioni sono utilizzate dai medici per identificare se la vittima sia in prepubertà, in pubertà o classificato come giovane adulto.
È fondamentale che chi ha autorità nella Chiesa comprenda ogni aspetto di questo problema, al fine di poterlo affrontare in modo efficace ed esaustivo, e di mettere in atto meccanismi adeguati di prevenzione. Questo implica precisione clinica nell’affrontare la materia.
Per esempio, occorre tener conto dei diversi gruppi di età delle vittime e dei rispettivi termini che sono utilizzati per le diverse forme del fenomeno: pedofilia se le vittime sono minori di 10 anni, efebofilia se l’età è tra i 10 e i 14 anni, o ebofilia se tra i 14 e i 17 anni.
Queste distinzioni non sono state escogitate per qualche tentativo di minimizzare o sminuire la questione; tutt'altro. Se siamo in grado di determinare che una certa fascia d’età è più esposta agli abusi sessuali, possiamo mettere a fuoco con ancora maggiore precisione le cause del fenomeno e stabilire regole e barriere per la protezione dei minori e del loro benessere. Gli studi compiuti negli Stati Uniti hanno mostrato che la maggioranza degli abusi comprende ragazzi tra i 10 e i 14 anni, che è – per esempio – l’età tipica del coinvolgimento nel servizio all’altare.
Chiunque tenti di utilizzare le statistiche per dare l’idea che non si tratti di un problema grave o che vi siano circostanze attenuanti compie non solo un errore di valutazione sulla gravità di questo crimine peccaminoso, ma rende anche un disservizio alle vittime, alle loro famiglie e alla Chiesa.
Gli Stati Uniti hanno attraversato il periodo più grave della crisi degli abusi sessuali nel 2002 (quasi 10 anni fa!). Alla fine dello scorso anno, la pubblicazione dei rapporti di Ryan e Murphy, in Irlanda, ha innescato un altro periodo di crisi, che questa volta ha avuto ripercussioni maggiori in Europa e meno negli Stati Uniti. Quale era il contenuto dei rapporti tanto da far balzare nuovamente questo problema sulle prime pagine?
Bunson e Erlandson: Il nostro libro è stato pensato sin dall’inizio per aiutare la gente ad essere informata sulla vera storia della crisi, sia negli Stati Uniti, sia nel resto del mondo. Una delle cose che abbiamo rilevato subito, nell’ambito di questa nuova ondata globale di casi di abusi, è ciò che ha sottolineato nella domanda. Quando la Chiesa negli Stati Uniti è stata costretta ad affrontare gli scandali mediatici del 2002, i vescovi hanno risposto con un pacchetto complessivo di riforme: la Dallas Charter, le Essential Norms per la gestione dei casi, i colloqui annuali e l’adozione di una linea di tolleranza zero e di un sano ambiente nelle parrocchie, nelle scuole e negli istituti cattolici.
In seguito alle ultime rivelazioni mediatiche che hanno fatto il giro del mondo, i cattolici negli Stati Uniti potrebbero avere l’impressione che non sia stato compiuto alcun passo in avanti negli ultimi otto anni. Il nostro libro cerca di ricordare alle persone ciò che potrebbero aver dimenticato: che abbiamo compiuto enormi progressi in questo ambito negli Stati Uniti. Sebbene resti ancora molto da fare e occorra non abbassare la guardia, gli Stati Uniti sono oggi un modello per il resto del mondo nella gestione di queste crisi.
Questa è una base importane per poter guardare alla tragedia della Chiesa in Irlanda e altrove. I rapporti di Ryan e Murphy, nel proporre i dettagli shoccanti e orribili degli abusi e del fallimento istituzionale in Irlanda, e in particolare nell’Arcidiocesi di Dublino, hanno scosso la Chiesa in Irlanda e hanno notevolmente indebolito la credibilità e l’autorità morale della Chiesa in quel Paese; hanno anche incrinato la credibilità del Governo che è stato complice negli ultimi decenni del terribile fenomeno degli abusi sessuali e fisici sui bambini a causa della sua inattività e della sua scarsa volontà di affrontare il problema.
I vescovi irlandesi e gli esponenti della Chiesa irlandese sapevano che i rapporti avrebbero rivelato fatti terribili di abusi sui minori, ma la cifra e l’orrore dei fatti stessi ha sorpreso tutti. L’Arcivescovo di Dublino, mons. Diarmuid Martin, ha parlato a lungo di questo ed è stato una vera guida nell’indicare la lunga e difficile strada delle riforme e del rinnovamento per la Chiesa in Irlanda.
Ancora più importante è stato il Papa che, lo scorso marzo, dopo aver ricevuto i rapporti, ha scritto una lettera, senza precedenti, ai cattolici d'Irlanda. Si tratta di un documento straordinario nella sua franchezza e nella sua espressione di tristezza, di richiesta di perdono e di impegno nei confronti dell’Irlanda intera, per portare sollievo alle vittime, giustizia agli abusati e affidabilità ai vescovi che hanno mancato ai loro doveri e per assicurare un rinnovamento spirituale per gli anni a venire.
Purtroppo assistiamo a problemi simili in tutto il mondo. Vi sono casi in Germania, in Belgio, in Olanda e in Svizzera. L’Australia sta vendendo fuori solo ora da una terribile crisi. Vi sono casi in Brasile e nelle Filippine.
Ma qui vediamo l’importanza dell’esperienza statunitense. Le norme e i programmi definiti dai vescovi degli Stati Uniti vengono ora utilizzati come modello di riferimento dai Paesi che affrontano lo stesso tipo di scandali.
La maggior parte dei casi di abuso riguarda eventi avvenuti 20 o 30 anni fa. Perché la Chiesa se ne occupa solo ora? Perché ci ha messo così tanto tempo?
Bunson e Erlandson: Questo è un elemento importante per comprendere bene questa crisi. La maggioranza dei casi risale a 30, 40 o persino 50 anni fa. Negli Stati Uniti vi sono stati alcuni casi importanti negli anni Ottanta e Novanta, ma la tempesta si è abbattuta verso il 2001-2002 a causa anche delle esplosive rivelazione del quotidiano The Boston Globe sui documenti ottenuti dall’Arcidiocesi di Boston. Le notizie stampa, a loro volta hanno incoraggiato molte altre vittime a farsi avanti.
Una situazione simile la vediamo in Europa, dove le recenti notizie hanno indotto altre vittime a parlare, anche in Paesi come l’Olanda, dove già si era fatto ogni sforzo per incoraggiare le vittime a venire allo scoperto. La Chiesa in questi Paesi ha dimostrato di voler veramente affrontare il problema, ora che è stato ampiamente portato alla luce.
Come abbiamo detto, la Chiesa negli Stati Uniti ha ormai un’esperienza decennale sull'argomento. Anche l’Australia lo sta affrontando da molti anni. L’Austria, invece, ha a che fare con esso da alcuni anni: vi sono state anche le dimissioni del cardinale Hermann Gröer, Arcivescovo di Vienna, nel 1995, e uno scandalo relativo al seminario di Sankt Pölten nel 2004.
Vi è una comprensibile impressione che la crisi si stia aggravando, che nuovi casi si stiano accumulando e che non abbiamo fatto nulla per migliorare la situazione. La verità è che si è dovuto avviare un doloroso processo per portare i vertici cattolici ad una migliore comprensione della portata e della gravità del problema. Errori terribili sono stati compiuti nel passato e molti casi e situazioni sono stati ignorati. Alla fine sono venuti alla luce, a distanza di decenni, e ci è voluto del tempo per elaborare e attuare le giuste misure. Ora, in Europa e in altre parti del mondo, si devono affrontare le stesse situazioni che sono state affrontate dai vescovi americani nel 2002.
LE RIFORME DOPO LA CRISI DEGLI ABUSI SESSUALI (PARTE II)
Intervista agli autori Gregory Erlandson e Matthew Bunson
di Karna Swanson
HUNGTINGTON (Indiana), martedì, 7 settembre 2010 (ZENIT.org).- Mentre la Chiesa continua ad affrontare gli scandali degli abusi sessuali, i cattolici devono sapere che esiste un programma per andare avanti e che Benedetto XVI ne sta guidando il processo. Questo è quanto affermano gli autori di un libro sulla risposta che il Papa sta dando alla recente ondata di casi sessuali.
Si tratta di Matthew Bunson e Gregory Erlandson, che di recente hanno scritto a quattro mani un volume dal titolo “Pope Benedict XVI and the Sexual Abuse Crisis: Working for Reform and Renewal" (Our Sunday Visitor, 2010).
In questa seconda parte dell’intervista rilasciata a ZENIT, gli autori riflettono sulle conseguenze derivanti dalla crisi sugli abusi sessuali e su ciò che Benedetto XVI ha fatto per consentire alla Chiesa di superarla.
La prima parte dell’intervista è stata pubblicata il 6 settembre.
Nel libro si fa riferimento al fatto che la Chiesa viene accusata di non aver dato per tempo una adeguata risposta ai casi di abusi, ma anche che in molti casi le stesse autorità civili hanno ritardato a rispondere. Vi sono stati dei cambiamenti negli ultimi 20 o 30 anni su come la legge affronta questo tipo di reati?
Bunson e Erlandson: Sebbene negli ultimi decenni siano state approvate leggi riguardanti gli abusi sessuali sui minori, allo stesso tempo le autorità civili hanno continuato ad avere quella stessa generale carenza di comprensione del fenomeno. È mancata sia un’adeguata consapevolezza su questo tipo di devianza, sia la comprensione del suo impatto sui bambini abusati. Come sosteniamo nel libro, molti vescovi si sono affidati agli esperti di salute mentale per ricevere consigli su come gestire i preti abusatori, accettando l’idea che un prete in terapia potesse essere trasferito ad un nuovo incarico. Oggi sappiamo che questo è stato un errore catastrofico.
Vi è stata anche una certa riluttanza nell’accusare i preti e la Chiesa di comportamenti che erano considerati alla stregua dell’abuso di alcol o di stupefacenti. In luoghi come l’Irlanda e gli Stati Uniti, spesso le autorità civili non procedevano nei casi di abusi su minori per un eccessivo senso di deferenza verso i sacerdoti o per non voler dare scandalo all’istituzione religiosa. Papa Benedetto XVI ha sottolineato proprio questo aspetto nella sua lettera ai cattolici di Irlanda.
La Chiesa esiste da più di duemila anni e ha dimostrato la sua forza nel superare le molte crisi che l’hanno minacciata. Detto ciò, quali sono le conseguenze per la Chiesa generate da questa crisi sugli abusi sessuali? E soprattutto, quali conseguenze ha subito la fede dei singoli credenti, siano essi le vittime, gli stessi abusatori, o i fedeli tra i banchi?
Bunson e Erlandson: La Chiesa ha subito una dolorosa ferita con questa crisi sugli abusi sessuali. Non solo è stata un’umiliazione e un duro colpo alla sua reputazione, ma ha dovuto riconoscere che proprio chi aveva la maggiore responsabilità nei confronti delle anime – preti, diaconi, vescovi, dipendenti ecclesiastici – ha fallito miseramente. Alle vittime degli abusi è stata distrutta la vita e fortemente indebolita la fede. In aggiunta, delitti come quello degli abusi sessuali hanno un effetto moltiplicatore, provocando traumi e allontanando famiglie e amici, e minando la testimonianza della Chiesa nella società.
La grande maggioranza dei preti è dedita e fedele ai propri voti, eppure si è vista distrutta la propria reputazione ed ha sentito il peso della diffidenza. In quelle parrocchie dove vi sono stati abusi, la sfiducia e il dolore da parte della gente persiste anche quando i casi vengono affrontati in modo schietto ed energico. Anche il rapporto tra i preti e i vescovi ne ha subito le conseguenze. Non è infrequente che i sacerdoti sentano minacciata la propria reputazione e considerino inaffidabili i loro vescovi che li hanno resi come capri espiatori per i loro più ampi problemi istituzionali. Molti, tra cui il fu cardinale Avery Dulles, hanno messo in guardia sulla frattura nel rapporto preti-vescovi che può originare da questi scandali.
I vescovi – gran parte dei quali ha ereditato i casi di abusi e i relativi processi dai decenni passati – hanno visto crollare la loro reputazione e la loro autorità morale in un momento in cui le loro voci erano più necessarie.
Per quanto riguarda i fedeli, che traggono la maggior parte delle notizie dalla stampa laica, gli scandali hanno continuato ad erodere la fede nelle istituzioni della Chiesa e nei loro rappresentanti. Questa corrosione di fiducia ha implicazioni di lungo termine, che vanno al di là di coloro che smettono di andare a messa. Quei cattolici che si erano già allontanati dalla fede, potrebbero cogliere l’occasione degli scandali per rompere definitivamente con la Chiesa, ma coloro che restano non riescono a comprendere l’intero contesto e vedere tutto ciò che la Chiesa sta facendo per correggere gli errori del passato e prevenirne di futuri. È in particolare per queste persone che abbiamo scritto il nostro libro: per i nostri fratelli cattolici che potrebbero vedere solo metà della storia.
Benedetto XVI ha inoltre voluto legare strettamente la riforma della Chiesa sugli abusi sessuali ad un più ampio programma di rinnovamento spirituale. La crisi ha quindi fornito alla Chiesa l’occasione per introdurre necessarie riforme istituzionali e per avviare un processo di rinnovamento spirituale. Come ha accennato, entrambi questi aspetti sono perfettamente in linea con la più ampia storia della Chiesa, in un continuo stato di riforma e di rinnovamento, come ebbe a dichiarare memorabilmente Papa Gregorio Magno.
Voi sostenete che Benedetto XVI stia esercitando una leadership in questa crisi e che il suo pontificato sarà giudicato sulla base della sua risposta agli abusi sessuali nella Chiesa. Quali sono secondo voi i principali elementi di risposta che sta dando?
Bunson e Erlandson: Il nucleo del nostro libro è quello di documentare la grande esperienza di Joseph Ratzinger, ora Benedetto XVI, nel gestire gli abusi sessuali, da quando era Arcivescovo di Monaco-Freising, alla sua nomina a capo della Congregazione per la dottrina della fede, alla sua elezione al Soglio Pontificio nel 2005.
Il Papa ha avuto a che fare con questa questione da anni. Come capo della Congregazione per la dottrina della fede, ha assunto il controllo sui casi di tutto il mondo, dopo che nel 2001 Giovanni Paolo II ha emanato il decreto di accentramento in Vaticano della supervisione dei casi. In quella posizione è diventato forse la persona più informata in tutta la Chiesa sull’estensione e la gravità del problema. Ha sostenuto la riforma e i nuovi programmi negli Stati Uniti. Ha accettato le dimissioni di vescovi in tutto il mondo per aver fallito nel loro ruolo di guida nella gestione dei casi. Ha parlato a lungo di questo problema, come testimoniano le chiare parole da lui espresse durante il suo viaggio negli Stati Uniti nel 2008 e la sua lettera ai cattolici di Irlanda. Si è incontrato con le vittime di abusi negli Stati Uniti, in Australia, a Malta e in Vaticano, e ha detto di voler incontrare le vittime dell’Irlanda. È chiaro anche che continuerà a parlare della questione, avendo in programma di emanare norme universali per la Chiesa in questo importante settore.
Come abbiamo sottolineato, il Papa ha unito queste fondamentali riforme istituzionali ad un più ampio programma di rinnovamento spirituale. Come ha ricordato durante il suo viaggio apostolico a Cipro, la Chiesa può sopravvivere alle persecuzioni esterne, ma la più grande minaccia per la Chiesa viene dal suo interno: dai peccati e dai fallimenti dei suoi membri. Senza dubbio la crisi sugli abusi sessuali rappresenta una catastrofe per l’intero mondo cattolico, ma seguendo la guida di Papa Benedetto, noi cattolici possiamo avere fiducia nel futuro e sapere che abbiamo un percorso davanti a noi. Il Santo Padre è la nostra guida in questo lungo e difficile cammino.
NELL'ORISSA PIÙ DI 4.000 CRISTIANI SUBISCONO SOPRUSI E CONVERSIONI FORZATE
ROMA, martedì, 7 settembre 2010 (ZENIT.org).- A due anni dai pogrom anticristiani nello Stato indiano dell’Orissa, in 20 villaggi del distretto di Kandhamal più di 4.000 persone subiscono ancora discriminazioni sociali e conversioni forzate da parte degli indù.
Oltre alla paura di minacce e alla totale esclusione dall’economia locale, rivela AsiaNews, ai cristiani è proibito anche usare l’acqua delle fontane pubbliche e raccogliere legna nella foresta.
“La gente vive ancora nella miseria. Hanno diritto a vivere una vita dignitosa e il Governo dell’Orissa ha l’obbligo di proteggere i cristiani da questi trattamenti disumani”, ha affermato l'Arcivescovo di Cuttack-Bhubaneswar, monsignor Raphael Cheenath.
Il presule ha invitato le autorità locali a risarcire le persone colpite dai pogrom rimaste senza casa e ha denunciato l’insufficienza delle compensazioni erogate fino a questo momento: circa 800 euro per le case completamente distrutte e 300 euro per quelle parzialmente danneggiate.
“Lo Stato dovrebbe aumentare i finanziamenti, da 800 euro ad almeno 3mila a seconda del danno. Solo così, potranno essere ricostruite chiese, scuole, sedi di organizzazioni e istituti”, ha dichiarato.
Monsignor Cheenath ha inoltre sottolineato che è stata fatta un’assegnazione arbitraria dei finanziamenti, senza consultare le vittime.
Tra il dicembre 2007 e l'agosto 2008, gli estremisti indù hanno ucciso 93 persone, bruciato e depredato più di 6.500 case, distrutto oltre 350 chiese e 45 scuole. I pogrom hanno provocato lo sfollamento di più di 50.000 persone.
Gran parte degli autori dei crimini è a tutt'oggi in libertà, e al processo presso il tribunale di Kandhamal i testimoni sono stati messi a tacere con minacce e discriminazioni.
Dal 22 al 24 agosto, vittime, attivisti per i diritti umani e leader religiosi hanno organizzato un tribunale popolare a Nuova Delhi per far luce sui fatti e chiedere l’intervento del Governo centrale indiano.
Non sempre i Vescovi hanno ragione. La risposta di Maroni é stata impeccabile e Tettamanzi dovrebbe riflettere prima di fare certe dichiarazioni – intervista a Massimo Introvigne di Bruno Volpe – dal sito http://www.pontifex.roma.it
Delle sconsiderate dichiarazioni pro moschea, Pontifex parla con uno dei massimi esperti di questioni religiose e noto sociologo, il professor Massimo Introvigne. " Sa, non vorrei mancare di rispetto al cardinale Tettamanzi, ma penso che non sempre i cattolici debbano dire che i Vescovi hanno ragione e nel caso di specie valuto, senza cadere in eresia, che il Ministro Maroni abbia ragione e da vendere". In che senso?: " in questo: se dessimo sempre la buona alle dichiarazioni dei vescovi a scatola chiusa, cadremmo in un meschino clericalismo che non ha ragion di essere. Invece una sana laicità ci deve portare ad attribuire alla chiesa quello che é compito della chiesa e allo stato quello che gli appartiene". Che cosa vuol dire?: " mi spiego. Certi organi di stampa sono sempre pronti a denunciare inesistenti violazioni alla laicità da parte della Chiesa cattolica quando questa, con ogni ragione, lancia allarmi sui principi non negoziabili come difesa della vita, aborto, omosessualità. Poi quando qualche vescovo cede sulle moschee, che sono anche un problema statale di sicurezza, si plaude e non si evidenzia una violazione della laicità. Si mettano d'accordo".
Dunque per lei le dichiarazioni del cardinal Tettamanzi sono in primo luogo non condivisibili per una violazione della laicità: "paradossalmente direi di sì. Se qualche ministro o uomo di stato ci va prudente con le moschee e gli islamici non lo fa per cattiveria, ma per ragioni di sicurezza ed ordine pubblico e valutazioni delicate come quelle della opportunità o meno della moschea non vanno affrontate semplicisticamente con poche righe di dichiarazione su un giornale e poi quale".
Il professor Introvigne affronta un secondo aspetto: " se vogliamo andare a quello religioso, non condivido le parole del cardinale, intanto perché disorientano i fedeli cattolici creando confusione. Poi penso che ormai la diocesi di Milano da tempo ci abbia abituati a Vescovi che prendono posizioni singolari e dissenzienti dal comune modo di pensare della tradizione cattolica che va difesa e tutelata con rigore e serietà".
Precisa: "credo di conoscere abbastanza delle questioni islamiche e una moschea non é solo un semplice luogo di culto, ma anche un tribunale, una scuola e dunque l' apertura o meno della stessa involge problemi di ordine pubblico molto gravi che bisogna considerare con attenzione. Diversa sarebbe la questione di sale di preghiera, ma anche quelle hanno necessità di personale qualificato e selezionato nella gestione per evitare rischi di infiltrazioni violente".
Bruno Volpe
William Paley, da “Evidences of the Existence and Attributes of the Deity”, “Testimonianze dell'Esistenza e degli Attributi della Divinità”)
“Sostanzialmente la differenza tra credenti e non credenti si può ben riassumere con questo racconto. Un uomo passeggia per un prato e trova in terra un bell’orologio, ma non sa che genere di utensile sia. Lo prende, lo osserva, ne ammira la raffinata manifattura, ne misura la precisione, ne studia i minuziosi e complessi meccanismi delle lancette, e comprende che quell’orologio non può essere caduto dalle nuvole o essere stato generato dall’erba, ma deve essere stato creato da qualcuno, da un orologiaio, e che il suo proprietario l’ha perso o gli è caduto dal taschino. L’uomo capisce che l’oggetto non è dunque di sua proprietà, lo lascia dove lo ha trovato, e prosegue per la sua passeggiata. Costui è il credente.
C’è poi un altro uomo che, girando per quello stesso prato, trova il medesimo orologio. Anche egli lo prende, lo osserva, ne ammira la raffinata manifattura, ne misura la precisione, ne studia i minuziosi e complessi meccanismi delle lancette; poi si guarda intorno, perlustra la zona, ma non vede alcun artigiano o proprietario a cui possa appartenere quello strano oggetto. Non vedendo materialmente il creatore di quell’orologio deduce in fine che quel mirabile utensile si sia generato col tempo dalla terra, dunque materializzato dal nulla. Costui è l’ateo.
Ora, se si considera che già solo una cellula umana vive secondo una propria intelligenza, seconda una complessità e perfezione migliaia di volte superiori a qualsiasi orologio, allora chi è il più razionale? Il credente, che crede in un Autore di una così straordinaria perfezione? O chi crede che tutto si sia magicamente generato dal caso, cresca per caso, si evolva per caso? Può dunque l’intelligenza nascere dal nulla? Può la vita nascere dal nulla? Può la non-vita generate la vita? Può l'essere inanimato generare un essere animato? Se una sola cellula è sinonimo di cotanta perfezione, che dire dell’essere umano, della sua fisionomia, della sua psiche? Che dire della straordinarietà di tutti gli esseri viventi, animali e vegetali? Che dire della grandiosa maestà della natura, della sua bellezza, dei suoi perfetti meccanismi e leggi? Che dire del processo della fotosintesi, delle cellette esagonali geometricamente ineccepibili costruite dalla api, del meraviglioso cromatismo delle code di un pavone? Tutti gli elementi del cosmo presentano una perfezione e complessità infiniti miliardi di volte superiori a quelle di un orologio. E come l’orologio del racconto non scaturisce dal caso, perché dal caso si sarebbe dovuta generale l’infinita e grandiosa complessità e perfezione di tutte le leggi e gli elementi del cosmo? La scienza e la fisica mostrano che la realtà è retta da una logica, e se c’è una logica allora ci deve essere anche un Autore. Coloro che negano l’esistenza di un Autore sono in contraddizione con la logica. L’ateismo quindi è un atto di fede nel nulla, non è un atto di ragione.”
(William Paley, da “Evidences of the Existence and Attributes of the Deity”, “Testimonianze dell'Esistenza e degli Attributi della Divinità”)
Avvenire.it, 8 settembre 2010 - Senza maestri che appassionino restano le «vogliuzze» - Chi abbandona è abbandonato di Alessandro D’Avenia
«Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono eguali. Una vogliuzza per il giorno e una per la notte: salva restando la salute. "Noi abbiamo inventato la felicità" – dicono e strizzano l’occhio. Io ho conosciuto persone nobili che hanno perduto la loro speranza più elevata. E da allora calunniano tutte le speranze elevate. Da allora vivono sfrontatamente di brevi piaceri e non riescono più a porsi neppure mete effimere. Perciò hanno spezzato le ali al loro spirito: che ora striscia per terra e contamina ciò che rode... Ma, ti scongiuro: mantieni sacra la tua speranza più elevata!». A leggere queste parole di Nietzsche si rimane sbalorditi: aveva previsto la chiusura della mente borghese e la sua rinuncia alla vita.
Nessun uomo è un’isola e, parafrasando il poeta, si può dire lo stesso di uno studente che abbandona la scuola. Se abbandona, non fallisce lui solo, ma la scuola come relazione: genitori-insegnanti-studenti. I dati parlano chiaro, negli ultimi cinque anni uno studente su tre dell’ultimo quinquennio non arriva al diploma; nell’ultimo anno il 20% ha abbandonato il liceo e il 44% gli istituti professionali. La scuola dovrebbe essere, attraverso la cultura e il lavoro manuale, un trampolino di lancio per la scelta professionale più adeguata. Quello che posso dire, da professore, è che molti abbandonano perché la scuola appare loro inutile per ciò che vogliono essere e fare nella vita.
Durante un’estate da liceale squattrinato lavoravo in un cantiere come aiuto di un manovale: «Sei fortunato – mi ripeteva – perché puoi studiare: se potessi, io tornerei indietro». La scuola dell’obbligo non obbliga a rimanerle fedele perché non riesce a obbligarti: solo gli amori veri e grandi "obbligano" alla fedeltà. I ragazzi che si disperdono spesso non hanno trovato docenti in grado di appassionarli. Eppure la scuola dovrebbe essere un "andare a bottega": scoperta e incoraggiamento dei talenti personali per opera di maestri. Ho incontrato, con l’occasione del mio primo libro, studenti di tutte le città e percorsi. Ho trovato ragazzi di istituti tecnici affamati di letture, ben sapendo che avrebbero fatto l’elettricista, l’idraulico, l’informatico. Tutto merito di professori appassionati ai loro alunni, capaci di accendere nei ragazzi, attraverso la cura del pezzo di mondo loro affidato, lo sguardo su una vita più grande, più piena, più ricca.
Molti ragazzi abbandonano perché tanto un lavoro si trova: si guadagna subito e si realizza l’orizzonte ristretto delle «vogliuzze». Manca loro uno sguardo di più lunga gittata. Gli adulti descritti da Nietzsche riescono a spegnere quello sguardo, perché hanno rinunciato loro stessi a una vita più grande. Anche loro si accontentano del tutto e subito. Se i ragazzi non leggono libri, è perché gli adulti accendono la tv, invece di prendere in mano un libro. Se i ragazzi abbandonano la scuola, è perché gli adulti della scuola non sono interessati a loro. La crisi dei giovani è crisi di maestri. Io conosco centinaia di maestri capaci di provocare la nostalgia del futuro, provocando (chiamandole alla luce) le risorse migliori degli studenti. Di contro ci sono docenti che odiano i loro studenti, li umiliano e condannano all’abbandono, non solo della scuola, ma di sé stessi.
Nietzsche sferzava i benpensanti che trasformavano la felicità in vogliuzze e benessere, gli stessi che hanno criticato queste parole: «Allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande. Se penso ai miei anni di allora: semplicemente non volevamo perderci nella normalità della vita borghese. Volevamo ciò che è grande, nuovo. Volevamo trovare la vita stessa nella sua vastità e bellezza». Le ha pronunciate Benedetto XVI, qualche giorno fa. Nietzsche e il Papa sembrano d’accordo. Esiste un terreno sul quale la scuola sta mancando e non è questione di ideologie, ma di amore all’uomo. Nella scuola è dei docenti – alleati ai genitori – il compito di trasmettere una vita più grande e nuova attraverso le loro ore di lezione.
Alessandro D’Avenia
Solo la fede della Chiesa ci fa liberi. Il Messaggio ai giovani di Benedetto XVI nota pubblicata da Massimo Introvigne il giorno mercoledì 8 settembre 2010
Il Messaggio per la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù (GMG), che avrà luogo a Madrid dal 16 al 21 agosto 2011, datato 6 agosto 2010 ma reso pubblico il 3 settembre, prende posto fra i testi più belli di Benedetto XVI. Autore di due encicliche sulla carità e sulla speranza, il Papa tratta qui in modo approfondito della fede, che presenta ai giovani anche attraverso alcuni spunti autobiografici, e delle difficoltà che oggi la ostacolano.
1. Il cuore inquieto dei giovani
Nei giovani di tutte le generazioni c’è un’inquietudine che porta a porsi le domande serie sul significato della vita e del mondo. «È parte dell’essere giovani desiderare qualcosa di più della quotidianità regolare di un impiego sicuro e sentire l’anelito per ciò che è realmente grande». «Ricordando la mia giovinezza so che stabilità e sicurezza non sono le questioni che occupano di più la mente dei giovani». Certo, il Papa è stato giovane in un momento storico particolare: «Durante la dittatura nazionalsocialista e nella guerra noi siamo stati, per così dire, “rinchiusi” dal potere dominante. Quindi, volevamo uscire all’aperto per entrare nell’ampiezza delle possibilità dell’essere uomo. Ma credo che, in un certo senso, questo impulso di andare oltre all’abituale ci sia in ogni generazione». «Si tratta solo di un sogno vuoto che svanisce quando si diventa adulti? No, l’uomo è veramente creato per ciò che è grande, per l’infinito. Qualsiasi altra cosa è insufficiente. Sant’Agostino [354-430] aveva ragione: il nostro cuore è inquieto sino a quando non riposa in Te. Il desiderio della vita più grande è un segno del fatto che ci ha creati Lui, che portiamo la sua “impronta”». Solo il provincialismo di qualche giornale italiano poteva vedere in questa profonda analisi dell’inquietudine giovanile un intervento del Papa in polemiche italiane a proposito del «posto fisso» e del precariato, forse scambiando sant’Agostino per un sindacalista.
Tornando a cose più serie, il Papa sottolinea come alla radice di questo desiderio presente nel cuore dei giovani c’è Dio. «Il desiderio della vita più grande è un segno del fatto che ci ha creati Lui, che portiamo la sua “impronta”». Questa osservazione è già un giudizio sul mondo contemporaneo. «Allora comprendiamo che è un controsenso pretendere di eliminare Dio per far vivere l’uomo! Dio è la sorgente della vita; eliminarlo equivale a separarsi da questa fonte e, inevitabilmente, privarsi della pienezza e della gioia: “la creatura, infatti, senza il Creatore svanisce” (Con. Ecum. Vat. II, Cost. Gaudium et spes, 36). La cultura attuale, in alcune aree del mondo, soprattutto in Occidente, tende ad escludere Dio, o a considerare la fede come un fatto privato, senza alcuna rilevanza nella vita sociale. Mentre l’insieme dei valori che sono alla base della società proviene dal Vangelo – come il senso della dignità della persona, della solidarietà, del lavoro e della famiglia –, si constata una sorta di “eclissi di Dio”, una certa amnesia, se non un vero rifiuto del Cristianesimo e una negazione del tesoro della fede ricevuta, col rischio di perdere la propria identità profonda».
Ma l’eclissi di Dio genera insicurezza e smarrimento, dal momento che la domanda che Dio ha deposto nel cuore dei giovani rimane senza risposta. Oggi «molti non hanno punti di riferimento stabili per costruire la loro vita, diventando così profondamente insicuri. Il relativismo diffuso, secondo il quale tutto si equivale e non esiste alcuna verità, né alcun punto di riferimento assoluto, non genera la vera libertà, ma instabilità, smarrimento, conformismo alle mode del momento».
2. La vera risposta: la fede
La sola risposta adeguata all’inquietudine che è nel cuore dei giovani viene dalla fede. Per spiegare esattamente di che si tratta Benedetto XVI propone un’esegesi di un brano della Lettera ai Colossesi di san Paolo, dove l’Apostolo invita i cristiani di Colossi – una città della Frigia, nell’attuale Turchia – a rimanere «radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede» (Col 2, 7). Il Papa osserva che «nel testo originale i tre termini, dal punto di vista grammaticale, sono dei passivi». E questo dato non ha solo a che fare con la grammatica: «significa che è Cristo stesso che prende l’iniziativa di radicare, fondare e rendere saldi i credenti».
San Paolo, dunque, usa tre immagini: «radicato” evoca l’albero e le radici che lo alimentano; “fondato” si riferisce alla costruzione di una casa; “saldo” rimanda alla crescita della forza fisica o morale». Tutte e tre le immagini hanno una tradizione che viene dall’Antico Testamento, ma nel testo di san Paolo acquistano un preciso riferimento alla figura di Gesù Cristo. Un albero «senza radici sarebbe trascinato via dal vento, e morirebbe». Perfino nel mondo di oggi dominato dal relativismo tutti i giovani fanno esperienza delle radici: «i genitori, la famiglia e la cultura del nostro Paese, che sono una componente molto importante della nostra identità». Ma «la Bibbia ne svela un’altra. Il profeta Geremia scrive: “Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia. È come un albero piantato lungo un corso d’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi, nell’anno della siccità non si dà pena, non smette di produrre frutti” (Ger 17, 7-8). Stendere le radici, per il profeta, significa riporre la propria fiducia in Dio».
Con l’Incarnazione questo rapporto di fiducia con Dio è diventato un rapporto personale con Gesù Cristo: «quando entriamo in rapporto personale con Lui, Cristo ci rivela la nostra identità». «C’è un momento, da giovani, in cui ognuno di noi si domanda: che senso ha la mia vita, quale scopo, quale direzione dovrei darle?». Benedetto XVI ricorda qui la storia non semplice della sua vocazione, quando il cammino verso il sacerdozio fu interrotto dalla guerra: «In qualche modo ho avuto ben presto la consapevolezza che il Signore mi voleva sacerdote. Ma poi, dopo la Guerra, quando in seminario e all’università ero in cammino verso questa meta, ho dovuto riconquistare questa certezza». Al di là del caso particolare del Pontefice, ogni vocazione implica sofferenza perché consiste nel far prevalere quella che è compresa come volontà del Signore sui propri desideri, anche legittimi: «Non conta la realizzazione dei miei propri desideri, ma la Sua volontà». Ma la scoperta di Gesù Cristo come propria radice ultima conferisce pure una grande forza.
Venendo alla seconda immagine di san Paolo, le fondamenta, «come le radici dell’albero lo tengono saldamente piantato nel terreno, così le fondamenta danno alla casa una stabilità duratura. Mediante la fede, noi siamo fondati in Cristo (cfr Col 2, 7), come una casa è costruita sulle fondamenta». Quest’immagine della fondazione sulla fede come su una roccia si ritrova nell’Antico Testamento a proposito di Abramo. La roccia e le fondamenta evocano però qualche cosa che la casa non si dà da sé, che in un certo senso va oltre la casa, la precede e la trascende. Nelle fondamenta, nel terreno c’è tutta una storia, una tradizione che precede la decisione di costruire quella specifica casa. Così la fede non è mai un’esperienza puramente individuale ma si radica in una tradizione e in una storia. «Vi vengono presentate continuamente proposte più facili, ma voi stessi vi accorgete che si rivelano ingannevoli, non vi danno serenità e gioia. […] Non credete a coloro che vi dicono che non avete bisogno degli altri per costruire la vostra vita! Appoggiatevi, invece, alla fede dei vostri cari, alla fede della Chiesa, e ringraziate il Signore di averla ricevuta e di averla fatta vostra!».
La terza espressione che san Paolo usa nella Lettera ai Colossesi invita a rimanere «saldi nella fede». Vi è qui, spiega il Papa, un riferimento storico preciso ai problemi dei primi cristiani nella città di Colossi. In questa comunità erano presenti residui di pratiche pagane e anche una forma di eresia che annunciava lo gnosticismo, frutti entrambi di quelle che Benedetto XVI chiama «certe tendenze culturali dell’epoca, che distoglievano i fedeli dal Vangelo». «Il nostro contesto culturale, cari giovani, ha numerose analogie con quello dei Colossesi di allora. Infatti, c’è una forte corrente di pensiero laicista che vuole emarginare Dio dalla vita delle persone e della società, prospettando e tentando di creare un “paradiso” senza di Lui. Ma l’esperienza insegna che il mondo senza Dio diventa un “inferno”: prevalgono gli egoismi, le divisioni nelle famiglie, l’odio tra le persone e tra i popoli, la mancanza di amore, di gioia e di speranza. Al contrario, là dove le persone e i popoli accolgono la presenza di Dio, lo adorano nella verità e ascoltano la sua voce, si costruisce concretamente la civiltà dell’amore».
Purtroppo, come i Colossesi, anche i giovani oggi rischiano di essere indotti in confusione. Quando pure i giovani si avvicinano alla Chiesa, lì possono purtroppo trovare come a Colossi «fratelli contagiati da idee estranee al Vangelo». Vi sono infatti oggi «cristiani che si lasciano sedurre dal modo di pensare laicista, oppure sono attratti da correnti religiose che allontanano dalla fede in Gesù Cristo. Altri, senza aderire a questi richiami, hanno semplicemente lasciato raffreddare la loro fede, con inevitabili conseguenze negative sul piano morale». Come san Paolo ai Colossesi, il Papa raccomanda allora ai giovani di rimanere saldi nella fede della Chiesa, al cui cuore c’è la ferma convinzione che Cristo è morto e risorto per liberarci da «ciò che più intralcia la nostra vita: la schiavitù del peccato». Non c’è cristianesimo senza Croce, cioè senza senso del peccato e consapevolezza del mistero della Redenzione.
3. La fede è della Chiesa
Nell’ultima parte della lettera Benedetto XVI commenta con i giovani un altro brano della Scrittura, il noto episodio relativo all’apostolo san Tommaso, assente quando la sera di Pasqua il Signore risorto appare ai discepoli. Quando gli riferiscono dell’apparizione, Tommaso dubita: «quando gli viene riferito che Gesù è vivo e si è mostrato, dichiara: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” (Gv 20, 25)».
Questa esperienza è comprensibile: tutti «vorremmo poter vedere Gesù». E oggi da un certo punto di vista gli ostacoli sono più gravi che al tempo dell’apostolo san Tommaso: «oggi per molti, l’accesso a Gesù si è fatto difficile. Circolano così tante immagini di Gesù che si spacciano per scientifiche e Gli tolgono la sua grandezza, la singolarità della Sua persona». Il Papa confida che questa situazione lo ha indotto a sottrarre tempo ai doveri del suo ufficio per completare la sua opera Gesù di Nazareth: «durante lunghi anni di studio e meditazione, maturò in me il pensiero di trasmettere un po’ del mio personale incontro con Gesù in un libro: quasi per aiutare a vedere, udire, toccare il Signore, nel quale Dio ci è venuto incontro per farsi conoscere».
Ma da un altro punto di vista, nonostante le falsificazioni spacciate per scientifiche, oggi per noi vedere Gesù è più facile che per san Tommaso in quella sera di Pasqua. Possiamo infatti realmente «vederlo» nei sacramenti dell’Eucarestia e della Penitenza, così come – secondo la parola stessa del Signore – «nei poveri e nei malati». «Cari giovani, imparate a “vedere”, a “incontrare” Gesù nell’Eucaristia, dove è presente e vicino fino a farsi cibo per il nostro cammino; nel Sacramento della Penitenza, in cui il Signore manifesta la sua misericordia nell’offrirci sempre il suo perdono».
È evidente, però, che per essere capaci di «vedere» in questo modo occorre la fede. E che la fede, per non inaridirsi immediatamente, dev’essere «coltivata». Per «acquisire una fede matura, solida, che non sarà fondata unicamente su un sentimento religioso o su un vago ricordo del catechismo della vostra infanzia» il Papa raccomanda ai giovani: «Aprite e coltivate un dialogo personale con Gesù Cristo, nella fede. Conoscetelo mediante la lettura dei Vangeli e del Catechismo della Chiesa Cattolica; entrate in colloquio con Lui nella preghiera, dategli la vostra fiducia: non la tradirà mai!».
Di grande rilievo appare qui il riferimento, accanto ai Vangeli, al Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992. In quasi tutti i suoi interventi più solenni Benedetto XVI reitera l’invito a servirsi di questo strumento tanto fondamentale quanto trascurato. Non si tratta solo di un libro, ma di una questione decisiva che attiene all’essenza stessa del cristianesimo. La fede si «coltiva» solo nella Chiesa e ha bisogno della Chiesa. Se ci mettiamo a leggere i Vangeli al di fuori della Chiesa finiamo per costruirci un Dio contraffatto e fasullo, modellato a immagine dei nostri desideri.
Quando finalmente incontra san Tommaso dopo la Resurrezione, «Gesù esclama: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” (Gv 20,29)». In quel momento il Signore non si rivolge solo a san Tommaso. In realtà «egli pensa al cammino della Chiesa, fondata sulla fede dei testimoni oculari: gli Apostoli. Comprendiamo allora che la nostra fede personale in Cristo, nata dal dialogo con Lui, è legata alla fede della Chiesa: non siamo credenti isolati, ma, mediante il Battesimo, siamo membri di questa grande famiglia, ed è la fede professata dalla Chiesa che dona sicurezza alla nostra fede personale. Il Credo che proclamiamo nella Messa domenicale ci protegge proprio dal pericolo di credere in un Dio che non è quello che Gesù ci ha rivelato: “Ogni credente è come un anello nella grande catena dei credenti. Io non posso credere senza essere sorretto dalla fede degli altri, e, con la mia fede, contribuisco a sostenere la fede degli altri” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 166). Ringraziamo sempre il Signore per il dono della Chiesa; essa ci fa progredire con sicurezza nella fede, che ci dà la vera vita».
«La scelta di credere in Cristo e di seguirlo non è facile; è ostacolata dalle nostre infedeltà personali e da tante voci che indicano vie più facili». Da soli, rischieremmo di lasciarci scoraggiare. Nella Chiesa e con la Chiesa possiamo scegliere di credere e rimanere fedeli a questa scelta. È quanto il Papa convoca i giovani a riscoprire nella GMG di Madrid del 2011.
MA SE IL MONDO È SENZA SCOPO , SPIEGATECI PERCHÉ - ROBERTO TIMOSSI – Avvenire, 8 settembre 2010
«Nella natura niente è stato programmato: tutto si è semplicemente evoluto, senza alcun scopo». Così il biologo statunitense e premio Nobel per la medicina Robert Horvitz risponde a una domanda di Piergiorgio Odifreddi in un’intervista pubblicata di recente su «La Repubblica». L’affermazione che il mondo naturale non abbia uno scopo non è nuova presso gli scienziati e può essere intesa secondo due accezioni piuttosto differenti. La prima accezione è quella che si limita a considerare come la conoscenza scientifica non persegua «cause finali», ma semplicemente si accontenti di osservare quanto accade in natura e di individuare le leggi che spiegano i fenomeni. Da questo punto di vista è corretto dire che la scienza non si occupa della presenza di uno scopo inteso come disegno o progetto finalistico, anche se non può rinunciare a verificare se in alcuni processi complessi e ripetitivi come quelli biologici non sia presente una qualche forma di «programma» (è il caso del Dna). La seconda accezione investe un orizzonte ben più vasto, perché entra nel merito del problema del senso del cosmo e della vita, quindi della presenza o meno di un significato finalistico delle cose, che rimanda immediatamente all’interrogativo per noi cruciale sul senso dell’esistenza umana. Quest’ultima impostazione del tema dello scopo all’interno delle scienze naturali ha destato non poche perplessità nel mondo scientifico; tuttavia essa ha trovato e continua a trovare positivo accoglimento presso molti scienziati. Tra i primi a darle rilievo in epoca contemporanea è stato il celebre fisico e premio Nobel Steven Weinberg, il quale ha asserito senza mezzi termini: «Quanto più l’Universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo». Da qui è poi passato a concludere che «più affiniamo la nostra concezione di Dio per rendere plausibile questa idea e più essa ci appare senza senso». Dobbiamo riconoscere a Weinberg una certa coerenza di ragionamento, dal momento che se non esiste un Creatore che ha plasmato il cosmo secondo un preciso disegno, l’unica alternativa che resta per giustificare la realtà delle cose è il puro caso congiunto a una cieca necessità (le leggi della natura), quindi il «non-senso» ovvero l’assenza di uno scopo teleologico. Se questa assenza di senso vale per la fisica e per la cosmologia, per gli scienziati atei non può non valere per la biologia evoluzionista; anzi a detta di alcuni, come il genetista François Jacob e il naturalista Richard Dawkins, il principale merito di Charles Darwin sarebbe proprio quello di aver eliminato la finalità del mondo vivente. Delle due accezioni del concetto di scopo nella scienza è sicuramente corretta la prima, ma non la seconda. Gli scienziati infatti si preoccupano di scoprire come stanno le cose, come «funziona» il mondo, mentre non si pongono e non devono porsi la questione del senso inteso come scopo o disegno finalistico. Il problema del significato delle cose è un argomento di pertinenza della filosofia e della teologia, non delle scienze naturali. Come ha spiegato bene l’astrofisico statunitense Allan Sandage, la scienza rende esplicito l’ordine naturale, può cioè rispondere alle domande che concernono il «cosa», il «dove» e il «come», ma non gli è dato risponde agli interrogativi sul «perché» primo e ultimo. Del resto anche lo stesso premio Nobel Robert Horvitz, deludendo probabilmente Piergiorgio Odifreddi, nella sua intervista riconosce: «Io sono un biologo e il mio compito è scoprire i fatti. Preferisco lasciare ai teologi e ai filosofi il compito di tirare le conclusioni che ne derivano». Speriamo che anche l’intervistatore segua d’ora in poi questo orientamento.