Nella rassegna stampa di oggi:
1) Perché la comunione in ginocchio - Benedetto XVI la vuole così, nelle messe da lui celebrate. Ma pochissimi vescovi e sacerdoti lo imitano. Eppure i pavimenti delle chiese erano resi preziosi anche per questo. Una guida alla scoperta del loro significato - di Sandro Magister
2) Il cardinale inglese e il cammino verso la santità - Difficile cammino di un ipersensibile di Inos Biffi - (©L'Osservatore Romano - 13-14 settembre 2010)
3) E' più libero e felice chi fa 'balconing' o una suora? - Autore: Pandolfi, Massimo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 13 settembre 2010
4) L’anno di Leone XIII. Benedetto XVI ricorda il Papa delle 86 encicliche a duecento anni dalla nascita - Il testo della riunione con Massimo Introvigne a Torino
5) Avvenire.it, 14 settembre 2010 L'obiettivo vero di una scuola vera - Prima ci sia la vita (poi i comportamenti) di Luigi Ballerini
6) 4/09/2010 – INDIA - I frutti di “Brucia il Corano”: scuola cattolica bruciata, due scuole protestanti nel mirino - di Shefali Prabhu
Perché la comunione in ginocchio - Benedetto XVI la vuole così, nelle messe da lui celebrate. Ma pochissimi vescovi e sacerdoti lo imitano. Eppure i pavimenti delle chiese erano resi preziosi anche per questo. Una guida alla scoperta del loro significato - di Sandro Magister
ROMA, 13 settembre 2010 – Questa sopra è una panoramica parziale dell'immenso mosaico che ricopre il pavimento della cattedrale di Otranto, sulla costa sudorientale dell'Italia.
I fedeli, percorrendolo dall'ingresso all'altare, hanno come guida l'albero della storia della salvezza, una storia che è sacra e profana insieme, con episodi dell'Antico Testamento, dei Vangeli, del romanzo di Alessandro Magno e del ciclo di Re Artù.
Il mosaico è del XII secolo, un'epoca nella quale le chiese erano vuote di sedie e di panche e il pavimento appariva ai fedeli nella sua integrità. Anche quando non era figurato, il pavimento delle chiese era comunque prezioso per materiali e disegni. Su di esso si camminava. Si pregava. Ci si inginocchiava in adorazione.
Oggi l'inginocchiarsi – specie sul nudo pavimento – è caduto in desuetudine. Tant'è vero che suscita stupore la volontà di Benedetto XVI di dare la comunione ai fedeli in bocca e in ginocchio.
Questa della comunione in ginocchio è una delle novità che papa Joseph Ratzinger ha introdotto quando celebra l'eucaristia.
Ma più che di novità si tratta di ritorni alla tradizione. Le altre sono il crocifisso al centro dell'altare, "perché tutti nella messa guardiamo verso Cristo e non gli uni verso gli altri", e l'uso frequente del latino "per sottolineare l'universalità della fede e la continuità della Chiesa".
In un'intervista al settimanale inglese "Catholic Herald", il maestro delle cerimonie pontificie Guido Marini ha confermato che anche nelle messe del suo prossimo viaggio nel Regno Unito il papa si atterrà a questo suo stile di celebrazione.
In particolare, Marini ha annunciato che Benedetto XVI pronuncerà interamente in latino il prefazio e il canone, mentre per gli altri testi della messa adotterà la nuova traduzione inglese che entrerà in uso in tutto il mondo anglofono la prima domenica di Avvento del 2011: questo perché la nuova traduzione "è più aderente all'originale latino e di stile più elevato" rispetto a quelle correnti.
L'attrazione che ha esercitato la Chiesa di Roma su molti convertiti illustri inglesi dell'Ottocento e del primo Novecento – da Newman a Chesterton a Benson – era anche l'universalismo della liturgia latina. Un'attrazione per una fede solida e antica che oggi muove numerose comunità anglicane a chiedere di entrare nel cattolicesimo.
La "riforma della riforma" attribuita a papa Ratzinger in campo liturgico avviene anche così: semplicemente con l'esempio dato da lui quando celebra.
Ma tra i gesti esemplari di Benedetto XVI il meno compreso – sinora – è forse quello della comunione data ai fedeli inginocchiati.
Nelle chiese di tutto il mondo non lo si fa quasi più. Anche perché le balaustre alle quali ci si inginocchiava per ricevere la comunione sono state quasi dappertutto disertate o smantellate.
Ma si è perso di vista anche il senso delle pavimentazioni delle chiese. Tradizionalmente molto ornate proprio per far da fondamento e da guida alla grandezza e profondità dei misteri celebrati.
Pochi oggi avvertono che pavimenti così belli e preziosi sono fatti anche per le ginocchia dei fedeli: un tappeto di pietre su cui prostrarsi davanti allo splendore dell'epifania divina.
Il testo che segue è stato scritto proprio per risvegliare questa sensibilità.
Ne è autore monsignor Marco Agostini, officiale presso la seconda sezione della segreteria di Stato, cerimoniere pontificio e cultore di liturgia e arte sacra, che i lettori di www.chiesa già conoscono per un suo illuminante commento alla "Trasfigurazione" di Raffaello.
L'articolo è uscito su "L'Osservatore Romano" del 20 agosto 2010.
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INGINOCCHIATOI DI PIETRA
di Marco Agostini
È impressionante la cura che l'architettura antica e moderna, fino alla metà del Novecento, riservò ai pavimenti delle chiese. Non solo mosaici e affreschi per le pareti, ma pittura in pietra, intarsi, tappeti marmorei anche per i pavimenti.
Mi sovviene il ricordo del variopinto "tessellatum" delle basiliche di San Zenone o dell'ipogeo di Santa Maria in Stelle a Verona, o di quello vasto e raffinato delle basiliche di Teodoro ad Aquileia, di Santa Maria a Grado, di San Marco a Venezia, o quello misterioso della cattedrale di Otranto. L'"opus tessulare" cosmatesco luccicante d'oro delle basiliche romane di Santa Maria Maggiore, San Giovanni in Laterano, San Clemente, San Lorenzo al Verano, di Santa Maria in Aracoeli, in Cosmedin, in Trastevere, o del complesso episcopale di Tuscania o della Cappella Sistina in Vaticano.
E ancora gli intarsi marmorei di Santo Stefano Rotondo, San Giorgio al Velabro, Santa Costanza, Sant'Agnese a Roma e della basilica di San Marco a Venezia, del battistero di San Giovanni e della chiesa di San Miniato al Monte a Firenze, o l'impareggiabile "opus sectile" del duomo di Siena, o le pelte marmoree bianche, nere e rosse in Sant'Anastasia a Verona o i pavimenti della cappella grande del vescovo Giberti o delle settecentesche cappelle della Madonna del Popolo e del Sacramento, sempre nel duomo veronese, e, soprattutto, lo stupefacente e prezioso tappeto lapideo della basilica vaticana di San Pietro.
In verità la cura per l'impiantito non è solo cristiana: sono emozionanti i pavimenti a mosaico delle ville greche di Olinto o di Pella in Macedonia, o dell'imperiale villa romana del Casale a Piazza Armerina in Sicilia, o quelli delle ville di Ostia o della casa del Fauno a Pompei o la preziosità delle scene del Nilo del santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina. Ma anche i pavimenti in "opus sectile" della curia senatoria nel Foro romano, i lacerti provenienti dalla basilica di Giunio Basso, sempre a Roma, o gli intarsi marmorei della "domus" di Amore e Psiche a Ostia.
La cura greca e romana per il pavimento non era evidente nei templi, ma nelle ville, nelle terme e negli altri ambienti pubblici dove la famiglia o la società civile si radunava. Anche il mosaico di Palestrina non era in un ambiente di culto in senso stretto. La cella del tempio pagano era abitata solo dalla statua del dio e il culto avveniva all'esterno innanzi al tempio, attorno all'ara sacrificale. Per tale ragione gli interni non erano quasi mai decorati.
Il culto cristiano è, invece, un culto interiore. Istituito nella stanza bella del cenacolo, ornata di tappeti al piano superiore di una casa di amici, e propagatosi inizialmente nell'intimo del focolare domestico, nella "domus ecclesiae", quando il culto cristiano assunse dimensione pubblica trasformò la casa in chiesa. La basilica di San Martino ai Monti sorge sopra una "domus ecclesiae", e non è la sola. Le chiese non furono mai il luogo di un simulacro, ma la casa di Dio tra gli uomini, il tabernacolo della reale presenza di Cristo nel santissimo sacramento, la casa comune della famiglia cristiana. Anche il più umile dei cristiani, il più povero, come membro del corpo mistico di Cristo che è la Chiesa, in chiesa era a casa e signore: calpestava pavimenti preziosi, godeva dei mosaici e degli affreschi delle pareti, dei dipinti sugli altari, odorava il profumo dell'incenso, sentiva la gioia della musica e del canto, vedeva lo splendore degli ornamenti indossati a gloria di Dio, gustava il dono ineffabile dell'eucaristia che gli veniva amministrata in calici d'oro, si muoveva processionalmente sentendosi parte dell'ordine che è anima del mondo.
I pavimenti delle chiese, lontani dall'essere ostentazione di lusso, oltre a costituire il piano di calpestio avevano anche altre funzioni. Sicuramente non erano fatti per essere coperti dai banchi, questi ultimi introdotti in età relativamente recente allorquando si pensò di disporre le navate delle chiese all'ascolto comodo di lunghi sermoni. I pavimenti delle chiese dovevano essere ben visibili: conservano nelle figurazioni, negli intrecci geometrici, nella simbologia dei colori la mistagogia cristiana, le direzioni processionali della liturgia. Sono un monumento al fondamento, alle radici.
Questi pavimenti sono principalmente per coloro che la liturgia la vivono e in essa si muovono, sono per coloro che si inginocchiano innanzi all'epifania di Cristo. L'inginocchiarsi è la risposta all'epifania donata per grazia a una singola persona. Colui che è colpito dal bagliore della visione si prostra a terra e da lì vede più di tutti quelli che gli sono rimasti attorno in piedi. Costoro, adorando, o riconoscendosi peccatori, vedono riflessi nelle pietre preziose, nelle tessere d'oro di cui talvolta sono composti i pavimenti antichi, la luce del mistero che rifulge dall'altare e la grandezza della misericordia divina.
Pensare che quei pavimenti così belli sono fatti per le ginocchia dei fedeli è commovente: un tappeto di pietra perenne per la preghiera cristiana, per l'umiltà; un tappeto per ricchi e poveri indistintamente, un tappeto per farisei e pubblicani, ma che soprattutto questi ultimi sanno apprezzare.
Oggi gli inginocchiatoi sono scomparsi da molte chiese e si tende a rimuovere le balaustre alle quali ci si poteva accostare alla comunione in ginocchio. Eppure nel Nuovo Testamento il gesto dell'inginocchiarsi si presenta ogni qualvolta a un uomo appare la divinità di Cristo: si pensi ai Magi, al cieco nato, all'unzione di Betania, alla Maddalena nel giardino il mattino di Pasqua.
Gesù stesso disse a Satana, che gli voleva imporre una genuflessione sbagliata, che solo a Dio si devono piegare le ginocchia. Satana sollecita ancora oggi a scegliere tra Dio o il potere, Dio o la ricchezza, e tenta ancora più in profondità. Ma così non si renderà gloria a Dio per nulla; le ginocchia si piegheranno a coloro che il potere l'hanno favorito, a coloro ai quali si è legato il cuore attraverso un atto.
Buon esercizio di allenamento per vincere l'idolatria nella vita è tornare a inginocchiarsi nella messa, peraltro uno dei modi di "actuosa participatio" di cui parla l'ultimo Concilio. La pratica è utile anche per accorgersi della bellezza dei pavimenti (almeno di quelli antichi) delle nostre chiese. Davanti ad alcuni verrebbe da togliersi le scarpe come fece Mosè davanti a Dio che gli parlava dal roveto ardente.
Il cardinale inglese e il cammino verso la santità - Difficile cammino di un ipersensibile di Inos Biffi - (©L'Osservatore Romano - 13-14 settembre 2010)
Qualche anno prima che John Henry Newman morisse, il vescovo di Birmingham, nome Ullathorne, dopo averlo incontrato, commentava: "Mi sono sentito rimpicciolito davanti alla sua presenza. Dentro quest'uomo c'è un santo". Era una persuasione diffusa, riconosciuta persino dal cardinale Manning, che in precedenza non aveva nutrito sentimenti di eccessiva simpatia per Newman, per non dire che, con padre nome Faber, lo aveva fortemente avversato ed era stato - sono parole di Newman - ingiusto verso di lui.
Dichiarava il cardinale nell'elogio funebre: "A nostra memoria, nessun inglese è stato oggetto di una venerazione così viva e sincera. Fu centro di numerose anime, che erano andate da lui, come maestro, guida e consigliere durante molti anni. Una vita bella e nobile". Lo si potrebbe dire per la sua santità: "bella e nobile" e avvolta dalla discrezione e dal velo del silenzio.
Non troviamo in Newman forme "impressionanti" o manifestazioni eccessive nella sua concezione e nella sua esperienza della vita cristiana, ma un senso vivo e sereno della "misura", un equilibrio lontano da ogni esasperazione, un innato distacco dalle cose di questo mondo e un chiaro tratto di humour, ora più dolce ora più amaro, che sono probabilmente tra le ragioni della sua simpatia per Filippo Neri e della scelta di essere suo discepolo.
Del fondatore dell'Oratorio egli era, infatti, un ammiratore sconfinato e devotissimo, come rivelano le sue riflessioni e orazioni nella Novena di san Filippo Neri, o le Litanie di san Filippo, che invocava come: "Eroe nascosto", "Santo amabile", "Padre soavissimo", "Cuore di fuoco", "Luce di gioia santa".
Per la sua intercessione implorava: "Ottienimi la grazia della perfetta rassegnazione alla volontà di Dio, dell'indifferenza alle cose di questo mondo, e di tenere gli occhi rivolti continuamente al cielo, di modo che io non dispiaccia mai alla divina provvidenza, non mi perda d'animo, non sia mai triste". E in una sua meditazione chiedeva: "Mio Signore, mio unico Dio, Deus meus et omnia, non permettere che io corra dietro a ciò che è vano. Tutto è ombra e vanità quaggiù - lo reciterà anche la sua epigrafe -. Conserva il mio cuore fragilissimo e la mia anima debole sotto la divina protezione. Attirami a te al mattino, a mezzogiorno e alla sera".
Si potrebbe dire che la santità di Newman sia stata segnata dalla "raffinatezza", che, a suo giudizio - come spiegava ai suoi oratoriani -, "mette in evidenza e rende attraente la santità interiore, allo stesso modo in cui il dono dell'eloquenza esalta il ragionamento logico".
Ma nobiltà e raffinatezza della santità non significano facilità o assenza di difficoltà. Newman, come ogni discepolo del Signore, ha percorso, infatti, un cammino disseminato di difficoltà e segnato da svolte fondamentali e dolorose di "conversione".
Vi era anzitutto il suo temperamento. Egli doveva purificare un'ipersensibilità facilmente vulnerabile e appuntita, una suscettibilità facile a offendersi, una "fermezza d'acciaio" (Bouyer) penetrante, inclinata a reagire con pungente ironia, oltre al difetto comune agli intellettuali di un eccessivo gusto per la sottile discussione.
E qui possiamo osservare che non esistono temperamenti avvantaggiati o svantaggiati nei confronti della santità, ma una chiamata identica per tutti a trasformare la natura con l'ausilio della grazia, e viene in mente quanto lo stesso Newman diceva di Cirillo d'Alessandria: "Cirillo, lo so, è un santo; ma non vuol dire che fosse un santo nel 412. Fra i più grandi santi si trovano anche quelli che nella prima parte della vita hanno commesso delle azioni tutt'altro che sante. Non penso che a Cirillo possa piacere che i suoi atti storici siano presi a misura della sua santità interiore".
Quanto alle tappe del cammino di Newman alla santità - in ogni caso immediatamente sono aperte solo allo sguardo infallibile di Dio - possiamo discernere come prima quella del "grande rivolgimento di pensieri" che lo toccò, quindicenne, nell'autunno del 1816. Egli fu allora pervaso dall'evidenza luminosa, che non si spegnerà più, di "due e solo due esseri assoluti", il suo "io" e il suo "Creatore", il quale "gli si impose, in modo intimo, senza intermediari", non come un'idea astratta, ma nella consistenza di un Essere vivo, così come fatti vivi erano per lui i misteri della fede o i grandi dogmi quali la Trinità, l'incarnazione, la redenzione. Sempre nel tempo della sua prima conversione, lo aveva colpito un'espressione di Walter Scott, che divenne un programma: "La santità più che la pace".
Un'altra tappa decisiva nell'itinerario spirituale di Newman fu il superamento del liberalismo che incominciava a fargli preferire "l'eccellenza intellettuale a quella morale" e furono provvidenziali il viaggio nel Mediterraneo, la malattia in Sicilia, la scoperta del suo orgoglio, l'implorazione della Luce e il proposito di camminare sotto la sua guida. La santità di Newman appare come il crescere perseverante e senza strepito della puntuale corrispondenza a questa Luce.
Poi venne la "conversione" alla Chiesa cattolica, dove, con tutto lo strazio del distacco dall'antica Chiesa, dagli amici e dai familiari, risalta la fedeltà eroica alla coscienza e insieme alla volontà di Dio che in essa vedeva riflessa.
Ma proprio dopo questa conversione incomincia "la sua così lunga e spesso penosa vita", lungo la quale non sarebbero mancate situazioni difficili e profondi motivi di sofferenza, di fronte a chiari segni di sfiducia, a manovre non limpide, ad anni di emarginazione e di isolamento.
Possiamo seguire queste prove particolarmente negli Scritti autobiografici. Nel 1860 constatava e scriveva nel suo diario: "Non ho nessun amico a Roma, ho lavorato in Inghilterra dove non sono stato capito e dove mi hanno attaccato e disprezzato. Pare che sia incorso in molti fallimenti", e aggiungerà: "Credo di dire tutto questo senza amarezza". E ancora annotava: "Quanto è stata triste e solitaria la mia vita da quando sono diventato cattolico (...), da quando ho fatto il grande sacrificio al quale Dio mi chiamava. Egli mi ha compensato in mille modi, e tanto largamente. Ma ha segnato il mio cammino di mortificazioni quasi ininterrotte. La sua volontà benedetta non mi ha accordato molto successo nella vita. Da quando sono cattolico mi sembra di non aver avuto che degli insuccessi personali".
E aggiungeva nel gennaio del 1863 - Newman aveva 62 anni -: "Non mi stupisco delle prove, che sono il nostro retaggio quaggiù; ciò che mi amareggia è che, per quanto possa vedere, ho fatto così poco, in mezzo a tutte queste mie prove. La mia vita è stata triste perché, se guardo indietro, essa è stata un gran fallimento". Nel 1867, riconoscendo il lungo tempo in cui il Signore lo aveva abbandonato alla dimenticanza e alla calunnia, annotava: "Mi metterò sotto l'immagine del patriarca Giobbe, senza la pretesa di paragonarmi a lui", ma aggiungeva, sentendosi distaccato da tutto: "Ora sono in uno stato di quiete. Niente di quello che mi è capitato impedisce la mia gioia interiore, o piuttosto queste vicissitudini esteriori vi hanno magnificamente contribuito"; e due anni dopo riconosceva: "La Provvidenza di Dio è stata mirabile verso di me attraverso tutta la mia vita".
La santità di Newman è maturata in modo particolare per la fede, la speranza e la carità con cui egli ha saputo a lungo e pazientemente accogliere questa forma di croce, tanto più dolorosa quanto più viva era la sensibilità del suo animo e il suo amore per la verità e la giustizia.
Ma non solo leggendo il suo Diario, noi possiamo avvertire la sua passione per la santità: tutti i suoi scritti, anche quelli più teoretici, rivelano con trasparenza questo anelito. Pensiamo ai suoi pacati e tersi Sermoni Parrocchiali - in cui si ritrova tutto il suo ininterrotto ascolto della Parola di Dio -, alle composizioni liriche, in cui si fondono santità e poesia, alle Meditazioni e Preghiere, e a quegli avvincenti profili dei Padri, la cui compagnia lo affascinava.
Bremond osserva che Newman sceglieva i Padri anzitutto come amici: amici santi, così che le ore dedicate ad essi fossero "una specie di preghiera". E lo si avverte subito: l'intimità con Basilio, Gregorio di Nazianzo, Crisostomo, Agostino, e altri ancora, erano una scuola concreta e intensa di santità, ed effettivamente concorrevano a crearla in chi ne ricostruiva le peripezie e ne condivideva la vita interiore. Diceva sempre Bremond: "Chi non ama la santità, non ama i santi".
Newman mostra di amare sia i santi sia la santità.
(©L'Osservatore Romano - 13-14 settembre 2010)
E' più libero e felice chi fa 'balconing' o una suora? - Autore: Pandolfi, Massimo Curatore: Leonardi, Enrico - Fonte: CulturaCattolica.it - lunedì 13 settembre 2010
Ieri, tornando a casa dopo un week end di riposo, sono venuto a conoscenza della notizia di quel ragazzo italiano morto a Ibiza dopo aver probabilmente fatto 'balconing', la moda cioè che spinge i giovani d'oggi a saltare da un balcone all'altro di un hotel o di un palazzo oppure di gettarsi in una piscina d'hotel dal quinto, sesto o settimo piano.
Mentre vedevo scorrere le immagini di quella assurda tragedia, mi sono passati davanti agli occhi i volti di quelle ragazze che avevo incontrato poche ore prima a Pietrarubbia, nel Montefeltro. Ragazze, perlopiù giovanissime, che stanno preparandosi a fare un grande salto ben diverso da quello del balconing, ma per certi versi simile: diventare suore.
Ma cosa c'entra, direte voi, il 'balconing' con le suore? Ma che assurdo paragone si mette a fare Pandolfi stavolta?
Chi fa balconing o chi si fa suora, o io che scrivo, o tu che leggi, ha in fondo il medesimo desiderio in fondo al cuore: essere felici. Il problema è: come faccio io ad essere felice? Come fai tu ad essere felice? Come fa l'aspirante suora ad essere felice? Come fa il ragazzo che pensa di fare balconing ad essere felice?
Ecco, come si raggiunge la felicità? Il problema di oggi è che tutto è considerato opinabile e ognuno, secondo questo criterio, può trovare la sua felicità, magari facendo balconing, o magari facendosi suora: qualunque cammino va rispettato. Manca però un passaggio, decisivo. E provo a farmi aiutare dal grande Louis de Wohl con il suo libro 'La liberazione del gigante'. Ad un certo punto Tommaso D'Aquino e Piers discutono proprio sulla felicità e arrivano alla conclusione che 'la felicità consiste nel possedere il bene desiderato, qualunque esso sia, senza timore di perderlo'. Tommaso aggiunge però: 'Ora, nella vita terrena, abbiamo non solo il timore, ma la certezza di perderla, questa vita, perchè un giorno dovremo morire. Dunque, la vera felicità completa e perpetua non possiamo trovarla qui. La felicità perpetua non è che un' altra parola per indicare Dio. Amare Dio, ecco il vero scopo dell'uomo'.
Ora mi aspetto una marea di obiezioni: cos'è, uno deve 'soffrire' tutta la vita terrena, rinunciare a chissà cosa, farsi suora per essere poi felice nell'aldilà, un bel giorno? No, non è così!
Io a Pietrarubbia ho visto ragazze gioiose, felici, che si divertono, che si (come diciamo noi romagnoli) spataccano. I loro occhi brillano, il loro amore per il presente, per ciò che stanno facendo si tocca con mano. Sono certo che un ragazzo che fa balconing non ha quegli occhi lì.
Insisto: ma cos'è, uno per farsi felice deve diventare prete o suora? Ma neanche per idea! Figuriamoci! Ognuno ha la sua storia, la sua vocazione, il suo talento da esprimere. Il guaio è che tante volte non trova per la sua strada questo talento, questa vocazione e la strada diventa sempre più confusa, sempre più nebulosa e allora si cercano gli effetti speciali, magari ci si butta dal balcone in cerca di chissà che.
La chiamiamo libertà, ma in fondo quella è la prigionia più grande.
Cerchiamola la verà libertà, la vera felicità: io in quegli occhi di suore ho visto una libertà, una felicità, che raramente mi capita di incontrare in giro. E vorrei tanto imparare da loro. Vorrei tanto essere come loro. Non prete, non suora. Ma libero e felice, sì.
www.massimopandolfi.it
L’anno di Leone XIII. Benedetto XVI ricorda il Papa delle 86 encicliche a duecento anni dalla nascita - Il testo della riunione con Massimo Introvigne a Torino
1. Le ragioni di un disinteresse
Papa Leone XIII (Gioacchino Pecci, 1810-1903) è nato a Carpineto Romano (Roma) il 2 marzo 1810, duecento anni prima del 2010. Benedetto XVI, sempre particolarmente attento alle ricorrenze e ai centenari, ha dunque raccomandato di celebrare nel 2010 un anno di Leone XIII, e il 5 settembre 2010 si è personalmente recato in pellegrinaggio a Carpineto Romano. Considerando il ruolo straordinariamente importante di Leone XIII nella storia della Chiesa e del pensiero cattolico, è davvero sorprendente come il rilievo dato al bicentenario – nonostante l’appello di Benedetto XVI – sia rimasto sostanzialmente modesto: un certo numero di convegni per specialisti e poco più.
Le ragioni di questo disinteresse sembrano essere sostanzialmente tre. La prima è la riduzione del ricchissimo magistero di Leone XIII a un unico documento, l’enciclica Rerum novarum del 1891, che però, letta al di fuori del contesto complessivo dell’insegnamento di Papa Pecci, non può che essere da un lato fraintesa, dall’altro celebrata sempre più stancamente.
La seconda è lo scarso amore della scuola cattolico-democratica, tuttora influente in tanti ambiti culturali, per Leone XIII, nonostante il riferimento obbligatorio alla Rerum novarum. Leone XIII è infatti anche il Papa che ha sottolineato l’eccellenza della civiltà cristiana medievale, la malizia del «diritto nuovo» moderno, l’intransigente opposizione alla massoneria, il riferimento obbligatorio per i cattolici nella filosofia a san Tommaso d’Aquino (1225-1274).
La terza è che gli stessi oppositori più conseguenti dei cattolici democratici, gli esponenti della scuola contro-rivoluzionaria, se si sono ampiamente serviti del magistero di Leone XIII di rado hanno veramente amato papa Pecci. Questo atteggiamento appare nel modo più tipico nel maggiore esponente della scuola contro-rivoluzionaria del secolo XX, il pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995). Le sue opere sono ricche di citazioni da Leone XIII. Eppure in una conferenza inedita – forse rimasta inedita non a caso, considerata la venerazione che l’autore aveva per il pontificato romano in genere – Corrêa de Oliveira stigmatizza «la vanagloria rispetto alla sua famiglia» (Pecci) di Leone XIII, la paragona a quella di papa Innocenzo III (1160-1216) la quale, secondo una rivelazione privata, avrebbe condannato questo Pontefice medievale a «rimanere in purgatorio fino alla fine del mondo», e definisce «un incubo» la condizione politica dei contro-rivoluzionari sotto il pontificato di Leone XIII che, afferma, «può essere simbolizzato dal ralliement» (Corrêa de Oliveira s.d.).
L’allusione, qui, è al ralliement alla Repubblica voluto nel 1892 da Leone XIII, che con l’enciclica Au milieu des sollicitudes incita i cattolici francesi, nella loro grande maggioranza monarchici, a collaborare lealmente con le istituzioni repubblicane purché siano salvaguardati nelle leggi alcuni principi fondamentali. La rottura del 1892 è drammatica e divide in Francia anche i cattolici più fedeli al Papa — per esempio, all’interno stesso della scuola contro-rivoluzionaria, René de la Tour du Pin (1834-1924) rifiuta il ralliement mentre Albert de Mun (1841-1914) lo accetta —, spacca le famiglie e costituisce un passaggio traumatico senza il quale non si spiegano tutte le traversie seguenti del mondo cattolico conservatore e tradizionalista francese, fino alla vicenda di monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991).
Il ralliement ha certo conseguenze negative, che non si possono tacere, sul piano storico e politico. Contrariamente alle attese di Leone XIII, non modera la Repubblica, che anzi accelera la deriva laicista e anticlericale fino agli eccessi fanatici del presidente del Consiglio Émile Combes (1835-1921), mentre all’interno della Chiesa alcuni cattolici rallié passano dall’accettazione del sistema repubblicano a quella dei principi ispiratori della Rivoluzione francese, determinando così la condanna nel 1910 da parte di san Pio X (1835-1914) del movimento Sillon, fondato da Marc Sangnier (1873-1950).
Non si può tuttavia non considerare che il ralliement è anche figlio di una questione dinastica divenuta intrattabile. Per gran parte dell’Ottocento i contro-rivoluzionari e la Santa Sede avevano sostenuto la branca primogenita dei Borboni di Francia, rappresentata da un contro-rivoluzionario convinto e coerente come Enrico V, conte di Chambord (1820-1883), mentre la branca cadetta degli Orléans era stata il simbolo stesso di una monarchia rivoluzionaria, fredda verso la Chiesa e filo-massonica. La branca primogenita si estingue nel 1883 con la morte di Enrico V senza figli. La grande maggioranza dei monarchici francesi riconosce come nuovi legittimi pretendenti al trono di Francia, senza entusiasmo, gli Orléans. Esistono, certo, i cosiddetti «bianchi di Spagna», monarchici che rifiutano la successione orléanista e ritengono che i legittimi eredi di Enrico V siano i Borbone di Spagna della branca detta «carlista». Benché riescano a produrre opere raffinate che giustificano le loro pretese dal punto di vista del diritto dinastico francese, i «bianchi di Spagna» restano però una piccola minoranza, una «cappella insignificante» (Augé 1995, 156) secondo le parole stesse di uno dei loro maggiori esponenti nel secolo XX, lo storico Guy Augé (1938-1994). La loro corrente diventerà nuovamente significativa, per una serie di circostanze, solo dopo la Seconda guerra mondiale.
Così, tra orléanisti in odore di massoneria e «bianchi di Spagna» politicamente irrilevanti, Leone XIII – su cui peraltro è stata pure emessa l’ipotesi secondo cui avrebbe pensato al ralliement già durante la vita del conte di Chambord –, nove anni dopo la morte di Enrico V, conclude che nessuna delle due alternative è praticabile, ricorda la dottrina tradizionale secondo cui la dottrina sociale della Chiesa non è legata di per sé ad alcuna forma di governo e sceglie il ralliement alla Repubblica.
Rimane tuttavia vero che chi considera il ralliement una catastrofe di solito apprezza il Magistero di Leone XIII e ammette il carattere dottrinalmente impeccabile dell’enciclica Au milieu des sollicitudes, che lo stesso Corrêa de Oliveira, fin da una conferenza giovanile, considerava una soluzione politica «geniale» (Corrêa de Oliveira 2008, 328) al problema istituzionale. In effetti, per seguire la dottrina sociale della Chiesa non è obbligatorio essere monarchici, né l’enciclica, a differenza dei cattolici democratici del Sillon, insinua che sia obbligatorio non esserlo. Al contrario, gli esponenti della scuola cattolico-democratica che vedono il ralliement come un atto dovuto, semmai troppo tardivo, si trovano spesso in prima linea fra coloro che eliminano dall’orizzonte culturale dei cattolici contemporanei il magistero di Papa Pecci, di solito attraverso la strategia che consiste nel ridurlo alla sola Rerum novarum.
2. Il Corpus Leonianum
Étienne Gilson (1884-1978), forse il maggiore storico della filosofia cattolico nel secolo XX, come ricorda il suo amico, il filosofo italiano Augusto Del Noce (1910-1989), scopre l’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII, che è del 1879, solo nel 1930, «dato che, per strano che possa parere, non aveva mai prima d’allora letto questa enciclica. Strano, del resto, fino a un certo punto, perché Gilson era di formazione universitaria, della Sorbona, e a quel tempo le encicliche pontificie non solevano esser lette dai filosofi, e spesso neanche dai filosofi cattolici» (Del Noce 2005, 77: né molto è cambiato nelle università dei giorni nostri). Il riferimento a Del Noce è di rilievo, e ci torneremo, perché in Italia è stato questo filosofo a cercare – per la verità senza grande successo – di riportare le encicliche di Leone XIII al centro della riflessione politica dei cattolici.
Gilson legge la Aeterni Patris mentre è impegnato nella disputa sulla possibile esistenza di una filosofia cristiana e nella risposta ai laicisti della Sorbona, i quali sostengono che il pensiero cristiano medioevale di cui il docente francese è studioso, per interessante che sia, non appartiene alla filosofia perché è essenzialmente di natura teologica. Grazie al provvidenziale incontro con Leone XIII, Gilson è in grado di rispondere che non si tratta di sottrarre dal pensiero medioevale tutto quanto è strettamente teologico e chiamare il residuo «filosofia cristiana». Al contrario, è cristiana quella filosofia che riconosce il «primato della fede» (Gilson 1960, 248), anzi «il primato della parola di Dio» (ibid., 246), e questo non all’esterno ma all’interno stesso di un pensiero che si presenta come «un progresso a partire da una verità che non è suscettibile di progresso» (ibid., 251). In effetti, questa è l’unica possibile filosofia che non rompe l’unità fra fede e ragione, ancorché le distingua e sfugga quindi a ogni accusa di fideismo. La separazione fra filosofia e teologia comporta invece la separazione fra fede e ragione, e quel cedimento al laicismo che nella Chiesa prende la forma del progressismo.
Lo stesso Del Noce, commentando lo scritto di Gilson, ritiene che il fondamentale risultato raggiunto dallo storico francese sia possibile solo attraverso una critica di certe angustie e asprezze del neotomismo, il che presuppone un ritorno alla lettera dell’enciclica Aeterni Patris del 1879. Qui infatti si vincola la cultura cattolica a privilegiare una filosofia ad mentem Sancti Thomae Aquinatis. Per Del Noce, «quel ad mentem serve a chiarire l’equivoco delle dispute sulla filosofia cristiana» (Del Noce 2005, 78) e testimonia «la grandezza filosofica di Leone XIII» (ibid.). Leone XIII riporta con san Tommaso nella Chiesa non un insieme di formule ma un metodo: nei termini di Del Noce, in implicita polemica con qualche neotomista, «non tanto una dottrina quanto una maniera di filosofare: e in ogni caso l’aspetto della dottrina si trova in una certa misura posposto a quello della maniera di filosofare» (ibid.).
Gilson nel volume del 1960 Le Philosophe et la théologie dà atto a Leone XIII di avere risolto il problema della «filosofia cristiana» cinquant’anni prima che la Sorbona iniziasse a discuterne, e di avere fatto molto di più: Papa Pecci ha applicato questo metodo a tutti i principali campi del pensare e dell’agire umano, teorici e pratici. Per comprendere come questo sia avvenuto occorre leggere le nove encicliche principali di Leone XIII non in ordine cronologico ma nell’ordine che il pontefice stesso ha suggerito nell’enciclica Pervenuti all’anno vigesimoquinto del 19 marzo 1902, pubblicata per il venticinquesimo anniversario della sua elezione a Pontefice. Nell’enciclica il papa ricorda nell’ordine «le [sue] Encicliche sulla filosofia cristiana [Aeterni Patris, 1879], sulla libertà umana [Libertas, 1888], sul matrimonio cristiano [Arcanum Divinae Sapientiae, 1880], sulla setta dei Massoni [Humanum genus, 1884], sui poteri pubblici [Diuturnum, 1881], sulla costituzione cristiana degli Stati [Immortale Dei, 1885], sul socialismo [Quod apostolici muneris, 1878], sulla questione operaia [Rerum novarum, 1891], sui principali doveri dei cittadini cristiani [Sapientiae Christianae, 1890]». In un discorso di trent’anni fa Del Noce si chiedeva «perché nessuno in Italia abbia pensato all’edizione delle nove encicliche secondo quell’ordine logico che il Papa aveva fissato» (Del Noce 2005, 77). Nessuno ci ha pensato ancora oggi, e una riedizione delle encicliche in quest’ordine potrebbe essere un modo di dare retta a Benedetto XVI quando c’invita a rileggere Leone XIII prendendo occasione dal bicentenario.
Comunque sia, in funzione di questo corpus secondo Gilson «Leone XIII prende posto nella storia della Chiesa come il più grande filosofo cristiano del secolo XIX e uno dei più grandi di tutti i tempi» (Gilson 1960, 191). Tutto il Corpus Leonianum è retto dalla Aeterni Patris, perché prima occorre definire il metodo e poi applicarlo: «i programmi di riforma sociale suppongono effettuata questa prima riforma intellettuale, condizione di tutte le altre» (ibid., p. 192). «I vecchi politici cattolici – notava Del Noce nel 1977 – leggevano la Rerum novarum come se fosse isolabile dall’insieme del Corpus Leonianum; coerentemente i nuovi, portando alle conseguenze ultime il difetto di questa linea, hanno del tutto trascurato di leggerla» (Del Noce 1977, 25-26). L’oblio della Rerum novarum è avvenuto «diciamo pure con ragione, perché scissa dal suo fondamento filosofico, dal contesto delle nove encicliche essenziali, e in particolare dall’Aeterni Patris, è destinata a perdere significato» (Del Noce 2005, 77).
Non già che la Rerum novarum, per Del Noce, non sia importante anche nei suoi aspetti strettamente sociali. Al contrario è una «enciclica profetica» (Del Noce 2005, 227) la cui «critica radicale della mentalità utopistica» (ibid., 228) del marxismo e nello stesso tempo di un liberalismo assoluto, secondo cui il mercato risolverà da solo tutti i problemi, appare non – come talora si legge – in ritardo rispetto alla teoria economica dell’epoca, ma al contrario in anticipo e sorprendentemente attuale. Ma, appunto, per cogliere tutte le implicazioni della Rerum novarum è necessario prendere sul serio l’invito della Pervenuti all’anno vigesimoquinto di leggerla dopo altre sette encicliche di Leone XIII, comprese quelle sulla filosofia, sulla massoneria e sul socialismo.
Certo, spiega Benedetto XVI, il Magistero sociale di Leone XIII è stato «reso celeberrimo e intramontabile dall’Enciclica Rerum novarum» (Benedetto XVI 2010a): ma questo testo va letto tenendo conto dei «molteplici altri interventi [di Papa Pecci] che costituiscono un corpo organico, il primo nucleo della dottrina sociale della Chiesa» (ibid.). Infatti tutta la parte della Rerum novarum sui diritti rispettivi dei datori di lavoro e dei lavoratori, afferma Del Noce, «è legata alla fondamentale tesi dell’antecedenza dell’uomo allo Stato, e questa alla legge naturale e alla metafisica che essa implica» (ibid., 231). «Ora, la rinascita cattolica – incalza ancora il filosofo italiano – deve essere, secondo il pensiero di Leone XIII, inscindibilmente religiosa, filosofica e politica, “politica”, perché richiesta come necessaria per la salvezza anche temporale della società umana, ma questa politica deve appoggiarsi su una filosofia che sia a sua volta preambolo della fede» (Del Noce 1977, 26).
Vi è qui un insegnamento fondamentale di Leone XIII, che si ritrova oggi in Benedetto XVI e in particolare nell’enciclica Caritas in veritate del 2009. La dottrina sociale della Chiesa è parte integrante dell’insegnamento della Chiesa Cattolica: ma lo è proprio perché non è solo socio-economica ma anche e anzitutto socio-politica, e perché altro non è che la morale sociale cristiana, la quale presuppone i fondamenti della morale nella verità naturale e rivelata. Il filo che collega Leone XIII, Gilson e Del Noce aiuta a cogliere questa autentica natura della dottrina sociale. Benedetto XVI la ribadisce ancora oggi perché, nonostante la sua reiterata illustrazione da parte del Magistero, non tutti l’hanno compresa. Le conseguenze di questa incomprensione sono state catastrofiche.
Né è possibile separare la dottrina sociale della Chiesa dalla vita spirituale. Nella Caritas in veritate, dopo un’ampia rassegna della dottrina sociale, Benedetto XVI conclude che i problemi sociali rimandano sempre «anche a cause di ordine spirituale» (Benedetto XVI 2009, n. 76) e che «senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia» (ibid., n. 78). A proposito di Leone XIII il Pontefice regnante ci ricorda che egli è autore di moltissime encicliche – in effetti ben ottantasei, un record fra i Pontefici romani. È giusto – ed è la strada che percorriamo in questo volume – sottolineare e studiare il suo straordinario contributo alla dottrina sociale. Ma le encicliche sociali hanno un collegamento organico con quelle di contenuto teologico e spirituale, che non vanno affatto dimenticate.
Di Leone XIII, insegna Benedetto XVI, «anzitutto va sottolineato che egli fu uomo di grande fede e di profonda devozione. Questo rimane sempre la base di tutto, per ogni cristiano, compreso il Papa. Senza la preghiera, cioè senza l’unione interiore con Dio, non possiamo far nulla, come disse chiaramente Gesù ai suoi discepoli durante l’Ultima Cena (cfr Gv 15, 5). Le parole e gli atti di Papa Pecci lasciavano trasparire la sua intima religiosità; e questo ha trovato rispondenza anche nel suo Magistero: tra le sue numerosissime Encicliche e Lettere Apostoliche, come il filo in una collana, vi sono quelle di carattere propriamente spirituale, dedicate soprattutto all’incremento della devozione mariana, specialmente mediante il santo Rosario. Si tratta di una vera e propria “catechesi”, che scandisce dall’inizio alla fine i 25 anni del suo Pontificato. Ma troviamo anche i Documenti su Cristo Redentore, sullo Spirito Santo, sulla consacrazione al Sacro Cuore, sulla devozione a san Giuseppe, su san Francesco d’Assisi. Alla Famiglia francescana Leone XIII fu particolarmente legato, ed egli stesso appartenne al Terz’Ordine. Tutti questi diversi elementi mi piace considerarli come sfaccettature di un’unica realtà: l’amore di Dio e di Cristo, a cui nulla assolutamente va anteposto» (Benedetto XVI 2010a).
3. I grandi temi della Aeterni Patris
«Ogni Pastore – continua Benedetto XVI – è chiamato a trasmettere al Popolo di Dio non delle verità astratte, ma una “sapienza”, cioè un messaggio che coniuga fede e vita, verità e realtà concreta. Il Papa Leone XIII, con l’assistenza dello Spirito Santo, è capace di fare questo in un periodo storico tra i più difficili per la Chiesa, rimanendo fedele alla tradizione e, al tempo stesso, misurandosi con le grandi questioni aperte. E vi riuscì proprio sulla base della “sapienza cristiana”, fondata sulle Sacre Scritture, sull’immenso patrimonio teologico e spirituale della Chiesa Cattolica e anche sulla solida e limpida filosofia di san Tommaso d’Aquino, che egli apprezzò in sommo grado e promosse in tutta la Chiesa» (ibid.).
L’enciclica Aeterni Patris, il grande manifesto del ritorno alla « solida e limpida filosofia di san Tommaso d’Aquino», s’inserisce in un programma di rinnovamento filosofico avviato dal futuro Leone XIII già all’epoca in cui, arcivescovo di Perugia, fonda nel 1872 nella città umbra un’Accademia Tomistica. La stessa Aeterni Patris è seguita da altri documenti sul tema, tra cui spicca la lettera Iampridem considerando al cardinale Antonio Saverio De Luca (1805-1883), prefetto della Sacra Congregazione degli Studi, del 15 ottobre 1879, in cui Leone XIII esprime il desiderio di fondare una Pontificia Accademia di San Tommaso, in effetti inaugurata nel 1880. In questo documento Papa Pecci usa esplicitamente l’espressione «filosofia cristiana», che non figura invece nella Aeterni Patris.
Il tema della Aeterni Patris è quello caro a Benedetto XVI del rapporto tra fede e ragione, tra le quali – insegna oggi il Pontefice regnante – non dev’esserci né la confusione del fondamentalismo né la separazione assoluta del laicismo, ma una distinzione nella prospettiva di una collaborazione, all’interno di quella che rimane comunque l’unica esperienza umana. San Tommaso, scrive Leone XIII, «distinse accuratamente, come si conviene, la ragione dalla fede; ma stringendo l’una e l’altra in amichevole consorzio, conservò interi i diritti di entrambe e intatta la loro dignità».
Mons. Mario Pangallo, attento studioso della Aeterni Patris, osserva a proposito del rapporto tra fede e ragione, quindi tra filosofia e teologia, nell’enciclica di Leone XIII che «nello spirito dell’enciclica leoniana, si può parlare di quattro funzioni della filosofia a servizio della teologia cristiana: propedeutica, pedagogica, critica e apologetica. La filosofia, infatti, si qualifica come cristiana principalmente sotto quattro aspetti: in quanto dimostra i praeambula fidei – per esempio l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, l’esistenza della legge morale naturale; in quanto fornisce alla teologia la forma “scientifica”, ovvero le leggi logiche e i sistemi di argomentazione; in quanto aiuta la teologia ad approfondire il significato delle formulazioni delle verità di fede nel senso della famosa formula agostiniana e anselmiana intellectus quaerens fidem, fides quaerens intellectum; in quanto difende la fede da eventuali attacchi, di natura filosofica, portati contro di essa per esempio dallo scetticismo, dal relativismo, dall’edonismo, e così via. Da parte sua la fede cristiana eleva l’intelletto in cui viene infusa, potenziandone la capacità di penetrare nella natura delle cose; arricchisce anche contenutisticamente la ragione, facendole conoscere verità soprannaturali al di fuori della sua portata; la aiuta a liberarsi da eventuali errori nell’ambito delle verità naturali, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano I, citato da Leone XIII: Fides rationem ab erroribus liberat et tuetur eamque multiplici cognitione instruit» (Pangallo 2010).
La filosofia così intesa ha una funzione fondamentale di unificazione delle scienze e del sapere, che nessun’altra disciplina potrebbe esercitare. Scrive Leone XIII nella Aeterni Patris che «tutte le discipline umane devono sperare di progredire e attendersi moltissimi aiuti da questo rinnovamento della filosofia che noi ci siamo proposti: infatti le scienze e le arti liberali hanno sempre tratto dalla filosofia, come da scienza moderatrice di tutte, la saggia norma e il retto modo di procedere, e dalla stessa, come dalla sorgente universale della vita, hanno attinto lo spirito che le alimenta».
Per esercitare questa funzione e garantire il corretto rapporto tra fede e ragione, entrato in crisi con la fine della civiltà cristiana del Medioevo, è necessario riscoprire san Tommaso: secondo l’enciclica, «la via maestra per ritrovare la verità perduta è il ritorno alla filosofia di san Tommaso». Come si è accennato, per «filosofia di san Tommaso» il Pontefice intende il pensiero dell’Aquinate di nuovo studiato e riscoperto nelle sue autentiche fonti, superando una manualistica che, nello sforzo di semplificare il tomismo originario, qualche volta lo ha deformato. «Vivamente vi esortiamo – incalza Leone XIII – a rimettere in uso la sacra dottrina di san Tommaso e a diffonderla il più ampiamente possibile, a tutela e onore della fede cattolica, per il bene della società, per l’incremento di tutte le scienze. Diciamo la dottrina di san Tommaso: infatti se dai filosofi scolastici qualche cosa è insegnata con poca considerazione, se ve n’è qualcun’altra che non si accordi pienamente con gli insegnamenti certi dei tempi più recenti, o se ve n’è qualcuna non meritevole di essere accettata, non intendiamo che sia proposta al nostro tempo perché la segua».
E ancora: «E per non trovarsi ad attingere la dottrina supposta invece di quella genuina, né la corrotta invece della sincera, provvedete che la sapienza di san Tommaso sia scoperta dalle sue stesse fonti, o per lo meno da quei rivi, che usciti dalla stessa fonte, scorrono ancora puri e limpidissimi, secondo il sicuro e concorde giudizio dei dotti. Da quei ruscelli poi, che pur si dicono sgorgati da là, ma di fatto sono cresciuti in acque estranee per niente salutari, procurate di tenere lontani gli animi dei giovani». Non sempre e non tutti i neotomisti successivi a Leone XIII saranno fedeli a questo invito del Pontefice. Ma neppure si possono sottovalutare il grande impatto e i notevoli successi della Aeterni Patris nel promuovere un effettivo ritorno a san Tommaso in tutto il mondo cattolico.
4. Leone XIII e la scuola contro-rivoluzionaria
Il filosofo idealista francese Léon Brunschvicg (1869-1944), che non aveva alcuna simpatia né per la rinascita del tomismo né per la scuola contro-rivoluzionaria, aveva sostenuto che il Corpus Leonianum, a partire da quel suo punto di partenza logico che è la Aeterni Patris, presuppone un giudizio sulla storia che è quello contro-rivoluzionario, che Papa Pecci mutua soprattutto da Joseph de Maistre (1753-1821) e Louis de Bonald (1754-1840) (Brunschvicg 1928, II, 502-503). Secondo Del Noce, Brunschvicg espone la tesi «con una certa tendenziosità, ma con un sostanziale fondo di verità» (Del Noce 1964, 401).
In effetti Leone XIII non aveva forse la stessa sensibilità politica dei principali esponenti suoi contemporanei della scuola contro-rivoluzionaria, come dimostra la polemica sul ralliement. Ma il giudizio sulla storia, e sulla storia della filosofia, di Leone XIII è invece molto simile a quello dei contro-rivoluzionari, uno dei quali – il gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio (1793-1862), fratello dello statista piemontese Massimo d’Azeglio (1798-1866) da cui era peraltro molto lontano quanto alle idee religiose e politiche – era stato suo insegnante a Roma, e lo aveva per primo interessato a tutta una serie di questioni filosofiche e sociali.
Si è anche affermato che Leone XIII fosse più attento alle questioni economiche e ai problemi degli operai che ai temi strettamente politici. In parte, queste affermazioni derivano dalla citata illusione ottica creata dalla Rerum novarum, e da una conoscenza spesso approssimativa del grande Corpus di Leone XIII, che affronta in modo veramente ampio tutta una serie di problemi storici e politici. C’è anche l’eco dell’opposizione di alcuni cattolici conservatori alla Rerum novarum, considerata troppo sbilanciata in favore dei diritti dei lavoratori rispetto a quelli dei datori di lavoro o addirittura «socialista».
Qui però curiosamente le critiche di questi cattolici conservatori assomigliano a quelle di Adriano Lemmi (1822-1906), Gran Maestro della massoneria del Grande Oriente d’Italia, il quale – difensore a oltranza del grande capitalismo italiano nascente – dichiarava di temere, non meno del socialismo marxista, il «socialismo pontificio» (cit. in Mola 2006, 295) di Leone XIII. Le critiche alla Rerum novarum ricordano anche quelle di alcuni cattolici conservatori, specie negli Stati Uniti, alla Caritas in veritate di Benedetto XVI. La Chiesa, tuttavia, se condanna il socialismo non difende affatto ogni e qualunque forma di moderno «turbo-capitalismo». E lo stesso vale per gli autori della scuola contro-rivoluzionaria, alcuni dei quali furono diretti ispiratori delle encicliche di Leone XIII. Si devono qui ricordare i lavori dell’Unione di Friburgo – fondata nel 1884 per iniziativa del vescovo e futuro cardinale svizzero Gaspard Mermillod (1824-1892) –, dei cui documenti è principale estensore il sociologo contro-rivoluzionario La Tour du Pin. I lavori dell’Unione di Friburgo sono seguiti e talora orientati in prima persona da Leone XIII e costituiscono in particolare la base della Rerum novarum, per cui è cruciale un memorandum preparatorio all’enciclica, redatto appunto da La Tour du Pin e consegnato al Pontefice (Botos 2007).
Né questi autori né Leone XIII proponevano, come oggi si ama erroneamente dire, una «terza via» fra capitalismo e socialismo. Essi consideravano infatti il socialismo intrinsecamente malvagio e non riformabile, e il capitalismo invece suscettibile di derive perverse ma in sé riformabile. Inoltre, la dottrina sociale della Chiesa non cerca un punto intermedio fra il capitalismo della rivoluzione industriale e il socialismo ma li mostra entrambi come conseguenze – certo diverse – della scristianizzazione rivoluzionaria.
5. Leggere Leone XIII oggi
Perché leggere Leone XIII oggi? È un esercizio riservato ai soli cultori di storia della Chiesa? Non ci sono nel secolo XXI testi più attuali o compiti più urgenti? La questione va al di là di Leone XIII, e chiama in causa il corretto rapporto con il Magistero pontificio in generale e con gli insegnamenti dei Pontefici sulla dottrina sociale in particolare. I documenti pontifici, a differenza degli yogurt, non scadono. Certamente possono fare cenno a vicende contingenti. E certo nel Magistero c’è uno sviluppo, anche a fronte di circostanze storiche che mutano e su cui la Chiesa propone il suo giudizio alla luce di principi che non mutano. Ma ogni documento va letto alla luce di tutta la tradizione precedente e all’interno del patrimonio complessivo del Magistero. Questo vale appunto – come Benedetto XVI ha ricordato nell’enciclica del 2009 Caritas in veritate – sia per il Magistero in genere, sia specificamente per la dottrina sociale.
Quanto al primo aspetto, il Papa ricorda il suo reiterato insegnamento sull’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, per cui «il corretto punto di vista, dunque, è quello della Tradizione della fede apostolica» (Benedetto XVI 2009, n. 10). Questo criterio va applicato – ricorda Benedetto XVI a proposito dell’enciclica di Paolo VI (1897-1978) Populorum progressio, del 1967 – anche ai documenti di dottrina sociale, che vanno sempre letti «dentro la tradizione della dottrina sociale della Chiesa» (ibidem), «patrimonio antico e nuovo, fuori del quale la Populorum progressio sarebbe un documento senza radici» (ibidem), una mera collezione di «dati sociologici» (ibidem).
La Populorum progressio è stata pubblicata subito dopo la conclusione del Concilio e le questioni della corretta ermeneutica di questa enciclica e del Vaticano II sono strettamente collegate. «Il legame tra la Populorum progressio e il Concilio Vaticano II non rappresenta una cesura tra il Magistero sociale di Paolo VI e quello dei Pontefici suoi predecessori, dato che il Concilio costituisce un approfondimento di tale magistero nella continuità della vita della Chiesa. In questo senso, non contribuiscono a fare chiarezza certe astratte suddivisioni della dottrina sociale della Chiesa che applicano all’insegnamento sociale pontificio categorie ad esso estranee. Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo. È giusto rilevare le peculiarità dell’una o dell’altra Enciclica, dell’insegnamento dell’uno o dell’altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza dell’intero corpus dottrinale» (ibid., n. 12) della dottrina sociale.
Se dunque non esistono «due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare», che sarebbero «diverse tra loro, ma un unico insegnamento», allora il Corpus di Leone XIII – unico per ricchezza e sistematicità nella storia della dottrina sociale della Chiesa – non solo può, ma deve essere letto e studiato ancora oggi. Non come curiosità storica, ma per farne nostri e applicarne gli insegnamenti, utilizzandoli come strumento interpretativo del Magistero successivo così come le encicliche sociali dei suoi successori interpretano a loro volta il Corpus Leonianum e aiutano ad applicarlo a problemi sorti dopo la morte di Leone XIII. «Un unico insegnamento – appunto –, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo».
L’essenziale del Magistero di Leone XIII è del resto ancora al centro dell’insegnamento di Benedetto XVI. Per impostare correttamente anche le questioni socio-economiche occorre prima affrontare quelle socio-politiche, denunciando l’impostazione illuministica e ideologica del «diritto nuovo». E, prima ancora, proporre un giudizio sulla storia. Su questo terreno, tra l’altro, Leone XIII incontra la scuola contro-rivoluzionaria, cui lascia in eredità alcune delle sue formule più belle, a partire da un tema preciso: il problema di un giudizio sulla storia, sulla crisi determinata dalla Rivoluzione francese e sul mondo che quella Rivoluzione aveva distrutto.
Basterà citare qui un celebre passo dell’enciclica Immortale Dei in difesa della Cristianità medioevale – di cui certo lo stesso Leone XIII non si nascondeva le imperfezioni – della quale il Pontefice non solo conferma, ma spiega e illustra la valutazione positiva che è al cuore del pensiero contro-rivoluzionario: «Fu già tempo che la filosofia del Vangelo governava gli Stati, quando la forza e la sovrana influenza dello spirito cristiano era entrata bene addentro nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in tutti gli ordini e ragioni dello Stato; quando la Religione di Gesù Cristo posta solidamente in quell’onorevole grado, che le conveniva, traeva su fiorente all’ombra del favore dei Principi e della dovuta protezione dei magistrati; quando procedevano concordi il Sacerdozio e l’Impero, stretti avventurosamente fra loro per amichevole reciprocanza di servigi. Ordinata in tal guisa la società, recò frutti che più preziosi non si potrebbe pensare, dei quali dura e durerà la memoria, affidata ad innumerevoli monumenti storici, che niuno artifizio di nemici potrà falsare od oscurare».
Abbiamo detto che il difetto fondamentale delle cattive letture del Magistero sociale di Papa Pecci è sempre quello di ridurlo alla sola enciclica Rerum novarum. Questo errore – che talora muove da evidenti pregiudizi ideologici – porta a non comprendere bene neppure il significato della stessa Rerum novarum. Per gli elementi di quadro che fornisce si può dire, se proprio si vogliono stabilire ordini d’importanza, che l’enciclica principale del corpus sociale di Leone XIII è proprio la Immortale Dei del 1885, che presenta il modello di una società cristiana e l’anti-modello rivoluzionario del «diritto nuovo», in cui – partendo dall’errore che fa del popolo e non di Dio la fonte ultima dell’autorità e del potere – le esigenze della legge di Dio sono rifiutate.
È nel grande quadro, teologicamente fondato, tracciato nella Immortale Dei, che possono essere idealmente inseriti gli elementi specifici approfonditi dal Pontefice nelle altre encicliche: l’analisi delle principali forze anticattoliche, la massoneria (nella Humanum genus) e il socialismo (Quod apostolici muneris); il valore dell’autorità (Diuturnum), che non dipende dalle forme di governo (Au milieu des sollicitudes), e i suoi limiti, con il diritto-dovere di resistenza all’autorità ingiusta (Sapientiae christianae); la vera nozione della libertà (Libertas); il matrimonio (Arcanum Divinae Sapientiae), e finalmente i problemi economici e sociali (Rerum novarum, Graves de communi), che però non sono soltanto socio-economici e non possono trovare una soluzione se si prescinde dai problemi morali.
Nel ricco magistero di Leone XIII sono costantemente ripetuti, soprattutto, tre insegnamenti, che rimangono particolarmente attuali. Anzitutto, la proposta di un’ideale grande, la civiltà cristiana, che solo è capace di entusiasmare e di dilatare il cuore, che solo può animare in modo persuasivo l’azione politica e sociale dei cattolici. Un generico umanitarismo o l’appello – come oggi si dice – «buonista» alla bontà e alla pace universali non entusiasmano nessuno e rimangono sterili. Solo la verità convince. Come ricorda Benedetto XVI nella Caritas in veritate, «un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali» (Benedetto XVI 2009, n. 4).
In secondo luogo, all’interno di una società a misura della verità e della giustizia, Leone XIII – ed è questo il suo personale e peculiare carisma, in armonia con le necessità dei tempi – insiste particolarmente sulla «questione sociale» e sulla crisi economica. Il suo messaggio fondamentale è però che la crisi economica non è soltanto economica, ma dev’essere risolta partendo da un punto di vista religioso, filosofico e morale. Né si tratta di un’utopia, perché al contrario – alla prova dei fatti – vaghe e utopistiche si rivelano proprio le presunte soluzioni che pretendono di risolvere i problemi economici rimanendo all’interno del cerchio magico della sola economia, che si tratta di spezzare se si vuole veramente porre rimedio alla crisi. Anche qui, l’insegnamento di Leone XIII di fronte alle crisi economiche e sociali del suo tempo coincide perfettamente con quello di Benedetto XVI sulla crisi economica internazionale del 2008. Anch’essa, insegna il regnante Pontefice nella Caritas in veritate, non è solo una crisi economica e non può dunque avere soluzioni soltanto economiche.
Infine, Leone XIII si sforza sempre di formulare – e a questo dedica in genere le pagine finali di ciascuna enciclica – anche una dottrina dell’azione, e consigli pratici per l’azione sociale dei cattolici, i quali naturalmente risentono di problemi e necessità contingenti. Emerge tuttavia in particolare il richiamo all’unità dottrinale dei cattolici – che è cosa diversa dall’unità politica in un solo partito – come bene importante da preservare tutte le volte che possa essere perseguito senza sacrificio delle esigenze della verità. È un bene tanto più importante, aggiunge Papa Pecci, in un momento in cui le forze della rivoluzione anticristiana sono – talora misteriosamente, ma realmente – unite, anche grazie all’azione della massoneria, di cui Leone XIII parla in molteplici documenti e non soltanto nella Humanum genus. C’è in Leone XIII una vera passione per l’unità dei cattolici attorno ai principi essenziali della dottrina sociale, che rimane fra gli insegnamenti principali con cui egli prende posto nella grande storia della dottrina sociale della Chiesa.
Grande latinista e poeta in lingua latina – l’ultimo dei Papi che usava il latino come se fosse la sua lingua madre –, Leone XIII è anche il primo Pontefice che è stato filmato e la cui voce è stata registrata. Fortunatamente, due filmati – del 1896 e del 1903 – e una registrazione in cui Leone XIII recita l’Ave Maria sono giunti fino a noi: documenti capaci di emozionarci, e che fanno di Papa Pecci il primo Pontefice che si è espresso attraverso il moderno mondo multimediale. «Un Papa molto anziano, ma saggio e lungimirante, poté così introdurre nel XX secolo una Chiesa ringiovanita, con l’atteggiamento giusto per affrontare le nuove sfide. Era un Papa ancora politicamente e fisicamente “prigioniero” in Vaticano, ma in realtà, con il suo Magistero, rappresentava una Chiesa capace di affrontare senza complessi le grandi questioni della contemporaneità» (Benedetto XVI 2010a). «Possa il Magistero sociale di Papa Leone – conclude Benedetto XVI – continuare a guidare gli sforzi dei fedeli per costruire una società giusta, che trovi le sue radici negli insegnamenti di Gesù Cristo» (Benedetto XVI 2010b).
Sì: attento a tutte le innovazioni contemporanee, Leone XIII non nutriva sui suoi tempi né complessi né illusioni. Era un Papa di grandi speranze. Ma da una sua visione dei demoni che si addensavano su Roma nacque la prescrizione ai sacerdoti di recitare ai piedi dell’altare una preghiera scritta di suo pugno a san Michele Arcangelo, la cui traduzione dal latino suona così: «San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia, contro le malvagità e le insidie del demonio sii nostro aiuto. Ti preghiamo supplici: che il Signore lo comandi! E tu, Principe delle milizie celesti, con la potenza che ti viene da Dio, ricaccia nell’inferno Satana e gli altri spiriti maligni che si aggirano per il mondo a perdizione delle anime». Da quei demoni, che non hanno smesso di volare, il Magistero di Leone XIII può ancora proteggerci.
Riferimenti
Augé, Guy. 19952. Les Blancs d’Espagne. Contribution à l’étude d’une composante du royalisme français contemporain, Association des Amis de Guy Augé - La Légitimité, Parigi.
Benedetto XVI. 2009. Enciclica Caritas in veritate, del 29-6-2009. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/moe89k.
Benedetto XVI. 2010a. Visita pastorale a Carpineto Romano. Santa Messa al Largo dei Monti Leporini. Omelia, del 5-9-2010. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/2vcv8yy.
Benedetto XVI. 2010b. Angelus del 5-9-2010, Castel Gandolfo. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/35dptwb.
Botos, Mate. 2007. «Frédéric Le Play: inspirateur de l’Union de Fribourg?». In Savoye e Cardoni (a cura di) 2007, pp. 197-209.
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Massimo Introvigne
Avvenire.it, 14 settembre 2010 L'obiettivo vero di una scuola vera - Prima ci sia la vita (poi i comportamenti) di Luigi Ballerini
Parte un nuovo anno scolastico, le campanelle riprendono a suonare e a scandire il tempo dell’apprendimento. Finalmente torna soprattutto la scuola vissuta, dopo quella dei nodi aggrovigliati, delle analisi contrapposte e delle polemiche sferzanti a lungo protagonista delle notizie di fine estate. Giovani e adulti di nuovo insieme per l’avvio di un cammino che ha il sapore di un’avventura: l’avventura educativa.
Ma quali proposte attendono i ragazzi in classe? Che cosa offre la programmazione che è stata minuziosamente elaborata per loro? Assistiamo a un fenomeno in crescita e che merita attenta riflessione. Da tempo, le discipline più tradizionali si vedono sempre più affiancate dai numerosi progetti approvati dai singoli istituti. La lotta al tabagismo, alle tossicodipendenze, all’abuso dell’alcol, agli incidenti stradali, all’incuria verso l’ambiente, all’obesità, diventano a loro volta "materie", assurgono alla dignità di oggetti specifici di insegnamento e quindi vengono a pieno diritto incorporati nelle ore curricolari. Sforzo meritevole, volto certo alla preparazione di nuovi cittadini responsabili e consapevoli, più sani e longevi, onesti ed ecologici. Nessuna persona di buon senso potrebbe avanzare obiezioni a questo andamento, o almeno alle intenzioni che lo originano. Eppure, a ben pensarci, qualcosa non torna. Tutto questo, per quanto utile, di per sé non basta.
Quello che in certa misura sconcerta è assistere a ciò che potremmo definire il primato dei comportamenti. Non fumare, non esagerare con l’alcol, non drogarsi, non lasciarsi morire di inedia, rispettare l’ambiente costituiscono comportamenti da acquisire per via informativa, la più specialistica e dettagliata possibile. E allora porte spalancate agli esperti: medici, pompieri, poliziotti, ginecologi, ognuno col proprio slang professionale. C’è di mezzo l’ingenuità di credere che sia sufficiente presentare la velocità come fattore di rischio perché i ragazzi moderino automaticamente la manetta dell’acceleratore.
Forse il punto sta qui, proprio nella distinzione fra informazione ed educazione. Ti informo se ti rendo – giustamente – consapevole che fumando avrai una certa probabilità di avere il cancro al polmone e con questo di morire. Ti educo se aiuto a recuperare un buon motivo per cui valga la pena vivere e magari decidere di non accendere la sigaretta. E non c’è bisogno di strutturare l’ennesimo corso ad hoc – educazione alla pena di vivere? – perché le lezioni di storia, geografia, letteratura, inglese e matematica in fondo esistono anche per questo. Non si tratta solamente di nozioni da apprendere, sono l’occasione di confronto con teorie e uomini del passato e del presente che hanno cercato soluzione alla loro "questione umana". Anche la cosiddetta educazione all’affettività viene per lo più ridotta a istruzioni per l’uso, a tecnicismi o strategie di corteggiamento. Come se per imparare ad amare non potessimo partire anche da Shakespeare o Dante o Einstein.
L’educazione è in primis educazione alla vita, i comportamenti vengono di conseguenza. L’uomo colto, non quello solo informato, possiede strumenti critici e valutativi per decidere cosa fare della propria esistenza e di quella degli altri. Come adulti responsabili abbiamo il compito di riattivare e tenere viva nei giovani la libertà, quell’energia che permette, di fronte a un bivio, innanzitutto di individuarlo e poi di scegliere una strada piuttosto che un’altra. Che permette e non esclude a priori la possibilità di commettere anche errori.
Perché abbiamo bisogno di persone libere, non di scimmie ammaestrate che magari sanno bene come muoversi, ma hanno ragioni per farlo.
Luigi Ballerini
4/09/2010 – INDIA - I frutti di “Brucia il Corano”: scuola cattolica bruciata, due scuole protestanti nel mirino - di Shefali Prabhu
Colpita la Good Shepherd School di Pulwama; attacco contro la Christ School e la Christ Mohalla School a Pooch Jammu. La scuola cattolica era già stata colpita nel 2003. Leader autonomista del Kashmir difende i cristiani, ma nella zona cresce il fondamentalismo. Il fondatore della Good Shepherd, p. Jim Borst ha ricevuto un ordine di espulsione. Continua il coprifuoco nella regione. Tutti i voli da e per Srinagar sono sospesi per tre giorni.
Srinagar (AsiaNews) – Una scuola cattolica è stata bruciata ieri sera e altre due scuole protestanti sono state assaltate nella provincia di Jammu-Kashmir, in seguito alla campagna “Brucia il Corano” lanciata dal rev. Terry Jones negli Usa. Ieri mattina è stata bruciata anche una scuola protestante e una chiesa.
Il vescovo di Jammu-Srinagar, mons. Peter Celestine chiede che venga restituita la pace alla regione. “I leader religiosi – ha detto ad AsiaNews – hanno la responsabilità di condurre alla pace, alla tolleranza e alla coesistenza”.
Ieri sera alle 7.30, una folla inferocita ha appiccato il fuoco alla Good Shepherd School di Pulwama in risposta al tentativo di dissacrare il Corano. A differenza di ieri mattina con la scuola protestante, questa volta la polizia è intervenuta in forza, riducendo i danni alla prestigiosa istituzione.
Giungono anche notizie che gruppi di musulmani hanno tentato di attaccare due scuole protestanti, la Christ School e la Christ Mohalla School a Pooch Jammu.
La situazione è tesa al massimo e nell’area continua ad essere imposto il coprifuoco. Ogni movimento è proibito ed è rischioso avventurarsi all’esterno delle case anche di giorno.
Tutti i voli da e per Srinagar sono sospesi per tre giorni a causa delle sommosse causate dalla campagna “Brucia il Corano”, che qui però rivestono anche un sentimento anti-indiano e anti-americano. Ieri gli scontri fra polizia e migliaia di manifestanti hanno causato almeno 17 morti e 80 feriti.
Mons. Peter Celestine esprime ad AsiaNews tutta la sua preoccupazione: “Sono profondamente rattristato per questa folla incitata alla violenza. La nostra comunità cristiana è una micro-minoranza [lo 0,0014% della popolazione] e siamo pacifici e tolleranti. In più, diamo una buona testimonianza attraverso le nostre scuole. E proprio queste scuole sono divenute l’obbiettivo: la Good Shepherd a Pulwama e la scuola della Christian Mission Society a Tangmarg, totalmente distrutta. La violenza ha causato molte morti. Occorre riportare la pace e noi leader religiosi abbiamo la responsabilità di condurre alla pace, alla tolleranza e alla coesistenza”.
Secondo il prelato, la piccolo comunità cattolica ha sempre avuto “rapporti cordiali coi nostri fratelli islamici e con le autorità”. A conferma di ciò, ieri l’attacco contro la scuola protestante è stata condannata dal leader separatista Syed Ali Shah Geelani, messo agli arresti domiciliari dalle autorità indiane. “Chiedo a tutti i musulmani – ha detto – di proteggere i membri delle minoranze e i loro luoghi religiosi. Dobbiamo mantenere a tutti i costi l’antica armonia e fraternità fra le comunità, per la quale il Kashmir è noto in tutto il mondo”.
Va però registrato che da diversi anni, nella lotta per l’autonomia del Kashmir si sono infiltrati gruppi di musulmani radicali, sottomettendola a un progetto di stampo fondamentalista e legato alle lotte iraniane e medio-orientali. Ieri nelle manifestazioni si lanciavano slogan anti-indiani, ma anche anti-Usa e anti-Israele: un fatto, questo, alquanto nuovo nel panorama politico indiano.
Il tentativo di islamizzare il Kashmir, eliminando le altre minoranze – sikh, indù e cristiane – è sempre più forte.
La stessa Good Shepherd School, attaccata ieri sera, è stata oggetto di violenze anche in anni passati, fin dalla sua fondazione nel 1997. Nel 2003 è stata attaccata due volte da fondamentalisti islamici e nello stesso anno, il suo fondatore, p. Jim Borst, è stato colpito dall’accusa di proselitismo e minacciato di espulsione. Secondo i fondamentalisti il sacerdote convince i bambini della scuola a diventare cristiani. Nel luglio scorso p. Brost, unico missionario di Mill Hill che vive nella zona dal 1963, ha ricevuto un ordine di espulsione, anche se quattro mesi prima le autorità centrali avevano rinnovato il suo permesso di soggiorno fino al 2014.