Nella rassegna stampa di oggi:
1) UN RAPPORTO SUI TEMI DELLA VITA E DELLA LIBERTÀ RELIGIOSA - Presentato a Trieste il Secondo Rapporto sulla Dottrina Sociale di Antonio Gaspari
2) La preghiera del rosario nella vita sacerdotale - Un solo corpo in Cristo con Maria di Mauro Piacenza Arcivescovo titolare di Vittoriana Segretario della Congregazione per il Clero - (©L'Osservatore Romano - 30 settembre 2010)
3) Il trionfo del Papa schivo. Cinque anni di un successo di pubblico che ha stupito i critici. L'enigma di pochi gesti e molte parole (Rodari). Pubblicato sul Foglio sabato 25 settembre 2010
4) 1 Ottobre. Romano Guardini. La persona contro i totalitarismi. - Autore: Restelli, Silvio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 30 settembre 2010
5) Una nuova concezione di identità di Roberto Fontolan - giovedì 30 settembre 2010 – ilsussidiario.net
6) IDEE/ Cameron ha capito che non c’è Big Society senza il Papa. E noi? di Luca Pesenti - giovedì 30 settembre 2010 – ilsussidiario.net
7) Avvenire.it, 30 settembre 2010 - MONSIGNOR NONA - Iraq,«Io, vescovo, costretto a rimanere nascosto» di Luigi Geninazzi
8) MASS MEDIA, IL TEMA SCELTO DAL PAPA - Siamo uomini liberi non «massa digitale» - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 30 settembre 2010
UN RAPPORTO SUI TEMI DELLA VITA E DELLA LIBERTÀ RELIGIOSA - Presentato a Trieste il Secondo Rapporto sulla Dottrina Sociale di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 29 settembre 2010 (ZENIT.org).- Sabato 25 settembre è stato presentato a Trieste il secondo “Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo”, redatto dall’Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuan (http://www.vanthuanobservatory.org/) insieme ad altri Centri di ricerca internazionali di Spagna, Francia e America Latina, e pubblicato da Cantagalli.
Rispondendo alla domanda su quali sono le caratteristiche originali di questo Rapporto il direttore dell’Osservatorio Stefano Fontana ha spiegato che ci sono almeno tre ragioni: “La prima è che i temi della vita e della libertà religiosa sono centrali. Abbiamo preso sul serio l’invito della Caritas in veritate di non separare mai questi due principi con quelli dello sviluppo”.
“La seconda è che non concediamo quasi nulla alla visione ‘irenica e ideologica’ del mondo di oggi, alle nuove ideologie che spesso finiscono per appiattire orizzontalmente il messaggio cristiano sull’ambiente, sulla pace, sullo sviluppo”.
“Il nostro sforzo – ha aggiunto – è stato di ‘tenere tutto insieme’ e per questo ci è stato di fondamentale guida l’insegnamento di Benedetto XVI, cui vorrei qui rivolgere un pensiero affettuoso e deferente per la grandezza della sua guida”.
Il direttore dell’Osservatorio ha voluto presentare il Rapporto dall’interno riportando alcune notizie riguardanti i temi della vita e della libertà religiosa. Ed in particolare fatti di coraggio, di lotta per la libertà, di rischio della vita per molte comunità cristiane in Asia e nel mondo che mostrano la diversità tra “il loro cristianesimo combattivo e il nostro cristianesimo addomesticato”.
Fontana ha raccontato dei 170 preti, 420 religiosi e religiose e mezzo milione di fedeli che il 26 luglio del 2009 si sono riuniti in Vietnam per una protesta pacifica in solidarietà di preghiera con la parrocchia di Tam Toa.
La protesta ha riguardato una chiesa costruita nel 1940 da missionari francesi. Nel 1968 la chiesa fu distrutta da un bombardamento e il terreno fu trasformato in giardino pubblico. Le attività religiose furono proibite, fino al 2008 quando la vita religiosa della parrocchia rinacque e il vescovo nominò un parroco. L’Eucarestia e le altre cerimonie venivano celebrate all’aperto, nel luogo della vecchia chiesa. Fino a che, a causa del rigore del clima, i parrocchiani non decisero di costruire un riparo temporaneo.
La mattina del 20 luglio 2009, di buonora, 150 parrocchiani sono arrivati per erigere la struttura provvisoria di 9 metri per 6, che riuscirono a costruire in qualche ora di lavoro. Alle 9,00 sono arrivati cento poliziotti per demolire la costruzione metallica.
I parrocchiani che hanno fatto resistenza sono stati trattati violentemente e messi nei furgoni cellulari, 19 persone sono state arrestate. Da quel momento la parrocchia è stata meta di pellegrinaggi di solidarietà da parte di altre parrocchie fino alla grande manifestazione del 26 luglio di cui si parlava.
In Corea del Nord, invece, il 16 giugno 2009, nella piazza di Ryongchon (Corea del Nord) si è praticata l’esecuzione capitale di una donna di 33 anni, madre di tre figli, accusata di aver distribuito delle Bibbie e per questo di essere una spia al soldo della Corea del Sud e degli Stati Uniti.
Il rapporto contiene una miriade di informazioni e spunti di riflessione sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo: magistero del Papa, documenti dei Vescovi, problematiche emergenti, forme di impegno delle comunità cristiane nel mondo, sfide nuove alla giustizia e alla pace, ai diritti umani e alla libertà religiosa.
Nella Sintesi introduttiva si fa il punto su come sono andate le cose e si evidenziano i percorsi emergenti con una analisi relativa ai cinque continenti. Il Rapporto viene completato dal Problema dell’anno, uno studio sul principale problema sociale emerso durante l’anno in esame che questa volta è stato individuato nel riscaldamento climatico.
Un posto centrale nel Rapporto è svolto dal capitolo sul Magistero sociale di Benedetto XVI nel 2009, nei riguardi del quale Fontana ha spiegato: “Il Papa nel 2009 ha fatto delle cose grandiose: ha pubblicato l’enciclica sociale Caritas in veritate, ha proposto il 'Cortile dei Gentili', ha fatto tre viaggi – in Terra Santa, in Angola e Mozambico e a Praga – durante i quali ha tenuto importanti riflessioni di natura sociale e politica”.
“Inoltre - ha spiegato - in alcuni discorsi che il Rapporto valorizza, una cosa a cui il nostro Osservatorio tiene molto e che è cruciale per la Dottrina sociale della Chiesa: il punto di vista da cui guardare i fatti sociali è la fede apostolica tramandata dalla tradizione”.
Il direttore dell’Osservatorio Van Thuan ha concluso affermando che: “non è la situazione, non è la sociologia, non è nemmeno la povertà se intesa in senso solo sociologico, ma la fede apostolica. Senza di ciò la Dottrina sociale è un insieme di consigli moralistici di buon comportamento”.
La preghiera del rosario nella vita sacerdotale - Un solo corpo in Cristo con Maria di Mauro Piacenza Arcivescovo titolare di Vittoriana Segretario della Congregazione per il Clero - (©L'Osservatore Romano - 30 settembre 2010)
A coronamento di quel dono di grazia che l'Anno sacerdotale è stato, l'11 giugno scorso, circa diciassettemila sacerdoti provenienti dai cinque continenti, si sono riuniti a Roma, attorno al Papa, per la concelebrazione eucaristica più grande della storia.
Al termine, come un padre si assicura che i figli, in procinto di partire per una terra lontana, abbiano gli strumenti necessari per affrontare il viaggio ed evitarne i possibili pericoli, il Santo Padre ha affidato e consacrato tutti i sacerdoti, presenti e del mondo, alla Beata Vergine Maria, venerata con il titolo di Salus populi Romani.
Dietro questo grande "gesto magisteriale", insieme alla fede salda e coraggiosa di Pietro, risplende la coscienza che la Chiesa ha della propria imprescindibile e sempre nuova dimensione mariana, di quanto sia una cosa sola con la Vergine Santa, "proto-cellula" del Corpo ecclesiale, nella quale l'iniziativa della Grazia divina e la libera accoglienza umana si sono perfettamente coniugate, inaugurando il definitivo inizio della salvezza.
A sua Madre, Cristo stesso ha affidato tutto il popolo dei credenti nella persona del discepolo prediletto, indicando così la natura della Chiesa che da Lui sarebbe nata: un solo Corpo, una sola Carne in Lui, con Maria. Nella Beata Vergine, così, la Chiesa contempla il più perfetto modello di fede ed il segno di sicura speranza nella gloria futura.
Secoli e secoli di fede, santità ed insegnamenti magisteriali indicano, nella devozione mariana la "strada-maestra" del cammino di perfezione cristiana. Da oltre un secolo, poi, l'invito alla preghiera del santo rosario, caratterizza il mese di ottobre, che sta per cominciare. A questo proposito, è quanto mai utile considerare le ragioni della profonda ed affettuosa devozione che il popolo cristiano ha sempre nutrito nei confronti di questa preghiera. Non a caso, è bene ricordarlo, la recita del santo rosario, in comunità o nelle proprie case, gode dell'alto riconoscimento ecclesiastico dell'indulgenza plenaria.
Dal punto di vista storico, il rapido e sorprendente sviluppo di questa splendida preghiera, attribuito dalla tradizione a san Domenico di Guzman, è stato sempre dettato nei secoli da una duplice ragione: da un lato, la straordinaria fecondità spirituale, sperimentata da quanti vi si affidavano; dall'altro, il suo essersi rivelata come mezzo efficacissimo per ottenere la protezione divina, nelle vicende storiche, che, durante il secondo millennio, hanno minacciato l'Occidente cristiano e la stessa Chiesa (cfr. Leone xiii, Supremi apostolatus officio, 1 settembre 1883).
Ultima luminosa testimonianza del Rosario quale via ad Iesum per Mariam ci è stata offerta dal servo di Dio Giovanni Paolo ii nella lettera apostolica Rosarium Virginis Mariae. Egli, sulla scorta dei principali insegnamenti di spiritualità mariana, ha indicato, nel proprio motto episcopale, la consacrazione a Maria come la via più sicura ed efficace per la conformazione del discepolo a Cristo Signore: "Totus tuus".
Come non riconoscere, soprattutto nella vita ed in ciascuna giornata del sacerdote, la preziosità del rosario, quale memoria della salvezza, o come educazione del cuore all'atto di fede nel definitivo ingresso di Dio nella storia? Come non sentire l'urgenza di praticarne e diffonderne ancor più la recita, di fronte alle insidie dell'epoca contemporanea?
Tuttavia, prima di ogni altra considerazione, è necessario riconoscere come la preghiera del rosario alimenti la nostra stessa identità sacerdotale.
Se, infatti, nel renderci partecipi del Suo Sacerdozio - come il Papa ha autorevolmente insegnato (cfr. Veglia in occasione dell'Incontro Internazionale dei Sacerdoti a conclusione dell'Anno Sacerdotale, 10 giugno 2010) - Cristo ci tira dentro di Sé e così ci permette di usare il Suo stesso "io", è nella contemplazione dei Misteri della Sua vita, tramite gli occhi ed il cuore immacolato di Maria, che possiamo conoscerLo di più, apprendere i Suoi sentimenti, accogliere la grazia che ci dona nella quotidiana celebrazione eucaristica e renderci sempre più disponibili a quanto Egli dispone per noi.
Sarà la Beata Vergine Maria, che ora in corpo ed anima contempla la Gloria del Figlio, a comunicarci, come per osmosi, l'amore per il Figlio. Non stanchiamoci mai di imparare dalla Madre del Bell'Amore, che ha pronunciato, per tutta la Chiesa, il "sì" incondizionato alla volontà di Dio, permettendo così l'Incarnazione del Verbo, l'essere stesso della Chiesa e la Presenza sacramentale, ora, di Cristo nell'Eucaristia.
A Lei, al suo cuore, siamo misticamente uniti, non solo come membra della Chiesa, ma specialmente, in quanto sacerdoti: siamo alter Christus, altri suoi figli!
Essere sacerdoti, quindi, significa anche, per grazia, essere con Maria un solo cuore. Significa poter esultare: Totus tuus sum Maria et omnia mea tua sunt!
(©L'Osservatore Romano - 30 settembre 2010)
Il trionfo del Papa schivo. Cinque anni di un successo di pubblico che ha stupito i critici. L'enigma di pochi gesti e molte parole (Rodari). Pubblicato sul Foglio sabato 25 settembre 2010
Dopo il trionfalismo carismatico di Karol Wojtyla, il pudore monastico di Joseph Ratzinger. Due stili diversi che rispecchiano due caratteri dissimili. Due stili che portano a un unico risultato: l’entusiasmo delle folle.
Di Giovanni Paolo II i fedeli applaudivano il gesto, la frase a effetto, gli slanci teatrali, a volte trascurandone quasi del tutto l’argomentare. Di Benedetto XVI seguono le omelie, tendono le orecchie durante i discorsi, ascoltano ogni parola con un’attenzione che sbalordisce esperti e analisti. Così è accaduto in Inghilterra e Scozia, durante il recente viaggio: “Ratzinger si è imposto come uomo mite, umile, che parla in modo gentile”, ha detto il vaticanista del Times Richard Owen. “Riflessioni profonde, proposte a voce bassa”.
Più che altrove, lo stile di Benedetto XVI ha trovato un suo compimento nel Regno Unito: difficile immaginare, prima della partenza per quello che in molti avevano definito il “viaggio più difficile”, centomila persone a Hyde Park, cuore della City, in totale silenzio per un’ora e mezza ad ascoltare una sacra liturgia.
Quale il segreto di Joseph Ratzinger? Quale la strategia comunicativa? Una sola: non avere strategie. L’ha spiegato lo stesso Pontefice sul volo che lo portava dieci giorni fa verso Edinburgo. Gli ha chiesto padre Federico Lombardi, portavoce vaticano: cosa possono fare i cattolici per rendere la chiesa più attrattiva? Ha risposto il Papa: “Una chiesa che cerca soprattutto di essere attrattiva sarebbe già su una strada sbagliata, perché la chiesa non lavora per sé, non lavora per aumentare i propri numeri e così il proprio potere. La chiesa è al servizio di un Altro: serve non per sé, per essere un corpo forte, ma serve per rendere accessibile l’annuncio di Gesù Cristo, le grandi verità e le grandi forze di amore, di riconciliazione che vengono sempre dalla presenza di Gesù Cristo”.
Ecco il segreto di Ratzinger – per molti “Panzer cardinal”, per altri addirittura “Rotweiler di Dio” divenuto Papa: non volere attrarre nessuno. Piuttosto fare un passo indietro e mettere al centro della scena un Altro. E’ questo uno stile tutto suo e che, a dispetto delle mille e più strategie comunicative che spesso diversi organi ecclesiastici, dalla curia romana alle varie conferenze episcopali fino alle singole diocesi, cercano di adottare, s’impone con autorevolezza dirompente.
Lo stile del Papa è sobrio, soprattutto a contatto con le masse. Ogni appuntamento pubblico sembra per lui liturgia. E, infatti, fuori delle messe, delle catechesi, delle benedizioni, Benedetto XVI è un minimalista. “Il Papa non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la chiesa all’obbedienza alla parola di Dio”, disse quando prese possesso della cattedrale di Roma, la basilica di San Giovanni in Laterano, il 7 maggio 2005. Un criterio che per Ratzinger è un programma di governo: di suo fa pochissimo, al centro della scena non c’è mai lui, ma l’essenziale, ovvero Gesù Cristo vivo e presente nei sacramenti della chiesa.
I primi mesi di Pontificato di Benedetto XVI lasciarono senza parole gli analisti di cose vaticane. La folla presente alle udienze del mercoledì e in piazza San Pietro agli Angelus della domenica, era esattamente raddoppiata rispetto agli ultimi mesi di Giovanni Paolo II. Dati certi vennero resi noti dalla prefettura della casa pontificia, l’organismo vaticano che governa le udienze. Nei mesi tra maggio e settembre, nel 2004, andarono alle udienze di Giovanni Paolo II in 194 mila. Negli stessi mesi, nel 2005, a quelle di Benedetto XVI andarono in 410 mila. Così anche per gli Angelus: 262 mila presenze in cinque mesi con Wojtyla, 600 mila negli stessi mesi del 2005 con Ratzinger.
Benedetto XVI non compie gesti a effetto, non martella frasi roboanti, non incoraggia applausi e osanna. Si sottrae alle feste di massa. Ama arrivare agli appuntamenti pubblici solo per celebrare e predicare. Anche i viaggi hanno programmi strettissimi, quasi volesse fuggire dal superfluo, da ciò che va oltre lo stretto necessario.
Roma, piazza San Pietro, 16 ottobre 2005. Benedetto XVI incontra i bambini della prima comunione. L’appuntamento ha un programma singolare: prima il Papa risponde a braccio ad alcune domande, poi, sempre coi bambini, fa mezz’ora di adorazione eucaristica. C’è chi sostiene in Vaticano: “Un azzardo dopo anni di appuntamenti più somiglianti a festival musicali che ad altro”.
Il Papa arriva in piazza puntuale. Esce in Papamobile dall’Arco delle Campane. I bambini applaudono e urlano slogan. Il Papa saluta. Poi scende dall’auto e inizia a parlare. A poco a poco cala il silenzio. Il Papa insegna loro teologia. Un bambino gli domanda: “La mia catechista mi ha detto che Gesù è presente nell’eucaristia. Ma come? Io non lo vedo!”. Risposta. “Sì, non lo vediamo, ma ci sono tante cose che non vediamo e che esistono e sono essenziali. Per esempio, non vediamo la nostra ragione. Tuttavia abbiamo la ragione”. Poi il silenzio si fa totale. Il Papa s’inginocchia innanzi all’eucaristia. Tutti guardano oltre il Papa, verso dove lui guarda. In meno di un’ora l’attenzione di una folla sui generis – centomila bambini – è completamente catturata. Una scena, quest’ultima, rivista nell’agosto del 2005, durante la Giornata mondiale della gioventù di Colonia: il Papa che di colpo s’inginocchia innanzi all’eucaristia. I ragazzi che si zittiscono e s’inginocchiano. Intorno un silenzio surreale che mette a disagio soltanto i cronisti delle varie tv e radio collegate. Per circa un’ora non sanno più che dire.
Passano venti mesi dall’elezione di Ratzinger al soglio di Pietro. Benedetto XVI diviene un caso di studio mondiale. La White Star, una casa editrice collegata alla National Geographic Society, pubblica “Benedetto XVI, l’alba di un nuovo papato”. Gli autori sono un grande fotografo italiano, Gianni Giansanti, e l’ex caporedattore della sede romana di Time, Jeff Israely. Il libro nasce con un motivo esplicito: studiare il “caso Ratzinger”, il motivo del successo del ‘Panzer cardinal’ divenuto successore di san Pietro. Scrive Israely: “I gesti del suo predecessore hanno impressionato il mondo. Benedetto XVI fa invece notizia con la forza della sua prosa. Ma le sue parole non rappresentano un puro esercizio intellettuale: sono una manifestazione della sua fede e umanità. Nel messaggero si rende visibile il messaggio”. Scrive pochi giorni dopo il vaticanista Sandro Magister sull’Espresso: “Giovanni Paolo II dominava la scena. Benedetto XVI offre alle folle la sua nuda parola. Ma cura di spostare l’attenzione a qualcosa che è al di là di se stesso”.
Forse è soltanto un caso. Ma è da notare il fatto che sui giornali britannici i giorni successivi la partenza del Papa da Londra (domenica scorsa) due parole erano presenti più di altre: successo e nostalgia.
Successo del Papa sulla folla: duecentomila persone che lo rincorrono lungo le strade di Londra mentre si avvicina a Hyde Park per la veglia per la beatificazione del cardinale John Henry Newman non è cosa da poco. Nostalgia per la sua partenza. Anna Arco, vaticanista britannica, collaboratrice di numerose pubblicazioni specializzate e redattrice del londinese Catholic Herlad ha confessato di soffrire di “ppd”, e cioè di “post papal depression”.
Forse, nella gigantesca mole di articoli scritti in queste ore per fare un bilancio dei quattro giorni di Benedetto XVI nel Regno Unito, non c’è battuta migliore per dare una misura, seppur immediata, di quanto sia la dimensione del successo pastorale, ecclesiale, spirituale e umano della visita del Papa. Un successo di folla che ha stupito lo stesso Benedetto XVI che ha dichiarato mercoledì scorso durante l’udienza generale: la visita è stata “un evento storico”.
Ha scritto Antonio Socci su Libero: “Ratzinger non è tipo che usa le parole a vanvera. Ha spiegato che è stato un evento storico anzitutto perché ha rovesciato tutte le previsioni”. L’ha scritto anche Damian Thompson sul Telegraph: i britannici hanno visto “le cose come sono”. Hanno “visto” il Papa. L’hanno “sentito parlare” e si sono fatti conquistare.
C’è un enigma che riguarda le folle di Benedetto XVI durante i suoi viaggi fuori i confini italiani. In questo enigma la folla inglese è la protagonista ultima in ordine di tempo. Ultima a fare che? A convertirsi al Papa. Dato in partenza sempre sconfitto, Benedetto XVI guadagna punti appena atterra sul suolo straniero. Guadagna sul popolo. Sulla gente che, a sentire i più, dovrebbe essergli ostile. E tutto ciò è un enigma. Un mistero che puntualmente si ripresenta.
I suoi quattordici viaggi all’estero hanno sempre capovolto le fosche previsioni di ogni vigilia. È avvenuto così anche nei luoghi più ostici. In Turchia nel 2006, negli Stati Uniti e in Francia nel 2008, in Israele e Giordania l’anno dopo. Ovunque colpisce la sua audacia. A Ratisbona, nel 2006, svelò dove affonda la radice ultima della violenza religiosa, in un’idea di Dio sganciata dalla razionalità. Scoppiarono polemiche. Venti di fanatismo e proteste in tutto il mondo. Ratzinger sembrava sconfitto. Ma fu grazie a quella lezione che oggi tra i musulmani sono più forti le voci che invocano una rivoluzione illuminista anche nell’islam, la stessa che c’è già stata nel cattolicesimo degli ultimi secoli. Fu grazie a quella lectio magistralis se oggi qualcuno, anche la dove l’islam è più fanatico, accetta un confronto coi cattolici.
Benedetto XVI inizialmente ferisce. Colpisce il cuore della società odierna, il suo pensiero. Ferendo, stana ciò che egli ritiene falso. Per questo, le sue parole, nel tempo restano. Non passano.
Fu la scorsa primavera che durante un’udienza del mercoledì paragonò l’ora presente della chiesa a quella dopo san Francesco. Anche allora c’erano nella cristianità correnti che invocavano una “età dello Spirito”, una nuova chiesa senza più gerarchia, né precetti, né dogmi. Oggi qualcosa di simile avviene quando si invoca un Concilio Vaticano III che sia “nuovo inizio e rottura”. Un nuovo inizio verso dove? Le mete, in fin dei conti, non sono altro che proclami che già hanno fatto scuola, con risultati mediocri e pochi nuovi adepti conquistati alla causa, nelle comunità protestanti: l’abolizione del celibato del clero, il sacerdozio per le donne, la liberalizzazione della morale sessuale, un governo della chiesa senza il primato petrino. A tutto questo Papa Ratzinger oppone una nuova modalità di governo della chiesa, il suo pensiero “illuminato dalla preghiera”. Ratzinger parla della fede. Di Dio. Di Gesù Cristo. Della chiesa nel mondo, nella società, nel discorso pubblico. Della fede dentro il vivere di tutti i giorni, con le sue rilevanze private ma anche pubbliche. Non cerca il consenso della gente. Non si piega alle mode del mondo. Accetta la sfida di portare nel mondo la spada che è il Vangelo. E per questo, alla lunga, vince. Ciò che dice resta.
C’è chi reagisce male alle sue parole, come tante e tante bufere mediatiche in questo pontificato dimostrano. C’è chi si ribella e vuole arrestare il Papa per “crimini contro l’umanità”. Ma c’è anche chi si lascia ferire dal suo dire e inizia a seguirlo. Ci sono intellettuali che vorrebbero non parlasse più. Ci sono intellettuali che addirittura non lo fanno parlare, come il “caso Sapienza” dimostra. Ma ce ne sono altri – e le platee dell’università di Ratisbona, del collegio dei Bernardini a Parigi e del Parlamento di Westminster a Londra lo dimostrano – che dopo lo scetticismo iniziale non possono fare altro che alzarsi in piedi e applaudirlo.
E’ quest’ultimo il pubblico più sofisticato di Benedetto XVI. Un pubblico tutto suo. Diverso dalle grandi folle. Spesso si tratta di circoli ristretti. Tutti plaudenti innanzi al teologo divenuto Papa. “Da Rottweiler di Dio a Pontefice più amato, il migliore”, scrisse sul New York Times qualche mese fa, in piena tempesta mediatica per il problema dei preti pedofili, il trentenne conservatore Ross Douthat, opinionista tra i più puntuti degli Usa. Un’opinione, questa, trasversale, e presente soprattutto nel mondo degli intellettuali di lingua anglosassone. Un’opinione positiva fattasi più forte proprio nei giorni peggiori del pontificato di Benedetto XVI, appunto i mesi scorsi del grande attacco per la questione pedofilia. Hendrik Hertzberg sul New Yorker, dopo aver ricordato Martin Lutero e l’attuale crisi di potere e di cultura della chiesa, spese parole di elogio per Benedetto XVI. Proprio in quei giorni, si diffuse un appello con settanta firme del mondo francofono. Firmarono intellettuali, filosofi, giornalisti, drammaturghi, docenti universitari, artisti e personalità varie. Tra i firmatari vi furono Jean-Luc Marion, dell’Académie Française, professore a Parigi e a Chicago. Quindi Remi Brague, professore di filosofia e membro dell’Institut. Lo scrittore Françoise Taillandier. La filosofa Chantal Del sol. L’attore Michael Lonsdale. Il matematico Laurent Lafforgue. E tanti altri.
Ratzinger parla ai più umili e agli intellettuali, dunque. E a tutti dice qualcosa. Non ha strategie comunicative. Sembra preoccupato soltanto della verità, del contenuto del suo dire.
Un paio di anni fa è uscito “Ratzinger professore” di Gianni Valente, un libro contenente gli anni dello studio e dell’insegnamento di Ratzinger nel ricordo degli allievi e dei colleghi, anni che vanno dal 1946 al 1977. Ratzinger, si racconta, fu fin dall’inizio capace di catturare l’attenzione dei suoi studenti. Come? Introdusse un modo nuovo di fare lezione. Racconta un suo ex alunno: “Leggeva le lezioni in cucina a sua sorella Maria, persona intelligente ma che non aveva mai studiato teologia. Se la sorella manifestava il suo gradimento, questo era per lui il segno che la lezione andava bene”. Uno studente di quei tempi dice: “La sala delle sue lezioni era sempre stracolma, gli studenti lo adoravano. Aveva un linguaggio bello e semplice. Il linguaggio di un credente”.
Il professor Ratzinger non faceva sfoggio di erudizione accademica né usava un tono oratorio abituale a quei tempi. Esponeva le lezioni in modo piano, con un linguaggio di limpida semplicità anche nelle questioni più complesse. Molti anni dopo, lo stesso Ratzinger spiegò il segreto del successo delle sue lezioni: “Non ho mai cercato di creare un mio sistema, una mia particolare teologia. Se proprio si vuol parlare di specificità, si tratta semplicemente del fatto che mi propongo di pensare insieme con la chiesa e ciò significa soprattutto con i grandi pensatori della fede”. Gli studenti percepivano, attraverso le sue lezioni, non solo di ricevere nozioni di scienza accademica, ma di entrare in contatto con qualcosa di grande, con il cuore della fede cristiana. Questo il segreto del giovane professore di teologia, che attirava gli studenti. Questo è forse l’unico suo segreto ancora oggi: non mettere se stesso al centro della scena, ma qualcosa di grande oltre lui, il cuore della fede cristiana. E poi, il segreto più importante: l’assenza di una strategia comunicativa. Ratzinger non cerca il consenso.
Pubblicato sul Foglio sabato 25 settembre 2010
1 Ottobre. Romano Guardini. La persona contro i totalitarismi. - Autore: Restelli, Silvio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: silvio.restelli@poste.it - giovedì 30 settembre 2010
Oggi 1 ottobre, ricordiamo in modo particolare due fatti apparentemente lontani: il sessantunesimo anniversario della Repubblica Popolare cinese e la morte di uno dei più grandi teologi del novecento, maestro dell’attuale pontefice, Romano Guardini.
Padre Bernardo Cervellera, direttore di Asia News, nel suo dossier sulla Cina sostiene (prima parte) (seconda parte) che le celebrazioni recenti sono tese a mettere a tacere tutte le voci, che si riferiscono alla esperienza elementare di democrazia fondata sulla persona, in cui il rapporto con il Dio/verità sta alla base della dimensione relazionale.
Anche Romano Guardini riflette sul rapporto tra totalitarismo e libertà, come acutamente osserva Fabrizio Gualco nel suo intervento qui sotto riportato.
Totalitarismo e libertà: Guardini e la vicenda della Rosa Bianca di Fabrizio Gualco - 1 giugno 2000
Il totalitarismo è l'espressione di un Assoluto impersonale, avverso all'uomo e alle sue legittime esigenze. Sul piano sociale, al posto dei diritti naturali, fondati sulla liberta e sul senso di responsabilità, il totalitarismo istituisce ed impone una nuova legge dell'esistenza, che dice che l'uomo non è libero né responsabile ma sottoposto alle imposizioni necessarie di un apparato da lui stesso creato. L'apparato impersonale possiede le sue esigenze e l'uomo vi si deve sottomettere. Di natura contraria ed avversa a quella della persona, l'apparato funziona a patto che la persona "salti".
All'interno dell'apparato totalitario l'uomo è funzione dello Stato, come un dente nella bocca del Leviatano. Niente più di un ingranaggio, peraltro sostituibile, del sistema. Cosi come il comunismo, anche il nazismo possiede caratteristiche anticristiane e illiberali. I totalitarismi, di qualsiasi colore il loro utopismo possa agghindarsi, costituiscono sempre, in ultima analisi, esiti artificiosi di una dinamica religiosa. Hitler si sostituisce a Dio nel momento in cui si propone come unico e solo portatore di salvezza, attuando, come afferma Augusto del Noce nel suo saggio introduttivo a La nuova scienza politica di Eric Voegelin, (Borla, Torino 1968), «una trasfigurazione della natura umana attraverso un processo di autoredenzione (la rivoluzione sostituita alla grazia)»
Peraltro Guardini, oltre alle descrizioni più o meno dettagliate del fenomeno totalitario, si preoccupa di cogliere quella che considera la sua parte portante: «diciamolo con uno slogan: c'è un totalitarismo che viene dall'alto, ma anche un totalitarismo che viene dal di dentro». (La Rosa Bianca, cit. ) Dal di dentro, appunto: è qui che la libertà e la responsabilità personali giocano un ruolo fondamentale. Quando Guardini indica l'altra faccia del totalitarismo, indica la sua parte meno evidente, ma senza dubbio la più virulenta: il pericolo totalitario insito in interiore nomine deriva dalla soppressione della coscienza personale come luogo in cui vige la distinzione fra libertà ed arbitrio e dunque fra libertà e schiavitù. E della responsabilità come senso morale di tale distinzione.
Identificata la libertà con l'arbitrio, la capacita di iniziativa insita nell'uomo coincide con la mera capacità di trasformare o manipolare cose ed energie. Perciò anche l'iniziativa viene ridotta ad attività passiva, appesantita dal dovere a tal punto da contentarsi del "privilegio" di non essere più costretta a pensare con la propria testa: in cambio della libertà personale, il totalitarismo "libera" così l'uomo dal diritto - dovere di decidere e rispondere di sé a se stesso.
Hans e Sophie Scholl (25 e 21 anni), Alexander Schmoller (25 anni) Christoph Probst (23 anni) ed il professor Kurt Huber (49) sono i componenti del gruppo chiamato La Rosa Bianca. La loro mentalità non è quella idealista, né la casa del loro cuore è ubicata sulle nuvole. Non sono dei fanatici seguaci di un'ideologia e neppure - come direbbe l'Ortega y Gasset de La ribellione delle masse - dei "signorini insoddisfatti", pronti a reclamare diritti senza darsi pena di onorare neanche un dovere. Non sono un partito, né vogliono diventarlo: non è loro intenzione quella di organizzare o gestire luoghi o mezzi di potere: al contrario, essi rappresentano politicamente una forza disorganizzata, non legittimata da una esplicita adesione ad un partito o ancor peggio ad una qualche forma di utopia. Da questa prospettiva, la Rosa Bianca è tanto lontana da tattiche e strategie della guerriglia armata o della disobbedienza incivile, quanto aliena dalla malafede di compromessi e mediazioni inerenti ad una casta intellettuale legittimata ideologicamente.
In essenza, la Rosa Bianca è una piccola comunità amicale nata spontaneamente: un'oasi di amicizia, nelle cui temporanee frescure ci si permetteva l'inestimabile lusso di rigenerare la mente e il cuore, di scrollarsi di dosso il grigiore annichilente che avvolgeva e soffocava la società tedesca del tempo, atrofizzando il senso critico dei singoli che a tale società davano forma. Di sicuro rappresentano una forza debolissima, soprattutto se paragonata ai potenti mezzi del Reich. E proprio a Monaco di Baviera, considerata la culla del nazionalsocialismo.
Alla violenza dello status quo nazista, la cui propaganda coincide con la propagazione, scientificamente attuata, di terrore e menzogna, la Rosa Bianca si oppone attraverso atti ispirati da un'insopprimibile esigenza di libertà. Esigenza che diventa anelito costante, vocazione permanente, la cui robustezza viene confermata ogni volta e fino alla fine: anche di fronte all'arresto, alle torture, alla morte - per decapitazione - che non ha risparmiato nessuna di queste giovani vite.
Alle urla della massa intruppata da Meister Goebbels, essi oppongono parole. Parole scritte su carta, sebbene non per questo meno eloquenti. Parole e carta, questo il mezzo adottato. Con l'ausilio silenzioso di qualche scritta sui muri della città. Qualche scritta sui muri e sei volantini, diffusi prevalentemente per via postale, nei quali la parola più ricorrente ed incisiva è: LIBERTA'. Piccoli documenti cartacei ciclostilati e distribuiti alla gente, nel tentativo di scuotere le coscienze di fronte ad un incubo spacciato per realtà dal Big Brother hitleriano. Quattro di questi - i primi ad essere distribuiti - portano il titolo Flugblätter den Weissen Rose (Volantini della Rosa Bianca). Sugli altri due, che vengono ciclostilati in qualche migliaio di copie, campeggia la scritta Volantini del movimento di resistenza in Germania.
Peraltro, questi giovani non erano culturalmente sprovveduti. La loro sete di sapere è al contempo richiesta di radicamento interiore, di apertura all'istanza religiosa in modo tale da poterla viverla in modo genuino, forte. Il loro retroterra culturale non si limita di certo al Mein Kampf di Hitler, ai libelli dell'ideologia ariana, agli pseudosaggi di antropologia genetica e razziale approvati dalla Weltanshauung nazista. Fra i giovani petali della Rosa Bianca e la loro decisione per la libertà - atto concreto di iniziativa seppur fra i più pericolosi ed infine tragici - vi è una mediazione culturale e formativa di ben altro spessore. E la presenza di persone adulte, di teologi, di filosofi, di letterati. Oltre a quello di Guardini, emergono i nomi Carl Muth e Teodor Haecker. Il primo, editore e pubblicista cattolico, dirige fino al 1941 la rivista di storia e cultura politica "Hochland", che, indipendente dal regime e dalla sua ideologia subisce una totale censura. Per suo tramite Hans Scholl incontra le opere di scrittori come Claudel, Péguy, Bernanos, Turgenev, nonché la filosofia di Pascal, Kierkegaard, Maritain.
Il secondo, Teodor Haecker, studioso nonché traduttore dei lavori di Kierkegaard e di Newman, è l'autore di un libro intitolato Che cos'è l'uomo? , le cui argomentazioni possiedono una impostazione personalistica, al modo di Mounier. A questi va aggiunto il nome di Otl Aicher, assertore del primato della cultura sulla biologia, della finalità sulla causalità, teso a far affiorare una dopo l'altra le aporie di un socialdarwinismo antisemita ed in generale antiumano. Inoltre, dalla Rivelazione e della metafisica trae gli antidoti allo storicismo di Hegel - che deifica lo Stato - e dell'idealismo di Fichte, in cui il cittadino consegna allo Stato le chiavi della sua vita individuale e comunitaria.
Chiamato a commemorare questi giovani e a riflettere sul senso del loro gesto, Guardini si domanda: «su quale bilancia si pesa la vita di un uomo? Secondo quale ordine si tirano le somme, da cui risultano il guadagno e la perdita di questa vita, e appare chiaro il suo senso ultimo? Di fronte alla natura non si può parlare di bilancia, perché tutto va come deve andare secondo la sua legge intrinseca. Ma nell'uomo l'agire e l'essere sono affidati alla libertà, e libertà significa che si può fare qualcosa di giusto, ma anche di sbagliato, che si può preservare qualcosa ma anche che qualcosa si può corrompere. Qual è dunque la bilancia, e quale l'ordine? ». (cfr. La Rosa Bianca, Morcelliana, Brescia 1994)
Una via che conduce alla verità e alla reale consistenza della vita di persone che magari non ci è stato concesso di conoscere direttamente, dice Guardini, è quella di chiedersi quali idee essi hanno servito, quali valori hanno posto a fondamento delle loro azioni, quali orizzonti essi ponevano di fronte al loro sguardo. Certo, si deve ammettere che non vi è un'unica bilancia né un solo ordine. La realtà in cui viviamo è molto più ampia e variegata del panorama monocolore che una presa di posizione unilaterale può fornire. Ma anche se gli ambiti dell'esistenza sono molteplici e la stessa realtà quotidiana possiede una sua indiscutibile complessità, attraverso la chiarezza e la semplicità delle argomentazioni di Guardini, possiamo disporre tali ambiti sotto tre fondamentali angolature visuali, ciascuna delle quali, pur possedendo una sua specificità si connette alle altre in modo armonico.
A) Il primo aspetto si riferisce all'ambito delle cose materiali affidate all'uomo: ambito in cui le cose sono condotte a realizzare la loro intrinseca finalità, tale da poter essere usate con intelligenza e non stupidamente abusate affinché l'uomo, e con esso una società che possa e voglia dirsi civile, raggiunga un grado di legittimo e ragionevole benessere. Il rapporto con le cose è significativo perché per suo tramite si esterna il senso di responsabilità che ognuno nutre non solo nei confronti della propria vita individuale, ma anche nei confronti di quelle altrui: è un ordine da rispettare, dice Guardini, poiché riposa «sulla natura del creato, sulla fiducia e sull'accortezza, e si afferma nella prosperità dei rapporti umani»: poiché infine i rapporti con le cose implicano quelli con le persone.
Nell'ambito delle cose trovano cittadinanza la realtà domestica e famigliare nonché quella professionale e lavorativa, al cui interno l'agire si estrinseca anche tramite la cura e la fruizione delle cose di cui si dispone che vengono acquisite ed utilizzate a fini determinati. Sotto questo punto di vista, è inoltre possibile includere forme politiche come la vita comunitaria, sociale e più in generale quella statale, il cui principio cardine è quello della retta amministrazione, che di per sé riconduce ai rapporti con le cose delineati poco sopra.
B) Un secondo ordine è quello dell'azione e della creazione umane, che trova piena legittimazione nella misura in cui realizza nel concreto una chiamata interiore che fonda e sostanzialmente dirige l'operatività umana. Questo è l'ambito della scoperta e dell'intraprendenza; della creatività come opera intelligente che armonizza i rapporti umani, che fonda l'autorità e il diritto non sull'autoritarismo e l'arbitrio ma sulla forza propulsiva della libertà, dalla capacità di innovazione mentale e materiale che interagisce con le possibilità storiche, le esigenze contingenti, le possibilità che il mondo può fornire. L'uomo non è soltanto un mero trasformatore di energie come ogni tipo di forma totalitaria tende a ridurlo, ma una persona al cui interno possiede la capacità di iniziativa e, ad essa connessa, il dovere della responsabilità. Per Guardini, dire responsabilità significa dire coscienza: coscienza di ciò che si pensa e di ciò che si fa: e dei modi in cui si pensa ed in cui si fa.
Le azioni umane non sono atti estemporanei, privi di conseguenze. Ogni atto ha le sue ripercussioni, ora impercettibili ora dirompenti, sulla realtà umana nella sua globalità. Libertà e coscienza sono pertanto indissolubilmente legate l'una all'altra: non esiste libertà senza coscienza, né del resto è possibile che vi sia coscienza in mancanza di libertà. Ma i diritti naturali della persona non appartengono solo ad un singolo individuo, o comunque solo ad alcuni e ad altri no: un diritto elementare è al contempo un diritto universale: se così non fosse la libertà diventerebbe arbitrio - e l'arbitrio non è una forma di libertà, ma di schiavitù. Per questo il diritto della propria inviolabilità implica il rispetto per quella altrui; il diritto a scegliere un lavoro consono alle proprie capacità ed inclinazioni passa attraverso la concezione del lavoro non solo come fonte di guadagno ma anche come opera responsabile nei confronti di tutti; così come la proprietà personale come diritto si accorda al dovere di riconoscere quella acquisita dagli altri. Questo ambito esige perciò grandezze non quantificabili in numeri, ma in qualità interiori: anche qui, nota Guardini, esiste un peso tramite cui misurare l'uomo e le sue azioni: «se è attento e risponde alla chiamata che giunge dallo spazio del possibile; se è puro in spirito e non confonde la chiamata coni desideri egoistici; se è pronto a prendere su di sé le angosce e i dolori del divenire». Anche accettare il rischio del discernimento, che volte comporta il rischio di giudicare errato ciò che in realtà è solo inconsueto, non quotidiano.
C) Ma oltre a questi due ambiti, che si definiscono rispetto alle cose e alla vita umana, che in un certo modo le legittima e le garantisce, vi è una dimensione ulteriore che, come sostiene Guardini, non è fondata in questo mondo, non è garantita dalla realtà e che di conseguenza non si può comprendere facendo leva esclusivamente su essa, poiché la sua origine è collocata nell'universo trascendente, che è "mondano" solo per "intersezione". Se nei primi due ambiti possono essere adottati criteri derivati dall'esperienza immediata, dice Guardini, qui quegli stessi criteri darebbero risultati fuorvianti. La grandezza di Cristo è la grandezza di un amore soprannaturale, di un sacrificio gratuito dall'esito decisivo. E' un evento di verità e amore la cui comprensione inizia attraverso l'inquietudine della coscienza che percepisce il paradosso di una credibilità inaudita, non di rado protesa fino al limite di un'apparente assenza di senso: e prosegue con la cognizione che tale privatezza di senso costituisce, in realtà, il senso ultimo tutto ciò che è, per compiersi in quell'abbandono dettato dalla fiducia nella presenza di un oltre che solo una fede vissuta con occhi limpidi può fornire. Come ben scrive Michele Nicoletti, qui si parla «di un'altra forma di esistenza che non ha nessun fondamento umano o mondano e che pure è dentro le possibilità umane perché Dio stesso ve la ha inserita. E' questa l'esistenza di Cristo e che con Cristo può essere percorsa da ogni uomo (...) E' così l'etica del sacrificio che sfugge ad ogni calcolo umano viene messa nel conto di Dio e diventa, nella storia stessa, decisiva (...) Nei sotterranei della storia alcuni "patiscono" per la liberazione di molti, anche se i molti ne sono inconsapevoli».
Secondo Guardini, il loro comportamento si può capire solo partendo da una tale prospettiva infinita, la sola capace di dare senso e significato a tutto ciò che è finito: «di certo hanno lottato per la libertà dello spirito e per l'onore dell'uomo, e il loro nome resterà legato a questa lotta. Nel più profondo hanno vissuto però l'irradiazione del sacrificio di Cristo, che non h bisogno di alcun fondamento nell'esistenza immediata, ma sgorga libera dalla fonte creativa dell'eterno amore».
L'uomo non crea la verità, ma agisce conformemente ad essa. Abita nel mondo ma è al contempo al di fuori di esso. E' un essere collocato fra tempo ed eterno. Il cristiano non può essere solo un critico della realtà, evitando gli onori e gli oneri connessi alla testimonianza della sua fede. I ragazzi della Rosa Bianca hanno optato, per dirla con Juan de la Cruz, non per il più facile, ma per il più difficile. Hanno dimostrato che si può vincere non solo ad Austerlitz, ma anche a Waterloo. Sebbene in modo completamente avulso dai canoni mentali solitamente ricorrenti.
La vicenda della Rosa Bianca non resta solo un fatto di cronaca, buono a riempire transitoriamente le pagine dei quotidiani e magari quelle di qualche settimanale. Per la sua portata intrinseca, lo si può collocare nell'ordine degli eventi storici. La cronaca è ciò che passa e va, senza lasciare tracce profonde e comunque segni duraturi: essa subisce lo stesso destino di un trenino di orme lasciato sulla battigia dal passaggio di un bagnante. Anche la storia passa e va: non del tutto. La cronaca usa l'inchiostro simpatico, laddove la storia usa quello indelebile: le sue impronte, piccole o grandi che siano, rimangono inscritte nella coscienza delle persone che la vivono come attori e spettatori di percorsi personali che di continuo si intrecciano, dando forma e sostanza a quel mistero che molto semplicemente possiamo chiamare vita.
Fin qui il Gualco. Ma il grande teologo, nel suo intervento di rievocazione della Rosa Bianca che riportiamo integralmente nel file seguente da scaricare [riprodotto qui di seguito N.d.r.], non si ferma qui e prosegue affermando poi, in modo inaspettato, che all’origine del totalitarismo sta quella concezione dell’uomo che nega la dimensione della coscienza e della verità e che ha portato l’Europa e il mondo ad elaborare con la tecnica una società che sfugge alla responsabilità della persona e che va in direzioni che la coscienza non riesce a dominare.
"Il potere dell’uomo sulla natura si è concentrato in oggetti da lui prodotti che hanno una forza mai vista; li chiamiamo macchine. A seconda della loro funzione e della loro specifica fabbricazione stanno l’una in rapporto all’altra in un grande sistema di interdipendenze; questo è ciò che chiamiamo “tecnica”. Essa si fonda su una ricerca scientifica in continua crescita e su di una organizzazione socio-economica che attraversa sia la vita dello Stato che quella del popolo: questa è ciò che chiamiamo la “società moderna”. E’ tipico di questa società il fenomeno dell’opinione pubblica, ossia dell’opinione che non si forma spontaneamente dalla vita delle persone o dei gruppi, ma viene guidata dalla stampa, dal servizio d’informazioni, dalla radio, dalla televisione; attraverso iniziative, programmi, rappresentanze di interessi dei tipi più diversi. Parallelamente a questa il fenomeno del traffico, in ferrovia, nave, aereo, automobile, raccoglie tutto ciò che riguarda l’organizzazione, la propaganda, e tutto il resto. Tutte queste attività, strutture e prodotti creano un ambiente che condiziona l’uomo stesso. Non solo per il fatto che esige da lui le prestazioni corrispondenti, ma anche perché lo porta ad un atteggiamento spirituale che si esprime in criteri che stabiliscono ciò che è degno della vita e in ordinamenti dei valori.
Nasce così un “tutto” che incide in ogni sfera della realtà: sorge una nuova “forma del mondo”, e ciò significa anche una nuova “forma dell’uomo”.
QUEI TEDESCHI CHE RESTARONO LIBERI. Romano Guardini fa memoria della Rosa Bianca
Il teologo Romano Guardini (1895 1968), nato in Italia e tedesco d’adozione, fu incaricato in due occasioni, nel 1945 e nel 1958, di commemorare i componenti del gruppo di resistenza “La Rosa Bianca” (i fratelli Hans e Sophie Scholl e Christoph Probst), alcuni dei quali furono uccisi nel 1943 per aver distribuito volantini antinazisti. Pubblichiamo l’orazione pronunciata il 12 luglio 1958 all’Università di Monaco, dove i fratelli Scholl avevano studiato. Con altre riflessioni di Guardini, è stata raccolta in un libro intitolato “La Rosa Bianca” (Morcelliana, 88 pagine, 8 euro, a cura di Michele Nicoletti).
Celebriamo oggi il completamento dei lavori dell’atrio della nostra università.
Quest’atrio non è semplicemente il locale ampio e spazioso in cui si incontrano docenti e discenti.
E’ qualcosa di più. E’ un luogo che suscita gravi pensieri; perché qui, come il Magnifico Rettore ci ha prima ricordato, si è consumato un evento che quindici anni fa ha segnato con una tragica svolta la vita di sette appartenenti a questa università – il professor Kurt Huber, gli studenti Sophie e Hans Scholl, Christoph Probst, Alexander Schmorell, Willi Graf e Hans Carl Leipelt.
Lassù, dal parapetto del primo piano, Sophie e Hans Scholl hanno lanciato i loro appelli: l’ultima espressione della lotta per la libertà condotta dal loro gruppo di amici. Sapevano che al loro gesto doveva seguire la cattura. E questo, infatti, fu ciò che accadde, e la fine per tutti loro fu la morte. Un piccolo evento tra innumerevoli altri in quegli anni, che hanno avvolto la Germania in una profon da oscurità, quando sembrava non aver più valore né il diritto, né la verità, né la libertà.
Per questo la celebrazione del completamento dei lavori di questo atrio ha trovato il suo senso più profondo nell’inaugurazione del monumento dedicato a coloro che hanno testimoniato con la loro vita quell’aspirazione alla libertà, che rendeva ai loro occhi l’esistenza degna di essere vissuta. Ma quell’a spirazione alla libertà costituisce anche il fondamento di tutto ciò per cui la nostra università deve esistere, fino a che essa vuole essere degna del proprio nome.
Dal racconto della sorella abbiamo appreso che le ultime parole pronunciate da Hans Scholl prima di morire sono state: “VIVA LA LIBERTÀ!”. Per lui queste parole contenevano il senso e la giustificazione del suo agire per noi sono un testamento, e dobbiamo riflettere su che cosa esse significano. Quelle parole sono state dette in un’epoca di oppressione e oscurità, un’oppressione e un’oscurità di cui le persone che oggi sono più giovani – devo aggiungere: in Germania Occidentale – non hanno la minima idea. Molte persone più avanti con gli anni hanno però dimenticato tutto questo, al trimenti alcune cose andrebbero diversamente.
In quelle parole veniva affermato il diritto a qualche cosa che costituisce il fondamento dell’intera esistenza europea: il diritto alla libertà – ma alla libertà di tutti; così che la libertà dell’uno trova la propria misura nella libertà dell’altro. “Libertà” significa che l’uomo ha la possibilità di formarsi le proprie convinzioni, di esprimerle e di vivere in modo conforme ad esse; significa la garanzia dell’inviolabilità della propria casa; significa il diritto a scegliersi il lavoro e la professione seguendo la propria volontà; ad acquisire una proprietà e ad averne tutelato il possesso. Questi sono i diritti elementari dell’uomo; così evidenti per un giovane che oggi raggiunge la maggiore età, che solo a fatica egli riuscirebbe a concepire una realtà diversa.
Queste sono le libertà che sono state realizzate dal corso dell’intera storia europea, fino al momento in cui questa storia esaltò se stessa, al di là di ogni limite, nell’idea dell’autonomia e – conseguenza intrinseca questa, su cui si sorvola volentieri – si rovesciò nella schiavitù della dittatura. Contro questa schiavitù sono insorte le sette persone di cui oggi celebriamo la memoria. Essi hanno affermato il diritto dell’uomo alla libertà e lo hanno testimoniato con la loro vita.
Dobbiamo però spingere più a fondo la nostra riflessione sulla libertà, perché raramente una parola è stata usata in modo peggiore ed è stata corrotta più a fondo. In qualsiasi modo si voglia definire l’essenza della libertà, in ogni caso essa esprime la realtà di fatto – una realtà che si presenta come evidente all’esperienza interiore benché il pensiero non possa risolverla ulteriormente – che l’uomo non è soltanto un trasformatore di energie, ma è initium, inizio; che l’uomo ha iniziativa, nel senso che ha, al proprio interno, un’originaria forza di “iniziare”; e che per questo deve rispondere di ciò che fa in quel modo specifico che è la responsabilità. Con questo l’uomo trascende tutte le modalità con cui nelle altre realtà naturali l’energia diventa attiva. Egli è persona; ma ciò è qualcosa di grande e gravido di destino. Voi conoscete le parole, con cui il coro nella prima scena dell’Antigone esprime il brivido esistenziale di fronte a questa grandezza: “Molte cose nel mondo ispirano sgomento; ma nulla più dell’uomo”. Una tale forma di esistenza è impossibile per un essere che si risolve completamente nell’ambito della natura.
Questa possibilità è data però all’uomo, perché egli è in relazione con qualche cosa che supera l’ambito della natura, qualche cosa che mette l’uomo nelle mani dell’uomo stesso vincolandolo alla norma etica: Dio. Dio si fa strada nella consapevolezza dell’uomo; questa realtà, che è inseparabilmente legata alla libertà e che, come la libertà, non può essere affatto dissolta sul piano psicologico o su qualche altro piano, noi la chiamiamo coscienza. Non c’è nessuna libertà senza coscienza – tanto meno può esserci coscienza, responsabilità morale in un essere che non è libero. Solo chi sa di essere vincolato dalla verità, ha delle opinioni proprie e delle parole proprie. Solo chi rispetta l’inviolabilità della sfera personale altrui, ha diritto all’inviolabilità della propria. Solo chi vede nel lavoro e nella professione non soltanto un mezzo per guadagnare denaro, ma il modo in cui compiere la propria opera responsabilmente nei confronti del tutto, può scegliere la propria strada in modo giusto. Solo chi acquisisce rettamente la proprietà e riconosce quella degli altri, ha diritto ad essa. In una parola: soltanto colui che, come ha detto Kierkegaard, sta ritto in se stesso, ma davanti a Dio, può esistere come persona.
Se queste condizioni non sono soddisfatte, la libertà diventa arbitrio. Ma l’arbitrio è già in se stesso schiavitù – il fatto poi che si trasformi in schiavitù anche sul piano esteriore, sul piano storico, su quello politico, dipende solo dalle circostanze. Non appena scompare dalla consapevolezza questo “essere di fronte a”, la libertà caratteristica della persona non scompare in quanto tale, perché appartiene alla sua essenza, è la sua nobiltà e il suo destino, che la persona lo voglia oppure no; ma si trova in pericolo. E allora ciò di cui parla Sofocle, quel qualcosa nell’uomo che crea “sgomento”, smarrisce ogni freno e norma, e gli ultimi decenni hanno mostrato ciò di cui diviene poi capace.
L’uomo finisce per perdere la fede nella sua aspirazione alla libertà, perde la capacità di affermare questa aspirazione sotto la pressione dell’istinto, dell’utilità e del potere e allora egli è, di dentro, maturo per la dittatura. Sappiamo abbastanza di coloro che oggi ricordiamo per poter dire che essi hanno inteso la libertà in questo senso. Hanno incarnato l’ethos della libertà in una generosità e in un coraggio, capaci di persuadere la mente e di toccare il cuore. Certo, si può obiettare che sono stati degli idealisti e che avevano sopravvalutato la disponibilità al rischio che caratterizza la media delle persone. Si può obiettare che a loro è mancato il senso freddo della realtà così come la sicurezza della tecnica rivoluzionaria. Ma forse proprio da questa mancanza viene la tragica purezza della loro apparizione. Non hanno avuto alcun successo; la loro impresa è presto naufragata contro i freddi meccanismi di un potere privo di scrupoli. E così non sono neppure caduti in tutti quegli intrecci di menzogna e di ingiustizia, in cui col tempo finisce per decadere ogni attività rivoluzionaria.
La loro vita risuona come il canto di un’umanità nobile; e io posso solo consigliare a Voi, cari studenti, di leggere il libro che Inge Aicher Scholl ha scritto col titolo “La Rosa Bianca” – così si chiamavano i volantini del gruppo. Sentirete di che cosa è fatta un’esistenza segnata, per usare un’espressione di Nicolai Hartmann, dai valori dello straordinario. Noi li onoriamo perché erano fatti così e così agivano, e riteniamo giusto che questo tributo di onore trovi la sua espressione nel monumento che oggi viene inaugurato.
Proviamo a scendere più in profondità. Come sono potute avvenire le cose tremende di cui i recenti avvenimenti hanno rivelato la realtà così intollerabile?
Ma, ancora una volta, proviamo a scendere più in profondità – e non tanto nell’interiorità dei singoli, quanto in quella della storia. C’è qualcosa che si potrebbe definire come una profezia storica. In questa profezia parlano uomini che avvertono le correnti profonde del grande movimento della storia e vedono la direzione in cui esse vanno. Può succedere così che questi uomini, ad un dato momento, quando tutti quanti si sentono tranquilli e sicuri nella condizione dominante, debbano annunciare la dissoluzione di questa condizione, e il farsi avanti di una nuova forma di esistenza che preme dal grembo della storia. Pensiamo alle parole di Jakob Burckhardt; o a quelle più turbolente del suo collega di allora all’università di Basilea, Friedrich Nietzsche.
Al tempo in cui vivevano, l’ordine moderno razionalistico borghese della vita sembrava prosperare sotto ogni punto di vista e il futuro sembrava sicuro. Ma essi videro che quell’epoca andava verso la fine e che una nuova epoca si preparava, anche se essi descrivevano in modo diverso e la decadenza e le forze emergenti. Quella era una profezia esplicita; ma c’è anche, io credo, una profezia nascosta; nascosta non solo a chi la ascolta, che non capisce ciò che viene detto, ma anche a chi la pronuncia. Egli annuncia delle cose e compie delle azioni che contengono più di quanto egli stesso sia consapevole.
Così è stato per le parole che Hans Scholl ha pronunciato prima di morire. Quelle parole sono state qualche cosa di più della semplice protesta di un cuore grande contro la violenza che regnava in Germania. Nel suo significato più profondo, di cui egli stesso non era ancora consapevole, quel grido di libertà si dirigeva non solo contro un sistema che viveva di ossessioni di potenza e di visioni deliranti, ma contro una minaccia assai più forte che già da lungo tempo si faceva strada.
Ciò che avveniva allora sul piano politico, era la prima forma di espressione di ciò che si preparava su un piano più profondo della storia.
Oggi noi lo vediamo – voglio essere più prudente: lo vedono coloro che vogliono vedere.
E’ il pericolo di un asservimento, che proviene dall’opera stessa dell’uomo negli ultimi secoli.
Le azioni dell’uomo si sono sempre ripercosse sull’uomo stesso. Possedere è sempre stato un essere posseduto, esercitare il potere un subire il potere. Tuttavia, fino ancora alla metà circa del secolo scorso, il rapporto tra libertà e dipendenza si è mantenuto in una proporzione che oggi giudichiamo assai felice. Questa proporzione si è modificata successivamente, e in modo senz’altro essenziale.
Il potere dell’uomo sulla natura si è concentrato in oggetti da lui prodotti che hanno una forza mai vista; li chiamiamo macchine. A seconda della loro funzione e della loro specifica fabbricazione stanno l’una in rapporto all’altra in un grande sistema di interdipendenze; questo è ciò che chiamiamo “tecnica”. Essa si fonda su una ricerca scientifica in continua crescita e su di una organizzazione socio-economica che attraversa sia la vita dello Stato che quella del popolo: questa è ciò che chiamiamo la “società moderna”. E’ tipico di questa società il fenomeno dell’opinione pubblica, ossia dell’opinione che non si forma spontaneamente dalla vita delle persone o dei gruppi, ma viene guidata dalla stampa, dal servizio d’informazioni, dalla radio, dalla televisione; attraverso iniziative, programmi, rappresentanze di interessi dei tipi più diversi. Parallelamente a questa il fenomeno del traffico, in ferrovia, nave, aereo, automobile, raccoglie tutto ciò che riguarda l’organizzazione, la propaganda, e tutto il resto. Tutte queste attività, strutture e prodotti creano un ambiente che condiziona l’uomo stesso. Non solo per il fatto che esige da lui le prestazioni corrispondenti, ma anche perché lo porta ad un atteggiamento spirituale che si esprime in criteri che stabiliscono ciò che è degno della vita e in ordinamenti dei valori.
Nasce così un “tutto” che incide in ogni sfera della realtà: sorge una nuova “forma del mondo”, e ciò significa anche una nuova “forma dell’uomo”.
Che si tratti davvero di questo, lo si vede in un momento, difficile da definire, in cui si lascia riconoscere il segno più caratteristico di una nuova epoca e il fattore forse più forte della sua autorealizzazione, ossia un suo proprio stile. Ciò che Hegel ha definito come “cultura in senso oggettivo”, considerandola come qualche cosa di divino in cui l’uomo trova la sua realizzazione, si è ora concentrato in modo preoccupante e si è reso autonomo. E’ sfuggito all’iniziativa dell’uomo, sviluppandosi progressivamente e in modo sempre più decisivo secondo una logica oggettiva di problemi, di scoperte, di costruzioni, che non va nella stessa direzione della logica della libertà e della dinamica vitale dell’uomo. Ora si fa avanti, con allarmante consequenzialità, qualcosa che è stato presente come possibilità fin dall’inizio in ciò che chiamiamo “opera dell’uomo”, “dominio della natura”, “cultura” nel senso più ampio, qualcosa che però per lungo tempo veniva riequilibrato nella totalità dell’esistenza. E questo qualcosa cerca ora di instaurare una nuova legge dell’esistenza, che afferma: l’uomo non è libero, ma sottostà alle necessità dell’apparato creato da lui stesso. Deve conformarsi alle esigenze di questo apparato. La sua struttura personale deve adattarsi a queste. Deve perfino farsi comprendere dalle apparecchiature che sono state concepite dalla razionalità e fabbricate dalla tecnica, come sembra rivelare il fenomeno della cibernetica. Si forma così un nuovo concetto, che esprime ciò che è assolutamente proibito e che comprende ogni tentativo della personalità di far valere la propria essenza, la propria volontà, la propria esperienza vitale, in quanto distrugge le funzioni, ossia il dominio stesso dell’apparato: il concetto di sabotaggio.
Di questa mancanza di libertà l’ordinamento statale totalitario costituisce l’espressione più evidente.
Non possiamo farci però delle illusioni: anche quelle forme di vita, che per loro essenza si fondano sulla libertà, minacciano sempre più di essere caratterizzate dall’appiattimento della personalità. Diciamolo con uno slogan: c’è un totalitarismo che viene dall’alto, ma anche un totalitarismo che viene dal di dentro. Chi guarda attentamente, scopre nella vita delle democrazie, così apparentemente libera, i sintomi più preoccupanti di una coercizione indiretta che si esercita attraverso l’apparato della cultura tecnologica. Si potrebbero citare, a questo proposito, fenomeni più ampi quali l’azione uniformatrice dei metodi tecnici, l’ethos della formazione dei gruppi, lo sviluppo della burocrazia, l’influsso dell’opinione pubblica, e così via, ma voglio richiamare soltanto un singolo aspetto, che mi pare però particolarmente illuminante: la manipolazione, studiata scientificamente, dell’inconscio dell’uomo da parte dell’economia.
L’economia studia i modi in cui gli stimoli della pubblicità, apparentemente inavvertiti, vengono interiorizzati nelle motivazioni dell’individuo e sviluppa i risultati di queste ricerche in una tecnica di influssi costanti, non avvertiti dallo stesso interessato. Chi è in grado di comprendere la natura di questi sintomi, sa che cosa sta accadendo.
E’ tempo allora – prima che sia troppo tardi – di comprendere il senso nascosto di quel grido profetico e di proclamare la lotta per la libertà anche su questo fronte. Questa lotta non è fatta di azioni esteriori, dal momento che il nemico proviene dall’interno dell’uomo, di quell’uomo contemporaneo che noi tutti siamo. Certo anche le misure esteriori sono importanti: la regolamentazione dell’orario di lavoro, la tutela giuridica della sfera personale, la possibilità di educazione e di formazione spirituale, e così via.
A partire dall’interiorità si gioca il nostro destino: se noi restiamo signori delle nostre opere, oppure i loro funzionari. E’ necessario preservarsi dall’invadenza della sfera pubblica e riconoscere come sacri i legami umani originari
Ma i veri cambiamenti possono accadere soltanto a partire dall’interiorità, e non sarà cosa di poco conto il realizzarli non sarà facile riconoscere che qui si gioca il destino dell’uomo: se egli resta signore delle proprie opere, oppure il loro funzionario. L’uomo, dunque, deve situarsi in se stesso. Deve crearsi lo spazio della riservatezza personale e deve preservarlo dall’invadenza della sfera pubblica.
Deve tornare a riconoscere come sacri i legami umani originari e li deve custodire. Deve essere deciso a non sottostare a ciò che “si” fa, a ciò che “si” deve avere e vedere. Deve costruire dentro di sé una barriera contro i flutti dei condizionamenti sociali che giungono attraverso la pubblicità, le notizie, la radio, e tutto il resto.
E – cosa da non dimenticare – deve liberare la propria vita spirituale da quel narcotico con cui addormentano la loro coscienza tutti coloro, che non vogliono analizzare a fondo nessun problema con lo spirito di una corretta critica culturale: la fede nel progresso universale.
Vorrei, signore e signori, che quanto ho detto non fosse interpretato male. La mia non voleva essere un’esortazione moralistica, né, tanto meno, volevo indulgere a un qualche genere di romanticismo. L’epoca dell’individualismo è finita e non la si può far risorgere artificialmente. Siamo nell’epoca dei rapporti sovraindividuali ed in questi rapporti dobbiamo compiere la nostra opera. E’ un compito grande e degno di essere realizzato. In esso ne va – come ho già detto – di una forma del mondo, niente di meno; le energie che sono all’opera si fanno sentire in modo colposo.
Ma è una differenza quella che decide tutto: o l’uomo viene trasformato da queste energie in un semplice elemento della macchina, o si radica nel suo proprio centro e crea l’ambito vitale che gli è proprio. In questo compito è bene però richiamare l’attenzione su di una difficoltà presente.
Dopo la fine dell’epoca moderna, l’uomo ha subito un collasso esistenziale. L’effetto di questo collasso fu la dittatura.
Credo infatti che nel corso dello sviluppo dell’età moderna con l’uomo si è fatto strada qualcosa di specifico. Questo sviluppo è culminato nella rivendicazione dell’autonomia, cioè nella rivendicazione di un radicale autodominio dell’uomo nel campo del pensiero, dell’agire e del creare, una rivendicazione che è giunta fino a quelle forme esaltate che si trovano rappresentate ne “L’unico e la sua proprietà” di Max Stirner, o nella “libertà disperata” dell’esistenzialismo. Quella rivendicazione era falsa alla radice, perché l’uomo non è autonomo. Lo sforzo, durato così a lungo, di realizzare quell’autonomia deve aver però provocato nell’uomo qualcosa, senza cui gli eventi degli ultimi tre decenni non si possono comprendere: in quello sforzo l’uomo deve essersi esaurito così a lungo e così in profondità, fino al proprio intimo, al punto che questo esaurimento è divenuto un fattore determinante della storia. L’uomo, dopo la fine dell’epoca moderna, ha subìto un collasso esistenziale. L’effetto di questo collasso fu, sul piano oggettivo, la dittatura; sul piano soggettivo, invece, il desiderio di essere sollevato dalla propria responsabilità, cioè di essere schiacciato dalla dittatura, diretta o indiretta che sia.
Per questo il grido “VIVA LA LIBERTA!”, assume oggi un nuovo significato. Diviene l’espressione di una minaccia più profonda di quella di allora. Ascoltare quell’appello e seguirlo significa essere pronti ad un’impresa difficile. Si potrebbe però dubitare se abbia senso avanzare sfide di questa portata. Nel nostro paese, spezzato a metà dai blocchi politici delle potenze, si riceve spesso un’impressione inquietante: come se l’uomo tedesco – più precisamente, tedesco occidentale – fosse in procinto di adattarsi ad una esistenza senza storia.
Ci sono certo motivi che sembrano giustificarlo.
Primo fra tutti, il tentativo mostruoso, che sta alle nostre spalle, non solo di creare storia, ma di conquistarla con la violenza: l’ultima guerra. La guerra è stata sostenuta da un agire privo di un autentico legame con il passato; privo di senso del possibile; privo di tutto ciò che i Greci chiamavano “timore davanti agli Dèi”.
Si è giunti così a un crollo dell’esistenza storica, mai sperimentato prima in Germania nonostante la Guerra dei Trent’anni – tanto più tragico, se si tien conto che, in sé, vi erano le premesse per un’azione capace di dar forma all’avvenire, capace di creare per l’Europa e in Europa il terreno di una storia futura. La fatica di questa guerra ha provocato una profonda spossatezza spirituale, che nessun attivismo può mascherare. Questa spossatezza si lega con quell’altro radicale esaurimento, di cui abbiamo parlato prima, e fa sì che l’uomo si allontani dalla storia e si ritiri nella realtà extra storica: la cultura, la tecnica, la ricerca del denaro e dei piaceri della vita.
Una sorta di autoinganno, come se non fosse accaduto ciò che invece è accaduto; come se si potesse, in uno spazio lasciato in bianco, produrre il “miracolo” della ricostruzione e dell’economia e di altre cose ancora, senza che la verità si prenda la sua rivincita.
Forse Voi potreste obbiettare, che tanto è stato detto e tanto è stato scritto; che i politici si scagliano gli uni contro gli altri con passioni – o almeno con parole – così forti; che gli scienziati, i rappresentanti di gruppi e di organizzazioni levano alti richiami di ammonimento, di protesta, di accusa. E tutto questo sarebbe un comportamento anti-storico? Non voglio certo dubitare dell’onestà che si manifesta in talune di queste espressioni. Ma ciò di cui qui propriamente si tratta sta ad un livello più profondo. Un comportamento che fosse adeguato alla storia, nel senso qui inteso, comincerebbe con lo sforzo di comprendere la situazione in cui ci troviamo. Facciamo questo sforzo? Cerchiamo di vedere come si sia giunti a questa situazione? Quali azioni, quali omissioni, quali principi abbiano condotto ad essa?
Abbiamo davvero intenzione di riconoscere come abbia potuto avvenire tutto ciò che è accaduto? Tutte le cose tremende, di cui i recenti avvenimenti hanno rivelato la realtà così intollerabile? L’impressione è che si voglia eludere questa domanda. O che chi fa questa domanda riceva sempre la stessa risposta: “Lascia perdere! Vogliamo vivere, lavorare e goderci la vita!”.
Non è così? Ben poco è lo spazio lasciato ad un’iniziativa storica attiva. Se non vogliamo scivolare fuori dalla storia, dobbiamo almeno impegnarci ad analizzare ciò che accade con rettitudine e coraggio. Da questa analisi il futuro uscirà più puro e più giusto. Ciò a cui siamo chiamati in ogni caso, nel ristagno della storia che ci è imposto, è anzitutto la riflessione sulle grandi questioni che sopra abbiamo posto: la forma del mondo che vuole nascere è imponente.
Di questa realtà abbiamo solo un presentimento. Al momento se ne intravedono soltanto singole linee di fondo, qui e lì un profilo, talvolta un nesso. La realizzazione di questa nuova forma del mondo costerà non soltanto un lavoro incalcolabile, ma anche grandi sacrifici, e questo è normale.
Ma un sacrificio non può richiederlo, se non vuole cessare di essere una forma “umana” del mondo: il sacrificio della libertà. Come devono allora essere delineate le grandi forme sovraindividuali del lavoro e della vita, affinché la vita propria della persona possa persistere e svilupparsi? E possa farlo non solo “in modo appena sufficiente”, ma in modo significativo, in modo che essa possa essere l’opposto polare, esplicitamente riconosciuto, della realtà sovrapersonale? La forma del futuro dovrà fondarsi su di un approfondimento e riordinamento dell’esistenza della nazione – e dietro ad essa dell’Europa – concepita come un tutto.
E come si presenta, a differenza del totalitarismo meccanico del sistema materialistico che nega la persona, quell’ordinamento che riconosce la persona come irrinunciabile polarità della totalità?
Qui sta l’autentica dialettica vivente che non è costruita artificiosamente, ma che è fondata nell’esistenza stessa. Qual è l’atteggiamento in cui questa dialettica si esprime?
Quale ethos si origina da essa? Come dovranno essere le singole forme della vita, che da lei scaturiscono? E così via.
Se c’è un luogo, signore e signori, in cui si può riflettere su questi problemi e in cui le istanze che sorgono da essi possono essere accolte nella cultura, questo luogo è l’università.
L’onore che tributiamo a questi uomini che hanno dato la loro vita per la libertà, resterà un semplice gesto, se non tentiamo di capire dove si gioca per noi l’istanza di un’eguale libertà, e se non siamo pronti a portarla a compimento.
Romano Guardini
Una nuova concezione di identità di Roberto Fontolan - giovedì 30 settembre 2010 – ilsussidiario.net
È ormai da qualche anno che il tema dell’identità ha travalicato gli studi e le ricerche etnologiche per diventare oggetto (purtroppo, viste le assurdità che si proclamano) di discussione televisiva o di confronto politico. Che cosa è l’identità di una persona? E di un popolo? Di una cultura, nazione, regione, comunità, villaggio? Parliamo di una piattaforma, di un recinto dai confini chiari o di una casa senza porte? E cosa accade quando le identità si incontrano, posto che esista una soddisfacente nozione di identità?
Non si tratta di una questione soltanto odierna. Basti pensare al mos maiorum dei Romani e alle problematiche nate dall’espansione militare arabo-musulmana o per venire più vicino a noi, ecco i tormenti e i drammi seguiti alla conquista dell’America Latina, dove nacque il termine di meticciato per dire che dall’incontro-scontro tra i due nasceva un terzo: una terza identità?
Certo è che la fine del Novecento e l’inizio del Duemila hanno riproposto l’incandescente questione accompagnata da una febbrile ricerca di comprensioni e soluzioni. L’Europa che vuole i suoi abitanti e Stati “uniti nella diversità” è da lungo impegnata nel risolvere il dilemma tra multiculturalismo e assimilazionismo (ambedue ormai rigettati come troppo ideologici, ma senza che si sia trovata una “terza via” praticabile e descrivibile). Mentre gli Stati Uniti ci hanno convinto con la narrazione del melting pot, non riuscendo però a spiegare in modo altrettanto efficace il fenomeno delle inner cities, dei ghetti urbani e del dilagare dei fenomeni di esclusione, per non citare la crisi quasi trentennale dovuta all’immigrazione selvaggia dei latinos.
Il Canada applica una versione del multiculturalismo talmente rigida che per molti si è rovesciata nel suo contrario: una sorta di gabbia. E mentre i modelli elaborati in Occidente sono sotto pressione cosa accade per il resto? Ben poco. Da altri mondi, da altre latitudini non sono arrivati contributi e slanci per affrontare l’onda generata dalla globalizzazione (e che insieme la condiziona): il nuovo inevitabile processo di rimescolamento mondiale.
Ci vorrà tempo, certo, ma intanto occorre proporre e sperimentare qualche cambiamento di prospettiva, indizio di un nuovo giudizio che potrà portare, chissà, a nuovi modelli. L’interpretazione - giuridica, filosofica e antropologica - di questo fatto è più che mai necessaria per favorire una convivenza pacifica, innanzitutto, e una integrazione reale.
Le posizioni e i modelli che conosciamo, pur contrapposti, presuppongono identità originarie, fisse e immutabili, universi incomunicabili e dotati di leggi proprie. Di questa ossessione per la definizione di etnie e culture “originarie” abbiamo mille esempi provenienti proprio dalla cultura europea, dall’antropologia culturale così come dalla più banale storia coloniale. Perciò l’inizio di una nuova considerazione del tema coincide con la “messa in movimento” del concetto di identità.
Non uno stato, ma una dinamica, non un confine ma un abbraccio, non una indifferenza ma una consapevolezza. Indipendentemente dalle culture e dalle tradizioni, tutti gli uomini sono uguali: lo sappiamo, ce lo spiegano fin da bambini. Ma con gli anni è facile dimenticare in cosa sono uguali: nel bisogno di una risposta alla loro attesa di senso. È questo il dato presente in ogni uomo, dovunque venga al mondo.
La riflessione nuova sull’identità non può che partire da qui, dal recupero, o dalla scoperta, della comune umanità, di ciò che davvero ci rende uguali e fratelli di destino (ne avremo un esempio clamoroso a fine ottobre al Cairo, con un evento promosso da un centro culturale egiziano e dal Meeting di Rimini - avremo modo di parlarne).
IDEE/ Cameron ha capito che non c’è Big Society senza il Papa. E noi? di Luca Pesenti - giovedì 30 settembre 2010 – ilsussidiario.net
Ci voleva David Cameron, primo ministro inglese, per dire che la religione è un elemento essenziale per costruire la trama e l’ordito del tessuto sociale. Certo, lo ha fatto di fronte al Papa di Roma, cercando di minimizzare quel venticello secolarista e anticlericale che da settimane spirava lungo la Manica e che, alla prova dei fatti, si è tradotto soltanto in qualche sporadica contestazione.
Sarà dunque per questo che Cameron lo ha detto. O forse per dare ancora più enfasi al suo progetto di “Big Society”, che tanto sta facendo parlare sull’Isola e in Continente, spingendo anche giornali di provata fede laica a interrogarsi, per una volta, sull’altro welfare possibile. Quello che, meno pomposamente da un bel po’ di tempo in più, nel nostro paese abbiamo definito “welfare della sussidiarietà”.
Ma non di questo vogliamo parlare. Quel che preme è sottolineare proprio quel concetto: la religione come fondamento del tessuto sociale. La traduzione non letterale potrebbe essere questa: se vogliamo che la società resista all’urto dell’individualismo radicale e libertario, ci vuole qualcosa che sia capace al tempo stesso di tenere insieme i pezzi e di educare le persone. Dunque, appunto, ci vuole la religione come parte integrante della vita sociale, riconosciuta come tale e non sottaciuta o nascosta agli occhi della meglio borghesia. Nessuna filosofia umanistica o umanitaria è capace di tanto.
Una verità semplice come l’acqua, ma ormai quasi indicibile. Chi si azzarda ad affermarlo in pubblico rischia infatti di essere subito redarguito e bollato di collateralismo con gli interessi corporativi più profondi della Chiesa e delle sue propaggini secolari.
Ma Cameron è anglosassone. E in quel mondo, probabilmente, l’antica lezione di Alexis de Tocqueville non è mai stata dimenticata. Il giudice di rango, trasformatosi in sociologo quasi per caso, non poteva non notare con sorpresa, lui francese di inizio Ottocento: «Non appena in una piccola città o in una contea o persino a livello dello stato federale sorge un problema subito si trova un certo numero di cittadini pronti a raggrupparsi in organizzazioni volontarie, il cui scopo è quello di studiare ed eventualmente risolvere il problema. Si tratti di costruire un ospedale in una piccola città o di porre fine alle guerre, qualunque sia l'ordine di grandezza del problema, vi sarà sempre un'organizzazione volontaria che dedicherà tempo e denaro alla ricerca di una soluzione».
E un passo dopo l’altro il laico e liberale figlio della nobiltà francese doveva ammettere, oltre ogni ragionevole dubbio, che quella capacità di prendersi cura della comunità nasceva proprio dal profondo spirito religioso del quale l’America profonda era pervasa. Qualcosa di molto più complicato di una semplice religione civile, instrumentum regni per garantire al potere di perpetuare se stesso. Più semplicemente, la stoffa della società. Il fondamento del tessuto sociale, per l’appunto.
Una linea continua connette quel Tocqueville alle riflessioni più recenti, sviluppatesi soprattutto negli Stati Uniti grazie a monumenti conservatori come Robert Nisbet o a movimenti di pensiero bipartisan come quello new-communitarians degli Etzioni e dei MacIntyre. In tutti, la stessa preoccupazione: non si costruisce comunità senza religione. E senza comunità non può reggere l’intera impalcatura della società moderna.
David Cameron, con una certa dose di coraggio, ci ha riconsegnato questa tradizione e proverà a rimetterla in azione, restituendo a questo sentiero interrotto del pensiero moderno la dignità politica e pubblica che merita. Niente di nuovo, ovviamente, per gli amanti della sussidiarietà. Ma è un premier britannico a dirlo, e questo, tutto sommato, è una notizia da non sottovalutare.
Avvenire.it, 30 settembre 2010 - MONSIGNOR NONA - Iraq,«Io, vescovo, costretto a rimanere nascosto» di Luigi Geninazzi
Ci si arriva dopo l’ennesimo posto di blocco dell’esercito iracheno che controlla l’ingresso di una strada dominata dalla croce in cima alla cupola di una chiesa. Di fronte c’è la residenza dell’arcivescovo caldeo, monsignor Emil Shimoun Nona, che ci accoglie con grande cordialità. «È la prima volta che vengono dei giornalisti fin qui, a casa mia», dice sorridendo. Non è stato poi così difficile, anche se tutti ci avevano sconsigliato un simile viaggio. Mosul, cuore antico della Chiesa caldea fedele a Roma, è diventata il mattatoio dei cristiani, la città tristemente simbolo di una nuova stagione di persecuzioni che dura da sette anni e di cui non si vede ancora la fine. Un occidentale non passa inosservato, e se poi è anche un giornalista cattolico diventa un doppio bersaglio. E comunque vedrai, ti fermeranno al primo check-point, mi dicevano.
Invece, in auto insieme con un collega e con un prete che non ha mai smesso di venirci e sa evitare le zone più a rischio, tutto è filato liscio. Ci vuole ben più coraggio a vivere qui tutti i giorni. Come quello che ha monsignor Emil Nona – chiamato a succedere a monsignor Faraj Rahho, ucciso nel 2008 – giovane parroco di 42 anni consacrato vescovo di Mosul all’inizio del 2010. «Non potevo rifiutare l’incarico, questa comunità sempre più piccola e martoriata aveva bisogno di un pastore. È toccato a me», spiega con semplicità.
Eccellenza, come vivono i cristiani a Mosul?
Siamo rimasti in pochi, anzi pochissimi. Mosul era la seconda diocesi più grande della Chiesa caldea in Iraq, qui in città vivevano decine di migliaia di fedeli ma quasi tutti sono fuggiti. Sono rimaste circa 700 famiglie, quelle più povere che non hanno mezzi per trasferirsi altrove. Su dieci parrocchie sei non funzionano più, soltanto in quattro chiese si celebra regolarmente Messa la domenica. Non hanno più fedeli; inoltre, molti edifici di culto sono inagibili perché danneggiati dalle bombe.
Com’è la sua vita quotidiana? Come si muove?
Cerco di vivere normalmente, anche se con qualche precauzione. Quando esco cambio sempre itinerario, qualche volta anche l’auto. La mia attività pastorale è molto ridotta e nascosta, ogni settimana tengo un incontro sui Dieci Comandamenti nella vicina chiesa di San Paolo, che si trova in una zona relativamente tranquilla dove i fedeli possono riunirsi. Cerco di visitare le famiglie, ma senza dare nell’occhio. E quando mi reco nella città vecchia, dove ad ogni angolo posso incappare in qualche brutta sorpresa, non metto la talare e ci vado senza alcun preavviso. Devo dire però che negli ultimi tempi la situazione è un po’ migliorata.
Intende dire che c’è più sicurezza?
Dopo le elezioni che si sono tenute a marzo, il numero di omicidi, sequestri e attentati è diminuito. Credo sia dovuto a due motivi: i sunniti hanno stravinto qui a Mosul, controllano il governo locale e quindi anche le loro frange più estremiste. Inoltre, sia pure faticosamente, si sta avviando un dialogo tra arabi e curdi. Nonostante questo, Mosul resta sempre la città più pericolosa di tutto l’Iraq.
Come si spiega?
Storicamente Mosul è sempre stata una roccaforte dell’islam radicale. Episodi d’intolleranza nei riguardi dei cristiani c’erano anche ai tempi di Saddam Hussein. Poi, nel caos che è seguito alla guerra del 2003, è dilagata la violenza fondamentalista e Mosul è diventata il punto di raccolta di tutti i gruppi estremisti, sia locali che stranieri, a cominciare da al-Qaeda, cui si sono aggiunte altre sigle terroristiche.
In questa terribile situazione come intende la sua missione pastorale?
Io dico sempre una cosa: basta con la paura di morire, ritroviamo la voglia di vivere. È questo il mio messaggio ai fedeli che da sette anni continuano a soffrire: dobbiamo testimoniare un’umanità vera, quella che ci ha donato Cristo e che nessuno ci potrà mai togliere. Non possiamo vivere nella paura! Ma l’esodo della famiglie purtroppo continua, la mia gente ha perso la fiducia, non crede che a Mosul i cristiani potranno avere ancora un futuro.
Lei vede qualche segno di speranza?
Ho trovato persone che hanno rafforzato la loro fede dopo aver perso amici e familiari colpiti dalla violenza anti-cristiana. Non provano sentimenti di odio e di vendetta, e questo mi è di grande esempio. La speranza non muore: qualche settimana fa due ragazzi di Mosul sono venuti a dirmi che vogliono diventare sacerdoti di questa nostra Chiesa sofferente. Devo ammettere che mi sono commosso.
Che cosa s’aspettano dall’Occidente i cristiani iracheni?
Nulla. Il giudizio sugli americani resta molto negativo: sono intervenuti in Iraq sulla base dei propri interessi, senza tener conto delle conseguenze a livello generale e dei contraccolpi pesantemente negativi per la presenza dei cristiani. Difficile che adesso s’aspettino qualcosa di buono da chi ritengono essere il principale responsabile delle loro disgrazie.
Avete ricevuto solidarietà dalle Chiese d’Occidente?
Non posso parlare a nome di tutte le Chiese d’Iraq. Come vescovo di Mosul, devo dire che la mia diocesi ha ricevuto qualche aiuto materiale dai cattolici tedeschi. Ma abbiamo bisogno di non sentirci soli e abbandonati, è questo che conta.
Eccellenza, lei parteciperà al Sinodo sul Medio Oriente che si terrà a Roma fra pochi giorni. Quali sono le sue attese?
Dal Sinodo mi aspetto non solo parole d’incoraggiamento, bensì anche indicazioni concrete per vivere la fede in una terra dove il cristianesimo ha radici antiche ma la cui presenza oggi è minacciata dal fondamentalismo islamico. È un compito difficile, eppure dobbiamo affrontarlo come Chiesa universale. Mi va bene che si parli di dialogo con il mondo musulmano, ma bisogna uscire dal generico, definendo chiaramente con chi e su quali punti è possibile dialogare.
Lei ha preso la guida della diocesi di Mosul in seguito al brutale assassinio del suo predecessore. Si è fatta chiarezza sui mandanti e sugli esecutori dell’omicidio di monsignor Rahho?
Ancora oggi non sappiamo esattamente che cosa sia successo. C’è stata una commissione d’inchiesta governativa i cui lavori si sono conclusi con l’arresto e la condanna a morte di una persona ritenuta colpevole. Ma non conosciamo la sua identità e neppure i capi d’accusa. Siamo ancora lontani dalla verità, il che acuisce il nostro grande dolore.
Quando potremo tornare in una Mosul tranquilla e pacificata?
Solo Dio lo sa. Attendiamo con ansia la formazione del nuovo governo a Baghdad. L’aspettiamo da più di sei mesi. Spero in un esecutivo di concordia nazionale. Ma se i sunniti restassero fuori, il Paese potrebbe ripiombare nella guerra civile. E per noi cristiani, già duramente provati, sarebbe la fine.
Luigi Geninazzi
MASS MEDIA, IL TEMA SCELTO DAL PAPA - Siamo uomini liberi non «massa digitale» - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 30 settembre 2010
Il viso e lo schermo. L’uno si fissa nell’altro. Ogni uomo può usare lo schermo come maschera o come riflesso. Viene da pensare così, ancora confusamente, di fronte all’imponenza del tema che il Papa ha scelto per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali.
Autenticità, annuncio, verità... Sono termini che troviamo nel titolo. E non sono in contraddizione, o opposte, al termine che sembra definire la nostra era: digitale. Parole...
Troppo spesso si riducono a proclami; ed anche in omelie o discorsi si fanno tanto grandi quanto astratte. Ma proprio queste parole – verità, autenticità, annuncio – sono invece legate alla nostra povera umanità più che il nervo, il muscolo all’osso, il bacio alle labbra. Sono loro a render vivibili la casa di un secolo e il mondo di domani. Sono le piccole ciotole della vita.
Dovessero svanire, queste parole, se ne andrebbero il calore del nostro sangue, il nostro volto, la gloria umile della nostra vicenda personale. Che cosa saremmo, infatti, senza poter sentire la verità? Se di tutto potessimo solo constatare illusione, trucco, inganno? Come spesso già siamo, e come i più giovani ci mostrano sbattendoci lo specchio abnorme di noi stessi davanti agli occhi, saremmo totalmente, rovinosamente questo: animali irosi, pronti a scagliarsi contro o sopra ogni apparenza, affamati di non si sa che, da nulla mai veramente saziati. Senza volto, come certe figure che i grandi pittori del nostro tempo avevano previsto. Questo l’era digitale potrebbe divenire: soltanto un’epoca di uomini finti, di maschere, di figure di paglia. Di schiavi scattanti di fronte a ogni vibrazione video, animaletti chiusi nelle barriere della prigione peggiore: quella di cui non riesci più a riconoscere le sbarre o le vie di fuga, dove il bel panorama che invita alla libertà è finto perché di cartapesta digitale, mentre vere restano la tua disperazione e la catena della solitudine.
Ma la verità – mi perdonino i filosofi – è un certo gusto del reale. Sia del reale che cogliamo direttamente con i nostri sensi, sia di quello racchiuso nelle fole dei vecchi del paese e ora le rapide news su ogni video del mondo. La scoperta della verità è come quando una donna si gira: anche se l’hai immaginata a lungo, ecco che il suo viso supera ogni aspettativa. Sia quando si mostra come bella e dolce, sia quando il volto pare indurirsi, contrastando le nostre intenzioni. Non censurare la tensione alla verità e il suo gusto significa non accontentarsi di vedere quella signorina passeggiare da lontano, profilo indistinto e impreciso.
Dal titolo prescelto viene una fiducia. La nostra libertà è integra. Insomma, possiamo essere noi stessi anche in questa selva luminosa di rapidissimi fantasmi. Non è vero che siamo destinati – come vorrebbero certuni – a una perdita progressiva della coscienza personale, amputati di quel che abbiamo di più prezioso e unico: il nostro io. A vagare, fantasmi tra fantasmi. Non siamo destinati ad essere solo 'massa digitale'. In questo sta perfino la salvezza – la garanzia per così dire – della raggiunta era digitale. Fallirebbe, crollerebbe su se stessa in una specie di gioco a vanvera, se non fosse sostenuta dall’ansia della verità, e dunque dell’autorevolezza e dell’affidabilità, senza le quali la comunicazione perde valore e importanza.
Il Papa scende un’altra volta nel fuoco della storia e del tempo. E noi con lui. Nessuna età ci separa dall’amore incontrato. Chi è raggiunto dalla gran comunicazione di Gesù ha qualcosa di speciale da dire, una speranza in questa vita dura e meravigliosa – anche con voci e immagini che traversano in un baleno continenti e oceani – rivolgendosi a milioni di spettatori. O fosse pure a una sola persona cara, ferita e lontana.