venerdì 10 settembre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) La traversata di Newman - La conversione del cardinale che il papa beatificherà in Gran Bretagna - Aldo Maria Valli - © Copyright Europa, 10 settembre 2010
2) L’importanza del viaggio di B-XVI in un’Inghilterra che sta perdendo la sua identità di Francesco Agnoli - © Copyright Il Foglio, 9 settembre 2010
3) 09/09/2010 – CINA - Chen Guangcheng, attivista cieco, libero dopo oltre 4 anni di prigione - Aveva denunciato le violenze legate alla legge sul figlio unico, con aborti forzati e sterilizzazioni nello Shandong. In prigione si è ammalato ma non ha avuto il permesso di curarsi. In questi anni, sua moglie ha subito arresti domiciliari e isolamento, telefoni controllati e internet sconnesso – da AsiaNews
4) 11 Settembre. L'attentato alle torri gemelle: dialogo o scontro violento? - Autore: Restelli, Silvio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: silvio.restelli@libero.it - venerdì 10 settembre 2010
5) Lusso, Matteo - Voci dall'aula, I giovani oltre il nichilismo - Autore: Lusso, Matteo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: matteo.lusso@tin.it - ARES, 12 € - Dalla Prefazione di mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro…
6) Rom a chi? - Mario Mauro - venerdì 10 settembre 2010 – ilsussidiario.net
7) GIORNALI/ Caro Augias, ha ragione John Wayne: il senso della vita "serve" più del lavoro di Roberto Colombo - venerdì 10 settembre 2010 – ilsussidiario.net
8) L’amore familiare vince il razzismo e l’ipocrisia - Antonio Gaspari – dal sito http://www.pontifex.roma.it
9) Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - Salvata Sakineh, ma lapidato il Medioevo di Antonio Socci - Da “Libero” 9 settembre 2010
10) Avvenire.it, 10 settembre 2010 - Cinquantuno anni dopo - Fidel archivia il «modello Cuba». Qualcuno avverta Chavez di Giorgio Ferrari



La traversata di Newman - La conversione del cardinale che il papa beatificherà in Gran Bretagna - Aldo Maria Valli - © Copyright Europa, 10 settembre 2010
Quando, fra qualche giorno, il 19 settembre, Benedetto XVI beatificherà John Henry Newman, il papa non renderà soltanto il dovuto omaggio della Chiesa cattolica a un uomo che in vita, a causa della sua ricerca della fede vera, affrontò tante tribolazioni. Indicherà anche un modello di vita cristiana e di slancio pastorale valido per l’oggi.
Nato nel 1801 e morto nel 1890, fervente anglicano e poi ministro della Chiesa d’Inghilterra, Newman nel 1845 si converte al cattolicesimo, due anni dopo è ordinato prete cattolico e nel 1879 è creato cardinale. Ma dietro l’apparente linearità di questo percorso ci sono tante curve difficili, tanti ostacoli, tante incomprensioni.
Fin dall’inizio la vita del futuro cardinale è segnata dall’imprevisto e dal contrasto. È uno studente brillante, ma a causa del troppo studio i suoi esami finali sono un mezzo fallimento. Il voto è molto basso, ma dopo circa un anno dà nuovi esami e questa volta diventa insegnante all’Oriel College di Oxford. Il suo ruolo è quello di tutor, con l’incarico di seguire un gruppo ristretto di studenti, ma ecco che Newman, poco più che ventenne, non si limita a trasmettere nozioni. Per lui l’insegnamento può essere concepito solo come una parte dell’educazione, che è in primo luogo morale e spirituale. Secondo la visione allora dominante si tratta di uno scandalo, e così gli studenti gli vengono sottratti.
Nel 1825 diventa pastore anglicano, si dedica alla parrocchia universitaria, tiene sermoni, e intanto incomincia a interrogarsi: è proprio nella Chiesa anglicana la strada giusta per raggiungere Dio e vivere da santi? Una prima risposta è positiva: la Chiesa d’Inghilterra, dice, è una sorta di “via media” tra il protestantesimo e la cattolicità, un giusto mezzo. Ma nel corso degli anni si rende conto che questa via, nella pratica, non esiste, avverte che le interferenze dello Stato nella vita della Chiesa sono indebite e inammissibili. Piano piano si avvicina alla Chiesa cattolica. Il suo “traghettatore” è un prete italiano, il passionista Domenico Barberi. La conversione è il frutto di questo lento cammino, come la traversata, dice, di un mare in tempesta. Non volta le spalle agli anglicani, non rinnega nulla del passato, ma per gli ex confratelli è un traditore. Lascia le certezze condivise per entrare in una minoranza disprezzata. Abbandona la comodità e la reputazione per abbracciare la verità.
La barca arriva in porto, ma i problemi sono tutt’altro che finiti. La stessa Chiesa cattolica fatica ad accogliere un personaggio sotto molti aspetti ingombrante.
Sia come fondatore dell’Università cattolica di Dublino sia come direttore del periodico cattolico The Rambler, Newman va incontro a contrasti e incomprensioni. Nel diario annota: «Se prima la mia religione era desolata ma non lo era la mia vita, ora la mia religione non è più desolata ma lo è la mia vita». In mezzo a tanti fallimenti (comprese le calunnie di un ex cattolico italiano, che gli costano una condanna per diffamazione), Newman deve anche guardarsi dai sospetti di entrambe le parti: così come alcuni anglicani sostengono che è sempre stato cattolico in segreto, alcuni cattolici dicono che non ha mai veramente abbandonato il protestantesimo.
Quando Leone XIII, ammiratore di Newman, succede a Pio IX, le nubi, per la prima volta, si diradano. La porpora cardinalizia, inaspettata, è il sigillo a una vita coraggiosa e piena di passione per la verità, una vita dalla quale escono alcuni tratti distintivi del cristiano: la ricerca continua, l’incapacità di accettare il quieto vivere, il desiderio di diventare ponte nonostante l’accanimento di chi vuole ergere muri, la testimonianza personale, l’indissolubilità di parola ed esempio, la disponibilità al cambiamento, perché «qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni».
Affascinato dal convertito Agostino, Benedetto XVI è da sempre affascinato anche dal convertito Newman. È la conversione continua la via del cristiano. Uno sviluppo ininterrotto, una maturazione. Lungo la quale le difficoltà sono inevitabili.
Nel 1990, per il centenario della morte di Newman, il cardinale Ratzinger tiene a Roma una conferenza e svela che la teoria della coscienza, centrale nel pensiero del grande convertito, lo affascinò fin dal 1946, cioè dall’inizio dei suoi studi di teologia nel seminario di Frisinga, subito dopo la guerra.
Quando, nella Lettera al duca di Norfolk, Newman dice che in un ipotetico brindisi lui brinderebbe prima alla coscienza e poi al papa, non invita a cadere nella soggettività. Al contrario, annota il futuro papa, Newman sostiene la «via dell’obbedienza alla verità oggettiva». È in questo senso che la coscienza viene prima ed è anche il fondamento dell’autorità del papa.
Benedetto XVI, il pontefice che ha messo l’idea di verità al centro del suo insegnamento, non poteva non appassionarsi a Newman. Anche perché, come racconta egli stesso, in quel 1946, quando incominciò a studiare teologia, lui e i suoi compagni avevano appena finito di sperimentare che cosa significa la negazione della coscienza. Hermann Goering aveva detto del suo capo: «Io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza è Adolf Hitler». Commenta Ratzinger: «L’immensa rovina dell’uomo che ne derivò ci stava davanti agli occhi».
© Copyright Europa, 10 settembre 2010


L’importanza del viaggio di B-XVI in un’Inghilterra che sta perdendo la sua identità di Francesco Agnoli - © Copyright Il Foglio, 9 settembre 2010
Benedetto XVI è un pontefice che preferisce ridurre al minimo i suoi viaggi, per poter governare meglio la barca di Pietro, senza essere costretto a delegare troppo.
Ciononostante il Papa compirà, a breve, un viaggio delicatissimo in Inghilterra. Non sarà un’esperienza facile. Da mesi e mesi i suoi nemici gli preparano una accoglienza burrascosa. Il fatto è che l’Inghilterra, per un successore di Pietro, è una terra di leoni. Dall’epoca dello scisma di Enrico VIII, infatti, il Papa è identificato col nemico del paese e i cattolici sono gli odiati “papisti”. Fu proprio Enrico a inaugurare la politica della calunnia come arma principale per difendere la sua decisione di umiliare Caterina d’Aragona.
Il popolo infatti era contrario sia al ripudio della sposa, sia allo scisma. Occorreva convincerlo, in un modo o nell’altro. Molti nobili e borghesi furono comperati dal sovrano che cedette loro, per pochi soldi, tutte le proprietà della chiesa cattolica confiscate. Ma la gente fu più difficile da persuadere. La politica adottata fu allora quella di obbligare teologi, sacerdoti, dignitari vari, a prendere posizione per il re, scrivendo libri, saggi, drammi teatrali, in cui il Papa veniva presentato come un avido monarca desideroso di impadronirsi dell’Inghilterra e come un nemico del Vangelo, tirato a destra e a sinistra perché risultasse filo-Enrico VIII.
Da allora in poi, complici le guerre con la cattolica Spagna, il Papa nemico del paese divenne un dogma della chiesa di stato anglicana. Per capire come possano essere cresciute generazioni di inglesi, basta leggere “La chiesa cattolica” di G.K.Chesterton, recentemente ripubblicato da Lindau. Per spiegare la sua conversione al cattolicesimo, il celebre giornalista mette in luce due aspetti. Il primo: la difficoltà per un inglese di vincere gli infiniti pregiudizi contro i cattolici disseminati qua e là, in sermoni, romanzi, riviste, che li portano a un vero e proprio “terrore del papismo”. La seconda: la difficoltà per un anglicano di essere nel contempo patriota e aperto a una fratellanza universale. Proprio analizzando lo strettissimo legame tra patriottismo inglese, corona e chiesa anglicana, Chesterton conclude: “In questo senso il protestantesimo è patriottismo, ma per sfortuna non è nient’altro. Parte da lì e non va mai oltre”. Il cattolico universalista considera l’amore per la patria un dovere dell’uomo, ma “non il suo unico dovere, come avveniva invece nella teoria prussiana dello stato e, troppo spesso, in quella britannica dell’impero”.

Da Newman a Marshall

Detto questo, bisogna ricordare che verso la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, la Gran Bretagna ha conosciuto moltissime conversioni alla chiesa di Roma: da Newman, a Chesterton, allo scrittore Bruce Marshall, autore dello splendido “A ogni uomo un soldo”, sino a R.H.Benson ed Evelyn Waugh… Tutti questi personaggi hanno sentito il fascino di Roma, della sua universalità, evidente nei suoi dogmi e soprattutto nella sua liturgia latina. Tutti costoro hanno amato nella chiesa cattolica la sua libertà da un particolare potere politico, insita nella sua universalità, così lontana dal pregiudizio velatamente razzista presente nella cultura britannica. Nei loro libri compaiono spesso preghiere in latino, formule antichissime della fede cattolica, che stanno al di fuori del tempo e dello spazio, unendo ogni singolo fedele con i suoi fratelli, di ogni luogo e di ogni tempo.
Poi, in seguito al Concilio Vaticano II, il flusso di conversioni in Inghilterra si è arenato, per riprendere solamente, e vigorosamente, dopo l’elezione al soglio pontificio di Benedetto XVI, il motu proprio sulla messa antica e una nuova concezione dell’ecumenismo.

Così abbiamo assistito a un fenomeno che per un cattolico è provvidenziale: moltissimi anglicani, dopo secoli e secoli, hanno chiesto di rientrare nella chiesa di Roma! Questo ritorno in massa è stato favorito senza dubbio da più elementi.

Anzitutto dal graduale dissolversi della vecchia mentalità britannica. L’Inghilterra non è più, da tempo, un impero che governa sui mari, né il paese che afferma di prendersi sulle spalle “il fardello” della civilizzazione degli altri popoli. Una religione patriottica oggi, nel mondo anglosassone, è sempre più improponibile. In secondo luogo è la società inglese che sta dissolvendosi. Uno straordinario osservatore del mondo anglosassone, Gianfranco Amato, autore di “Un anno alla finestra”, ricorda per esempio che oggi in Inghilterra il nome più diffuso tra i neonati maschi di Londra è Mohamed, mentre gli aborti sono ben 500 al giorno. Numeri che dicono della graduale sparizione di un popolo. Che avviene mentre le gerarchie anglicane non sanno opporre nulla al nichilismo imperante, ma anzi si mettono al traino.
Inevitabile che mentre l’odio contro Benedetto XVI monta, cresca anche il numero dei britannici che cercano una fede solida, vera, che non ceda al mondo. “La chiesa cattolica – scriveva Chesterton – è l’unica in grado di salvare l’uomo da una schiavitù degradante, quella di essere figlio del suo tempo”. Per questo lotta e sopravvive. Cambiati i tempi, qualcuno inizierà ad accorgersi che i vecchi dogmi di un’epoca erano fasulli e transitori, mentre il Vangelo rimane sempre “nuovo”, e attuale.
© Copyright Il Foglio, 9 settembre 2010


09/09/2010 – CINA - Chen Guangcheng, attivista cieco, libero dopo oltre 4 anni di prigione - Aveva denunciato le violenze legate alla legge sul figlio unico, con aborti forzati e sterilizzazioni nello Shandong. In prigione si è ammalato ma non ha avuto il permesso di curarsi. In questi anni, sua moglie ha subito arresti domiciliari e isolamento, telefoni controllati e internet sconnesso – da AsiaNews
Pechino (AsiaNews/Chrd) – Il noto attivista per i diritti umani, l’avvocato cieco Chen Guangcheng, è stato rilasciato oggi dalla prigione di Linyi (Shandong) dopo aver scontato una condanna di quattro anni e tre mesi. Chen era stato processato per “danno alla proprietà e raduno di folla con disturbo al trasporto pubblico”. In realtà egli aveva denunciato aborti forzati e sterilizzazioni nelle campagne di controllo per la popolazione. Aveva anche aiutato la popolazione locale a documentare le violenze della legge sul figlio unico e a perseguire gli autori. Le sue denunce avevano generato manifestazioni pubbliche.
Chen, 39 anni, è giunto a casa sua alle 6 di questa mattina, trasportato dalle autorità della prigione. Secondo i suoi amici e sostenitori egli appare provato, debole e magro. Dal 2008 in prigione ha sofferto di gastroenterite cronica, ma non gli è mai stato concesso di curarsi. Talvolta è stato anche picchiato da altri prigionieri.
Incontrando stamane amici e parenti, Chen ha dichiarato: “Non sono cambiato per nulla… Voglio ringraziare tutti gli amici che si sono preoccupati di me”.
Sua moglie Yuan Weijing è stata sempre vicina a lui. A causa di ciò anche lei ha subito controlli, arresti domiciliari e isolamento. In questi anni giornalisti o visitatori che osavano recarsi da lei sono stati bloccati e picchiati dalla polizia; il suo telefono è tenuto sotto controllo e la sua linea internet è stata tagliata negli ultimi quattro anni.


11 Settembre. L'attentato alle torri gemelle: dialogo o scontro violento? - Autore: Restelli, Silvio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: silvio.restelli@libero.it - venerdì 10 settembre 2010
Oggi, 11 Settembre, dobbiamo soffermarci sull’avvenimento che rischia di diventare periodizzante per il mondo, segnando un confronto radicale e violento tra mondo islamico radicale e Occidente. Messo da parte lo “scontro di civiltà”, la via da percorrere è quella di un dialogo sulla violenza che coinvolga le forze filosofico-religiose in campo: illuminismo e razionalismo critico, Cristianesimo e Islamismo.
E’ la strada ben argomentata da Samir Khalil Samir sj, che riprende l’intervento di Benedetto XVI a Regensburg, su Asia News, sito molto attento al dialogo autentico e senza censure con l’Islam. Ecco il suo intervento del 16/01/2007

Dialogo Chiesa-Islam: ripartire dal papa di Regensburg

Il tanto criticato discorso di Benedetto XVI a Regensburg ha lanciato in realtà un modello efficace per il dialogo islamo-cristiano: rifiuto della violenza, amore alla verità, interpretazione, missione. L’unica via per superare l’apparenza tollerante e banale del dialogo predicato da molti musulmani e da buona parte della Chiesa cattolica.

Beirut (AsiaNews) – La lezione magistrale di Benedetto XVI a Regensburg è stata vista da cristiani e musulmani come un passo falso del papa, un suo banale errore, qualcosa da dimenticare e lasciarsi alle spalle, se non vogliamo fomentare una guerra fra religioni. In realtà questo papa dal pensiero equilibrato e coraggioso, per nulla banale, a Regensburg ha tracciato le basi di un vero dialogo fra cristiani e musulmani, diventando voce di molti musulmani riformisti e suggerendo all’Islam e ai cristiani i passi da fare.

Ancora oggi in occidente e nel mondo islamico vi sono forti reazioni a quel discorso. Ma molti studiosi musulmani cominciano a domandarsi: “Passata la burrasca dei fraintendimenti, in fondo, cosa ci ha detto Benedetto XVI? Ha detto che noi musulmani corriamo il grande rischio di eliminare la ragione dalla nostra fede. In tal modo la fede islamica diviene solo un atto di sottomissione a Dio che al limite può cadere nella violenza, magari ‘in nome di Dio’, o ‘per difendere Dio’”.

Violenza, ragione e crisi dell’Islam
Proprio la citazione di Manuele II Paleologo, tanto bistrattata e odiata, era importante perché sottolineava che “Dio non ama il sangue e la violenza”, e che la violenza è contraria alla natura di Dio e dell’uomo. Purtroppo, siccome questa frase è stata pronunciata il 12 settembre, un giorno dopo l’anniversario dell’attacco alle Torri Gemelle, la gente l’ha letta in chiave politica (aiutati dalla manipolazione di al Jazeera e dei liberal occidentali ).
Adesso la stessa gente musulmana si chiede: “Tutto sommato, il papa ha detto che nell’Islam c’è il rischio di violenza. E questo non è vero? Non è la nostra storia e il nostro problema quotidiano? Non c’è il rischio di svuotare la fede separandola dalla ragione e dal pensiero critico?”. Anche se non in pubblico, diversi studiosi islamici affermano: “Questa separazione fra la fede e la ragione è più che mai il pericolo attuale dell’Islam!”.
Nel IX-XI secolo l’Islam ha integrato nella sua visione la dimensione ellenistica della filosofia greca e, attraverso questa, la dimensione critica, logica, ragionevole. Questo è stato fatto grazie ai cristiani che vivevano nel mondo musulmano. Ma da quasi mille anni l’Islam ha evacuato la ragione e ripropone di continuo un’applicazione letterale di quanto si è detto nel passato. La crisi attuale del mondo musulmano ha come base proprio il divario fra la fede e la ragione e in varie forme, sono tanti i musulmani che lo dicono.
Circa un mese fa, il ministro egiziano della Cultura, Farouk Hosni, in parlamento, ha criticato la diffusione del velo islamico in Egitto dicendo che “questo [uso del velo – ndr] non si è mai visto prima nel nostro paese. Su questa strada siamo tornati indietro di almeno 30 anni”. Un altro parlamentare è intervenuto a dargli man forte: “Non solo siamo tornati indietro di 30 anni, ma all’epoca di Mehemet Alì [cioè agli inizi del XIX secolo]”.
Purtroppo il ministro è stato accusato di andare contro la Costituzione egiziana, che prevede il Corano e la sharia come fonti della legislazione. Così, Farouk Hosni, ministro da 20 anni e noto artista, ha rischiato di essere dimesso da parte dagli integralisti. In più, avendo egli 62 anni e non essendo sposato, è stato anche attaccato e accusato di essere omosessuale.
La crisi dell’Islam è sotto gli occhi di tutti ed è sottolineata da tutti gli intellettuali. Essa è un tentativo di rifugio nel passato per paura dell’autocritica, della ragione e della modernità.
Quando il papa sottolinea di integrare la ragione nella fede – e ai laici di integrare la dimensione spirituale nel concetto di ragione – in realtà suggerisce all’Islam la strada per fare dei grandi passi avanti.

Il coraggio di parlare
Un altro elemento importante emerso a Regensburg è il coraggio di parlare: è ora di finirla di avere sempre peli sulla lingua quando si parla dell’Islam. Anche un papa ha pieno diritto di dire le cose in modo semplice e diretto ai nostri fratelli musulmani, così come agli ebrei, ai laici, e ai propri cattolici (1). Questo papa ha rivendicato la libertà di parola.
La seconda cosa: lui ha detto cose ragionevoli e spiacevoli, ma è convinto che tali cose vanno dette perché questo è il contenuto di un vero dialogo. Lo scopo del discorso di Regensburg – è detto nella conclusione – è proprio il dialogo umanistico, che non rigetta nulla di positivo nell’Islam e nell’illuminismo, ma critica ciò che di estremista e di anti-spirituale vi è nell’uno e nell’altro. In tal modo Benedetto XVI ha messo le basi di un dialogo universale facendo una proposta alle due opposte tendenze di oggi: da una parte l’Islam con un fideismo che esclude la ragione (e vale la pena precisare che ciò non significa che tutto l’Islam ha sempre rigettato la ragione, come qualcuno ha voluto fargli dire); dall’altra, ha fatto una proposta all’illuminismo laicista, razionalista che elimina come insignificante la religione.
Da Regensburg in poi egli ha pure “mostrato” questo dialogo, facendo gesti concreti. Vale la pena ricordare la preghiera del papa nella Moschea blu ad Istanbul, nel suo viaggio in Turchia. Il papa ha sottolineato nei fatti che noi cristiani riconosciamo e rispettiamo la dimensione spirituale presente nell’Islam: si è tolto le scarpe entrando nel luogo sacro (una tradizione che è biblica e che si ritrova per esempio presso i Copti e gli Etiopi); invitato a pregare, si è girato verso il mihrab, la nicchia che indica la Mecca. Egli ha pregato perchè non riduce l’Islam a politica; ha pregato senza creare ambiguità o confusione. Questi gesti hanno dato il vero significato del discorso di Regensburg per i musulmani.

Il papa, maestro di interpretazione del Corano
Ancora oggi vi sono musulmani che mi scrivono ringraziando il papa per quello che ha detto in Germania. Già subito dopo il discorso, il tunisino Abdelwahhab Meddeb ha detto grazie a Benedetto XVI, perché “finalmente qualcuno osa parlare e punta il dito sulla violenza nell’Islam”. Per Meddeb “il seme della violenza nell’Islam si trova nel Corano”, come ha intitolato un suo articolo.
Questa affermazione - di un musulmano - mette in luce il vero, grande problema del dialogo attuale: la mancanza di verità, il non accettare di confrontarci sui punti critici.
Sulla questione della violenza, tutti i musulmani sanno che i semi sono nel Libro sacro, ma tutti anche cercheranno di nasconderlo dicendo che “No, non è vero, l’Islam significa pace, salām, rispetto, non violenza”, negando i fatti (2).
Il discorso di Benedetto XVI non ha negato i fatti, ma ha proposto di comprenderli all’interno di un contesto umano. Ha cioè suggerito all’Islam di iniziare a fare l’interpretazione dei testi.
Quando il papa ha citato il versetto del Corano, “non c’è violenza in materia di fede” (Sura della vacca, 2,256) ha aggiunto una frase che ha scandalizzato molti: “ma questo è probabilmente una delle sure del periodo iniziale… in cui Maometto stesso era senza potere e minacciato”.
Questi commenti mi sembrano fondamentali: egli spinge a fare un lavoro di esegesi verso i testi sacri. Nel caso specifico, egli ha fatto un esempio di ermeneutica del Corano, proponendo la lettura di quel verso dentro l’esperienza umana di Maometto. Molti, sia musulmani che studiosi cattolici, lo hanno criticato: “E’ un ignorante - hanno detto - quel versetto non è del periodo iniziale (Mecca), ma del periodo di Medina”.
In effetti, secondo l’edizione ufficiale del Corano si tratta del periodo di Medina. Ma leggendo i commenti nelle edizioni bilingue arabo-inglese e arabo-francese del Corano, edite dall’Arabia saudita, si dice: “Questa è la prima sura rivelata a Medina”. In termini sociologici, ciò significa che è stata rivelata subito dopo l’Egira - la sua fuga dalla Mecca – quando Maometto ha lasciato la sua tribù per unirsi alle tribù avverse di Aws e Khazraj. In quel momento e per i successivi due anni (fino al 624) egli era senza alcun potere e sempre minacciato. Ha cercato infatti d’appoggiarsi agli ebrei, i più ricchi e più forti di Medina. Non essendovi riuscito, si è messo a fare delle razzie, com’era solito fare chi non riusciva a sopravvivere Se questa sura – come dicono i commentatori musulmani – è la prima di Medina, significa che essa è prima del periodo delle razzie. E’ vero dunque che è “del secondo periodo”, ma è anche vero – come dice il papa – che essa emerge in un momento in cui Maometto stesso era “senza potere e minacciato”.
Con il suo piccolo commento, Benedetto XVI sembra suggerire ai musulmani: dobbiamo leggere il testo nel contesto; e questo è fondamentale per cominciare un dialogo islamo-cristiano. Occorre rileggere i libri sacri per vedere “le circostanze della rivelazione” (asbāb al-tanzīl, come dice la tradizione musulmana). In questo il papa riprende la sana tradizione dell’interpretazione che era viva nel IX secolo. Purtroppo nell’Islam contemporaneo questa cosa non si fa più.
Invece, se si incontrano nel Corano dei versetti violenti – e ci sono – devo cercare di intenderli nel contesto in cui sono apparsi. È chiaro che Maometto ha fatto delle guerre; è anche chiaro che egli ha combattuto non per amore della violenza: seguendo la tradizione antico-testamentaria, egli ha fatto la guerra “per Dio”, “nello zelo di Dio”. Tutto questo, mettendolo nella tradizione culturale e religiosa del Medio Oriente, è naturale e non sorprende.
Ma occorre anche dire: oggi la mentalità è cambiata: Dio ha davvero bisogno di essere difeso dagli uomini? Da qui segue la necessità che il Corano venga riletto e interpretato per l’oggi. Da un secolo a questa parte tutti i riformisti musulmani ripetono che la soluzione per modernizzare l’Islam sta nell’interpretazione del Corano. Da almeno 30-40 anni ci troviamo in una fase in cui non c’è più innovazione nell’interpretazione, ma ripetizione fino alla nausea delle stesse cose e cliché. Si ripetono sempre le stesse cose imparate a memoria.
Un giovane dottore musulmano iraniano, laureato in islamistica, mi ha detto proprio in questi giorni: “Non possiamo più pensare al Corano come direttamente dettato da Dio a Maometto tramite l’angelo Gabriele. Occorre interpretarlo. Purtroppo nell’Islam attuale non c’è molta libertà: un nostro intellettuale, Abdolkarim Soroush (3) alcuni decenni fa, è stato allontanato dall’insegnamento universitario proprio per aver insegnato queste cose. Alla fine, per poter vivere ed esprimersi, ha dovuto emigrare in Europa”. Nell’Islam attuale le idee si trovano, soprattutto fra riformisti e giovani intellettuali, ma essi tacciono perché nel mondo islamico la libertà è assai limitata.
Il papa ha avuto il coraggio di identificare i punti chiave: la ragione, la violenza, l’ermeneutica…E ha messo il dito nella piaga sulla questione dell’interpretazione del Corano, senza di cui non si riesce a dialogare.
Questa spinta all’Islam verso l’interpretazione è fatta per amore stesso dell’Islam. Alcuni teologi cristiani e musulmani hanno criticato il papa per essere stato troppo duro a Regensburg e lo hanno invece applaudito in Turchia. In realtà è lo stesso papa che, per amore dell’Islam, a Regensburg non ha mancato di criticarlo, e a Istanbul non ha mancato di fraternità spirituale.

La missione cristiana tentata dal relativismo
A Regensburg Benedetto XVI ha osato parlare di violenza, mancanza di ragione, necessità dell’interpretazione nell’Islam e per questo molti intellettuali musulmani lo hanno elogiato e hanno sperato che “il papa non chieda scusa”. In occidente, le richieste di “scuse” erano innumerevoli, anche fra i cristiani. In realtà è successo che l’atteggiamento del papa a Regensburg ha sconquassato la concezione troppo irenica della missione della Chiesa e il perbenismo tollerante laico. Benedetto XVI ha fatto comprendere che dire la verità, dire delle cose che fanno male, non è un insulto, ma una strada di guarigione. Ogni tanto bisogna offrire anche una medicina amara.
Spesso fra cristiani che dialogano con l’Islam si tende a “nascondere” e a non parlare delle differenze. Questo si può ammetterlo all’inizio: se devo cominciare un rapporto con te, di certo non mi metto anzitutto a definire quanto mi divide da te. Ma il rapporto deve approfondirsi.
Uno dei frutti di questa “chiarezza” suggerita dal papa, è l’atteggiamento del vescovo di Cordoba. Il prelato, per l’ennesima volta, ha ricevuto la richiesta da parte di un gruppo di musulmani (spagnoli convertiti), di poter utilizzare la cattedrale per pregare insieme e dare una immagine “del vero ecumenismo”. Il vescovo ha risposto che lui vede in questa possibilità un’ambiguità e non lo ha permesso. Diversi giornali laici europei hanno criticato il vescovo perché “ha rigettato la proposta aperta e fraterna”, ecc…
Senza alcuna violenza sta crescendo nei cristiani un senso della propria cultura e della propria identità e della libertà reale di religione. In tal modo si comincia a superare quell’atteggiamento irenico e falsamente multietnico di una “ammucchiata” delle religioni.
Questo è urgente soprattutto in Francia, dove la paura di offendere l’Islam non permette nemmeno di stilare ogni anno delle statistiche sui convertiti dall’Islam: i vescovi e i responsabili del dialogo con i musulmani, si rifiutano di comunicare il numero di musulmani che chiedono il battesimo.
Per me, io non sono contrario al fatto che vi siano cristiani che diventano musulmani, purché sia fatto per motivi di fede e non politici o economici. Ma voglio anche che si comunichi e ci sia la libertà di sapere quanti musulmani diventano cristiani. In questa apertura schietta si crea una vera e propria emulazione spirituale.
Musulmani e cristiani hanno l’obbligo della missione. I musulmani la chiamano “da’wa” ed è un obbligo; i cristiani la chiamano evangelizzazione, e anch’essa è un obbligo. Purtroppo fra i cristiani si trovano sempre più persone che si rifiutano di annunciare e di parlare della propria fede per “rispetto” o per non cadere nel proselitismo.
I musulmani in ogni paese hanno degli uffici della da’wa. Essi sono legati ad ogni Stato islamico e nei diversi paesi costruiscono moschee, diffondono il Corano, predicatori e altro, una specie di Propaganda Fide per ogni stato islamico. La differenza è che fra i musulmani è lo Stato a sostenere la missione islamica. Nel caso dei cristiani, sono le comunità, la Chiesa a sostenere la missione.
Se una Chiesa o un vescovo non ci tengono alla missione, significa che sono addormentati o ripiegati su se stessi. Finora, nei confronti dei musulmani, ho visto chiese molto organizzate dal punto di vista caritativo: aiuto agli immigrati, ospitalità, scuola, ecc. È una generosità senza annuncio. Si dice che questo avviene per salvare il dialogo. Ma l’annuncio è necessario proprio perché il dialogo sia un dialogo nella verità.
Occorre che la Chiesa riprenda coscienza che la sua esistenza – non solo numerica – è legata all’annuncio del Vangelo anche verso i musulmani. Se non c’è questa spinta, allora significa che essa ha perso il senso della bellezza della fede incontrata in Cristo. E’ lo scivolamento nel vuoto del relativismo.

NOTE
(1) Come ha fatto – già da cardinale - al Colosseo nel Venerdì Santo 2004, parlando della “sporcizia nella Chiesa”.
(2) Va detto che nel Corano si trovano anche semi di non-violenza. E poiché si trovano l’uno e l’altro - come nella Bibbia ebraica - occorre un’ermeneutica, un’interpretazione dei testi sacri per discernerne il significato autentico per noi oggi. Ed è questa una delle idee importanti del Papa, come ho avuto occasione di sentire da lui all’incontro di Castel Gandolfo nei primi di settembre 2005.
(3) Vedi il suo sito: http://wwwdrsoroush.com/Englishhtm .


Lusso, Matteo - Voci dall'aula, I giovani oltre il nichilismo - Autore: Lusso, Matteo Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it E-mail: matteo.lusso@tin.it - ARES, 12 € - Dalla Prefazione di mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro…
«Caro Matteo, La disamina che offri sulla situazione dei giovani di oggi è profonda, aggiornata, veramente amorevole. È evidente che, nel dialogo con te, l’umanità di questi giovani è aiutata a uscire dal nascondiglio (...). Tu porti le stelle dentro la vita di questi giovani, perché fai vedere che c’è un sentiero che si apre verso le stelle o meglio, mentre annunzi e rendi loro presente le stelle, fai vedere che c’è una strada».
Dalla Prefazione di mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro

Il presente lavoro è lo sviluppo di un precedente saggio (1), una riflessione sul mondo dei ragazzi condotta attraverso la lettura dei loro componimenti scolastici. I testi utilizzati allora erano stati elaborati all’interno di due classi (una seconda ed una terza liceo) di un Istituto Superiore della Provincia di Bergamo. Decisi di intervenire il minimo possibile nella trama delle riflessioni contenute negli elaborati, per lasciare che emergesse la voce dei protagonisti, consapevole del fatto che difficilmente i ragazzi parlano davvero di loro stessi, della loro intimità: come stanno, cosa provano, cosa desiderano, cosa pensano. Dovevano essere loro a fornire elementi di conoscenza del proprio mondo agli adulti.
Noi adulti sappiamo davvero poco dei ragazzi di oggi, di come vedono se stessi e il mondo, di come giudicano i grandi e la società, delle loro paure, sofferenze, desideri, bisogni, sentimenti. Ci accorgiamo raramente di quanto sono intelligenti, autentici, maturi. Solitudine, disorientamento, delusione, paura, mancanza di prospettive, noia, percezione del non senso, aridità nelle relazioni, apatia, scetticismo, sfiducia: questo è il terreno nichilista nel quale crescono i ragazzi.
Perché allora una continuazione? Quella lettura aveva il pregio di far emergere le domande dei ragazzi, alle quali non volevo sovrapporre le mie risposte: oggi mi sento quasi in dovere di addentrarmi in questo ulteriore tentativo, poiché essi, a mio modo di vedere, sono evidentemente in attesa di proposte, anche umili, frutto di un’esperienza in divenire e del tutto personale.
Colgo un grande vuoto ed una profonda solitudine nel viso dei miei interlocutori, non frutto della loro aridità ma della nostra assenza o della nostra indifferenza.
Amore, politica, cultura, lavoro: tutto sembra essere così svuotato di dignità, intensità, profondità da rendere comprensibile quel radicale nichilismo con cui tanti ragazzi percepiscono la realtà, al limite dell’invivibilità.
Quando entro in una classe, soprattutto quelle iniziali della scuola superiore, ho sempre la percezione che gli occhi, i volti, la vitalità, la sola presenza dei ragazzi che ho davanti, siano domanda, attesa di qualcosa che essi aspettano da me, da noi, dagli adulti in generale. Oggettivamente è così: sono l’insegnante e si aspettano che io trasmetta loro qualcosa, possibilmente significativo, bello. Un ragazzo è una promessa, un bisogno rispetto al quale l’adulto ha naturalmente una responsabilità. Ebbene il testo l’ho scritto perché tante volte mi sento in debito verso di loro: sento che c’è qualcosa che è dovuto, una ragione e una proposta di vita, un’ipotesi di impegno della loro esistenza, che oggi non riusciamo più a comunicare adeguatamente. Ma in essi c’è una profonda attesa, di felicità e di pienezza: quello che Nietzsche definiva ospite inquietante - e che si annida nel loro cuore - attende l’Ospite dolce dell’anima, che bussa alla porta di ciascuno di noi.
Ho cercato l’espressione delle corde più profonde che fanno vibrare il mio cuore e alla mancanza delle quali nessun giovane dovrebbe mai abdicare: il desiderio della bellezza, dell’amore, di Dio.
Ciò che più di tutto mi preme esprimere è la percezione dell’assoluta coincidenza tra Dio e ciò che nel mondo creato attrae come bellezza: natura, persone, sentimenti, affetti… tutto della creatura coincide con il Creatore. Il male non è negato ma il mio sguardo sul mondo creato desidera e vuole essere capace di coglierlo nella sua innocenza, grazie al sacrificio redentore di Cristo.
L’assenza di Cristo, il vuoto da Lui lasciato nel cuore dei giovani, è la radice più profonda del loro smarrimento. Il cuore umano ha bisogno di Dio, lo cerca, niente può dare respiro all’animo, alla profondità della sua sete, se non l’abbraccio e la deposizione della propria inquietudine nella presenza del Padre. Cercare di rispondere al bisogno di un giovane senza arrivare a questo livello è, nella mia esperienza, un girare a vuoto, un «immoto andare» per usare un’espressione di Montale (2).
Alla libertà dignitosa ma soffocante, colma di solitudine e di aridità, che Nietzsche ha lasciato alla sua era, si oppone compiutamente una sola alternativa: l’amore, l’amore inconcepibile di quella Croce, nella quale ogni umano sentimento, sfumatura, intuizione è accolta nella sua verità. La Sua verità è inclusiva: tutto ciò che è veramente umano è Lui.
Il giovane, come ricorda San Giovanni Bosco, ha bisogno di sentire di essere amato: il nichilismo è sconfitto se la nostra esistenza è per sempre, è importante, se le esigenze del cuore contano qualcosa.
Ma quale amore può dissetare una sete d’amore che umanamente è inestinguibile? Arrivare a Cristo è arrivare alla fonte profonda, dove la domanda di Dio diventa domanda di occhi, mani, braccia, sorriso, dolore di Dio, dove il bisogno d’amore è accolto fino alla sua implicazione ultima: morire d’amore, morire d’amore su una Croce, alla cui base è deposto tutto il dolore umano. «Io ho bisogno di Cristo, e non di qualcosa che Gli somigli», affermava ancora Lewis (3): abbiamo bisogno della Sua presenza, della Sua amicizia.
E’ l’innocenza di quella vittima che ha spaccato la ferrea visione di Nietzsche: l’innocenza di quella vittima è la pace e l’approdo a quella guerra che combattiamo in noi, quel combattimento - che in fondo vorremmo perdere - contro la Sua amorosa e discreta presenza, perché la pace è riconoscerLo e amarLo, come afferma sant’Agostino: «Tu mostri in modo abbastanza evidente la grandezza che hai voluto attribuire alla creatura razionale; alla sua quiete beata non basta nulla, nulla che sia meno di te, Cristo» (4).

Segnalo la pubblicazione e la mia disponibilità a presentare e raccontare la storia del libro, un'esperienza ricca di elementi positivi e significativi nell’attuale mondo della scuola e degli adulti in generale.

Note
M. Lusso, Quello che ai genitori non diciamo, Liberedizioni, Brescia 2007.
E. Montale, Arsenio in L’opera in versi, Einaudi, Torino 1980, p. 81.
C. S. Lewis, Diario di un dolore, op. cit., p. 74.
Sant’Agostino, Confessiones, Libro XIII, 8.9.


Rom a chi? - Mario Mauro - venerdì 10 settembre 2010 – ilsussidiario.net
Il Parlamento europeo, su iniziativa del gruppo socialista, ha approvato ieri una risoluzione nella quale esprime «grande preoccupazione per le misure di espulsione prese dalle autorità francesi e di altri paesi nei confronti dei Rom e sollecita tali autorità all'immediata sospensione di tutte le espulsioni».

Il testo che è passato, volto a colpire il Governo francese di Sarkozy più che a tutelare i Rom, dimostra come la sinistra purtroppo non abbia la stessa idea che abbiamo noi della centralità della persona nella società. Ieri socialisti e liberali hanno reso noto a tutti di non avere nessuna intenzione di elaborare quella strategia europea per i Rom tanto invocata dai governi italiano e francese e dal Gruppo PPE.

Fortunatamente appena due giorni fa la Commissione europea, con l’intervento del Commissario e Vicepresidente Viviane Reding al dibattito che si è svolto presso l’aula di Strasburgo, aveva chiarito la propria posizione sulla vicenda, dicendo di essere molto attenta al pericolo di strumentalizzazioni derivanti dai dibattiti politici tra partiti nazionali. La commissaria aveva subito fugato ogni dubbio precisando che «innanzitutto gli stati membri sono incaricati di mantenere l’ordine pubblico e la sicurezza dei propri cittadini sul territorio nazionale. Questo significa che, nonostante l’importanza del diritto di libera circolazione, gli Stati membri devono prendere misure contro i cittadini comunitari che infrangono la legge. Non può esserci impunità sotto l’ombrello del principio di libera circolazione. A certe condizioni, gli stati membri possono anche rimpatriare cittadini comunitari che hanno infranto la legge, purchè questo avvenga in osservanza dei principi di proporzionalità e la salvaguardia procedurale previsti dalla direttiva europea sulla libera circolazione del 2004».
Proprio la direttiva 38 del 2004 è segno che ci troviamo di fronte a dei veri e propri professionisti della strumentalizzazione: il Parlamento europeo aveva infatti approvato a larga maggioranza quella direttiva anche grazie al loro sostegno. Quel testo prevede delle condizioni molto chiare. Per poter soggiornare in uno stato membro si deve poter dimostrare di avere un lavoro o comunque dei mezzi di sostentamento adeguati per non gravare sul sistema sociale dello stesso e che per motivi di ordine pubblico, di salute pubblica o di sicurezza, ogni stato membro può limitare la libertà di circolazione.

I colleghi socialisti e liberali, con la risoluzione approvata, intendono dipingere il comportamento del governo francese come antidemocratico. Se è vero questo e se è vero che la Commissione, come sostengono gli stessi, è debole o complice addirittura di questo comportamento, perché allora quest'ultimo è stato avallato dai Commissari provenienti dalle famiglie socialista e liberale? E perché questi Commissari non si dimettono, mettendo così Commissione e governi di fronte alle loro responsabilità? Se invece è tutta propaganda, è propaganda fatta per l'appunto per non affrontare il cuore del problema, perché il cuore del problema è che al centro di tutto c'è la persona. Persona è il cittadino di etnia rom, persone sono i nostri poveri, perché le difficoltà dell'integrazione si concentrano nei quartieri di periferia e pesano sugli strati più poveri della popolazione; tutte queste persone hanno bisogno di regole certe. Che cosa quindi sarebbe lecito aspettarsi e che cosa ha chiesto il governo francese? Semplicemente di vedere applicate le direttive dell'Unione europea che abbiamo votato e di nuove regole certe per un futuro buono della nostra gente.

Solo un intervento comunitario equo, che salvaguardi prima di tutto i diritti fondamentali della minoranza rom, ma che sia pesantemente vincolante per tutti i paesi membri, può farci uscire da questa fase di pericolosa incertezza e far cessare quella che sta diventando una vera e propria emergenza umanitaria.
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GIORNALI/ Caro Augias, ha ragione John Wayne: il senso della vita "serve" più del lavoro di Roberto Colombo - venerdì 10 settembre 2010 – ilsussidiario.net
Nella sua rubrica su La Repubblica, rispondendo ad una lettera, ieri Corrado Augias titola che “Il Vaticano è lontano dai problemi reali”. Il riferimento è al messaggio del Papa per la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù, già oggetto di incomprensioni e critiche da parte della stampa. Il commentatore se la prende con quello che chiama «il vero handicap della Chiesa di Roma», ossia «il distacco dai problemi reali» della gente (in questo caso, dell’occupazione giovanile), e, con tono da professore dinnanzi ad uno suo studente, asserisce che «questo Papa continua ad esprimersi male» (ecco il motivo per il quale non lo comprendono, lo fraintendono).

Così facendo, gli sfugge, però, la questione centrale sollevata dal lettore del quotidiano nella sua lettera. Una questione seria, che avrebbe richiesto una risposta adeguata. «Non capisco perché il desiderio di un impiego sicuro, della possibilità di formare una famiglia, di crescere dei figli, di avere una casa, debba essere messo in relazione col fatto che la cultura attuale tende a escludere Dio», scrive Francesco Ribeiro.

Una domanda, questa, che costituisce la chiave di lettura corretta del pensiero di Benedetto XVI. Evaderla significa porsi in una prospettiva di estraneità con lo spirito e la lettera del Papa, collocarsi nella posizione più favorevole per non comprendere le sue parole.

In un famoso film western, John Wayne fa dire al personaggio da lui interpretato, che non rinunciava a lottare contro le avversità della vita che si accanivano su di lui: «Bisogna pur avere una ragione per alzarsi alla mattina». Una società la cui cultura dominante esclude dall’orizzonte della vita il Mistero, ciò di cui tutto è fatto e a cui tutto tende, non favorisce la scoperta di una ragione per la quale alzarsi al mattino.

O, meglio, lascia che a decidere di ogni nuova giornata – se la affronteremo con tenacia o se ci lasceremo sopraffare dalle circostanze che ci incalzano – siano la nostra reattività, l’istintualità, la stanchezza, la noia o la paura di vivere (una tendenza, questa, particolarmente accentuata nei giovani, le cui difese immunitarie contro i “nemici” della loro vita sembrano essere sempre più deboli, quasi neutralizzate dai raggi invisibili di una sorgente radioattiva diffusa nell’ambiente). Senza una ragione adeguata non si combatte, ci si arrende senza neppure l’onore delle armi.

Il Papa sa bene di che stoffa sono fatti i “problemi reali” dei giovani: lo studio, il lavoro, la casa, la famiglia, i figli e la loro educazione non gli sono sconosciuti. Egli conosce la “fatica del vivere”, ma sa che questa fatica – che non può essere eliminata dalla vita (neppure Gesù è venuto per liberarci da essa!) – la si può affrontare con dignità e coraggio, fino a uscirne da vincitori, solo se un giovane ha la coscienza dello scopo della vita, del suo senso, e, dunque, del senso anche della battaglia che ogni giorno deve affrontare («militia est vita hominis super terram», la vita è una continua battaglia, dice la Bibbia).

Se manca lo scopo per cui combattere, i giovani (e gli adulti) rinunceranno presto alla lotta per lo studio, per il lavoro, per trovare una casa, per mettere su famiglia, per generare i figli e per educarli. E, così, sarà più facile al potere schiacciarli o emarginarli, illudendoli con vuoti discorsi politici, per poi deluderli voltato l’angolo della storia, impunemente, sapendo che essi non troveranno in loro stessi la forza per lottare contro di esso, per affermare ciò che hanno a cuore, ciò di cui è fatto e per cui è fatto il loro cuore.

«La secolarizzazione – ha affermato Benedetto XVI due anni fa –, che si presenta nelle culture come impostazione del mondo e dell'umanità senza riferimento alla Trascendenza, invade ogni aspetto della vita quotidiana e sviluppa una mentalità in cui Dio è di fatto assente, in tutto o in parte, dall'esistenza e dalla coscienza umana». E, senza Dio, non è presente lo scopo per cui vale la pena vivere. Nessuno come i giovani cerca potentemente nella propria vita la bellezza, il bene, la giustizia, la pace, l’amore, la felicità, come scopo del loro essere e del loro agire.

Il lavoro come lo studio, la famiglia, la casa e l’impegno sociale sono in funzione di questo desiderio. Questa domanda rimane accesa, viva, se non si censura la possibilità di una risposta ultima ad essa, che da sempre l’uomo chiama Dio. Il Papa non è lontano dai “problemi reali” dei giovani, è più vicino ad essi – vi è “dentro”, al cuore di essi – più di chiunque altro. Ha la lucida consapevolezza che per affrontarli occorre andare alla loro radice, che è il cuore. Una radice con non delude, non tradisce mai.

«La cultura attuale, soprattutto in Occidente, tende ad escludere Dio», dice. Ma ogni tentativo di soluzione dei problemi dei giovani non può essere costruito sulla negazione che una risposta al loro cuore esista, e che essa si sia fatta conoscere, anzi incontrare, in una forma umana, accessibile ad essi: Gesù Cristo.
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L’amore familiare vince il razzismo e l’ipocrisia - Antonio Gaspari – dal sito http://www.pontifex.roma.it
Al Fiuggi Family Festival è stato proiettato uno splendido film: The Blind Side, diretto da John Lee Hancock e interpretato, tra gli altri, da Sandra Bullock. Una di quelle pellicole che fanno ridere e che commuovono. Una storia vera che suscita speranza e ottimismo. Una bellissima vicenda che vede come protagonista una famiglia bianca, ricca e cristiana, la quale senza ipocrisia e con tantissimo amore adotta un giovane adolescente di colore. Una storia che inizia con un passaggio in auto e l’invito a passare la notte ed il pranzo del giorno del ringraziamento insieme, e che finisce con una rivoluzione sociale all’interno e fuori della famiglia. Si tratta della storia vera di Michael Oher, un ragazzo di colore nato in condizioni difficilissime e che, grazie a questa adozione, scopre di essere amato e di avere una famiglia, diventa bravo a scuola ed eccellente nel gioco del football, fino a diventare un vero e proprio campione. Eppure Oher, all’inizio della vicenda sembra senza speranza, è un ragazzo solo, obeso, triste e silenzioso. La sua vita è stata un inferno. Non ha mai conosciuto il padre, la mamma si trascina tra droga e amanti occasionali. Michael ha almeno dieci fratelli di padri diversi.

All’età di sette anni il piccolo Oher è stato strappato alla mamma e dato in adozione a diverse famiglie da cui è puntualmente fuggito. Così è cresciuto un ragazzo dal fisico gigantesco e potente, ma con il cuore a pezzi. Senza un letto, senza una casa, senza abiti, senza padre, senza nessuno che si curi di lui, in un ambito sociale degradato e disperato, con i suoi coetanei che sopravvivono a malapena tra spaccio di droga, consumo di alcool, prostituzione, uso della violenza e delle armi. La maggior parte di loro muore in giovane età.

Alla vigilia del giorno del Ringraziamento, Michael, che tutti chiamano Big Mike, gira solo e infreddolito per le strade di Memphis. Finché una famiglia bianca, ricca e cristiana, lo incontra e gli offre di andare a dormire da loro. Quest’incontro cambia la vita a Michael, ma anche e soprattutto a tutta la famiglia che lo ha accolto. Esattamente come accade in ogni azione di amore gratuito, la carità cambia la vita e il cuore a tutti quelli che ci capitano dentro.

Michael è docile, buono e molto protettivo. La famiglia lo adotta, lo aiuta negli studi, cerca di ricostruire un rapporto con la madre naturale, lo invita a crescere e a non isolarsi, per questo provano a farlo giocare a football. E così Michael cresce proporzionalmente all’amore che riceve e che ricambia. Un miracolo di umanità che libera le potenzialità del ragazzo. Michael Hoer è diventato uno dei campioni più forti di football americano.

Il film in questione è straordinario e unico del suo genere perché rivoluziona completamente i luoghi comuni e i pregiudizi ideologici che hanno caratterizzato la concezione della famiglia, soprattutto quella bianca e cristiana del sud degli Stati Uniti. Nell’immaginario collettivo, questa tipologia di famiglia è razzista e ipocrita, non a caso Memphis, la città dove è ambientato il film, è stata oggetto di inchieste sulle attività del gruppo razzista Ku Klux Khan, mentre in questo film si scopre la determinazione con cui la famiglia protagonista ama profondamente il ragazzo adottato fino al punto da rompere le relazioni con chi nutre ancora pregiudizi.

Nessun buonismo mieloso, nessuna manifestazione ideologica e ipocrita, ma tanto amore vero verso colui la cui infanzia è stata più difficile. Cominciando dalla mamma adottiva impersonata da Sandra Bullock, al bambino più piccolo che insegna a Mike a giocare a football e gli fa da manager, alla sorella più grande che lo accoglie e lo protegge, causando un certo disagio nelle sue amiche, fino al padre saggio e sincero, tutta la famiglia adottiva cambia la sua vita in funzione del nuovo arrivato.

In una scena del film, vista la felicità che illumina il volto della Bullock, una sua amica le dice: “Stai cambiando la vita a questo ragazzo”; la Bullock gli risponde: “no, è lui che sta cambiando la vita a me ed alla mia famiglia”. Ed il film racconta in maniera brillante come attraverso atti di amore, nessun obiettivo è precluso agli umani.

È altresì evidente come la famiglia è l’ambiente preposto a generare ed educare all’amore. Imperdibile la scena in cui la Bullock strapazza le montagne di muscoli dei ragazzi della squadra di football, e li sprona spiegando che sono una famiglia e che come una famiglia si devono difendere.

Per la sua intensità e bellezza, nel 2009, il film The Blind Side ha vinto: i premi Academy Award come miglior attrice per Sandra Bullock; l’Academy Award nomination come miglior film; Sandra Bullcok per questo film ha anche vinto i premi Golden Globe come miglior attrice protagonista, il Critics Choiche Award come miglior attrice e lo Screen Actors Guild Award come miglior performance femminile.

Resta inspiegabile, come ha sottolineato nell’introduzione alla visione del film, Alessandro Zaccuri, direttore artistico del Fiuggi Family Festival, il perché questo film, che pure negli Stati Uniti ha raccolto incassi notevolissimi, non sia stato distribuito nelle sale italiane...

Paradossale anche la vicenda della Bullock, che per questo film ha vinto l’Oscar, ma a marzo aveva ricevuto anche il 'Golden Raspberry Awards' meglio conosciuto come “Razzie Awards” cioè il “premio pernacchia d’oro” per il peggior film dell’anno che è stato All About Steve. Ebbene, il film peggiore, All About Steve è stato distribuito nelle sale in Italia, mentre lo splendido The Blind Side non ha avuto la stessa sorte. Di fronte a tale ingiustizia, il quotidiano Avvenire ha invitato lettori e simpatizzati a mobilitarsi affinché il film The Blind Side venga fatto conoscere anche nel nostro paese. [Fonte - L'Ottimista]
Antonio Gaspari


Lo Straniero - Il blog di Antonio Socci - Salvata Sakineh, ma lapidato il Medioevo di Antonio Socci - Da “Libero” 9 settembre 2010

C’è un diritto all’ignoranza, ma per la povera gente che non ha potuto studiare, non per i premi Nobel, né per i “maestri del pensiero” che pontificano dalle prime pagine dei giornali prendendo topiche imbarazzanti.

Non si può far la guerra al pregiudizio usando i pregiudizi (più sciocchi), non si può combattere l’oscurantismo esibendo la più crassa ignoranza.

Tanto meno per una causa nobile come la salvezza definitiva della povera Sakineh, la ragazza iraniana dallo sguardo dolce e triste, di cui ieri è stata sospesa la lapidazione.

A cosa mi riferisco? Alla prima pagina della Repubblica di ieri. Che, sotto il titolo “L’appello dei Nobel ‘Salvate Sakineh’ ” riportava, in caratteri grandi, questo testuale virgolettato: “Fermiamo l’orrore sul corpo di quella donna. La lapidazione è medievale, una punizione che non esiste nel Corano”.

Assurdità

Mi sono stropicciato gli occhi e ho riletto: “la lapidazione è medievale”. Sotto questa colossale baggianata, riprodotta fra virgolette e in caratteri grandi, la Repubblica ha riportato i nomi dei Premi Nobel Shirin Ebadi, Luc Montagnier, Rita Levi Montalcini, Harald Zur Hausen, Claude Cohen-Tannoudji e Gerhard Ertl.

Ma dall’articolo si evince che la frase è dell’avvocatessa iraniana, premio Nobel per la Pace, Shirin Ebadi che ha testualmente detto: “La lapidazione è una forma di punizione medievale che non esiste sul Corano”.

Lasciamo perdere la seconda parte della frase (“una punizione che non esiste nel Corano”), anche se sospetto che i mullah di Teheran conoscano ciò che dicono il Corano e gli altri testi normativi dell’Islam meglio di noi.

La cosa che mi ha fatto sobbalzare è quell’altra, perché è platealmente falsa: “la lapidazione è medievale”. Non so se la Ebadi intendeva parlare del “Medioevo islamico”, ne dubito perché altrimenti avrebbe dovuto dirlo.

In ogni caso, siccome la Repubblica non esce in Iran, ma in Italia, siccome ha scritto Medioevo tout-court (senza l’aggettivo islamico), siccome questa è la definizione dell’epoca cristiana data dall’Illuminismo e siccome è tipico della cultura europea post-illuminista attribuire al Medioevo cristiano ogni turpitudine, è naturale intendere il “proclama” che ieri stava sulla prima pagina di Repubblica come un anatema contro il Medioevo per antonomasia, il nostro Medioevo.

E allora qui c’è da trasecolare. Quando mai nel Medioevo si sono lapidate le presunte donne adultere? Per scrupolo professionale ho voluto consultare un medievista a 24 carati come Franco Cardini che, ovviamente, ha negato che nel Medioevo i cristiani lapidassero le donne ritenute adultere.

Anzi. La celeberrima pagina del Vangelo in cui Gesù salva l’adultera dalla lapidazione, prevista dalla legge ebraica di quel tempo, ha segnato una svolta storica. La pietà e il perdono di Dio irrompono nel mondo e lo ricreano.

Gesù liberatore delle donne

Quella pagina è una pietra miliare perché rappresenta in modo drammatico tutta la novità portata da Gesù rispetto all’antica Legge. E’ una rivoluzione che lui dovrà pagare con la vita.

Gesù mostra al mondo la struggente tenerezza di Dio verso i peccatori, rivela il “Padre misericordioso” che corre incontro al figlio scialacquatore pentito e lo riempie di abbracci e onori.

Gesù pronuncia parole durissime proprio contro quelli che si ritengono “perbene”, contro chi pretende di non essere peccatore, di non aver bisogno di perdono e di aver diritto di lapidare gli altri.

Questi “maestri della legge” vengono da lui chiamati “ipocriti” e “sepolcri imbiancati”. Gesù tuona: “Serpenti, razza di vipere! Come potrete evitare i castighi dell’inferno?” (Matteo 23, 4 e sgg). Gesù dice loro provocatoriamente: “i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno dei cieli” (Mt 21, 31).

Dopo Gesù il mondo non è più lo stesso. Finisce anche l’orrore della schiavitù femminile. Non si uccide più una donna per un suo presunto peccato. Era un orrore che accomunava tutte le civiltà antiche: nella Roma imperiale, patria del diritto, una donna poteva essere ammazzata dal marito o anche dal suocero perfino per motivi futili, come aver bevuto del vino.

Eva Cantarella, nel suo libro “Passato prossimo”, spiega che su una figlia il padre ha diritto di vita o di morte (Ponzio Aufidiano per esempio uccise la figlia innocente quando scoprì che era stata violentata).

E ovviamente il marito può uccidere la moglie in caso di adulterio di lei. Ma non viceversa. Catone diceva: “se sorprendi tua moglie mentre commette adulterio, puoi ucciderla impunemente; se lei sorprende te invece non può toccarti nemmeno con un dito”.

Era pratica sociale accettata la soppressione o l’abbandono delle figlie femmine o anche il cedere la propria moglie come Catone che dette Marzia all’amico Ortensio (anche Ottaviano si fece cedere Livia dal marito).

Con il cristianesimo inizia l’unica, vera e duratura rivoluzione per le donne. E’ con Gesù, letteralmente con la sua venuta, che la donna acquista una dignità che non aveva mai avuto e che, anche giuridicamente, è pari all’uomo. E la più alta fra le creature sarà la Madonna.

Ricordo che perfino Roberto Benigni, nelle sue letture della Commedia dantesca, commentando il XXXIII del Paradiso, che inizia con la celebre preghiera alla Vergine, diceva: “la donna ha cominciato ad avere la possibilità di dire ‘sì’ o ‘no’ da quando Dio stesso ha chiesto a Maria di Nazaret il suo libero sì o no”.

Il medioevo è la prima, grande fioritura della civiltà cristiana ed è finalmente l’epoca della storia in cui non si è più potuto lapidare la donna adultera, né considerare la donna un oggetto su cui esercitare diritto di vita o di morte.

Qualcuno obietterà: ma come, stiamo dandoci da fare per salvare una povera donna dalla barbara lapidazione e tu pianti una grana in difesa del Medioevo. Sì. Perché in definitiva la salvezza delle tante Sakineh sta solo nella novità portata dal cristianesimo. Come è stato per l’Europa.

E’ vero quindi l’esatto contrario di quanto proclamato dalla prima pagina di Repubblica. Proprio il Medioevo segna, nella storia mondiale, la fine di quell’orrore. La Ebadi avrebbe dovuto dire: purtroppo non siamo al Medioevo cristiano.

Ovviamente non è che il Medioevo sia stato pieno solo di santi: gli uomini continuavano a essere peccatori e barbari. Ma si era invertito il corso della storia che andava verso la sopraffazione e la violenza sistematica sui deboli, i vecchi, i malati, i bambini e le donne. Il Medioevo avrà avuto i suoi difetti, ma non lapidava le donne.

Umberto Eco, che è una firma autorevole di Repubblica ed è un appassionato di quell’epoca potrebbe spiegarlo in un attimo alla redazione di quel giornale. Perché è incredibile che il quotidiano più diffuso, un giornale importante come Repubblica cada in questo colossale errore.

Pregiudizi

Come può accadere? Mi dice Cardini: “perché sui media ci sono cose di cui si può parlare male impunemente: il Medioevo è una di queste. E lo si fa per parlar male del cristianesimo su cui tutti si sentono in diritto di sputare”.

C’è un meraviglioso libro della medievista francese Régine Pernoud, pubblicato da Bompiani, “Medioevo. Un secolare pregiudizio”, che demolisce proprio i tanti luoghi comuni calunniosi che dal Settecento sono stati ingiustamente diffusi sul Medioevo. Basati su falsità e ignoranza.

L’ignoranza, il preconcetto nutrito di luoghi comuni, la scarsa conoscenza della storia sono tutti ingredienti di quel, più ampio, planetario pregiudizio anticristiano, anzi “pregiudizio anticattolico”, che il sociologo Philip Jenkins, in un suo libro, ha definito “l’unico pregiudizio ammesso”.

In effetti l’epoca del “politically correct”, che ha messo al bando tutti i pregiudizi basati sull’appartenenza etnica, religiosa, sessuale o sociale, ammette solo quello contro la Chiesa cattolica.

Sulla Chiesa e sui cattolici di oggi e di ieri si possono impunemente sparare sentenze di condanna morale e culturale, immotivate e ingiuste.
Antonio Socci
Da “Libero” 9 settembre 2010


Avvenire.it, 10 settembre 2010 - Cinquantuno anni dopo - Fidel archivia il «modello Cuba». Qualcuno avverta Chavez di Giorgio Ferrari
«Il modello cubano non funziona più, nemmeno per noi». Cinquantun anni sono occorsi a Fidel Castro per ripensarci. Mezzo secolo, da Eisenhower a Obama, dal modello economico di Bretton Woods alla crisi dei mercati globalizzati, dall’inizio della Guerra fredda alla caduta dell’impero comunista, dall’era della radio a quella delle fibre ottiche, passando per il cruciale viaggio di Giovanni Paolo II nel 1998. Cinquantun anni, nel corso dei quali il pensiero del Líder maximo si rivelava impermeabile alla realtà, a meno che non fosse filtrata dal modello socialista – un irripetibile miscuglio di radicalismo proudhoniano che negava la legittimità della proprietà privata e di nazionalismo in salsa caraibica – la cui ricetta era saldamente nelle mani di Fidel, l’unico autorizzato (da se stesso) a celebrarlo nei suoi fluviali discorsi e ad esportarlo – con scarso successo, per fortuna – nel mondo.
Chissà, ci domandiamo, cosa starà pensando in questo momento l’allievo più illustre di Castro, quell’Hugo Chavez che in Fidel ha riconosciuto la guida lungimirante e preziosa nel governare con il pugno di ferro il Venezuela, con cui Cuba ha un forte interscambio commerciale e in comune un congruo numero di oppositori – l’ultimo sulla coscienza di Chavez è un agricoltore cui aveva espropriato le terre – che si lasciano morire di fame.
L’abiura di Fidel, tornato inaspettatamente sulle scene dopo quattro anni di sostanziale silenzio dovuto alla malattia e dopo aver ceduto i pieni poteri al fratello Raul, si è consumata sulle colonne del mensile americano Atlantic Monthly, in una lunga intervista in cui Castro ha per la prima volta ammesso che il modello economico socialista da lui introdotto nel 1959 «non è più appropriato per il Paese».
Sorprendente considerazione: Cuba vive un’orgogliosa povertà dall’epoca del Periodo especial, quando con il crollo dell’Unione Sovietica venne meno la regolare fornitura di materie prime, il debito estero cubano superava i 12 miliardi di dollari e senza quel miliardo di rimesse annue da parte dei cubani esuli in Florida (che quasi pareggiava l’export dell’Avana) la gente non avrebbe avuto di che sostentarsi. E i cubani si barcamenano ancora e sempre fra l’embargo americano, l’esiguo stipendio medio di 20 dollari al mese e il ben più diffuso mercato nero. Con il paradosso – tollerato dal regime – che proprio quel mercado paralelo (dove si incontrano e si scambiano merci di ogni tipo e natura, compresa, purtroppo, anche la prostituzione) non era altro che la fisiologica reazione del corpo sociale a un modello economico insostenibile. Quello introdotto e predicato da Fidel.
Il quale non si contenta di ammettere, nonostante l’imbarazzante ritardo rispetto a illustri colleghi come i dirigenti della Cina popolare, che quel modello è superato, ma si toglie altri inaspettati sassolini dagli anfibi. Ad esempio rampognando il presidente iraniano Ahmadinejad (fino a ieri stretto alleato), che invita a «smettere di diffamare gli ebrei negando la Shoah: non c’è niente che può essere paragonato all’Olocausto», ammonendo sulla pericolosità dell’arsenale nucleare di Teheran, per finire con una sorprendente autocritica sulla crisi missilistica del 1962 («Dopo aver visto quello che ho visto, non penso valesse la pena di uno scontro Usa-Urss»), e all’ammissione di aver perseguitato gli omosessuali imprigionandoli e mandandoli nei campi di lavoro. Mai udito nulla di simile dalla pur fertile bocca del leader cubano.
Ci sembra d’indovinare nell’autodafè dell’ottantaquattrenne Fidel una duplice vanità: quella di riagguantare per un istante il palcoscenico internazionale, ma più ancora forse la voluttà segreta di chiudere il suo lungo regno apponendovi egli stesso il sigillo: «Se c’è un responsabile di tutto – dice con compiaciuta immodestia il Líder maximo – quello sono io».
Giorgio Ferrari