Nella rassegna stampa di oggi:
1) MONS. PELVI: “LA LOGICA DEL DONO, SEGRETO PER UN FUTURO SERENO” - Nel celebrare una Messa per la festa di San Matteo
2) La festa di san Matteo ha un regista: il Caravaggio - Una nuova lettura del più celebre dei suoi capolavori: quello della vocazione dell'apostolo. Dipinto con una maestria comunicativa che l'arte cristiana di oggi ha perduto di Sandro Magister
3) Chiara Luce Badano - Fatti quotidiani di vita cristiana - (©L'Osservatore Romano - 22 settembre 2010)
4) Cattolici “protestanti” - Lorenzo Albacete - mercoledì 22 settembre 2010 – ilsussidiario.net
5) Positivo il bilancio della visita del Papa in Inghilterra. I discorsi, tutti molto profondi, vanno metabolizzati e capiti. Il difficile viene ora. Intensa la meditazione sul cardinal Newman di Bruno Volpe – intervista Massimo Introvigne dal sito http://www.pontifex.roma.it
6) La purezza del diavolo - Il primo avversario della Chiesa non è l’ateo, perché Satana non dubita di Dio né della sua dottrina. Intervista a Fabrice Hadjadj di Rodolfo Casadei – dal sito http://www.pontifex.roma.it
7) «Il controllo delle nascite non sconfigge la povertà» - New York - Il cardinale Turkson: chiari riferimenti all’aborto nel testo finale La Merkel gela l’Assemblea: «Obiettivi irraggiungibili nel 2015» - «Preoccupazioni profonde» del capo della delegazione vaticana. Il cancelliere tedesco ammette i fallimenti e accusa i leader corrotti del Terzo mondo. Il Pakistan: risultati azzerati dalle alluvioni - DA NEW YORK ELENA MOLINARI – Avvenire, 22 settembre 2010
MONS. PELVI: “LA LOGICA DEL DONO, SEGRETO PER UN FUTURO SERENO” - Nel celebrare una Messa per la festa di San Matteo
ROMA, martedì, 21 settembre 2010 (ZENIT.org).- Di fronte a una crescente visione utilitaristica dell'esistenza occorre riscoprire la logica del dono, soprattutto a partire dalla famiglia. E' quanto ha detto questo martedì mattina, l'Ordinario militare per l'Italia, l'Arcivescovo Vincenzo Pelvi, nel celebrare a Roma, presso il Comando Generale della Guardia di Finanza, la Santa Messa in occasione della festa di San Matteo, Patrono di questo Corpo di Polizia.
Nella sua omelia il presule è partito dal significato in ebraico del nome Matteo - “dono del Signore” - affermando che “erroneamente l’uomo moderno è convinto di essere il solo autore di se stesso, della vita e della società”, mentre “ogni essere umano è fatto per il dono, è relazione, incontro con l’altro”.
“In una società come la nostra – ha aggiunto – in cui il fare ha preso il sopravvento sul dono è necessario che l’uomo recuperi questa comprensione fondamentale di sé. Se la vita è dono, ogni attività umana è chiamata a lasciarsi plasmare da questo carattere originario”.
E così, ha affermato, “il lavoro personale, anche se dipendente, se vuole diventare veramente umano deve essere aperto al dono”, perché “in ogni lavoro c’è qualcosa di più, di gratuito, che non può essere retribuito, perché l’azione di colui che lavora, mettendoci se stesso, è sempre più della semplice produzione”.
Da questo punto di vita, ha continuato, “la famiglia è il luogo privilegiato, in cui in cui la logica del dono deve essere particolarmente custodita e promossa. E’ in famiglia che s’impara l’accoglienza dell’altro e ci s’impegna a vivere una libertà che non è arbitraria”.
“Tutto è dono – ha spiegato –: non solo il lavoro, la famiglia, la fede, ma anche la società dove vivo. Non posso allora accettare l’etica del dono nella mia vita privata senza contagiare il tessuto sociale di cui sono protagonista”.
Questo perché “il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l’eccedenza, il complemento e l’esaltazione del principio di solidarietà”.
Al contrario, ha poi osservato, “proprio la logica del 'mi spetta' ha fatto crescere la speculazione e l’arricchimento fraudolento, consentendo che l’economia venisse governata da logiche contrarie all’etica e alla morale comuni, ai principi di gratuità e di fraternità”.
“Di qui – ha sottolineato mons. Pelvi – il bisogno di un’economia nuova che guardi al bene comune e superi quella visione dell’uomo falsata dall’ideale, purtroppo deludente, dell’uomo economico che ha fame solo di denaro e mira solo ad accumulare il proprio profitto personale. La persona è il vero capitale su cui investire”.
Accennando alla crisi economica in atto a livello globale, l'Arcivescovo ha detto: “Saranno tempi duri se continuiamo a permetterci spese inutili e ad abusare dei soldi pubblici, senza essere attenti a quel giusto equilibrio nel saper prendere da chi possiede per dare a chi ha bisogno”.
“Saranno tempi sempre più difficili se scegliendo ciò che piace a ciascuno dimenticheremo di lavorare per ciò che è bene per tutti. Parole che suonano come monito profetico ma che incoraggiano a riscoprire la logica del dono, segreto per un futuro sereno”, ha quindi concluso.
La festa di san Matteo ha un regista: il Caravaggio - Una nuova lettura del più celebre dei suoi capolavori: quello della vocazione dell'apostolo. Dipinto con una maestria comunicativa che l'arte cristiana di oggi ha perduto di Sandro Magister
ROMA, 21 settembre 2010 – L'apostolo Matteo, di cui la Chiesa cattolica e la Comunione anglicana celebrano oggi la festa, è famoso non solo come autore del primo dei quattro Vangeli, ma anche come protagonista di un capolavoro tra i più ammirati di ogni tempo, che lo raffigura nel momento in cui Gesù lo chiama.
L'autore del dipinto è a sua volta uno degli artisti più conosciuti e apprezzati al mondo: Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, di cui nel 2010 ricorre il quattrocentesimo anniversario della morte, ricordato con importanti mostre e convegni.
La "Vocazione di san Matteo", dipinta dal Caravaggio nel 1599, è conservata a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi.
Matteo, esattore delle tasse imperiali, sta maneggiando dei soldi quando Gesù gli chiede di seguirlo. Deve scegliere tra lui o "Mammona", il denaro dell'iniquità, proprio come nel brano del Vangelo letto in tutte le chiese cattoliche domenica scorsa.
Il Caravaggio ebbe una vita burrascosa. Ma era profondamente religioso, partecipe della riforma cattolica seguita al Concilio di Trento. Il realismo delle immagini sacre era voluto da tale riforma per ammaestrare i fedeli.
Ma qual è il messaggio che il dipinto vuole trasmettere, nel suo insieme e nei particolari?
Il testo che segue è un'analisi tra le più acute e innovative del celebre dipinto. Tanto più avvincente da leggersi in un'epoca come l'attuale, in cui l'arte sacra ha smarrito la sua capacità di comunicare non vaghi sentimenti, ma "quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita" (1 Giovanni 1, 1).
L'analisi è apparsa su "L'Osservatore Romano" del 28 marzo 2010.
__________
LA "VOCAZIONE DI SAN MATTEO" DI CARAVAGGIO. DA UN MICHELANGELO ALL'ALTRO di Giorgio Alessandrini
Nella poetica di Michelangelo Merisi, il Caravaggio, la ricerca degli effetti di luce e di ombre, ben più che virtuosismo pittorico, è mezzo per far passare messaggi simbolici.
Nella "Vocazione di san Matteo" della cappella Contarelli della chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma il pittore traduce in immagini un tema dell'evangelista Giovanni: Cristo, il Verbo incarnato, luce del mondo, si espone all'accettazione o al rifiuto degli uomini, l'accettazione di chi nella fede gli si consegna, il rifiuto di chi preferisce le tenebre alla luce. Dice il prologo del quarto Vangelo: "Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Venne tra i suoi, ma i suoi non l'hanno accolto. A quanti però l'hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio" (1, 9-12).
Nel quadro, la contrapposizione risulta dall'atteggiamento dei personaggi ritratti sotto il raggio che taglia di netto l'oscurità dell'ambiente.
L'oscura bottega del pubblicano Matteo è il luogo consacrato al culto del "Mammona di iniquità". Questo nome, evocativo del dio della ricchezza nel pantheon degli antichi fenici, designa nel Vangelo l'idolatria del denaro. Gesù ne fa uso quando ammonisce: "Non potete servire due padroni, Dio e Mammona" (Matteo 6, 24). Il bancone funge da altare di un culto che raccoglie una piccola assemblea di "devoti" impegnati nel conteggio delle monete. Al centro è Matteo che sembra officiare la peculiare liturgia di cui si è fatto ministro.
L'irruzione di Gesù accompagnato da Pietro provoca reazioni diverse. Le due figure a sinistra sono talmente assorbite nelle operazioni di conteggio da non fare il minimo caso all'intervento e, meno che mai all'invito di Cristo a Matteo. Al contrario, la luce improvvisa non fa che acuire l'attenzione alle monete scrutate perfino con l'ausilio di un paio di occhiali.
Sul medesimo tavolo, davanti all'"officiante" Matteo è in bella evidenza il libro delle scritture dove la penna del pubblicano annota con diligenza i movimenti d'andare e venire di quel "signore" fino a quel momento padrone della sua vita e dei suoi pensieri e progetti. Ben altre saranno in un tempo a venire – ma che già si annuncia col visitatore che si affaccia alla porta – le scritture che Levi Matteo consegnerà col suo Vangelo alla memoria del popolo di Dio e a quella di ogni uomo di fede.
Accanto al libro la borsa delle monete richiama per contrasto la prescrizione di Cristo: "Non procuratevi oro né argento né rame nelle vostre cinture..." (Matteo 10, 9). Non è estranea alla "liturgia" in corso la presenza di armigeri; anche la spada di quello seduto di spalle parrebbe un attrezzo che ha parte nel rituale. Non per nulla Francesco d'Assisi farà a suo tempo notare al vescovo Guido: "Se possedessimo beni dovremmo provvederci di armi per poterli difendere!".
Diversamente dai primi due personaggi, Matteo e i giovani armigeri si lasciano scuotere dall'irruzione dei due nuovi venuti; lo dice il movimento degli occhi, dei volti e la torsione dei corpi. Le mani del pubblicano segnalano un evidente contrasto. La destra è irrigidita sul banco e sulle monete, mentre la sinistra si porta vivacemente sul petto. La faccia interroga il volto di Cristo come per chiedere: "Per me sei venuto? Proprio qui dove non si fa che negoziare e trattare denaro?" La mano tesa di Cristo e quella di Pietro non lasciano adito a dubbi: "I tuoi affari e il tuo denaro sono per te una prigione, viene a te il Regno di Dio, si fa presente con me alla porta della tua vita e ti richiede".
Il resto, che riguarda lo stile di vita legato alla nuova avventura, lo dice l'abbigliamento dimesso ed essenziale dei due nuovi venuti, in contrasto evidente coi ricchi abiti dei presenti, ricercati nella foggia secondo gusti contemporanei al pittore. Il tratto anacronistico rimanda alla perenne attualità di un dilemma, che non muta coi tempi o con un cambio d'abito, tra il culto di Dio e l'idolatria del denaro.
Osservando la scena con maggiore attenzione si nota un particolare che va ulteriormente indagato: la mano di Gesù, nel gesto e nella posizione delle dita ricalca con sorprendente esattezza il gesto fissato sulla volta affrescata della Sistina, dove un altro Michelangelo aveva ritratto la creazione dell'uomo.
La mano dell'Adamo della Sistina che per il tocco del dito di Dio si desta alla vita, la ritroviamo nel quadro di San Luigi dei Francesi, ed è quella di Gesù che, secondo la teologia di san Paolo, è il nuovo Adamo venuto a infondere nell'uomo la vita divina secondo lo Spirito.
Quella mano tesa verso il peccatore Matteo da parte del Figlio dell'Uomo in cui ha sede in pienezza la grazia divina, viene a colmare la distanza tra Dio e l'uomo, l'abisso scavato dal peccato del nostro comune progenitore, a danno proprio e della sua discendenza. Sarà attraverso la mano del Figlio, nuovo Adamo, che il Padre potrà generare a sé altri figli secondo lo Spirito, affrancati dal potere invincibile che li assoggetta alla schiavitù della morte. Con lui e per lui potrà avere inizio di un nuovo esodo di liberazione verso la vita. È proprio in vista di quel nuovo esodo che al pubblicano Matteo è chiesto di lasciar tutto per aver parte tra i dodici che più da vicino seguiranno il Signore.
Il particolare della mano pone tra l'altro una domanda relativa all'affresco della Sistina: perché mai Michelangelo nell'interpretare il racconto della Genesi si è discostato dall'immagine biblica (Genesi 2, 7): "Dio soffiò nelle narici [dell'uomo] e divenne l'uomo un'anima vivente"? È solo per una scelta formale che il pittore ha evitato di ritrarre il Creatore nell'atto esteticamente meno gradevole di soffiare sul volto di Adamo e ha preferito la movenza armoniosa delle due mani protese? La risposta si trova nell'inno notissimo della liturgia romana, il "Veni Creator" che designa lo Spirito Santo col titolo di "digitus paternae dexterae", dito della destra del Padre. Nei versetti seguenti troviamo poi invocazioni del tutto in carattere col tema della vita divina infusa nell'uomo: "Accende lumen sensibus, infunde amorem cordibus", accendi di luce i sensi, infondi l'amore nei cuori.
La folgorazione di luce e le risonanze interiori opera dello Spirito, sono ancora più chiaramente figurate dal raggio che irrompe nel luogo, simultaneamente all'ingresso di Gesù e di Pietro, e che dà vita al contrasto di colori, di ombre e di espressioni, nelle figure e nei volti della piccola corte adunata.
È proprio all'ingresso di Cristo che la buia stanza si illumina. Infatti, dalla finestra nessun barlume traluce a vincere l'ombra incombente. Invece, nel vano di quella finestra oscurata, sopra la mano di Gesù protesa in avanti, è profilata una croce spoglia di ogni apparenza gloriosa, ma collocata in posizione eminente rispetto alla scena, con più che probabile significato simbolico.
Un'ultima osservazione concerne un fatto fuori norma rispetto all'iconografia classica: la figura di Cristo è collocata in secondo piano mentre in primo piano, ritratta di spalle, sta la figura di Pietro. Se il primo degli apostoli – che con la mano replica a suo modo, quasi con timidezza, il gesto di Cristo – è nell'intenzione figura simbolica della Chiesa, il pittore ci sta mettendo di fronte a una indicazione precisa: l'invito a seguire Cristo passa per una Chiesa che unisce grandezze e miserie, slanci di fede e rinnegamenti.
L'obbedienza da parte di una fede matura comporta spesso l'accettazione del limite storico che sempre condiziona la Chiesa in cammino e che bisogna poter trascendere. È proprio passando e soffrendo per le molte contraddizioni avvertite che spesso alla gente di fede è chiesto di cercare l'incontro con Cristo, fino a ritrovare la nobiltà del volto di lui e l'autorevolezza del gesto con cui ci chiama a seguirlo.
Chiara Luce Badano - Fatti quotidiani di vita cristiana - (©L'Osservatore Romano - 22 settembre 2010)
"Per fare città nuove e un mondo nuovo, non bastano solo tecnici, scienziati e politici, occorrono sapienti, occorrono santi". È ancora una bambina Chiara Luce Badano - la giovanissima focolarina che sabato 26 verrà beatificata a Roma - quando per la prima volta riflette su queste parole di Chiara Lubich. La fondatrice dei Focolari, già nel 1971 s'era rivolta così ai Gen 3, la terza generazione del movimento - ragazzi e ragazze dai 9 ai 17 anni - riuniti da vari Paesi in un congresso a Rocca di Papa. Aveva indicato loro come protettore lo Spirito Santo, il santificatore e aveva aggiunto: "Voi dovete quindi essere una generazione di santi".
A soli 9 anni Chiara Luce Badano - nata a Sassello, provincia di Savona e diocesi di Aqui - incontra la spiritualità dei Focolari e prende alla lettera le parole di Chiara Lubich. La scoperta che Dio la ama immensamente e che si può corrispondere al suo immenso amore, segna una svolta nelle sue scelte. Conoscere il Vangelo e mettere in pratica quanto scritto in quelle pagine, inizia a caratterizzare da allora il suo stile di vita che condivide con le altre ragazze del Gen 3. Insieme percorrono "il santo viaggio", un cammino personale e comunitario: la meta è aiutarsi reciprocamente nella realizzazione del disegno d'amore che Dio ha su ciascuna di loro. Periodicamente si riuniscono in piccoli gruppi, le unità gen, caratterizzate dall'approfondimento della spiritualità che le anima e da momenti di comunione di esperienze. Favorendo la creatività, promuovono le più diverse iniziative con l'obiettivo di irradiare l'amore evangelico tra i ragazzi della loro età e trasformare l'ambiente intorno a loro.
Uno stile che Chiara abbraccia in ogni aspetto dell'esistenza: dalla vita famigliare, alla scuola fino alla dolorosissima malattia che la porterà alla morte, nemmeno diciannovenne, il 7 ottobre 1990.
"Ho una nonna paralizzata - dice Chiara nel 1983 - ed è dovere di ogni nipotina andarla a trovare ogni tanto. Ma ho capito che se volevo essere una vera Gen dovevo fare qualcosa di più. Così ho deciso di andarci più giorni di seguito per tenerle compagnia. Il leggere la frase del Vangelo: "Qualunque cosa avrete fatto a uno di questi piccoli..." mi è stata da pedana di lancio. Dopo la scuola sono andata a casa mia. Per le scale ero un po' arrabbiata per dover perdere tanto tempo, ma ho detto il mio "sì". Quando scendendo le scale sono tornata a casa avevo una gioia dentro fortissima!". Eppure, ha detto la mamma di Chiara nella deposizione al processo di beatificazione, "andare dalla nonna paterna costava un po', perché mia suocera non aveva simpatia per mia figlia. Forse anche perché a motivo della sua nascita ho avuto meno tempo per aver cura di lei. Salendo le scale Chiara ripeteva: "Vado da Gesù"".
Anche le difficoltà e le delusioni erano occasioni per mettere in pratica il Vangelo. Così, nell'ottobre 1986, dopo una bocciatura in iv ginnasio giunta inaspettata e ritenuta profondamente ingiusta, Chiara scrive: "Quest'anno sono in una classe e sezione nuova perché ripeto l'anno. Quando sono entrata per la prima volta in classe avevo un po' di paura, perché non conoscevo nessuno e avevo paura che facilmente sarei stata scartata dagli altri. Poi ho pensato che potevo assomigliare un pochino a Gesù abbandonato e piena di gioia sono entrata in classe. I compagni sono stati molto simpatici con me e già ci conosciamo con tutti. Ho chiesto così a Gesù di essere sempre pronta a voler loro bene in ogni momento".
Il 1988 segna una svolta nella vita di Chiara Luce. È l'anno della scoperta della malattia. Sta giocando a tennis quando sente all'improvviso una fitta fortissima alla spalla. Di lì a poco, dagli accertamenti medici per scoprire l'origine di quel dolore, le verrà diagnosticata una gravissima malattia. Chiara Luce prende tutto dalla mani di Dio e si sottopone a ricerche mediche più approfondite: vuole mettercela tutta per guarire.
Il 28 febbraio del 1989 viene sottoposta al primo delicato intervento chirurgico. Il 14 marzo successivo si reca all'ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino per nuovi esami e per iniziare la chemioterapia. In quell'occasione il medico la informa della gravità della malattia: un tumore tra i più terribili e dolorosi. La mamma, che non ha potuto accompagnarla in ospedale per motivi di salute, racconta così il rientro a casa dopo quel colloquio. "Quando è arrivata alla porta le chiedo: "Chiara, com'è andata?" Ma lei, senza guardarmi, era cupa in volto, risponde: "Ora, non parlare - per due volte - ora, non parlare". E si butta così come era lunga sul suo letto. Io volevo dirle tante cose: "Poi vedrai, magari... sei giovane...", ma dovevo rispettare quello che lei mi aveva chiesto. Vedevo dall'espressione del suo volto la lotta che Chiara faceva dentro di sé. Dopo venticinque minuti - io guardavo l'orologio - lei si volta verso di me col suo sorriso di sempre, raggiante, proprio uno sguardo pieno di luce con un bel sorriso e dice: "Mamma, ora puoi parlare - due volte - ora, puoi parlare". Chiara ha impiegato venticinque minuti a dire il suo "sì" a Dio, e non si è più voltata indietro".
Cattolici “protestanti” - Lorenzo Albacete - mercoledì 22 settembre 2010 – ilsussidiario.net
Non so quanta attenzione il viaggio di Papa Benedetto XVI in Inghilterra e Scozia abbia ricevuto fuori dal Regno Unito, ma qui negli Stati Uniti i mezzi di comunicazione laici hanno dato scarso rilievo all’evento e, quando ne hanno parlato, si sono concentrati sulla questione della pedofilia.
A mio parere, questa assenza di attenzione non rappresenta necessariamente un gesto di spregio nei confronti del Papa o del cattolicesimo, ma mi pare piuttosto derivante da come è visto negli Stati Uniti il Papato, considerato una istituzione medioevale senza un ruolo determinante nella vita e nella storia americane.
Il Papato è cioè, al massimo, una guida etica e spirituale per i cattolici conservatori o tradizionalisti. Siamo quindi di fronte ai pregiudizi protestanti anticattolici del cristianesimo americano più che al crescente potere di un’aggressiva ideologia laicista. I protestanti pensano, ovviamente, da protestanti; ciò che è triste è vedere quanti cattolici negli Stati Uniti concepiscono la loro fede con una modalità protestante.
Non sono preparato a fare una dotta analisi di questa situazione, diciamo perciò che vorrei offrire solo le mie “impressioni”. Prendiamo, come esempio, la devozione ai santi nati nel proprio Paese.
Il 20 settembre la Chiesa universale celebra la festa dei martiri coreani, i Santi Andrea Kim Taegon, Paolo Chong Hasang e compagni. Ecco quanto la Liturgia delle Ore dice di loro (tutto ciò che io e la gran parte dei non coreani conosciamo):
“Per secoli, la Corea è stata chiusa a ogni influenza esterna e tutti i contatti con gli stranieri erano proibiti, per cui nessun missionario vi poteva entrare. Tuttavia, ogni anno una delegazione coreana si recava a Pechino e durante queste visite diversi laici cercavano di conoscere il massimo possibile sul mondo esterno. Alcuni di loro si convertirono, avendo avuto modo di leggere dei libri sul cristianesimo.
Data la segretezza in cui tutto questo avvenne, è impossibile datare con precisione l’inizio del cristianesimo in Corea. Potrebbe essere iniziato già nei primi anni del diciassettesimo secolo, ma il primo battesimo di cui si ha notizia certa è quello di Yi-Soung-Houn, battezzato con il nome di Pietro durante una visita a Pechino nel 1784.
I primi martiri conosciuti sono Paolo Youn e Giacomo Kouen, che nel 1791 rifiutarono di offrire sacrifici in occasione della morte di loro familiari. Nei cento anni successivi, furono uccisi più di dieci mila cristiani coreani, con grandi crudeltà, e molti altri morirono.
Per la maggior parte di questo periodo, la Chiesa in Corea non ebbe preti e fu costituita solo da laici. Il primo prete, un francese, entrò nel Paese nel 1836 e fu decapitato tre anni dopo. Andrea Kim Taegon, il primo prete coreano che era stato preparato segretamente a Macao, ritornò in Corea nel 1845 e fu giustiziato nel 1846, insieme a suo padre.
Un apostolo laico, San Paolo Chong Hasang e molti altri perirono nello stesso periodo. Nel 1866 vi fu un’altra grande persecuzione. Oggi si celebrano 103 martiri coreani: sono per la maggior parte laici, uomini e donne, sposati e no, vecchi e giovani, e persino bambini”.
Ecco le parole di Papa Giovanni Paolo II: “La Chiesa coreana è unica, perché fondata interamente da laici. Questa Chiesa appena nata, così giovane eppure così forte nella fede, ha resistito a ondate su ondate di persecuzione feroce. Così, in meno di un secolo, ha potuto gloriarsi di 10000 martiri. La morte di questi martiri è diventata il lievito della Chiesa e ha portato oggi allo splendido fiorire della Chiesa di Corea. Il loro immortale spirito sostiene tuttora i cristiani della Chiesa del Silenzio nel Nord di questa terra tragicamente divisa.” (canonizzazione dei Martiri Coreani, 6 maggio 1984).
Mi hanno detto che per la maggior parte dei cattolici coreani il 20 settembre è un gran giorno e che il martirio di questi santi, venerato da tutta la Chiesa universale, continua a rimanere inseparabile dall’identità del popolo coreano, al di là delle convinzioni religiose.
Vediamo ora cosa è successo invece con Santa Elizabeth Ann Seton, la prima santa nata negli Stati Uniti, a New York il 28 agosto del 1774 e cresciuta nella Chiesa Episcopale. Sua madre era la figlia di un prete di questa Chiesa, morta quando Elizabeth aveva tre anni. A diciannove anni sposò William Magee Seton. Un ricco uomo d’affari, da cui ebbe cinque figli.
L’azienda di suo marito perse diverse navi in mare e la famiglia finì in bancarotta. Subito dopo, suo marito cadde ammalato e dovette trasferirsi in Italia per via del clima più caldo, accompagnato da Elizabeth e la loro figlia maggiore. Arrivati In Italia, vennero messi in quarantena, durante la quale il marito morì, e lei fu ospitata da una ricca famiglia amica, attraverso la quale venne a contatto con il cattolicesimo.
Due anni dopo, tornata negli Stati Uniti, si convertì alla Chiesa Cattolica Romana, il marzo del 1805, e fu ricevuta nella Chiesa dal parroco di San Pietro, a quel tempo l’unica chiesa cattolica aperta nella città, grazie alla recente revoca delle leggi anticattoliche nella nuova Repubblica americana.
Per aiutare i suoi figli, Elizabeth diede inizio a una scuola, ma non ci riuscì per l’intolleranza anticattolica di quell’epoca. Circa in quello stesso periodo, incontrò per caso un prete della congregazione francese dei Padri Sulpiziani. Questi sacerdoti erano fuggiti dalle persecuzioni religiose in Francia e avevano trovato rifugio negli Stati Uniti, dove stavano per aprire il primo seminario cattolico del Paese, in osservanza della missione del loro ordine.
Nel 1809, Elizabeth accettò l’invito ad aiutare i Padri Sulpiziani e si trasferì a Emmitsburg, nel Maryland. Un anno dopo fondò la Accademia e Scuola Libera di San Giuseppe, una scuola dedicata all’educazione delle ragazze cattoliche, con il supporto finanziario di un ricco convertito, seminarista all’appena istituito Collegio e Seminario di Mount St. Mary.
Elizabeth, infine, fondò una comunità religiosa a Emmitsburg con la missione di dedicarsi alla cura dei figli dei poveri. Fu la prima comunità religiosa non conventuale di suore degli Stati Uniti e la sua scuola fu la prima scuola libera cattolica del Paese. L’ordine prese il nome di Suore della Carità di San Giuseppe. Il resto della vita di Elizabeth fu speso nella guida e nello sviluppo della nuova congregazione e, oggi, sei distinte comunità religiose traggono le loro origini dagli umili inizi delle Suore della Carità a Emmitsburg.
Santa Elizabeth, morta di tubercolosi all’età di 46 anni nel 1821, fu beatificata da Papa Giovanni XXIII il 17 marzo 1963 e canonizzata da Papa Paolo VI il 14 settembre 1975. È stata la prima persona nata negli Stati Uniti a essere canonizzata ed è festeggiata il 4 gennaio. Nel 2009 è stata inserita nel Calendario dei Santi della Chiesa Episcopale degli Stati Uniti, con un giorno festivo minore il 4 gennaio.
Ricordo molto bene il giorno della sua canonizzazione. I media laici diedero molta attenzione all’evento e per i cattolici americani fu non solo un giorno di gioia e speranza, ma anche una festa patriottica. La sua vicinanza con la Rivoluzione americana rendeva un santo cattolico parte della storia della nazione. Ora non è più così.
Come ho scritto su queste pagine qualche mese fa, in primavera andai a visitare una persona ricoverata nell’ospedale dove era avvenuto il miracolo che ha portato alla canonizzazione di Santa Elizabeth Ann Seton. È tuttora un ospedale cattolico, ma nessuno sa niente del miracolo e neppure un granché di Elizabeth. Infatti, a parte un piccolo ritratto all’entrata di una piccola cappella (dove non veniva celebrata alcuna Messa e il Santissimo Sacramento non era custodito) non vi era nessun segno che la collegasse a Santa Elizabeth Ann Seton.
Cosa è successo? Il punto è che, a parte una pietà personale e un’ispirazione di tipo etico, la santità non viene considerata un fattore della storia e del destino della nazione. Questo è il pregiudizio protestante al quale hanno ceduto molti cattolici americani, indipendentemente dal credo politico.
Forse ci aiuteranno a fare memoria gli Episcopali americani.
Positivo il bilancio della visita del Papa in Inghilterra. I discorsi, tutti molto profondi, vanno metabolizzati e capiti. Il difficile viene ora. Intensa la meditazione sul cardinal Newman di Bruno Volpe – intervista Massimo Introvigne dal sito http://www.pontifex.roma.it
Papa Benedetto XVI ha terminato la sua visita nel Regno Unito, smentendo i soliti profeti di sventura. Un bagno di folla e persino gli organi di stampa che parevano i meno favorevoli, la hanno lodata. Insomma, un autentico trionfo. Ne discutiamo con il professor Massimo Introvigne, noto sociologo, galantuomo di grande onestà intellettuale ed esperto di cose religiose. Professor Introvigne, che cosa dire di questo viaggio? "credo che il bilancio sia davvero molto lusinghiero. Il Papa ha smentito coloro i quali pensavano che avrebbe parlato di omosessualità, sacerdozio e celibato e cose del genere, ha volato alto". Quali temi? "direi tre: la lotta al relativismo, una vera piaga dei nostri tempi. Il cardinal Newman ha sempre avuto linee molto definite in tema di relativismo e il Papa questo lo ha rilevato ed esaltato. Il relativismo ci porta oggi a non avere punti certi di riferimento né in morale e tanto meno in campo culturale". Poi ...
... precisa: "un secondo aspetto evidenziato dal Papa é la emergenza educativa che oggi viviamo. Un problema molto grave. Per educazione non si intende la mera istruzione specifica su un oggetto, ma quella integrale che formi l' individuo su tutti i fronti e in modo completo. Oggi abbiamo bisogno di questo tipo di educazione per arrivare alla vera santità. Poi ci vogliono serie e valide scuole cattoliche, controllando, però, che queste siano davvero tali, ossia operino in piena fedeltà e conformità al Magistero della Chiesa e con l' aria che tira, molto spesso divagano e dicono cose contrarie a quello che la Chiesa afferma e proclama".
Il terzo punto: "la esigenza che la fede sia una cosa pubblica. Ovviamente non esiste una confusione tra fede e vita politica, ma non é pensabile relegare la fede come una cosa da sacrestia. Chi pensa di poter espellere Dio dalla vita di ogni giorno sbaglia di grosso. La fede va professata in ogni cosa della nostra vita, in ogni ambiente sociale, lavorativo, scolastico".
Il Papa ha anche ricordato la piaga pedofilia: "ed ha fatto bene, però giova anche ricordare che i preti non sono angeli, ma persone con le loro fragilità e certi scandali possono capitare. Ma la cosa importante é porvi rimedio con energia e controllo. Credo che molti abbiano banalizzato nei loro rendiconto la visita limitandola alla sola pedofilia o al folklore e chi pensava a contestazioni di massa ci é rimasto molto male e deve ricredersi. Il vero viaggio del Papa inizia ora con lo studio e la metabolizzazione di discorsi molto complessi ed elevati".
La purezza del diavolo - Il primo avversario della Chiesa non è l’ateo, perché Satana non dubita di Dio né della sua dottrina. Intervista a Fabrice Hadjadj di Rodolfo Casadei – dal sito http://www.pontifex.roma.it
Conosce alla perfezione le verità della dottrina cristiana e non ne dubita. È perfettamente casto e non ha mai commesso un peccato di lussuria in vita sua. Dona gratuitamente del suo senza esigere contropartite materiali. Eppure è il nemico assoluto di Dio e dell’uomo, menzognero, omicida e tessitore di inganni. È il diavolo, l’angelo ribelle. Questo ritratto geniale e sconcertante di Satana si trova nelle pagine di La fede dei demoni, l’ultimo libro di Fabrice Hadjadj tradotto in italiano (da Marietti). Lo scrittore francese parte di qui per sviluppare una tesi suggestiva: l’ateismo e i peccati della carne, frutto dell’ignoranza e della debolezza umana, non sono i mali peggiori. Molto più gravi per le loro conseguenze sono gli spiritualissimi peccati propri del diavolo, soprattutto quando vengono compiuti dai cristiani: superbia, invidia, odio e disprezzo, vizi dello spirito, sono la base delle più grandi sciagure e di permanenti divisioni fra gli uomini. Per questo ...
... il diavolo li ispira continuamente. Dopo l’estate italiana dei giudizi sprezzanti distillati da tribune cristiane, delle gare di purezza e di sputtanamenti fra politici, difficile dare torto ad Hadjadj. Il quale indica anche la strategia per respingere l’assalto diabolico: affidarsi all’incarnazione, cioè alla carne di Cristo e alla carne di Maria, prefigurata nel Genesi come la donna che senza sforzo o paura schiaccia il serpente demoniaco sotto il proprio tallone. Contro ogni superbia, imparare da Maria l’apertura alla Grazia. Perché Maria è accoglienza della Parola di Dio che si fa carne, mentre il diavolo è il contrario dell’accoglienza. È orgoglioso, trae tutto da sé e non vuole ricevere.
Fabrice Hadjadj, il diavolo non è ateo, e perciò, lei dice, l’antitesi fondamentale non è quella fra teismo e ateismo, ma quella fra conoscenza e riconoscimento di Dio. Cosa vuol dire?
Anzitutto va notato che il primo riconoscimento di Gesù Cristo come figlio di Dio nel Vangelo non è quello di san Pietro o degli altri apostoli, ma dell’indemoniato di Cafarnao. Nella sinagoga di quella città un indemoniato incontra Gesù e il diavolo che possiede quell’uomo dice: «Io so chi sei tu, il Santo di Dio». Notare questo ci obbliga a rimetterci in discussione, perché forse non abbiamo le idee chiare sull’identità del nemico radicale e della natura della vera lotta: che non è quella contro l’ateo o il libertino, ma contro un’intelligentissima creatura spirituale. Un puro spirito, ovvero uno spirito impuro che è puro spirito. Pertanto non sarà appellandosi alla mera spiritualità che lo si potrà affrontare: quella è una specialità del demonio, che ha per progetto di ridurre il cristianesimo a uno spiritualismo. Lo scopo del mio libro non è soltanto di ricordare che la fede non è mera conoscenza, ma è riconoscimento che anima il cuore; è anche ricordare che la fede non è evasione in un mondo etereo, ma incarnazione. Dio ha voluto donarci la sua Grazia attraverso la carne, ed è nella carne e attraverso la carne che noi lo raggiungiamo. I grandi teologi ce l’hanno spiegato: il primo peccato del diavolo è stata l’invidia, scaturita dal fatto di sapere che il Verbo si sarebbe incarnato. Satana è inorridito all’idea che Colui che era spirito, e dunque aveva una connivenza speciale con gli angeli come lui, potesse farsi carne, e che gli angeli, puri spiriti, avrebbero dovuto adorare la carne, una carne umana.
Lei distingue fra la fede come dono di Grazia, che gli uomini sperimentano, e la fede come perspicacia dell’intelligenza naturale, che attribuisce ai demoni. In cosa sono differenti?
Gli angeli, compresi quelli caduti, hanno un’intelligenza più sviluppata della nostra. A loro i segni dell’agire di Cristo e della Chiesa sono sufficienti per ammettere che c’è qualcosa che viene da Dio. Per quanto attiene alla fede come dono di Dio, la fede che opera attraverso la carità, questa passa attraverso motivi di credibilità, perché l’atto di fede non annulla la ragione, non è un salto nell’assurdo. Ma i motivi ragionevoli non sono sufficienti a costringere l’intelligenza umana alla fede. L’uomo entra in essa attraverso una sorta d’umiltà, di abbandono. Al cuore della fede come dono c’è un atto di amore: non c’è semplicemente l’intelligenza che riconosce un fatto oggettivo, come nel caso dei demoni, ma un’intelligenza che chiama in causa il cuore e implica un atto di volontà. La volontà pone un atto di adesione, di fiducia, in una sorta di penombra. La fiducia, come ogni atto di amore, non si colloca né in piena luce né nelle tenebre, ma in una penombra. Nel Credo noi non diciamo: «Credo che Dio è così e cosà, è onnipotente e creatore». Noi diciamo: «Credo in Dio». Ed è l’“in” del modo accusativo del latino: «Credo in unum Deum». Cioè c’è un movimento per andare verso. Invece i demoni dicono: «Credo Deum», credo Dio. Cioè c’è l’intelligenza ma manca il cuore. E siccome è una fede prodotto delle sole forze del soggetto, è automaticamente orgogliosa. Lo si è visto a Cafarnao: il diavolo dice «io so chi se Tu». La prima parola è “io”.
Oggi succede un fatto curioso: la maggioranza della gente non crede nel diavolo come realtà teologica, ma allo stesso tempo è sedotta e intimorita dall’immagine della sua potenza. Film e telefilm propongono in continuazione il tema delle forze malefiche soprannaturali, e tanti si rivolgono a maghi e guaritori convinti di essere vittime di spiriti malvagi. Perché questa contraddizione?
Perché quando si abbandona il giusto rapporto con una realtà, immediatamente si manifestano due errori opposti. L’umanità è entrata nel razionalismo, ma il razionalismo non soddisfa il cuore umano. Di conseguenza si produce una reazione uguale e contraria: l’invasione dell’irrazionale. Il razionalismo ha detto: il Mistero è irrazionale, nessun rapporto con esso è possibile. La conseguenza è stata una reazione che instaura un rapporto ossessivo e anarchico con le forze delle tenebre. E che riconosce la potenza del diavolo, ma non la sua intelligenza: lo raffigura folcloristicamente come un caprone, lo associa ai sacrifici di animali. Ma il diavolo agisce più attraverso la sua intelligenza che attraverso la forza, la sua specialità è provocare due o più derive opposte, è orchestrare quelle che Giovanni Paolo II ha chiamato “strutture di peccato”: peccati che non sono in rapporto con un’intenzione umana univoca, ma che si creano per l’opposizione di due o più parti. Pensiamo alla Spagna, dove la reazione alle stragi anticristiane è stato il fascismo e da lì tre anni di guerra civile. Pensiamo al trionfo del nulla in tivù: nessuno l’ha deciso a tavolino, eppure si ha l’impressione che qualcuno l’abbia orchestrato. Il fatto è che il diavolo distingue perfettamente l’errore dalla verità, e moltiplica coscientemente gli errori per giocarci. Noi invece, anche quando siamo nell’errore, crediamo di essere nella verità, e ci teniamo. Il diavolo non ci tiene, ed è per questo che è capace di manovrare e di creare strutture che ci spingono a commettere cose che vanno al di là delle nostre intenzioni coscienti.
Lei semina il dubbio anche riguardo a parole feticcio sia del cristianesimo che della modernità come “dono” e “amore”. Lei dice che donare è cosa buona solo a condizione che il dono non nuoccia a chi lo riceve, e che il valore dell’amore dipende dal valore di ciò che si ama. Dunque anche il dono e l’amore possono essere astuzie diaboliche?
A don Luigi Giussani veniva rimproverato di usare poco la parola “amore”, e lui rispondeva che nella nostra cultura era diventata una parola equivoca. Aveva ragione. Oggi viviamo in un’eresia dell’amore. Il primato dell’amore è un’invenzione cristiana, ma il diavolo distorce la cosa così: purché sia amore, tutto è legittimo. Se una donna si innamora di un boa constrictor e desidera sposarlo, fa bene, perché è amore. Nel nome dell’amore, si perde di vista l’oggettività dell’amore. Perché amare non è semplicemente avere dei sentimenti per l’altro, è anche volere il bene dell’altro. Quando amo io debbo chiedermi: “Qual è il bene per l’altro?”. Ciò che conta di più è questa oggettività.
E per quanto riguarda il dono?
Intorno al dono effettivamente si è installata tutta una retorica moderna, dovuta soprattutto alla realtà dell’economia capitalista, per cui il dono appare come un argine alla logica del mercato. Ora, non è il dono in quanto tale ad essere una cosa cattiva, ovviamente, ma la logica del “dono di sé”, perché al centro mette il “sé”. Il punto non è dare se stessi all’altro, il punto è il bene dell’altro. Non devo donare me stesso all’altro, devo ridonare l’altro a se stesso. E ciò implica il Bene. L’ha detto perfettamente Heidegger: «L’amore predispone uno spazio affinché l’altro possa donarsi all’altro, non solo a me che lo amo. E affinché possa essere se stesso, e non è se stesso se non nella sua relazione col bene». La seconda cosa che va sottolineata è che il dono non è mai principio in una creatura. Il proprio di una creatura è di ricevere prima di donare. La creatura non ha l’iniziativa del dono, ce l’ha il Creatore. Come si legge nella lettera di san Giacomo: «Dio ci ha amato per primo». Se si dimentica questo, il dono entra in una logica demoniaca. Il diavolo è uno che vuole dare senza dover ricevere. Accetta la natura con cui Dio l’ha creato, ma rifiuta la Grazia, perché vuole dare da se stesso, con le sue proprie forze. La sua è una posizione di ebrezza e di orgoglio: io non ricevo, io do da me stesso, senza bisogno della Grazia. Il peccato del diavolo e di quanti sono sotto la sua influenza è di voler fare il bene con le sole proprie forze e secondo i propri piani. Pensiamo ai totalitarismi: hanno cercato di dare all’umanità una società perfetta, ma a partire dai propri piani, senza considerare il carattere irriducibile dell’altro, la singolarità di ogni essere umano. Il totalitarismo consiste nel voler dare all’uomo tutto, ma a partire da una teoria, da un’ideologia, e dunque in maniera totalmente riduttiva e soffocante, come si è visto nella storia.
Lei considera due errori opposti di ispirazione diabolica anche la riduzione del cristianesimo a cristianità, cioè a istituzione secolare, e l’opzione di una Chiesa dei pochi e dei puri, che rinuncia programmaticamente a influire politicamente. Cosa bisognerebbe fare per non cadere nella duplice trappola?
Che i due errori siano diabolici si vede da una cosa: un cristianesimo politicamente realizzato cadrebbe nell’orgoglio di sé, così come il ripiegamento su di sé di una piccola Chiesa di gente pura che ha rinunciato al potere provocherebbe un settario orgoglio spirituale. E l’orgoglio, lo sappiamo, è un caratteristico peccato del diavolo. Nel primo caso, la riduzione del cristianesimo a istituzione secolare ci impedirebbe di donare veramente il nostro cuore, ridurrebbe il paradosso cristiano a slogan, trasformerebbe la vocazione a essere martiri in vocazione a essere signori. Nel secondo caso, l’accontentarci di una piccola Chiesa di puri farebbe di noi una setta che guarda la società dall’alto in basso con disprezzo, e che dimentica che Cristo non è venuto per i cristiani, ma per tutti gli uomini. [Fonte Tempi]
«Il controllo delle nascite non sconfigge la povertà» - New York - Il cardinale Turkson: chiari riferimenti all’aborto nel testo finale La Merkel gela l’Assemblea: «Obiettivi irraggiungibili nel 2015» - «Preoccupazioni profonde» del capo della delegazione vaticana. Il cancelliere tedesco ammette i fallimenti e accusa i leader corrotti del Terzo mondo. Il Pakistan: risultati azzerati dalle alluvioni - DA NEW YORK ELENA MOLINARI – Avvenire, 22 settembre 2010
«Non abbiate paura dei poveri». Centrando senza esitazione la sottocorrente di timore che ser peggia al Palazzo di Vetro durante la revisione degli Obiettivi del millennio, il cardinale Peter K. A. Turkson ha denunciato ieri con forza le ipocrisie del consesso internazionale riunitosi per fare il punto sulla lotta alla miseria e ad in timare: «Bisogna combattere la povertà, non e liminare i poveri». Il presidente del Pontificio Consiglio per la Giu stizia e la Pace si riferiva alla parte del Docu mento finale del summit, che verrà sottoposta oggi all’approvazione dei capi di Stato e di go verno, in cui si parla di «salute sessuale e ripro duttiva e pianificazione familiare» in un modo che, secondo la Santa Sede, «solleva preoccu pazioni profonde»: «Nel docu mento ci sono termini contro versi – ha spiegato il cardinale – spesso interpretati come inclusione dell’accesso all’abor to e ai metodi di pianificazio ne familiare contrari alla legge naturale».
Di qui il monito: «Ogni tenta tivo di usare gli Obiettivi del millennio per imporre stili di vita egoistici o, peggio, politi che demografiche per ridurre il numero dei poveri, sarebbe miope e malintenzionato». Il capo delegazione della Santa Sede ha sottolineato di parla re non solo come leader reli gioso, ma anche «come africa no e uomo proveniente da u na famiglia povera» e ha ricor dato la ricchezza economica e sociale che deriva dal rispetto della vita, dal concepimento alla sua naturale conclusione, come ha sostenuto il Papa nell’enciclica «Caritas in Veritate».