lunedì 6 settembre 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) IL PAPA: LA STABILITÀ INTERIORE SI BASA SULLA RELAZIONE CON DIO - Presentazione del Messaggio per la GMG 2011 durante la recita dell'Angelus
2) Carpineto Romano, 5 settembre 2010: Benedetto XVI ricorda Leone XIII – nota pubblicata da Massimo Introvigne il giorno domenica 5 settembre 2010 alle ore 18.50 su facebook - «Un Papa saggio e lungimirante». Benedetto XVI celebra Leone XIII a Carpineto Romano
3) L'anno di Leone XIII. Accompagnando Benedetto XVI, rileggiamo l'enciclica "Libertas" - pubblicata da Massimo Introvigne il giorno sabato 4 settembre 2010 alle ore 21.59 – su facebook
4) DESIDERARE DIO. CHIESA E POST-MODERNITÀ - Intervento del Cardinale Scola al XXXI Meeting di Rimini
5) "Perché mi attaccano". Autobiografia di un pontificato - Da quando è stato eletto, Joseph Ratzinger è bersaglio di un crescendo di assalti, da dentro e fuori la Chiesa. C'è una "mano invisibile" che li muove? Ecco come il papa giudica e spiega - di Sandro Magister
6) Il lavoro del Papa - Graziano Tarantini - lunedì 6 settembre 2010 – ilsussidiario.net
7) MEETING/ Il comunicato finale e il prossimo titolo "E l’esistenza diventa una immensa certezza” – Redazione - sabato 28 agosto 2010 – ilsussidiario.net
8) MEETING/ Hadjadj: Ecco perché il nostro "terribile" desiderio di felicità non è vano - INT. Fabrice Hadjadj - sabato 28 agosto 2010 – ilsussidiario.net
9) Sì, è tempo di ritrovare limiti. Ma il cuore non rientri del tutto di Davide Rondoni - Avvenire, 1 settembre 2010
10) Lei ha la verità in tasca! Dal sito http://www.libertaepersona.org - Su karamazov.it è comparsa una tipica frase che a molti cattolici è capitato di sentire ogniqualvolta abbiano difeso una loro convinzone…
11) 5 settembre 2010 - Chesterton contro Gheddafi - Appunti inediti per spiegare che la religione d’Europa non può essere l’islam di Edoardo Rialti - © FOGLIO QUOTIDIANO


IL PAPA: LA STABILITÀ INTERIORE SI BASA SULLA RELAZIONE CON DIO - Presentazione del Messaggio per la GMG 2011 durante la recita dell'Angelus
CASTEL GANDOLFO, domenica, 5 settembre 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo le parole pronunciate da Benedetto XVI questa domenica a mezzogiorno affacciandosi al balcone del cortile interno del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo per recitare l'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini presenti.


* * *


Cari fratelli e sorelle!
Chiedo innanzitutto scusa per il ritardo! Sono rientrato in questo momento da Carpineto Romano, dove, 200 anni fa, nacque il Papa Leone XIII, Vincenzo Gioacchino Pecci. Ringrazio il Signore di aver potuto, in questa importante ricorrenza, celebrare l’Eucaristia tra i suoi concittadini. Ora desidero invece presentare brevemente il mio Messaggio – pubblicato nei giorni scorsi – rivolto ai giovani del mondo per la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù, che avrà luogo a Madrid tra poco meno di un anno.
Il tema che ho scelto per questo Messaggio riprende un’espressione della Lettera ai Colossesi dell’apostolo Paolo: "Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede" (2,7). E’ decisamente una proposta contro-corrente! Chi, infatti, oggi propone ai giovani di essere "radicati" e "saldi"? Piuttosto si esalta l’incertezza, la mobilità, la volubilità… tutti aspetti che riflettono una cultura indecisa riguardo ai valori di fondo, ai principi in base ai quali orientare e regolare la propria vita. In realtà, io stesso, per la mia esperienza e per i contatti che ho con i giovani, so bene che ogni generazione, anzi, ogni singola persona è chiamata a fare nuovamente il percorso di scoperta del senso della vita. Ed è proprio per questo che ho voluto riproporre un messaggio che, secondo lo stile biblico, evoca le immagini dell’albero e della casa. Il giovane, infatti, è come un albero in crescita: per svilupparsi bene ha bisogno di radici profonde, che, in caso di tempeste di vento, lo tengano ben piantato al suolo. Così anche l’immagine dell’edificio in costruzione richiama l’esigenza di valide fondamenta, perché la casa sia solida e sicura.
Ed ecco il cuore del Messaggio: esso sta nelle espressioni "in Cristo" e "nella fede". La piena maturità della persona, la sua stabilità interiore, hanno il fondamento nella relazione con Dio, relazione che passa attraverso l’incontro con Gesù Cristo. Un rapporto di profonda fiducia, di autentica amicizia con Gesù è in grado di dare ad un giovane ciò di cui ha bisogno per affrontare bene la vita: serenità e luce interiore, attitudine a pensare positivamente, larghezza d’animo verso gli altri, disponibilità a pagare di persona per il bene, la giustizia e la verità. Un ultimo aspetto, molto importante: per diventare credente, il giovane è sorretto dalla fede della Chiesa; se nessun uomo è un’isola, tanto meno lo è il cristiano, che scopre nella Chiesa la bellezza della fede condivisa e testimoniata insieme agli altri nella fraternità e nel servizio della carità.
Questo mio Messaggio ai giovani porta la data del 6 agosto, Festa della Trasfigurazione del Signore. Possa la luce del Volto di Cristo risplendere nel cuore di ogni giovane! E la Vergine Maria accompagni con la sua protezione il cammino delle comunità e dei gruppi giovanili verso il grande Incontro di Madrid 2011.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]

Saluto infine con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare il gruppo di cresimandi di Santorso di Schio. Un saluto speciale rivolgo alla comunità di Castel Gandolfo, che oggi celebra la festa del patrono san Sebastiano, e lo estendo volentieri alla delegazione venuta da Châteauneuf du Pape. A tutti auguro una buona domenica.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]


Carpineto Romano, 5 settembre 2010: Benedetto XVI ricorda Leone XIII – nota pubblicata da Massimo Introvigne il giorno domenica 5 settembre 2010 alle ore 18.50 su facebook - «Un Papa saggio e lungimirante». Benedetto XVI celebra Leone XIII a Carpineto Romano
Massimo Introvigne

Papa Leone XIII (Gioacchino Pecci, 1810-1903) è nato a Carpineto Romano (Roma) il 2 marzo 1810, duecento anni prima del 2010. Papa Benedetto XVI, sempre particolarmente attento alle ricorrenze e ai centenari, ha dunque raccomandato di celebrare nel 2010 un anno di Leone XIII, e il 5 settembre 2010 si è personalmente recato in pellegrinaggio a Carpineto Romano. Considerando il ruolo straordinariamente importante di Leone XIII nella storia della Chiesa e del pensiero cattolico, è davvero sorprendente come il rilievo dato al bicentenario – nonostante l’appello di Benedetto XVI – sia rimasto sostanzialmente modesto: un certo numero di convegni per specialisti e poco più.
La ragione principale di questo disinteresse sembra essere la riduzione del ricchissimo magistero di Leone XIII a un unico documento, l’enciclica Rerum novarum del 1891, che è certo importantissima ma che, letta al di fuori del contesto complessivo dell’insegnamento di Papa Pecci, non può che essere da un lato fraintesa, dall’altro celebrata sempre più stancamente.
Certo, spiega Benedetto XVI, il Magistero sociale di Leone XIII è stato «reso celeberrimo e intramontabile dall’Enciclica Rerum novarum» (Benedetto XVI 2010a): ma questo testo va letto tenendo conto dei «molteplici altri interventi [di Papa Pecci] che costituiscono un corpo organico, il primo nucleo della dottrina sociale della Chiesa» (ibid.). «I vecchi politici cattolici – notava il filosofo italiano Augusto Del Noce (1910-1989) nel 1977 – leggevano la Rerum novarum come se fosse isolabile dall’insieme del Corpus Leonianum; coerentemente i nuovi, portando alle conseguenze ultime il difetto di questa linea, hanno del tutto trascurato di leggerla» (Del Noce 1977, 25-26). L’oblio della Rerum novarum è avvenuto «diciamo pure con ragione, perché scissa dal suo fondamento filosofico, dal contesto delle nove encicliche essenziali, e in particolare dall’Aeterni Patris, è destinata a perdere significato» (Del Noce 2005, 77).
Il riferimento a «nove encicliche essenziali» è qui al suggerimento dello stesso Leone XIII il quale, nell’enciclica Pervenuti all’anno vigesimoquinto del 19 marzo 1902, pubblicata per il venticinquesimo anniversario della sua elezione a Pontefice, consigliava di studiare in un ordine non cronologico ma logico «le [sue] Encicliche sulla filosofia cristiana [Aeterni Patris, 1879], sulla libertà umana [Libertas, 1888], sul matrimonio cristiano [Arcanum Divinae Sapientiae, 1880], sulla setta dei Massoni [Humanum genus, 1884], sui poteri pubblici [Diuturnum, 1881], sulla costituzione cristiana degli Stati [Immortale Dei, 1885], sul socialismo [Quod apostolici muneris, 1878], sulla questione operaia [Rerum novarum, 1891], sui principali doveri dei cittadini cristiani [Sapientiae Christianae, 1890]». In un discorso di trent’anni fa Del Noce si chiedeva «perché nessuno in Italia abbia pensato all’edizione delle nove encicliche secondo quell’ordine logico che il Papa aveva fissato» (Del Noce 2005, 77). Nessuno ci ha pensato ancora oggi, e una riedizione delle encicliche in quest’ordine potrebbe essere un modo di dare retta a Benedetto XVI quando c’invita a rileggere Leone XIII prendendo occasione dal bicentenario.
Né è possibile separare la dottrina sociale della Chiesa dalla vita spirituale. Nella Caritas in veritate, dopo un’ampia rassegna della dottrina sociale, Benedetto XVI conclude che i problemi sociali rimandano sempre «anche a cause di ordine spirituale» (Benedetto XVI 2009, n. 76) e che «senza Dio l'uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia» (ibid., n. 78). A proposito di Leone XIII il Pontefice regnante ci ricorda che egli è autore di moltissime encicliche – in effetti ben ottantasei, un record fra i Pontefici romani. È giusto sottolineare e studiare il suo straordinario contributo alla dottrina sociale. Ma le encicliche sociali hanno un collegamento organico con quelle di contenuto teologico e spirituale, che non vanno affatto dimenticate.
Di Leone XIII, insegna Benedetto XVI, «anzitutto va sottolineato che egli fu uomo di grande fede e di profonda devozione. Questo rimane sempre la base di tutto, per ogni cristiano, compreso il Papa. Senza la preghiera, cioè senza l’unione interiore con Dio, non possiamo far nulla, come disse chiaramente Gesù ai suoi discepoli durante l’Ultima Cena (cfr Gv 15, 5). Le parole e gli atti di Papa Pecci lasciavano trasparire la sua intima religiosità; e questo ha trovato rispondenza anche nel suo Magistero: tra le sue numerosissime Encicliche e Lettere Apostoliche, come il filo in una collana, vi sono quelle di carattere propriamente spirituale, dedicate soprattutto all’incremento della devozione mariana, specialmente mediante il santo Rosario. Si tratta di una vera e propria “catechesi”, che scandisce dall’inizio alla fine i 25 anni del suo Pontificato. Ma troviamo anche i Documenti su Cristo Redentore, sullo Spirito Santo, sulla consacrazione al Sacro Cuore, sulla devozione a san Giuseppe, su san Francesco d’Assisi. Alla Famiglia francescana Leone XIII fu particolarmente legato, ed egli stesso appartenne al Terz’Ordine. Tutti questi diversi elementi mi piace considerarli come sfaccettature di un’unica realtà: l’amore di Dio e di Cristo, a cui nulla assolutamente va anteposto» (Benedetto XVI 2010a).
Ricordando Leone XIII a Carpineto Romano Benedetto XVI ha pure invitato – per porre il suo Magistero nel giusto contesto storico – a riflettere sulla crisi dell’Europa nell’anno in cui Papa Pecci era nato, nel 1810. «Dobbiamo ora domandarci: qual era il contesto in cui nacque, due secoli fa, colui che sarebbe diventato, 68 anni dopo, il Papa Leone XIII? L’Europa risentiva allora della grande tempesta Napoleonica, seguita alla Rivoluzione Francese. La Chiesa e numerose espressioni della cultura cristiana erano messe radicalmente in discussione (si pensi, ad esempio, al fatto di contare gli anni non più dalla nascita di Cristo, ma dall’inizio della nuova era rivoluzionaria, o di togliere i nomi dei Santi dal calendario, dalle vie, dai villaggi…). Le popolazioni delle campagne non erano certo favorevoli a questi stravolgimenti, e rimanevano legate alle tradizioni religiose» (ibid.). Il Magistero, anche sociale, di Leone XIII è inseparabile da un giudizio storico e da un’analisi della crisi che l’Europa ha dovuto affrontare dopo la Rivoluzione francese.
Alla falsa liberté della Rivoluzione francese Leone XIII contrappose, in particolare nell’enciclica Libertas, l’autentica nozione cristiana della libertà. Fra l’altro, osserva Leone XIII, storicamente alla Chiesa si deve, nel mondo antico come nel mondo moderno, la lotta contro la schiavitù fino alla sua totale abolizione. È interessante osservare che l’enciclica Libertas è del 20 giugno 1888 e che un mese prima, il 13 maggio 1888, in Brasile il governo guidato dal primo ministro João Alfredo Corrêa de Oliveira (1835-1915), fratello del nonno paterno del pensatore cattolico contro-rivoluzionario Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), aveva fatto approvare la legge che aboliva nel Paese la schiavitù, la cosiddetta Legge Aurea, voluta dalla principessa reggente Isabel de Bragança e Borbone (1846-1921) dopo un paziente lavoro della diplomazia della Santa Sede e dello stesso Leone XIII, che era intervenuto in particolare con l’enciclica In plurimis del 5 maggio 1888, indirizzata all’episcopato del Brasile.
All’epoca, l’intervento di Leone XIII sulle vicende brasiliane – come più tardi quello in Francia con il ralliement e la sofferta ricerca di un compromesso con la Repubblica laicista e anticlericale – fu giudicato da alcuni imprudente. L’abolizione della schiavitù sollecitata da Leone XIII determinò infatti una violenta reazione dei potenti proprietari di schiavi brasiliani – molti dei quali erano massoni – e costituì la causa prossima, anche se non unica, della fine della monarchia brasiliana e della sua sostituzione con una repubblica anticlericale.
Leone XIII ritenne tuttavia che la condanna della schiavitù fosse un dovere imperativo della Chiesa, al di là delle contingenze politiche. Né si fermò al Brasile: con l’enciclica Catholicae Ecclesiae, del 20 novembre 1890, esortò i missionari a combattere la schiavitù in Asia e in Africa, particolarmente nel mondo musulmano dove era sfortunatamente ancora presente: una causa che non ha perso di attualità neppure oggi. Il 5 settembre 2010, il giorno della visita di Benedetto XVI sul luogo natale di Leone XIII, l’Epistola del giorno proponeva la breve Lettera a Filemone di San Paolo, dove «l’Apostolo scrive a Filemone invitandolo ad accogliere Onesimo non più come schiavo, ma come fratello in Cristo. La nuova fraternità cristiana supera la separazione tra schiavi e liberi, e innesca nella storia un principio di promozione della persona che porterà all’abolizione della schiavitù, ma anche ad oltrepassare altre barriere che tuttora esistono. Il Papa Leone XIII dedicò proprio al tema della schiavitù l’Enciclica Catholicae Ecclesiae, del 1890. Da questa particolare esperienza di san Paolo con Onesimo, può partire un’ampia riflessione sulla spinta di promozione umana apportata dal Cristianesimo nel cammino della civiltà» (ibid.).
Un ultimo tema sottolineato da Benedetto XVI nel suo pellegrinaggio a Carpineto Romano sulle orme di Leone XIII è che il Magistero sociale di questo Papa non nasce all’improvviso. In effetti, si dovrebbero citare, in particolare quanto alla Rerum novarum, i lavori e in particolare il memorandum preparatorio all’enciclica predisposto su incarico di Papa Pecci dall’Unione di Friburgo – fondata nel 1884, due anni dopo la sua morte, per iniziativa del vescovo e futuro cardinale svizzero Gaspard Mermillod (1824-1892) –, di cui fu principale estensore il sociologo contro-rivoluzionario francese René de La Tour du Pin (1834-1924). Né si devono dimenticare tante esperienze pratiche di carità e di apostolato tra gli operai.
Leone XIII partecipò a questo lavoro culturale e a queste esperienze fin dalla sua giovinezza, guidato dagli insegnamenti sociali del suo principale maestro, il gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio (1793-1862) – anch’egli esponente della scuola contro-rivoluzionaria e fratello dello statista piemontese Massimo d’Azeglio (1798-1866) da cui era peraltro molto lontano quanto alle idee religiose e politiche – che era stato suo insegnante a Roma, e lo aveva per primo interessato a tutta una serie di questioni filosofiche e sociali.
Il futuro Leone XIII, spiega Benedetto XVI, «fu sospinto e aiutato dalle riflessioni e dalle esperienze locali ad elaborare una lettura complessiva e prospettica della nuova società e del suo bene comune. Così, quando, nel 1878, fu eletto al soglio pontificio, Leone XIII si sentì chiamato a portarla a compimento, alla luce delle sue ampie conoscenze di respiro internazionale, ma anche di tante iniziative realizzate “sul campo” da parte di comunità cristiane e uomini e donne della Chiesa. Furono infatti decine e decine di Santi e Beati, dalla fine del Settecento agli inizi del Novecento, a cercare e sperimentare, con la fantasia della carità, molteplici strade per attuare il messaggio evangelico all’interno delle nuove realtà sociali. Furono senza dubbio queste iniziative, con i sacrifici e le riflessioni di questi uomini e donne a preparare il terreno della Rerum novarum e degli altri Documenti sociali di Papa Pecci. Già dal tempo in cui era Nunzio Apostolico in Belgio, egli aveva compreso che la questione sociale si poteva affrontare positivamente ed efficacemente con il dialogo e la mediazione. In un’epoca di aspro anticlericalismo e di accese manifestazioni contro il Papa, Leone XIII seppe guidare e sostenere i cattolici sulla via di una partecipazione costruttiva, ricca di contenuti, ferma sui principi e capace di apertura» (Benedetto XVI 2010a).
E l’enciclica non rimase lettera morta. «Subito dopo la Rerum novarum si verificò in Italia e in altri Paesi un’autentica esplosione di iniziative: associazioni, casse rurali e artigiane, giornali,… un vasto “movimento” che ebbe nel servo di Dio Giuseppe Toniolo [1845-1918] l’illuminato animatore» (ibid.). Come sempre avviene, il magistero sociale di Leone XIII poteva anche essere su qualche punto frainteso. Di qui dapprima l’interpretazione autentica dello stesso Leone XIII nell’enciclica Graves de communi, del 1901, quindi l’intervento di San Pio X (1835-1914) con la lettera apostolica Notre charge apostolique del 1910, di cui pure ricorre quest’anno il centenario, con cui condanna le interpretazioni cattolico-democratiche del Magistero leoniano.
Perché leggere Leone XIII oggi? È un esercizio riservato ai soli cultori di storia della Chiesa? Non ci sono nel secolo XXI testi più attuali o compiti più urgenti? La questione va al di là di Leone XIII, e chiama in causa il corretto rapporto con il Magistero pontificio in generale e con gli insegnamenti dei Pontefici sulla dottrina sociale in particolare. I documenti pontifici, a differenza degli yogurt, non scadono. Certamente possono fare cenno a vicende contingenti. E certo nel Magistero c’è uno sviluppo, anche a fronte di circostanze storiche che mutano e su cui la Chiesa propone il suo giudizio alla luce di principi che non mutano. Ma ogni documento va letto alla luce di tutta la tradizione precedente e all’interno del patrimonio complessivo del Magistero. Questo vale appunto – come Benedetto XVI ha ricordato nell’enciclica del 2009 Caritas in veritate – sia per il Magistero in genere, sia specificamente per la dottrina sociale.
Anche i documenti di dottrina sociale, insegna Benedetto XVI, vanno sempre letti «dentro la tradizione della dottrina sociale della Chiesa» (Benedetto XVI 2009, n. 10), «patrimonio antico e nuovo, fuori del quale [ogni] documento [sarebbe] senza radici» (ibidem), una mera collezione di «dati sociologici» (ibidem).
«In questo senso, non contribuiscono a fare chiarezza certe astratte suddivisioni della dottrina sociale della Chiesa che applicano all’insegnamento sociale pontificio categorie ad esso estranee. Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo. È giusto rilevare le peculiarità dell’una o dell’altra Enciclica, dell’insegnamento dell’uno o dell’altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza dell'intero corpus dottrinale» (ibid., n. 12) della dottrina sociale.
Se dunque non esistono «due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare», che sarebbero «diverse tra loro, ma un unico insegnamento», allora il Corpus di Leone XIII – unico per ricchezza e sistematicità nella storia della dottrina sociale della Chiesa – non solo può, ma deve essere letto e studiato ancora oggi. Non come curiosità storica, ma per farne nostri e applicarne gli insegnamenti, utilizzandoli come strumento interpretativo del Magistero successivo così come le encicliche sociali dei suoi successori interpretano a loro volta il Corpus Leonianum e aiutano ad applicarlo a problemi sorti dopo la morte di Leone XIII. «Un unico insegnamento – appunto –, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo».
«Possa il Magistero sociale di Papa Leone – si augura dunque Benedetto XVI – continuare a guidare gli sforzi dei fedeli per costruire una società giusta che trovi le sue radici negli insegnamenti di Gesù Cristo» (Benedetto XVI 2010b). E a Leone XIII, al di là del giudizio – su cui è giusto che gli storici continuino a lavorare – su questa o quella scelta diplomatica, dobbiamo essere grati per un Corpus che ancora oggi ci guida e che lo mostra come «un Papa molto anziano, ma saggio e lungimirante» (Benedetto XVI 2010a), il quale «poté così introdurre nel XX secolo una Chiesa ringiovanita, con l’atteggiamento giusto per affrontare le nuove sfide. Era un Papa ancora politicamente e fisicamente “prigioniero” in Vaticano, ma in realtà, con il suo Magistero, rappresentava una Chiesa capace di affrontare senza complessi le grandi questioni della contemporaneità» (ibid.).

Riferimenti
Benedetto XVI. 2009. Enciclica Caritas in veritate, del 29-6-2009. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/moe89k.
Benedetto XVI. 2010a. Visita pastorale a Carpineto Romano. Santa Messa al Largo dei Monti Leporini. Omelia, del 5-9-2010. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/2vcv8yy.
Benedetto XVI. 2010b. Angelus del 5-9-2010, Castel Gandolfo. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/35dptwb.
Del Noce, Augusto. 1977. Il marxismo di Gramsci e la religione (CRIS Documenti, n. 35). Centro Romano di Incontri Sacerdotali (CRIS), Roma.
Del Noce, Augusto. 2005. Pensiero della Chiesa e filosofia contemporanea. Leone XIII / Paolo VI / Giovanni Paolo II. A cura di Leonardo Santorsola. Studium, Roma.


L'anno di Leone XIII. Accompagnando Benedetto XVI, rileggiamo l'enciclica "Libertas" - pubblicata da Massimo Introvigne il giorno sabato 4 settembre 2010 alle ore 21.59 – su facebook
Massimo Introvigne
Accompagnando il Papa nella sua visita del 5 settembre sui luoghi di Leone XIII (1810-1903) nel bicentenario della nascita vogliamo prendere sul serio l'invito di Benedetto XVI a celebrare un «anno di Leone XIII» rileggendone le pagine chiave del Magistero. Conviene però leggere le nove encicliche principali di Leone XIII non in ordine cronologico ma nell’ordine che lo stesso Papa Pecci ha suggerito nell’enciclica Pervenuti all’anno vigesimo quinto del 19 marzo 1902, pubblicata per il venticinquesimo anniversario della sua elezione a Pontefice. Nell’enciclica il papa ricorda nell’ordine «le [sue] Encicliche sulla filosofia cristiana [Aeterni Patris, 1879], sulla libertà umana [Libertas, 1888], sul matrimonio cristiano [Arcanum Divinae Sapientiae, 1880], sulla setta dei Massoni [Humanum genus, 1884], sui poteri pubblici [Diuturnum, 1881], sulla costituzione cristiana degli Stati [Immortale Dei, 1885], sul socialismo [Quod apostolici muneris, 1878], sulla questione operaia [Rerum novarum, 1891], sui principali doveri dei cittadini cristiani [Sapientiae Christianae, 1890]». Dopo avere riflettuto (trovate un testo tra le mie note, in data 3 settembre) sull'enciclica sulla filosofia Aeterni Patris vi propongo oggi - sempre seguendo l'ordine raccomandato dallo stesso Leone XIII - di riflettere sull'enciclica Libertas. In coda troverete delle considerazioni che vi prego di leggere sul rapporto fra quanto questa enciclica afferma della libertà di culto e la nozione di libertà religiosa del Concilio Ecumenico Vaticano II. Senza polemiche con chicchessia, l'ultimo paragrafo intende prendere sul serio un altro invito di Benedetto XVI, quello di leggere anche le «pagine difficili» del Vaticano II non cercando le contraddizioni con il Magistero precedente ma al contrario sforzandosi di trovare dietro quella che lo stesso regnante Pontefice chiama «apparente discontinuità» nelle forme, e nelle applicazioni a situazioni storicamente diverse, una sostanziale continuità nei principi, che rimangono immutabili mentre mutano le contingenze storiche e quindi il modo di esprimerli e applicarli.

Nell’enciclica Immortale Dei Leone XIII fa cenno alle «libertà moderne» e nota come la Chiesa sia accusata di essere nemica della libertà in base a una «falsa e strana idea della libertà medesima». È però nell’enciclica Libertas, del 20 giugno 1888, che il Pontefice ritiene opportuno affrontare tematicamente il problema della libertà, illustrando dapprima la nozione naturale e cristiana di libertà, quindi quella proposta dal moderno liberalismo, e dettando infine alcune regole per la condotta dei cattolici.

1. Che cos’è la libertà.
Leone XIII distingue anzitutto fra libertà naturale e libertà morale. La libertà naturale, o libero arbitrio, «è la facoltà di scegliere». Esiste solo negli esseri dotati di intelligenza e di ragione. La ragione, infatti, «scorge la contingenza di tutti i singoli beni», e perciò «escludendo la necessità di abbracciarli determinatamente lascia libera la volontà di scegliere quello che le aggrada». La capacità di giudicare della contingenza dei beni deriva all’uomo dall’avere un’anima «semplice, spirituale, intellettiva»: una verità che la Chiesa ha sempre difeso, tutelando così la nozione della libertà naturale e del libero arbitrio contro vecchie e nuove eresie, dal manicheismo al giansenismo.
La libertà morale, o libertà in senso stretto, è la facoltà di scegliere «il bene conforme a ragione». Anche in questo caso la scelta è preceduta dal giudizio, che identifica quello che è buono. La libertà morale non coincide con il libero arbitrio, che può essere usato per il bene o per il male, ma è soltanto l’uso buono del libero arbitrio: altrimenti Dio, che non può fare il male, non sarebbe libero. Del libero arbitrio è possibile anche fare un uso cattivo: la ragione propone alla volontà «beni non veri ma apparenti, e la volontà li segue». Questa però non è libertà, ma schiavitù: «chi fa il peccato, è schiavo del peccato» (Gv 8, 34). E già gli antichi insegnavano che solo il sapiente, che vive secondo virtù, è veramente libero.
La vera libertà (morale) non esclude la legge, anzi la richiede per assicurare che «gli atti volontari nostri non discordino dalla retta ragione». La necessità, perché siano buoni, che i nostri atti siano conformi a ragione è «la prima causa dell’essere necessaria la legge», che è «ordinamento della ragione». Soprattutto ci è necessaria «la legge naturale, scritta e impressa nell’animo di ciascuno, non essendo altro che la ragione stessa». La legge naturale ha forza di vera legge in quanto «è la stessa legge eterna ossia la stessa eterna ragione di Dio creatore e reggitore del mondo, inserita nelle ragionevoli creature e motrice di queste agli atti debiti e al fine».
Come non esclude la legge, così la libertà (morale) non è tolta, ma anzi aiutata dall’influsso nell’uomo della grazia divina. Il Creatore «muove tutte le cose in conformità della loro natura», per cui. la grazia «rende più facile a un tempo e più sicuro il buon uso della naturale libertà». La grazia e la natura derivano entrambe dallo stesso Dio, e la grazia conserva «le nature diverse» e opera mantenendo «a ciascuna il carattere, l’efficacia e l’operare suo proprio».
La nozione di libertà morale si applica anche alle società. Dal punto di vista oggettivo anche per le società la libertà non è fare quello che si vuole, ma perseguire il bene comune dei cittadini. Anche le società sottostanno alla legge naturale: ai «precetti di diritto naturale», che non hanno origine da convenzioni umane ma «precedono invece la stessa società, e sono dettami della legge naturale, e perciò della legge eterna».
Quanto alle leggi civili, dettate dallo Stato e formulate nei regolamenti o nei codici, Leone XIII distingue tre casi. Nel primo si tratta di leggi che traducono direttamente, seppure in forma talora limitata e imprecisa, precetti del diritto naturale. Così la norma di diritto naturale «non uccidere» si trasforma nell’articolo del codice che punisce l’omicidio, anche se da uno stesso principio del diritto naturale derivano le diversissime definizioni dell’omicidio che ci danno le leggi delle diverse nazioni. In questo primo caso si tratta dunque di leggi che vanno osservate con un particolare vincolo della coscienza.
Può trattarsi invece di leggi che sono soltanto «conseguenze del diritto naturale non già dirette e immediate, ma remote e indirette». Per esempio, la legge precisa che per compiere un certo atto amministrativo è necessario un certo tipo di carta da bollo. A ben vedere, anche questa legge deriva in ultimo da un principio di diritto naturale, quello secondo cui lo Stato ha il diritto di regolare le attività amministrative. Ma – a differenza della norma sull’omicidio – il collegamento con il diritto naturale è molto più remoto. Anche le leggi di questo secondo gruppo vanno osservate, ma il vincolo di coscienza è minore rispetto a quelle del primo.
Può darsi infine il caso di leggi che contraddicono formalmente un principio di diritto naturale. È il caso, ai tempi di Leone XIII, della legge che permette il divorzio – e oggi, per esempio, di quella che ammette l’aborto. Di queste leggi non è lecito servirsi, non devono essere osservate e a rigore non sono neppure leggi: «qualunque disposizione della pubblica potestà non conforme ai principi della retta ragione non avrebbe vigore di legge».
Dal punto di vista soggettivo Leone XIII prende quindi in considerazione la libertà dei governati e la libertà dei governanti. La libertà dei cittadini governati non consiste «nel fare quello che talenta a ciascuno», ma nel potere con «l’aiuto delle leggi civili [...] più agevolmente vivere secondo le norme della legge eterna». Per i governanti la libertà «non sta nel poter comandare senza ragione o a capriccio», ma nel dettare leggi il più possibile «effettivamente modellate sulla legge eterna». Come si vede Leone XIII, nell’affrontare la questione della libertà politica, parla di «vera» libertà con riferimento alla libertà morale, non alla semplice libertà naturale.
La Chiesa, afferma il Pontefice, ha sempre insegnato questi principi ed è stata custode e maestra di libertà. Fra l’altro, osserva Leone XIII, storicamente alla Chiesa si deve, nel mondo antico come nel mondo moderno, la lotta contro la schiavitù fino alla sua totale abolizione. È interessante osservare che l’enciclica Libertas è del 20 giugno 1888 e che un mese prima, il 13 maggio 1888, in Brasile il governo guidato dal primo ministro João Alfredo Corrêa de Oliveira (1835-1915), fratello del nonno paterno del pensatore contro-rivoluzionario Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), aveva fatto approvare la legge che aboliva nel Paese la schiavitù, la cosiddetta Legge Aurea, voluta dalla principessa reggente Isabel de Bragança e Borbone (1846-1921) dopo un paziente lavoro della diplomazia della Santa Sede e dello stesso Leone XIII.
La Chiesa, continua l’enciclica, ha sempre distinto fra libertà naturale e libertà morale; e ha sempre raccomandato l’obbedienza, ma ha distinto fra obbedienza a un’autorità legittima e obbedienza alla tirannide. Nei «governi tirannici» «dove [...] il comando si opponga alla ragione, all’eterna legge, al divino impero, allora il disobbedire agli uomini per obbedire a Dio diviene un dovere».

2. Il liberalismo
Nella seconda parte dell’enciclica Leone XIII esamina la «nuova» nozione di libertà introdotta dal liberalismo e dalla Rivoluzione francese. Le basi filosofiche di tale nozione sono il naturalismo e il razionalismo, secondo cui non esiste una legge eterna o divina, ma «ognuno è legge a se stesso». Le leggi della società non derivano la loro autorità e il loro carattere vincolante dalla conformità alla verità, ma semplicemente dalla conformità all’opinione della maggioranza, principio molto pericoloso che fa sparire la distinzione fra il bene e il male, sostituita dall’«arbitrio del maggior numero, facile via a tirannidi».
L’esperienza successiva ha dimostrato, anche in via di fatto, la verità del rilievo di Leone XIII. Se una legge è legge, e ha diritto all’obbedienza, soltanto perché è approvata dalla maggioranza dei cittadini, allora le leggi razziali della Germania nazional-socialista – promulgate in modo formalmente valido da un governo che all’origine era stato regolarmente eletto – avrebbero dovuto essere riconosciute e obbedite come vere leggi. Governi democraticamente eletti di molti Stati degli Stati Uniti hanno mantenuto e tutelato per decenni nelle loro leggi la schiavitù. Prospettando un caso più generale, se la base dell’autorità della legge è il volere della maggioranza – anche democraticamente espresso –, la maggioranza dei cittadini di una nazione potrebbe sempre decidere – e votare in modo formalmente impeccabile – che una certa minoranza dev’essere eliminata fisicamente. Solo se si accetta il principio esposto dalla dottrina sociale della Chiesa, secondo cui soltanto una legge conforme al diritto naturale è vera legge, si può concludere che una norma palesemente ingiusta e mostruosa non è una vera legge e non dev’essere obbedita.
Leone XIII dedica un cenno alle forme «moderate» di liberalismo, diffuse anche presso certi cattolici. Alcuni riconoscono la «legge della ragione», ma non le leggi che Dio ha trasmesso con la Rivelazione. Altri dicono che la legge di Dio deve regolare «la vita e i costumi dei privati, non già dello Stato». Si tratta di un argomento ancora in voga anche oggi, molti anni dopo Leone XIII, il quale ispira quei cattolici che affermano di essere personalmente contrari al divorzio o all’aborto, ma di non potere imporre agli altri di non divorziare o abortire. Questo tipo di opinioni, nota Leone XIII, trascura che fine della legge dello Stato è promuovere il bene comune, che è una realtà oggettiva, nonché favorire – per quanto possibile – la salvezza eterna dei consociati. Gli stessi argomenti trascurano pure i benefici che derivano dalla concordia e dalla collaborazione fra Stato e Chiesa.
Leone XIII esamina quindi le singole libertà che i moderni propongono come assolute: di culto, di stampa, di insegnamento e coscienza. Dal punto di vista soggettivo la libertà di culto afferma «essere libero ciascuno di professare la religione che gli piace, e anche di non professarne alcuna». Il fondamento di questa opinione, così com’è presentata al tempo di Leone XIII, rimanda al relativismo, che nega si possa raggiungere una verità oggettiva su Dio, e alla confusione fra libertà naturale e morale. Certo, di fatto esiste la libertà naturale di non credere in Dio; ma dal punto di vista morale – e salva l’ignoranza invincibile – esiste un vero dovere di credere.
Rispetto alla società la libertà di culto implica che lo Stato deve considerare «giuridicamente uguali» tutti i culti, senza collaborare o favorirne alcuno «anche se si tratti di nazioni cattoliche». Ma «una tale libertà nuoce alla libertà vera dei governi e dei popoli», perché li priva dei vantaggi della collaborazione con la Chiesa, e – nelle nazioni cattoliche – viola anche le tradizioni storiche più autentiche della nazione. Torneremo alla fine di questo capitolo sui profili attuali di questa problematica e sul rapporto fra il Magistero di Leone XIII sul punto e quello del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Anche la libertà di espressione e di stampa, prosegue l’enciclica, se considerata «senza limiti e misura», «non può essere un diritto». Le menzogne, i vizi, le disonestà non possono avere diritto alla propagazione; anzi l’indiscriminata libertà diventa «oppressione morale» dei cittadini più deboli, che «o del tutto non possono, o non possono senza estrema difficoltà» proteggersi da soli contro l’aggressività dei mezzi di informazione o sostenere le relative spese legali. Oggi casi come quelli di una pornografia dilagante anche in forme estreme o della diffusione d’informazioni che violano la privacy ripropongono il problema, qui sottolineato da Leone XIII, dei limiti della libertà di stampa.
Pure la libertà d’insegnamento non è assoluta. L’insegnante non può avere «una sconfinata licenza d’insegnare ciò che gli piace»; anche questa libertà deve avere «certi confini» e ricordare la responsabilità dell’insegnamento verso la verità. Se un insegnante volesse insegnare che Giulio Cesare (100-44 a.C.) è vissuto nel Medioevo, o che un cerchio è quadrato – gli esempi sono miei, non di Leone XIII – il sistema scolastico non potrebbe né dovrebbe permetterglielo, neppure in nome della libertà d’insegnamento, e tanto meno dovrebbe consentirgli di fare l’apologia del furto o dell’omicidio. La Chiesa, spiega l’enciclica, non ha mai avversato il progresso delle scienze e della cultura – anzi, nella sua storia ha «conservato i monumenti della sapienza antica», aperto università, promosso le arti –, ma non può cessare di proclamare i diritti della verità, come non può cessare di reclamare il suo «inviolabile diritto alla libertà di ammaestrare le genti».
Quanto alla «libertà di coscienza» occorre distinguere: se significa che ognuno è «libero di onorare Dio o di non onorarlo» si riduce alla «libertà di culto», che il Pontefice ha già esaminato. Se invece significa «che l’uomo abbia nel civile consorzio diritto di compiere tutti i suoi doveri verso Dio senza impedimento alcuno», allora è una libertà che la Chiesa reclama per tutti gli uomini, mentre è semmai il laicismo moderno – che non di rado ha perseguitato i cattolici, per esempio sopprimendo gli ordini religiosi in certi paesi – che sul punto ha qualche cosa da rimproverarsi.

3. I doveri dei cattolici
«I mali dell’età nostra», continua Leone XIII, sono «in gran parte scaturiti da quelle libertà medesime [...] nelle quali pareva si contenessero germi di salute e di gloria. Alle speranze non corrisposero i fatti. Si speravano frutti dolci e sublimi, e ne vennero amari e velenosi». Se si cerca un rimedio occorre tornare alla sana dottrina sulla libertà, precisandone peraltro i caratteri contro il pericolo di fraintendimenti.
Così, senza attribuire «diritti» al male, la dottrina sociale cristiana permette la sua tolleranza in certe circostanze, perché non si arrivi a mali maggiori e anche perché non si chiuda la via a possibili beni maggiori. Dio stesso «né vuole che il male si faccia, né costringe a non farlo, ma permette che si faccia e questo è bene», insegna San Tommaso (Summa, Ia, q.l9, a9, ad3), perché costringere gli uomini al bene significherebbe negare il maggior bene della loro libertà. Peraltro, la Chiesa non rinuncia a giudicare la maggiore o minore perfezione degli Stati, e ricorda che «quanto più di male è costretto a tollerare uno Stato, tanto più è lontano dalla perfezione».
«Per le condizioni straordinarie dei tempi» talora anche la Chiesa «tollera certe libertà moderne, non perché per se stesse le preferisca ma perché giudica sapiente. il permetterle», senza per questo professare né liberalismo né relativismo. E «non dicono male» coloro che, pur non approvando la forma di Stato nata dalla Rivoluzione francese, credono utile che in pratica la Chiesa venga a «ragionevoli condiscendenze» o stipuli trattati o concordati anche con gli Stati laici moderni, in vista di «qualche gran bene». La Chiesa talora viene a patti, senza con questo rinunciare alla dottrina. Ma quello che la Chiesa non potrà mai fare è cessare di chiamare le cose con il loro nome, o «lasciare in pace il falso e l’ingiusto».
I cattolici non possono aderire alla nozione di libertà illimitata propria del liberalismo. Dove è in uso, tuttavia, «se ne valgano a ben fare». Dove manca sufficiente libertà reclamino invece «una forma di reggimento libera», cercando peraltro di distinguersi – per quanto possibile – da chi reclama «libertà eccessiva e viziosa».
«Similmente non è vietato prediligere governi temperati di forme democratiche, salva però la dottrina cattolica circa l’origine e l’uso del potere», cioè senza aderire alla tesi della «sovranità popolare»; e la partecipazione dei cittadini all’attività pubblica è – se rettamente intesa – «ottima cosa». Così pure la Chiesa non disapprova chi desidera l’indipendenza della propria nazione «da straniera e dispotica signoria», e chi reclama «una giusta autonomia» regionale o locale, come testimonia la simpatia che in altri tempi la Chiesa mostrò per i comuni d’Italia.
I problemi pratici, conclude Leone XIII, non mancheranno di trovare soluzioni appropriate se i cattolici sapranno conformare la loro vita a un generale principio: operare sempre, anche nella vita politica, in conformità e secondo la propria fede.

4. La libertà religiosa da Leone XIII al Vaticano II
L’affermazione dell’enciclica Libertas secondo cui la libertà di culto «nuoce alla libertà vera dei governi e dei popoli» è coerente con l’insegnamento del Beato Pio IX nell’enciclica Quanta Cura e nel Sillabo. Si afferma talora che sarebbe in contrasto, invece, con la dichiarazione Dignitatis humanae, del 1965, del Concilio Ecumenico Vaticano II, la quale riconosce la libertà religiosa come diritto fondamentale della persona fondato sulla stessa natura umana. Com’è noto, la questione della libertà religiosa e dell’asserito contrasto fra la Dignitatis humanae e il Magistero del Beato Pio IX e di Leone XIII ha un ruolo fondamentale, più importante rispetto alla stessa questione della liturgia, nei contrasti fra la Santa Sede e la Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata dal già citato mons. Lefebvre.
Nel discorso del 22 dicembre 2005 alla Curia Romana, fondamentale per tutta la questione dell’interpretazione dei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II – a proposito della quale va sempre evitata una «ermeneutica della discontinuità e della rottura» rispetto al Magistero precedente –, Benedetto XVI ammette una «apparente discontinuità» in tema di libertà religiosa, ma spiega che questa discontinuità, se e dove c’è, non si riferisce ai principi ma alla loro applicazione alle forme storiche concrete, che mutano nel tempo mentre i principi non possono mutare. Infatti «i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare. Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell’incapacità dell’uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l’uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza. Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall’esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento» (ibid.).
Sbagliano dunque secondo Benedetto XVI coloro i quali – per applaudirlo, nel caso della scuola cattolico-democratica, o per rifiutarlo, come fanno alcuni cosiddetti «tradizionalisti» – pensano che il Concilio con la Dignitatis humanae abbia voluto proclamare principi opposti a quelli del Beato Pio IX e di Leone XIII. L’insegnamento di questi Pontefici secondo cui una libertà di religione considerata non come mera «necessità sociale» per la pace e il bene comune in determinati contesti politici ma «elevata a livello metafisico» è del tutto inaccettabile e merita di essere condannata non è affatto stato modificato dal Concilio, e rimane pienamente valido ancora oggi.
Come precisa la Congregazione per la Dottrina della Fede in una corrispondenza del 1987 con mons. Lefebvre, la Dignitatis humanae in diversi passaggi si riferisce non a qualunque forma di Stato teoricamente possibile ma allo Stato laico moderno. Interpretare diversamente questi passaggi sarebbe contrario ai lavori preparatori richiamati da tale corrispondenza e anche alla logica. Né la dichiarazione del Vaticano II afferma che lo Stato laico moderno sia preferibile ad altre forme di Stato del passato: «DH [Dignitatis Humanae] non implica neppure una disapprovazione della condotta seguita in passato da alcuni principi cristiani, la cui valutazione storica è complessa » (Congregazione per la Dottrina della Fede, Liberté religieuse. Réponse aux dubia présentés par S.E. Mgr. Lefebvre, 9 marzo 1987, 19).
Afferma già nei suoi passaggi iniziali la Dignitatis humanae che «poiché la libertà religiosa, che gli uomini esigono nell’adempiere il dovere di onorare Dio, riguarda l’immunità della coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina cattolica tradizionale sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica chiesa di Cristo ». Il diritto alla libertà religiosa sancito dalla Dignitatis himanae non è un diritto «positivo» ma «negativo», e si configura tecnicamente come una «immunità».
Nella Relatio de textu emendato presentata ai Padri conciliari si spiegava che «la parola diritto può essere intesa in un duplice significato. Nel primo significato per diritto s’intende la facoltà morale di compiere qualcosa, la facoltà cioè con cui qualcuno ha intrinsecamente la positiva autorizzazione […] ad agire. Nella Dichiarazione [Dignitatis Humanae] non è utilizzato in questo senso […]. Nel secondo significato si dice diritto la facoltà morale di esigere di non essere costretto ad agire, né di essere impedito a farlo. Nel qual senso diritto significa l’immunità nell’agire ed esclude la coercizione sia costringente che impediente. È dunque in questo secondo senso che si intende diritto nella Dichiarazione» ((Acta Synodalia, vol. III, pars VIII, pp. 461-462, cit. ibid.).
La Congregazione, che cita questo brano, ricorda a Mons. Lefebvre che la Commissione Conciliare competente aveva anche precisato che «da nessuna parte si afferma né è lecito affermare (si tratta si cosa evidente) che c’è un diritto di diffondere l’errore. Se poi le persone diffondono l’errore, non è l’esercizio di un diritto, ma il suo abuso» (Congregazione per la Dottrina della Fede 1987, 7). Commenta la Congregazione: «La Dignitatis Humanae non afferma affatto che la propagazione degli errori sia un bene. Quello che è bene è che esista nella società civile [più precisamente nella società civile organizzata dallo Stato laico moderno] un grado di autonomia giuridica in materia religiosa compatibile con l’ordine e la moralità pubblica» (ibid., 12).
Certamente nella Dignitatis humanae rispetto a Leone XIII c’è una differenza terminologica. Leone XIII parla di «tolleranza religiosa», il Concilio di «libertà religiosa». La scelta fra i due termini fu oggetto fra i Padri conciliari di lunghe discussioni. Nella Relatio de textu priore queste discussioni sono riassunte così: «Ci sono alcuni che dubitano della stessa formula “libertà religiosa” e pensano che in questa materia non possiamo trattare che della “tolleranza religiosa”» (cit. ibid., 18).
Alla fine si decise – non senza dubbi – per la formula «libertà religiosa» per due ragioni. Anzitutto, la dottrina giuridica non utilizzava più da anni la formula «tolleranza religiosa» come «notio formaliter iuridica», mentre la nozione di «libertà religiosa» nel diritto nazionale di diversi Paesi e in quello internazionale aveva un senso preciso e non necessariamente ideologico: «Se il destinatario del nostro discorso è la società moderna, dobbiamo farci capire usando la sua terminologia» (ibid.). In secondo luogo, cosa ancora più importante, i Padri conciliari volevano affermare con forza di fronte alle possibili pretese dello Stato laico moderno che il diritto all’immunità dalla coercizione in materia di religione «si fonda nella natura della persona umana, che tutti devono rispettare» (ibid.) a prescindere e prima delle leggi positive, e non si riduce a una semplice «tolleranza» che lo Stato laico moderno avrebbe il diritto di concedere o negare – come è appunto tipico della nozione di «tolleranza» – a suo libito.
Certamente non è questa la sede per risolvere la questione della corretta interpretazione della dichiarazione Dignitatis humanae, una delle discussioni più complesse fra le tante dove due diverse ermeneutiche – della continuità con la Tradizione e della rottura, per usare i termini di Benedetto XVI – lottano a proposito del Vaticano II. I cenni che ne abbiamo dato sono sufficienti a mostrare qual è la posizione che sul problema di una presunta differenza di principi fra la Dignitatis humanae e il Magistero del Beato Pio IX e di Leone XIII hanno assunto la Congregazione per la Dottrina della Fede e Benedetto XVI. A proposito delle scelte terminologiche del Concilio certo non si è obbligati a credere che siano sempre state le più felici o le migliori possibili. E certamente la presentazione della Dignitatis humanae, già nei giorni del Concilio e tanto più dopo il Vaticano II, è quasi sempre avvenuta all’insegna di quella che Benedetto XVI chiama «ermeneutica della discontinuità e della rottura», con pochissime eccezioni. E tuttavia, secondo il Magistero contemporaneo, da Leone XIII al Concilio non sono mutati i principi, ma le situazioni storiche cui i principi si applicano e che ne determinano le «forme concrete» (Benedetto XVI) di espressione. L’ideologia della libertà religiosa, intesa in senso positivo come diritto dell’errore con conseguente «canonizzazione del relativismo» (ibid.), condannata da Leone XIII, resta altrettanto condannata da Benedetto XVI. Una libertà religiosa intesa invece in senso negativo come immunità dall’ingerenza dello Stato laico moderno, di cui i cittadini di questo particolare tipo di Stato debbono godere nella formazione e nell’esplicitazione delle loro scelte religiose, rappresenta una «forma concreta» nuova nel Magistero della Chiesa a fronte di circostanze storiche mutate, ma Benedetto XVI ci assicura che – ove sia rettamente interpretata e presentata, il che purtroppo nella confusione postconciliare non è avvenuto quasi mai – non è in contrasto con il Magistero tradizionale, che si è espresso tra l’altro nell’enciclica Libertas.


DESIDERARE DIO. CHIESA E POST-MODERNITÀ - Intervento del Cardinale Scola al XXXI Meeting di Rimini
ROMA, sabato, 4 settembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell'intervento pronunciato dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, il 25 agosto al XXXI Meeting di Rimini.
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“DESIDERARE DIO. CHIESA E POST-MODERNITA’”
1. Desiderio di Dio e realtà
Molti di voi avranno visto Matrix, il celebre film dei due fratelli polacchi Wachowski. Il cinema è la lingua franca della nostra società. È un mezzo formidabile per indagare la verità sul mondo. Spalanca la nostra esperienza in modo assai spesso più efficace di tanti discorsi e di tanti libri.
Ad ogni modo, in Matrix viene descritto il nostro mondo di tutti i giorni, ma si fa l’ipotesi che sia solo un paravento per nascondere la realtà vera. Quale sarebbe? L’umanità sopravvissuta dopo un disastroso evento cosmico, per continuare ad esistere ha avuto bisogno di speciali macchine. E queste hanno finito per prendere il sopravvento. E chi le controlla ha preso il potere. L’umanità quindi vive nell’illusione. Gli uomini non sono più liberi. Nessuno è a conoscenza del tempo che è passato da quando il potente neurosimulatore matrix ha assegnato una data fittizia allo scorrere della storia. Solo Neo, con l’aiuto del pirata informatico Morfeo e della bella Trinity, può tentare di scoprire la verità e far ritrovare agli uomini la libertà. In cosa consiste la verità? Lo dice con chiarezza Morfeo accogliendo Neo sulla sua bislacca nave in lotta per la libertà: “Benvenuto nel mondo reale”. Riflettiamo un istante su questa affermazione in cui sono presenti due elementi fondamentali.
Il primo è identificato dall’espressione mondo reale, cioè le cose come veramente sono. Quelle che i miei sensi percepiscono – questo bicchiere, il microfono, il cielo, il mare – e quelle di cui mi offrono qualche indizio perché la mia intelligenza possa riconoscerli: lo sguardo di chi ho di fronte, il sorriso dei figli, il volto dell’amata, il gusto del lavoro, la sofferenza per il male fisico, il dolore per quello morale, la paura della morte, l’angoscia annoiata del vivere senza senso… Il mondo reale appunto!
Ma l’affermazione di Morfeo contiene anche un altro decisivo fattore, concentrato nella parola composta: “Benvenuto”. È bene che tu Neo sia entrato nel mondo reale: è bene per te, ed è bene per noi! Non è forse questo il senso dei primi sorrisi di una madre al suo bambino? Sorrisi che questi impara subito a ricambiare. Cosa significano se non “è bello che tu sia venuto al mondo (reale), è bene per te, è bene per tutti”? Nessuno sfugge a questa esperienza.
Al mondo reale io mi rapporto sempre e inevitabilmente secondo quella dinamica, tipicamente umana, che possiamo identificare col termine desiderio. Non si comprende la parola desiderio, tanto meno se si parla di desiderio di Dio, se non la si concepisce come il tendere di tutto il mio io all’incontro, inevitabile ed insuperabile, con il mondo reale. Infatti, secondo la definizione semplice ma completa del vocabolario, desiderio è il “volgersi con affetto a qualcosa che non si possiede e che piace”. Vedete che, come in una calamita, sono sempre presenti due poli. La dinamica del desiderio implica sempre e inseparabilmente la cosa che non si possiede e che piace e il volgersi ad essa con affetto. Sottolineo “con affetto”, vale a dire con la mente, col cuore, con la totalità del nostro io.
E Dio che c’entra?
Ve lo dico con una citazione formidabile, tra le più potenti di tutta la storia del pensiero, che si trova in un grande libro, ancora oggi, dopo 1600 anni, il più ristampato (se si toglie la Bibbia). «Tu ci hai creati per te ed il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» [1]. Agostino usa la parola cuore per esprimere il desiderio nella sua ampiezza totale costituita dai due poli prima identificati: l’io che anela all’infinito nell’incontro con la realtà totale. Viene subito in mente la suggestiva etimologia della parola desiderio di don Giussani: de-sidera, dalle stelle.
Il termine cuore è decisivo in tutta la Sacra Scrittura e perciò in tutta la tradizione giudaica e cristiana. In particolare noi occidentali non riusciamo a prescindere dall’impiegare il termine cuore secondo tutta l’intensità che lo connota. Qual è? “Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore”. Per dire il carattere necessario, imprescindibile del cuore don Giussani scomoda una parola dura, oggi assai discussa, ma insuperabile: natura. Potremmo dire che la natura piena del desiderio è rivelata in ognuno di noi dal cuore. Il cuore quindi è ciò che ci permette di volgerci con affetto a ciò che non si possiede. Soprattutto alle cose grandi!
E cosa c’è di più grande di Dio?[2] Quella realtà di cui non si può pensare niente di più grande? A tal punto che non si trova pace (inquietum cor) fin che non si riposa in Lui. Desiderare Dio è la grande aspirazione dell’uomo: «Il tuo volto, Signore io cerco, non nascondermi il tuo volto» (Sal 26, 8-9).
Come ha affermato uno dei più grandi filosofi viventi, il tedesco Robert Spaemann: anche se in tutti i tempi qualcuno o molti pensano, teoricamente o praticamente, che Dio sia morto, perché allora la diceria di Dio è immortale?[3] Perché non si riesce a metterla a tacere? Perché la natura del cuore, cioè il desiderio profondo di ogni uomo e di ogni donna, si porta dentro, come un quotidiano, ineliminabile rumore di fondo, questa presenza? La risposta si impone in qualche modo da sé: senza questa presenza alla fine nessuno potrebbe dirti: “Benvenuto nel mondo reale”!
Infatti, ogni uomo identifica con questo vocabolo il termine ultimo del proprio desiderio: ciò per cui vale la pena fino in fondo vivere, anche solo cinque minuti, ciò per cui la vita nel mondo reale è un bene e non un male.
2. Come riconoscere Dio che ci parla?
Fino a quindici anni fa circa si parlava dell’eclissi di Dio, giungendo anche ad affermare che la sfera religiosa sarebbe del tutto sparita dalla società. Oggi, se si eccettuano taluni tentativi di elaborare un “nuovo ateismo[4] , giudicati dai critici come più stravaganti che oggettivamente pertinenti, siamo di fronte ad una grossa sorpresa: Dio è tornato. Anzi, osserva il sociologo Casanova, «le religioni di tutto il mondo», quelle tradizionali piuttosto che i «nuovi movimenti religiosi», «stanno facendo il loro ingresso nella sfera pubblica» e partecipano alle lotte per la ridefinizione dei confini tra sfera pubblica e privata, tra sistema e mondo vitale, tra legalità e moralità, ecc .[5]
Quella che era la questione centrale della fine dell’epoca moderna, il binomio eclissi/ritorno di Dio assume, nella post-modernità, un’altra, forse più adeguata, formulazione (utilizziamo la parola post-modernità nel suo significato più semplice, per indicare il nuovo mondo che si sta spalancando davanti a noi dopo la caduta dei muri (1989), un mondo che presenta una forte discontinuità con il precedente, cioè con la modernità). Oggi la domanda cruciale non è più: “Esiste Dio?”, ma piuttosto: “Come aver notizia di Dio?” E quindi: “Come Dio si comunica a noi così che si possa narrare Dio, e comunicarlo in quanto Dio vivo all’uomo reale che vive nel mondo reale? Come nominare questo Dio perché l’uomo post-moderno -cioè ciascuno di noi – lo percepisca significativo e quindi conveniente?”[6] .
Nell’ottica occidentale, influenzata radicalmente dal giudaismo e dal cristianesimo, Dio è Colui che viene nel mondo. Se viene nel mondo è distinto da esso, ma questo non esclude la possibilità che gli uomini lo colgano come familiare. Allora per parlare di Dio all’uomo post-moderno, «si deve azzardare l’ipotesi che sia Dio stesso che viene nel mondo ad abilitare l’uomo a divenirgli familiare»[7] . È necessario domandarsi prima se c’è una familiarità tra Dio e l’uomo ed interrogarsi su di essa perché Dio possa essere veramente conosciuto. Un problema di sempre, è divenuto particolarmente acuto nella post-modernità che non è interessata ai discorsi sui massimi sistemi, sulle mondovisioni, ma è sempre più presa dai problemi del vivere quotidiano. Per l’uomo di oggi la questione non è tanto se esiste Dio, ma se esiste cosa ha a che fare con me ogni giorno. Mi è familiare?
Ebbene la convinzione che Dio si è fatto conoscere e si è reso familiare perché si è compromesso con la storia degli uomini è nel DNA della mentalità occidentale [8].
Se le cose stanno così – e al di là di tutte le apparenze che sembrano contraddire questa affermazione, stanno veramente così – allora cerchiamo di scoprire come la presenza di Dio ci diventa quotidianamente familiare, giungendo a colmare, in modo del tutto gratuito, il desiderio in senso pieno, sciogliendo l’inquietudine di cui parlava Agostino, rinnovando per me, per te e per tutti gli uomini, in ogni circostanza ed in ogni rapporto, l’invitante saluto: “Benvenuto nel mondo reale”. In questo modo la parola desiderio acquista tutto il suo spessore, che non si lascia ridurre, come quasi sempre noi rischiamo di fare, ad una pura aspirazione soggettiva, ma vive nella sua pienezza bipolare, come il tendere con tutte le nostre forze al reale, il cui orizzonte ultimo è l’infinito e propriamente parlando Dio stesso.
3. La familiarità di Dio all’uomo
La possibilità di aver notizia di Dio e di narrare di Lui sta nell’ascolto di quanto Egli ha voluto liberamente comunicarci. E conviene dire subito che la comunicazione gratuita e piena del Dio Invisibile ha un nome proprio, è una persona vivente: Gesù Cristo, l’Interprete di Dio. Il Vangelo di Giovanni lo dice fin dall’inizio a chiare lettere: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1, 18).
In Gesù, morto e risorto, Dio ci viene incontro in quanto Dio. Hans Urs von Balthasar ricorda che «Dio ha reso breve la sua Parola (Verbo, Figlio, l’ha abbreviata» (Is 10,23;Rom 9,28). Il Figlio stesso che è «il Logos eterno si è fatto piccolo… Si è fatto bambino, affinché diventi per noi afferrabile»[9] . In caso contrario sarebbe stato impossibile andare al di là della conoscenza, anche questa confusa e non senza errori, della Sua esistenza.
Per dire Dio occorre, quindi, approfondire la lingua (in senso forte) della creatura che il Verbo incarnato ha voluto liberamente assumere. È necessario comprenderne, per così dire, la grammatica. Quella grammatica che è capace di narrarci il Divino.
Così, non solo il cristiano sarà in grado di confessarlo come il suo Signore e Dio, ma ogni uomo, anche colui che si dice non credente, lo potrà riconoscere. Almeno nei termini indicati da Paolo nella Lettera ai Romani , quando, parlando di Abramo, dice: «Come sta scritto: “Ti ho costituito padre di molti popoli”; (è nostro padre) davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4, 17). Con questa stupenda espressione Dio è descritto, nello stesso tempo, come creatore ed operatore di salvezza. E l’Apostolo sa bene Chi è il Dio di cui vuol parlare. Dio è «colui che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono». Infatti, nel primo capitolo della stessa Lettera ai Romani[10], l’apostolo aveva ammonito che non ha alcuna scusa chi non riconosce «ciò che di Dio si può conoscere… perché Dio stesso lo ha manifestato. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo per le opere da Lui compiute» (Rm 1, 19-20). Ciò che di Dio si può conoscere, dice Paolo. Cioè: di Dio non si può conoscere tutto, ma quel che di Dio si può conoscere lo possono conoscere tutti.
La notitia Dei, cioè accogliere ed ascoltare Dio che è tra noi e comunicarLo, continua ad essere possibile ed è del tutto pertinente anche alla condizione dell’uomo post-moderno[11]. Si tratta per questo di imparare la grammatica della lingua con cui Dio ci parla, cioè di considerare quali siano i luoghi essenziali dell’umano in cui continuamente si attua il Suo rapporto con noi. Quei luoghi che Egli ha assunto per dirsi all’uomo. Sono quelli attraverso i quali ogni uomo, se ne renda conto o meno, cerca di soddisfare la natura profonda del proprio cuore, di colmare il suo autentico desiderio. Ci limitiamo ad indicarne tre che ci sembrano fondamentali.
Riflettiamo sul desiderio non in astratto riducendolo alle nostre aspirazioni soggettive, ma lo esaminiamo nel suo concreto attuarsi nella nostra realtà quotidiana.
a) L’esperienza umana nella sua semplicità
Memento è un film del 2000 diretto da Christopher Nolan. In esso Leonard Shelby, tentando di salvare la moglie da due malviventi, rimane gravemente ferito alla testa. Tale trauma gli causa l’impossibilità di accumulare nuovi ricordi. Tutti i contenuti recenti ed immediati della sua memoria svaniscono dalla sua mente pochi minuti dopo averli accumulati. Si ricorda solo quel che gli è successo prima dell’incidente. Sa da dove viene e come affrontare la vita di ogni giorno: come mangiare, come guidare, come scrivere, ma non appena si mette al volante non sa più perché è salito in auto, quando entra in un ristorante non si ricorda perché ci è andato, se incontra una persona conosciuta da poco non riesce più a ricordare di averla già incontrata. Siccome dal momento dell’incidente, che resta anche l’ultimo ricordo fissato nella sua memoria, l’unico scopo nella sua vita è trovare e punire l’uomo che ha violentato e ucciso sua moglie, determinato e consapevole del suo problema, Leonard prende ossessivamente appunti, fino a farsene tatuaggi, e fotografa con la Polaroid tutto quello che gli può essere utile perché ormai sa che lo dimenticherà dopo pochi minuti.
Questo film mi sembra descrivere efficacemente un tratto rilevante dello stile di vita di noi uomini post-moderni. Uno stile di vita spesso confuso nel suo desiderio di soddisfare la conoscenza del mondo reale che ha il suo vertice nel desiderio di Dio. Come il Leonard di Memento noi viviamo frammentati nella miriade di informazioni, conoscenze e saperi a tal punto che quando affrontiamo un aspetto della nostra vita è come se di tutti gli altri non avessimo più memoria, quasi non esistessero. Facciamo riferimento a logiche (esperienze) autonome fra loro praticamente non comunicanti, perché non integrate in un sistema di valori onnicomprensivo. Ci comportiamo come se non avessimo un’ipotesi esistenziale che ci renda capaci di interpretare unitariamente il reale. Siamo ossessivamente attaccati ad ogni particolare, fino a tatuarcelo sul cuore. E per questo ci appoggiamo all’enorme potenza di memoria quantitativa nei nuovi media, ma a ben vedere questa non è la vera memoria, quella dell’uomo che li usa. Siamo dominati di volta in volta da una “logica etica” (in genere collocata nel piano di una coscienza che non ammette tribunali), da una “logica economica” (il più delle volte totalmente sganciata da quella del bene umano), una “logica tecnica” (in cui la sofisticazione e la complessità sono beni in sé indipendentemente dalla loro utilità), una “logica artistica” (ars gratia artis), una “logica politica” (del potere per il potere) e così via. Non possiamo ovviamente negare che, in Occidente, l’espansione di queste logiche particolari ha favorito un’enorme efficienza di tutti i processi di sviluppo. Ma ciò che è tipico della variante “post-moderna” mi pare il fatto che sia venuto a mancare qualsiasi quadro di riferimento onnicomprensivo, almeno ampiamente condiviso, nel quale le diverse logiche possano trovare contrappesi e reciproche compensazioni. Vale di fatto il contraddittorio principio: “tutto differente, tutto uguale”. Forse è soprattutto in questo senso che la “fine delle grandi narrazioni”[12] produce un effetto diretto e immediato nei modi di vita delle persone.
Eppure anche questa pratica di vita, che diventa poi teoria, deve fare i conti con il riaffiorare nel reale dell’inaffondabile grammatica dell’umano, attraverso la quale il Dio che si è coinvolto con la storia continua instancabile a darci notizia della sua presenza tra noi.
Non a caso alla fine del film Leonard Shelby giunge ad affermare: “Devo credere in un mondo fuori dalla mia mente, devo convincermi che le mie azioni hanno ancora un senso, anche se non riesco a ricordarle. Devo convincermi che, anche se chiudo gli occhi, il mondo continua ad esserci… Sì. Tutti abbiamo bisogno di ricordi che ci rammentino chi siamo, io non sono diverso…”.
Sì, anche tenendo conto di tutte le obiezioni possibili, derivanti dalla complessità di vita propria dell’uomo post-moderno, si deve concludere con Karol Wojtyła: «Eppure esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza comune dell’uomo»[13] , di ciascun uomo. Essa ne attesta anzitutto l’integralità e l’elementarità, cioè la sua indistruttibile semplicità. Infatti, «questa esperienza nella sua sostanziale semplicità supera qualunque incommensurabilità e qualunque complessità»[14] .
Troviamo qui una significativa convergenza con la dottrina cattolica sull’uomo secondo la quale l’umana natura, pur ferita dal peccato originale, non si è mai corrotta fino a perdere i suoi tratti essenziali, né mai si potrà corrompere completamente. Dio, dopo il peccato originale, non ha “scaricato” né il mondo, né gli uomini. Al contrario, come insegna la Bibbia, ravvisando nell’arcobaleno il segno di un’alleanza imperitura di Dio nei confronti degli uomini e di tutti i viventi dopo il diluvio, ai tempi di Noè (cfr.Gn 9, 9-17), la condizione creaturale non è stata e non sarà mai distrutta per iniziativa divina, a castigo per i nostri peccati.
Perciò ad uno sguardo limpido e leale sarà sempre possibile riconoscere ed indagare i tratti tipici dell’esperienza umana che nella sua originaria semplicità costituisce la prima comunicazione di Dio ed apre la possibilità di narrare Dio al “fratello uomo”, perché tale esperienza universale identifica la nostra condizione creaturale così come Dio l’ha voluta e conservata pur nel suo indebolimento per il peccato. La permanenza di questa condizione creaturale è, di per se stessa, “testimonianza” che Dio rende a Sé stesso e, quindi, via sicura per riconoscere che Egli è nel mondo reale. Egli è il Dio con noi.
Qual è il contenuto sostanziale di questa esperienza? In cosa consiste questo primo elemento della grammatica propria della lingua con cui Dio e l’uomo si parlano?
Innanzitutto nella stessa ragione (uso qui il termine in senso generale), con la sua capacità (trascendentale) di ospitare il reale che pertanto si rivela come intelligibile[15] : L’uomo, con la sua ragione, è capace di attingere il vero che sempre fa tutt’uno con il bene ed il bello. Ma va subito aggiunto che la ragione comprende il reale restando in connessione inscindibile con la volontà. È questa, a ben vedere, la natura del cuore. In esso si uniscono conoscenza e affettività. Mediante questa struttura comune a tutti uomini il mondo reale si offre come fonte di stupore e di meraviglia e rinvia oltre le “cose” che appaiono (differenza ontologica) aprendo la strada al riconoscimento che Dio ci parla. Si intravvede in tal modo quanto sia letteralmente vero che Dio costituisce l’implicazione ultima di ogni esperienza umana.
Questa è, dunque, l’esperienza umana integrale ed elementare colta nella sua radicalità che permette ad ogni uomo di ricominciare ogni mattina, affrontando circostanze e rapporti in modo costruttivo. Il memento, cioè la memoria, non è l’ossessivo prodotto della nuova forma di scrittura, che consiste nella pretesa di trattenere tutto attraverso l’ingigantirsi dell’archivio dei files dei computers, vivendo nel contempo, come Leonard, frantumati e dimentichi, di volta in volta, dell’uno o dell’altro aspetto essenziale della nostra esistenza. La memoria è quel legame tra passato e futuro reso possibile da un io che, spalancandosi completamente. sempre può incontrare il mondo reale se ascolta fino in fondo il suo cuore.
Questa esperienza comune ad ogni uomo – questo primo e fondamentale luogo della comunicazione e della narrazione di Dio – possiede due implicazioni di radicale importanza.
In primo luogo la coscienza che Dio non è “altrove” rispetto alla realtà, ma è “dentro” la realtà. E questo nel senso preciso che la costituisce qui ed ora, la crea facendola partecipare del Suo stesso essere: «Il mondo è stato fatto per mezzo di Lui» (Gv1,10). Un Dio fuori dalla realtà sarebbe un puro prodotto della nostra immaginazione. Sarebbe un nome vuoto, come spesso affermano gli uomini di oggi quando, interrogati, non negano l’esistenza di Dio. Sarebbe un Quid incomunicabile, non suscettibile di essere conosciuto da tutti gli uomini.
In secondo luogo, se Dio è “dentro” la realtà, se Egli costituisce l’implicazione ultima di ogni esperienza umana, allora nessun uomo è lontano da Dio, né, lo voglia o meno, può minimamente allontanarsi da Lui. Ovviamente non perché la bestemmia non resti sempre una tragica opzione, bensì perché la negazione di Dio implicherà sempre la censura o il rifiuto della propria esperienza umana integrale ed elementare.
Su questa base di esperienza umana comune, nel descrivere l’intervento gratuito della rivelazione in Cristo, San Giovanni può dire con verità «venne fra i suoi» (Gv 1, 11).
b) Io-in-relazione
La grammatica della lingua in cui comunicano il Verbo incarnato e la creatura ha però altre articolazioni essenziali. Farò ora brevemente riferimento ad un dato che con facilità ognuno di noi si trova in qualche modo addosso, perché fa parte dell’esperienza comune ad ogni uomo. Se ben riflette egli scopre di essere uno – per questo si può dire io -, ma sempre e solo nella dualità di anima-corpo, di uomo-donna e di persona-comunità. L’unità dell’uomo è quindi segnata da un’insopprimibile tensione drammatica – come la tensione tra i due poli di una calamita – che mette sempre in gioco la libertà del singolo in ogni suo atto. Ebbene anche attraverso questo dato antropologico essenziale Dio narra Se stesso.
Ed è per questo che nella manifestazione della corrispondenza, per grazia, tra l’esperienza umana nella sua semplicità originaria e l’avvenimento dell’auto-comunicazione salvifica del Dio Trinità in Gesù Cristo si illumina il percorso di ogni uomo.
Per ovvii motivi di tempo ho scelto di soffermarmi solo sull’ultima delle tre polarità costitutive, quella di persona-comunità, proprio perché la nostra epoca è contraddistinta da un individualismo psicologico e sociale di vasta portata. Esso rende fragili i rapporti umani, specialmente la trasmissione del significato della vita tra le generazioni. Questo non è più vissuto come un ovvio patrimonio dell’umanità.
Nel post-moderno l’individualismo prende forme inedite e più radicali. È inteso anzitutto in senso neutro, non sarebbe né buono né cattivo, è meccanica ed ossessiva attenzione al valore singolare della persona. Anche in questo caso si tratta di un processo iniziato nell’età moderna, che però ha avuto il suo culmine nell’età contemporanea grazie all’estesa possibilità di controllo delle nascite che ha prodotto quello che un celebre sociologo francese ha chiamato l’arretramento della morte[16]. Il fatto che in Occidente l’età della morte si sia elevata di molto in breve tempo ha prodotto come effetto clamoroso, tra gli altri, il dato che il figlio sia diventato, nei fatti e nell’immaginario collettivo, fondamentalmente un individuo prodotto di una riduttiva aspirazione soggettiva (desiderio in senso restrittivo). La grave conseguenza di questo fatto è la seguente: ha gradualmente riformulato la percezione che le persone hanno di se stesse: non si sentono più anzitutto chiamate a far parte della catena delle generazioni, ma anzitutto a realizzare la propria autonomia; non si considerano più anzitutto responsabilmente inserite in un tessuto di compiti e doveri, ma piuttosto in una trama di voglie e aspirazioni (desideri puramente soggettivi), che considerano indiscutibili quanto si pretende indiscutibile il desiderio riduttivo che ha portato alla loro esistenza[17].
Le conseguenze combinate di tutto ciò sono particolarmente rilevanti soprattutto sul piano educativo. Da una parte, un insieme di logiche sconnesse rende impossibile la trasmissione di punti di riferimento coerenti (da accettare, discutere, migliorare, eventualmente respingere). Dall’altra, la frammentazione dei legami generazionali e tradizionali finisce per svuotare, riducendola a caricatura, la conquista moderna del concetto di “diritti dell’uomo”, mette in questione la stessa liceità delle dinamiche educative, almeno nella misura inevitabile in cui esse sono di natura limitativa e costrittiva. Come efficacemente sintetizza Yonnet, ogni atto educativo viene sempre ipotecato dal sottinteso rimprovero: «Se io sono solo un prodotto dei vostri desideri(desiderio in senso riduttivo), perché io non dovrei fare ciò che a mia volta desidero, ciò di cui ho voglia?»[18].
Se nel post-moderno il vuoto lasciato dal crollo dagli assoluti mondani scopre e rende più evidente il vuoto dell’individualismo, sarà soprattutto su questo terreno che prenderà forma l’invocazione del ritorno di Dio: esso non potrà fiorire a partire da programmi culturali astratti, tanto meno sulla base di automatismi sociali, ma solo grazie alla paziente ricostruzione di relazioni buone (da quelle più intime e spontanee a quelle più istituzionalizzate e indirette) nelle quali imparare a vivere e a compiere il bene attraverso pratiche virtuose. Per educare non è sufficiente proclamare i valori ma è necessario far fare l’esperienza dei valori[19].
E questo – ecco che emerge di nuovo la testimonianza che Dio rende di Se stesso nell’esperienza dell’uomo – è possibile anche nel mondo frammentato ed esasperatamente individualista di oggi. Ancora una volta possiamo far ricorso ad un bel film per averne un’idea. Mi riferisco al divertente capolavoro Fratello, dove sei? Nei titoli viene spiegato che l’ispirazione è l’Odissea. Tre galeotti evadono alla ricerca di un grosso bottino nascosto e danno così vita ad una grande avventura on the road. Ulisse-Everett, Delmar e Pete incontrano un vecchio cieco che prevede che la loro ricerca, che non avrà come esito il milione di dollari sperato, finirà quando vedranno una mucca su un tetto. Sulla strada, simbolo del cammino della vita, scoprono i diversi tratti dell’umano, incarnati, di volta in volta, da un gruppo di fedeli che vengono battezzati in un fiume; da un nero che ha venduto l’anima al diavolo per suonare la chitarra; poi incidono una canzone su un disco rudimentale. Partecipano a una rapina con un pazzo gangster Faccia d’angelo, si fanno derubare da un venditore di bibbie. Sconvolgono una manifestazione del Ku Klux Klan. Cedono alla seduzione di tre sirene canterine. Sono coinvolti nella campagna elettorale del solito politicante disonesto in una variegata rassegna di volti e di situazioni.
Alla fine, però Ulisse ritrova l’ex moglie, Penelope (con le sei figlie), sul punto di sposarsi con un altro… Vengono ripresi dalle guardie che li hanno sempre inseguiti, stanno per essere impiccati, ma si salvano perché la valle viene sommersa dal fiume, per via di una centrale elettrica che tutto trasformerà. Ed ecco apparire la famosa mucca sul tetto. Nel frattempo erano all’oscuro dell’enorme successo del loro disco:I’m A Man of Constant Sorrow. Sì, in qualche modo va tutto a posto. E così il chiacchierone Ulisse-Clooney ha efficacemente spiegato all’America della depressione, la stupidità, il desiderio, la speranza. Si concretizzano nell’esperienza comune: una bella famiglia con qualche amico sincero, con la libertà carica di dignità e di rispetto, al di là della fragilità. Lo sbilenco Ulisse dei fratelli Coen cerca risposte. E le risposte le dà solo qualcuno, un volto presente che interloquisce con te. Qui, al di là delle mille contraddizioni, si vede bene che l’unità duale tra anima-corpo, uomo-donna e persona-società è un elemento insopprimibile della grammatica dell’umano. E che il vero nome del nostro io è io-in-relazione.
Voglio osservare che almeno un frammento di questa semplice esperienza umana resiste in ogni situazione. E a partire da esso si può sempre ritrovarla nella sua integralità e semplicità. Questo suggerisce il film Fratello dove sei? Non si potrà mai abbandonare questo linguaggio perché è quello che Dio, venuto nel mondo per essere la via alla verità e alla vita, continua ad indicarci come la lingua attraverso la quale il Creatore ci parla. Ma ogni desiderio che tesse la trama quotidiana dell’umana esperienza – il desiderio di avere la vita salva, di amare e di essere amato, di edificare la città – rinvia “più in là”, oltre il suo contenuto particolare, perché ogni circostanza ed ogni rapporto costituiscono per l’uomo che vive il reale un richiamo, sono un passo che riaccende il cor inquietum, lo tende a Dio. Del resto Omero non dice nell’Odissea: “Tutti gli uomini hanno bisogno degli dei”? Questa è la ragione per cui la Chiesa considera i desideri autentici dell’uomo validi alleati per l’annuncio di Gesù Cristo che non a caso ha promesso felicità e piena libertà (cfr. Mt 19,21; Gv 8,36b). Genialmente Gómez Dávila, forse il più grande autore di aforismi, ha scritto: «Non è la sensualità che allontana da Dio, ma l’astrazione»[20].
c) Domanda di salvezza e di redenzione
In terzo luogo è opportuno affrontare la questione da sempre collegata alla domanda su Dio e la Sua presenza nel mondo. Si tratta, della domanda circa la fragilità umana e soprattutto circa il male, in particolare circa il peccato, il male compiuto da me. Esso, con il suo seguito di sofferenza, di dolore e di morte ha l’inconfondibile marchio della divisione fino alla scomposizione. Il male separa e distrugge, rompe, come ha mostrato la storia del XX° secolo con le sue tragiche utopie che hanno infittito il buio dell’eclissi di Dio fino al suo grado più tenebroso[21].
Ma il dato da cui troppo spesso si prescinde è che l’esperienza umana della fragilità, della sofferenza e del male è sempre attraversata – e non può non esserlo – dalla domanda di salvezza e di redenzione. Non importa la modalità con cui questa redenzione venga immaginata o descritta. Taluni, con erronea ingenuità, continuano a concepirla come frutto delle proprie forze, come autosoteria in senso prometeico. Altri, ascoltando le sirene di certe vulgate dell’estremo Oriente, la identificano con la “fuga dalla realtà”. Né mancano coloro che tentano di convincerci che “si vive e basta”, che in verità il problema della salvezza e della redenzione non esiste. Eppure, il loro desiderio si ripropone sempre.
Forse la domanda di salvezza e di redenzione è il luogo dove si identifica in modo più evidente il suo essere frutto di un dono, la sua gratuità. Per questo, risulta decisivo riconoscere la possibilità del perdono e della misericordia, unica sorgente dell’unità della persona e dell’unità tra le persone.
Il luogo per eccellenza della manifestazione della salvezza e della redenzione è il gesto di Gesù Cristo che sulla Croce offre Se stesso al Padre, nell’unità dello Spirito Santo, per riconciliare il mondo con Dio. La nuova Alleanza, nel sangue di Gesù, riconferma l’Alleanza di Dio con i patriarchi, con Mosè, e la porta a definitivo compimento. Dall’interno di questo infinito gesto di misericordia, di cui il Nuovo Testamento è la documentazione e l’annuncio, parlano. Precisi sono i segni che li rendono presenti: dal Crocifisso fino all’azione del memoriale eucaristico (e degli altri sacramenti) e ai gesti di testimonianza vissuta nei diversi ambiti dell’umana esistenza. Nel perdono efficace dei peccati degli uomini si può ritrovare l’unità perduta a cui tutti, in vario modo anelano, come vediamo nelle multiformi espressioni culturali ed artistiche di ogni civiltà. Guardare Cristo, guardare il Crocifisso glorioso è l’invito conveniente da riproporre a noi stessi e ad ogni nostro fratello uomo.
Anche chi non vive la fede in Cristo si porta dentro questo desiderio indistruttibile di salvezza e di redenzione. Anch’esso è parte della grammatica della lingua in cui Dio e l’uomo comunicano. L’esperienza della misericordia piena, il Crocifisso glorioso, costituisce, per così dire, il vertice dell’esperienza che ogni uomo può fare. Infatti, proprio in forza dell’essere perdonato l’uomo non si vede costretto all’autogiustificazione attraverso la negazione del male compiuto: il male è tale e nulla può giustificarlo. Eppure, il peccato, la cui potenza distruttiva non sfugge a nessuno, non è più l’ultima parola sull’uomo se lo si riconosce e se ne domanda il perdono. L’uomo non è ultimamente definito dall’evidenzadisperante del suo male, ma dal suo desiderio di salvezza,
Questo implica la sconfitta di ogni tentazione utopica e totalitaria. Innanzitutto perché ci aiuta a comprendere che non si dà il male assoluto: ogni giudizio definitivo viene lasciato all’unico Giudice della storia, il Crocifisso Risorto. E poi perché permette di cogliere che la redenzione è sempre un dono, mai l’esito della presunzione da parte dell’uomo di costruire sistemi così perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono[22].
4. La via della testimonianza
Il percorso compiuto ha voluto delineare le condizioni per il re-incontro tra la domanda religiosa post-moderna e Dio, che alla fine è il Dio di Gesù Cristo. Di tali condizioni sono decisivi tanto i contenuti, quanto il metodo.
Di contenuti, purtroppo sinteticamente presentati, ne abbiamo individuati tre:
1. l’uomo (ragione-libertà) è capace di conoscere e accogliere la verità perché il reale è intelligibile e noi possiamo ospitarlo. In ogni atto umano possiamo costatare e toccare con mano il desiderio del bene, del vero, dell’uno e del bello, desiderio che muove la libertà. Questa nella sua semplicità è l’esperienza umana integrale ed elementare comune a tutti gli uomini;
2. la natura del soggetto è relazionale: l’io-in-relazione è il soggetto umano in senso pieno; perché l’io nella sua insopprimibile unità è sempre unito di due: anima-corpo, uomo-donna, persona-comunità.
3. l’unità dell’io, fragile per natura e minata alla radice dall’esperienza del male, grida il bisogno di salvezza e di redenzione, a cui risponde pienamente il perdono che, per misericordia, ricostituisce l’unità dell’io con Dio, con se stesso e con gli altri.
Queste tre condizioni dell’umana esistenza ci aiutano a guardare la Persona del Verbo incarnato come Persona salvifica e redentrice. Egli ci conduce al Padre, Padre Suo e Padre nostro, affinché il nostro cuore di creature passi progressivamente dall’inquietudine al riposo compiuto del cielo che già si anticipa quaggiù. Questa è la ragione della venuta di Dio nel mondo. Perciò essa giustifica l’interesse per la persona storica di Gesù Cristo agli occhi dell’uomo contemporaneo. Seguendolo si impara quella ginnastica del desiderio (Agostino) che conduce a Dio. Perché? Perché in Gesù Cristo il desiderio integrale dell’uomo, cioè il suo cuore, incontra piena soddisfazione. Emerge così l’interesse per l’uomo nuovo – senza il quale l’interesse per Cristo resta nominale – e, nello stesso tempo, si evidenzia l’interesse per Cristo, senza il quale l’interesse per l’uomo resta ultimamente vuoto. La questione dell’interesse per, che riprende il tema della con-venientia di Tommaso, è sempre più pedagogicamente attuale ma, a mio giudizio, è sempre meno proposta, per cui si rischia di non vederne né la preziosità, né l’impegno che richiede alla fede.
Nel nostro percorso abbiamo però anche seguito un metodo su cui ora intendo dire un’ultima parola. Domandiamoci qual è il metodo inaugurato dal Dio che si è reso a noi familiare e ci parla lasciandosi dire nella lingua umana? Si chiama Gesù Cristo, testimone degno di fede (cfr. Ap 1, 5), Colui che ci ha amati per primo e ci ama in ogni istante come se fosse l’ultimo.
Se Cristo è venuto per rendere testimonianza alla verità, all’uomo tocca dar testimonianza a Lui e di Lui, Verità vivente e personale, di fronte alla sempre risorgente pretesa di «incanalare Cristo, quest’acqua selvaggia nelle turbine dell’umanità a vantaggio di quest’ultima»[23]. Invece la «ferita inferta alla storia del mondo con l’apparire di Cristo continua a suppurare»[24]. Continua a tener desto per il nostro bene l’Inquietum cor.
Per questo l’in-contro con il fratello uomo non potrà mai evitare il contro, vale a dire l’urto di una originalità irriducibile ad ogni tentativo di addomesticare la presenza reale di Dio nella famiglia umana e nella sua storia. Della compagnia di Dio nessuno dovrà avere timore. Soprattutto se i cristiani, resistendo alla tentazione dell’egemonia ed attingendo al metodo testimoniale di Gesù, sapranno fare della loro differenza specifica la via di una proposta umile e tenace. Incontreranno in tal modo l’insopprimibile desiderio di Dio che si manifesta, magari in modo confuso e contraddittorio, nel linguaggio antropologico di cui abbiamo portato tre esempi e che ogni creatura non può, in ogni circostanza ed in ogni rapporto, non continuare a parlare. Il desiderio di Dio, infatti, è come la fenice. Rinasce sempre dalle proprie ceneri.
Lo rivelano le parole finali con cui la protagonista del film Il Concerto (di Radu Mihailenau, 2009) confessa la propria sofferta, ma indomabile ricerca del volto dei suoi genitori naturali che le era sempre stato tenuto nascosto. Il racconto coinvolge profondamente, come solo la passione per il destino umano sa fare, in una prospettiva di rinascita e redenzione che soltanto l’apertura all’infinito (qui potentemente evocata dalla bellezza della musica) riesce ad esaltare. Anne Marie Jacquet, divenuta ormai una violinista di fama mondiale, afferma: “Cerco lo sguardo dei miei genitori da quando ero bambina, per strada, ovunque. Quando suono vorrei sentirmi addosso il loro sguardo, per un istante, solo un istante”. Perché ho fatto ricorso a questa citazione? Per dire che il desiderio di Dio, che non è pura aspirazione soggettiva a un Dio astrattamente inteso, ma si esprime sempre in concreto nei suoi due poli – incontro tra tutto l’io con tutto il reale a cui tende -, attraverso il linguaggio dell’esperienza comune, dell’io-in-relazione e del bisogno di salvezza e redenzione, è sempre riscontrabile, almeno in suo frammento, in ogni persona. Nessuno può parlare altra lingua che questa. E questa è l’elementare forma del desiderio Dio nel quotidiano. Abita da sempre e per sempre il cuore dell’uomo. Nel caso della protagonista delConcerto si esprime nell’insopprimibile, dolorosa ricerca della figliolanza-paternità. Il dono della fede in Gesù Cristo conferma il desiderio naturale di Dio, nel momento stesso in cui, per pura grazia, trova la via maestra al suo compimento.
Questa fede ci viene donata nella Chiesa. Volutamente il nostro titolo parla di Chiesa e post-modernità, e non di “cristianesimo”. Vuole richiamare ad una dimensione più concreta e storica.
La Chiesa viva è sempre santa al di là dei peccati, talora terribili, del suo personale, come lo chiamava Maritain. La Chiesa come soggetto cristiano personale e comunitario. Quella che, per dirla con Guardini, avviene nelle anime (persone). Ed è santa perché nasce permanentemente dal dono della redenzione: santa perché redenta. Questo soggetto può proporre – senza pretese egemoniche, lo ripeto -, anche in una società plurale e complessa come la nostra, l’avvenimento di Cristo in tutte le sue implicazioni – necessarie e contingenti, certe ed opinabili – antropologiche, sociali e cosmologiche. Cristo è dentro, è il Dio incarnato nel nostro quotidiano. E, a partire da queste implicazioni – ne abbiamo descritte tre di natura antropologica – ogni uomo può, in grazia e libertà, giungere fino al riconoscimento esplicito di Gesù Cristo, viaalla verità e alla vita (Agostino).
Questo però domanda testimoni. La grammatica del narrare Dio può essere solo testimoniale. Chiede qui ed ora un cambiamento radicale di mentalità nella pratica e nella concezione della vita, secondo la geniale intuizione di Massimo il Confessore: «Io penso che abbia l’intelletto di Cristo chi pensa secondo Lui e pensa Lui attraverso tutte le cose»[25] . Amare Dio, ma in ogni cosa e sopra ogni cosa: questo è il punto. Perché tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio (1Cor 3, 22).
Diventa allora necessario liberare la categoria di testimonianza dalla pesante ipoteca moralista che la opprime riducendola, per lo più, alla coerenza di un soggetto ultimamente autoreferenziale. La testimonianza brilla, invece, in tutta la sua integrità, come metodo, cioè pratica di conoscenza e di comunicazione della verità. Così intesa essa rappresenta il terreno base da cui fiorisce ogni altra forma di conoscenza e di comunicazione: scientifica, filosofica, teologica, artistica, ecc [26].
In concreto per il cristiano la testimonianza consiste nell’obiettiva sequela di Gesù, carica del coraggio di riconoscerLo di fronte al mondo, come fece Lui stesso chiamato a giudizio da Pilato. Così fecero il vecchio Simeone, Giovanni il Battista, gli Apostoli e, soprattutto, come fece Sua Madre custodendo «ogni cosa nel suo cuore» (cfr. Lc 2, 51) e accogliendoLo, pietà elargita a tutto il genere umano, cadavere tra le sue braccia per poi salutarLo risorto.
Solo la testimonianza degna di fede com-muove la libertà dell’altro e lo invita efficacemente alla decisione. Si diventa testimoni – ha ricordato efficacemente Benedetto XVI – quando «attraverso le nostre azioni, parole e modo di essere, un Altro appare e si comunica»; nella testimonianza «la verità dell’amore di Dio raggiunge l’uomo nella storia, invitandolo ad accogliere liberamente questa novità radicale»; in essa «Dio si espone, per così dire, al rischio della libertà dell’uomo»[27].
La Chiesa, in modo diretto o indiretto, diventa condizione indispensabile per desiderare Dio, perché Essa è il luogo umano, il popolo che rende possibile la testimonianza come esperienza quotidiana. «Vieni e vedi». Che cosa? L’uomo nuovo: l’io-in-relazione, non un io ridotto al puro esperimento di se stesso. Come lo imparo? Anzitutto attraverso l’Eucaristia e la liturgia, luogo primario dell’amore familiare di Dio, esperienza di un sàpere, gusto, che diventa sapere. Luogo in cui è permanentemente generato il popolo nuovo, il popolo del Signore in cui ognuno è chiamato a dire non son più io che vivo (gratuità), perché ormai ho gli stessi sentimenti di Cristo (il pensiero di Cristo).
La Chiesa che ogni mattina, con il semplice segno di croce, mi ripete il saluto carico di speranza: “Benvenuto nel mondo reale!”. Questa Chiesa che ci permette la più esaltante delle esperienze umane: desiderare Dio. Questa esperienza non si può fare in solitaria come un’avventura estrema sull’impervia parete rocciosa della vita o solcando l’oceano periglioso dell’esistenza. Né si può farla in pienezza vivendo comunità che restano di fatto riferite solo a se stesse. Questa esperienza si fa solo e sempre in solidale compagnia con il “nostro fratello uomo” (Karl Barth) che, nei mille modi dell’esistenza, viene al nostro incontro. Qui si vede chi è il testimone. Colui che, condividendo di persona anche l’ultimo frammento del desiderio che permane sempre in ogni uomo, ridesta nel suo cuore la nostalgia del desiderio di Dio, cioè del compimento della propria felicità. Questa nostalgia ha un nome semplice e luminoso. Si chiama santità.
NOTE:
[1] Agostino, «Fecisti nos ad te Domine et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te », Confessioni I, 1.
[2] Anselmo, Id quod maius cogitari nequit.
[3] Cfr. R. Spaemann,La diceria immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità, Cantagalli, Siena 2008.
[4] R. Dawkins, C. Hitchens, D. Dennet: vedi la lucida critica a questi autori di J. F. Haught,Dio ed il nuovo ateismo, Brescia, Queriniana 2009.
[5] Sono le tesi dell’opera di J. Casanova,Public Religions in the Modern World, The University of Chicago Press, Chicago-London 1994; tr. it. Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla riconquista della sfera pubblica, Il Mulino, Bologna 2000.
[6] P. Sequeri,Una svolta affettiva per la metafisica, in P. Sequeri-S. Ubbiali (ed),Nominare Dio invano? Orizzonti per la teologia filosofica, Glossa, Milano 2009, 85-116; B. Schellenberger, Von Unsagbaren reden: wie lässt sich heute Gott zu Sprache bringen?, Geist und Leben 79 (2006) 81-88; A. Kreiner, Das wahre Antlitz Gottes – Oder was wir meinen, wenn wir Gott sagen, Herder Freiburg – Basel Wien, 2006.
[7] E. Jüngel, Verità metaforica, in P. Ricoeur-E. Jüngel, Dire Dio. Per un’ermeneutica del linguaggio religioso (a cura di G. Grampa), Queriniana, Brescia 1978, 169.
[8] Ibid.
[9] Benedetto XVI,Omelia Natale 2006.
[10] Significative le riflessioni filosofiche di R. Guardini a commento diRm 1,19-21 nel saggio L’occhio e la conoscenza religiosa, in Scritti filosofici, II, Milano 1964, 141-153, in particolare p. 152s: «Le radici dell’occhio sono nel cuore; nella intimissima presa di posizione verso le altre persone come verso la totalità dell’esistenza: una decisione che passa attraverso il centro personale dell’uomo. In ultimo l’occhio vede dal cuore… La creaturalità può essere veduta nelle cose del mondo. Dal modo come esse esistono si rende chiara l’operazione creatrice».
[11] Cfr. P. Sequeri – S. Ubbiali (ed.),Nominare Dio invano?…
[12] È una formula utilizzata da J.F. Lyotard, uno dei padri, se così possiamo dire, del post-moderno, per sostenere che l’odierna impossibilità di un quadro di riferimento omnicomprensivo comune.
[13] K. Wojtyla,Persona e atto, a cura di G. Reale-T. Styczeń, Rusconi, Santarcangelo di Romagna 1999, 35.
[14] K. Wojtyla,Persona e atto…, 45. Cfr. A. Scola, L’esperienza elementare. La vena profonda del magistero di Giovanni Paolo II, Marietti 1820, Genova-Milano 2003.
[15] Le scienze e in specie le matematiche, contrariamente a quanto qualcuno afferma – P. Odifreddi, G. Giorello – lo confermano.
[16] È una trasformazione che è stata studiata benissimo da P. Yonnet nel suoLe recul de la mort (Gallimard, Paris 2006) che, a mio parere, avrebbe meritato maggiore attenzione nella cultura cattolica.
[17] Tutto ciò ha certamente stretti legami con la cosiddetta “rivoluzione sessuale”; tuttavia, mi paiono verosimili le osservazioni di chi ha rilevato (J.-C. Guillebaud,La tyrannie du plaisir, Seuil, Paris 1998) che, dati alla mano, essa è cominciata intorno al ’65, non direttamente motivata dunque tanto da fenomeni ideologico-politici, quanto dal contraccolpo causato dalla prima generazione post-guerra: l’improvviso benessere dopo anni di sacrifici e dolore, apparso come la miracolosa liberazione da ogni male.
[18] Cfr. P. Yonnet,Le recul de la mort, cit.
[19] Cfr.La sfida educativa, a cura del Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, Prefazione di Camillo Ruini, Laterza, Bari 2009, 11.
[20] N. GOMEZ DAVILA,In margine a un testo implicito, Adelphi, Milano 2001, 112.
[21] Cfr. su questo Benedetto XVI,Dove era Dio? Il discorso di Auschwitz. Con contributi di Arthur A. Cohen, Wladyslaw Bartoszewski, Johann Baptist Metz, Queriniana, Brescia 2007.
[22] T.S. Eliot,Cori da «La Rocca», in Id., Poesie, Mondadori, Milano, 1971, 383.
[23] H. U. von Balthasar,Teodrammatica 3, 26.
[24] Ibid., 25.
[25] S. Massimo il Confessore: «Io penso che abbia l’intelletto di Cristo chi pensa secondo Lui e pensa Lui attraverso tutte le cose», Centurie, Gribaudi 1988.
[26] Cfr. G. Angelini, Prima istruzione del tema, in G. Angelini – S. Ubbiali (ed.), La testimonianza cristiana e testimonianza di Gesù alla verità, Glossa, Milano 2009, 3-20; P. Martinelli, La testimonianza. Verità di Dio e libertà dell’uomo, Paoline, Cinisello Balsamo 2002; P. Sequeri, Coscienza credente e mediazione della testimonianza. Saggio introduttivo, in M. Neri, La testimonianza in Hans Urs von Balthasar. Evento originario di Dio e mediazione storica della fede, Dehoniane, Bologna 2001, 7-20.
[27]Sacramentum caritatis 85.


"Perché mi attaccano". Autobiografia di un pontificato - Da quando è stato eletto, Joseph Ratzinger è bersaglio di un crescendo di assalti, da dentro e fuori la Chiesa. C'è una "mano invisibile" che li muove? Ecco come il papa giudica e spiega - di Sandro Magister
ROMA, 3 settembre 2010 – Sono usciti questa estate, negli Stati Uniti e in Italia, due libri che ricostruiscono e analizzano gli attacchi sferrati da più parti contro Benedetto XVI fin dall'inizio del suo pontificato, con un crescendo che ha toccato l'acme quest'anno.

Il libro di Gregory Erlandson e Matthew Bunson, editori di testate cattoliche molto diffuse negli Stati Uniti, si concentra sullo scandalo degli abusi sessuali del clero.

Il libro dei vaticanisti italiani Paolo Rodari e Andrea Tornielli estende invece l'analisi a una decina di attacchi contro altrettanti atti e discorsi di Benedetto XVI: dalla lezione di Ratisbona alla liberalizzazione della messa in rito antico, dalla revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani alla condanna del preservativo anti-AIDS, dall'accoglienza degli anglicani nella Chiesa cattolica allo scandalo della pedofilia.

Di ciascuno di questi episodi Rodari e Tornielli forniscono una ricostruzione molto accurata, con retroscena anche inediti.

La loro conclusione è che sono in atto tre diversi attacchi contro Benedetto XVI, ad opera di tre diversi nemici.

Il primo e principale è il nemico esterno. Sono le correnti d'opinione e i centri di potere ostili alla Chiesa e a questo papa.

Il secondo nemico sono quei cattolici – tra i quali non pochi sacerdoti e vescovi – che vedono in Benedetto XVI un ostacolo al loro progetto di riforma "modernista" della Chiesa.

Il terzo nemico sono infine quei funzionari della curia vaticana che invece di aiutare il papa gli portano danno, per incapacità, per insipienza o anche per opposizione.

Non risulta che questi tre fronti rispondano a un'unica regia. Ciò non impedisce però di cercare se vi sia una ragione unificante che spieghi attacchi così aspri e continui, tutti concentrati sull'attuale papa. È quanto fanno Rodari e Tornielli nell'ultimo capitolo del loro libro, raccogliendo i pareri di vari analisti e commentatori.

Ma non meno importante è sapere come lo stesso Benedetto XVI interpreta gli attacchi portati contro di lui.

*

Nell'omelia della messa conclusiva dell'Anno Sacerdotale, lo scorso 11 giugno, anche Benedetto XVI si è riferito a un "nemico". Così:

"Era da aspettarsi che al 'nemico' questo nuovo brillare del sacerdozio non sarebbe piaciuto; egli avrebbe preferito vederlo scomparire, perché in fin dei conti Dio fosse spinto fuori dal mondo. E così è successo che, proprio in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio, siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti, soprattutto l’abuso nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come compito della premura di Dio a vantaggio dell’uomo viene volto nel suo contrario".

E così il papa si è espresso all'inizio del suo viaggio a Fatima, lo scorso 11 aprile:

"Non solo da fuori vengono attacchi al papa e alla Chiesa,. [...] La più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa. E quindi la Chiesa ha profondo bisogno di ri-imparare la penitenza, di accettare la purificazione".

Già da qui si intuisce che per Benedetto XVI anche l'orribile 2010 è da viversi come un anno di grazia, al pari degli anni precedenti, anch'essi costellati da attacchi alla Chiesa e al papa.

Per lui tutto si tiene. La tribolazione prodotta dal peccato è la condizione dell'umanità bisognosa di salvezza. Una salvezza che viene solo da Dio ed è offerta nella Chiesa con i sacramenti amministrati dai sacerdoti.

Per questo – fa capire il papa – il rifiuto di Dio coincide così spesso con un attacco al sacerdozio e a ciò che pubblicamente lo contrassegna, il celibato.

Lo scorso 10 giugno, nella veglia di chiusura dell'Anno Sacerdotale, Benedetto XVI ha detto che il celibato è un'anticipazione "del mondo della risurrezione". È il segno "che Dio c’è, che Dio c’entra nella mia vita, che posso fondare la mia vita su Cristo, sulla vita futura".

Per questo – ha detto ancora – il celibato "è un grande scandalo". Non solo per il mondo di oggi "in cui Dio non c’entra". Ma per la stessa cristianità, nella quale "non si pensa più al futuro di Dio e sembra sufficiente solo il presente di questo mondo".


Che "rendere Dio presente in questo mondo" sia la priorità della sua missione, papa Joseph Ratzinger l'ha detto più volte, in particolare nella memorabile lettera da lui rivolta ai vescovi di tutto il mondo il 10 marzo 2009.

Ma legare alla questione di Dio quella del sacerdozio e del celibato sacerdotale non è così scontato. Eppure è proprio ciò che Benedetto XVI fa costantemente.

Ad esempio, alla fine del 2006, tracciando un bilancio del suo viaggio in Germania che aveva fatto colpo per la lezione di Ratisbona, dopo aver sottolineato che "il grande problema dell'Occidente è la dimenticanza di Dio", ha proseguito dicendo che "è questo il compito centrale del sacerdote: portare Dio agli uomini". Ma il sacerdote "può farlo soltanto se egli stesso viene da Dio, se vive con e da Dio". E il celibato è segno di questa dedizione piena:

"Il nostro mondo diventato totalmente positivistico, in cui Dio entra in gioco tutt’al più come ipotesi ma non come realtà concreta, ha bisogno di questo poggiare su Dio nel modo più concreto e radicale possibile. Ha bisogno della testimonianza per Dio che sta nella decisione di accogliere Dio come 'terra' su cui si fonda la propria esistenza".

Non sorprende quindi che, nell'imminenza della sua elezione a papa, Ratzinger abbia invocato una riforma della Chiesa che cominciasse col purificare dalla "sporcizia" anzitutto i ministri di Dio.

Non sorprende che abbia inventato e indetto un Anno Sacerdotale finalizzato a condurre il clero a una vita santa.

Non sorprende che la liturgia sia così centrale, in questo pontificato. Per la liturgia il sacerdote vive. È al sacerdote che Dio "ha dato di preparare la mensa di Dio per gli uomini, di dare loro il suo corpo e il suo sangue, di offrire loro il dono prezioso della sua stessa presenza".

La liberalizzazione della messa in rito antico, la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, l'accoglienza data alle comunità anglicane più legate alla tradizione sono parti di questo stesso disegno. E puntualmente sono tutte oggetto di attacco.

C'è una misteriosa lucidità di visione che unifica gli attacchi all'attuale pontificato. Come se in essi agisse una "mano invisibile", nascosta ai suoi stessi attori. Una mano, una mente, che intuisce il disegno di fondo di Benedetto XVI e quindi fa di tutto per contrastarlo.

Nel Vangelo di Marco c'è un "segreto messianico" che accompagna la vita di Gesù e resta celato ai suoi stessi discepoli. Ma non al "nemico". Il diavolo è colui che riconosce da subito in Gesù il Messia salvatore. E lo grida.

Il paradosso degli attacchi di oggi alla Chiesa è che, proprio mentre la vogliono ridurre all'impotenza e al silenzio, ne svelano l'essenza, come luogo del Dio che perdona.

"Dottore serafico" è l'epiteto di san Bonaventura da Bagnoregio, uno dei primi successori di san Francesco alla testa dell'ordine da lui fondato. Potrebbe essere applicato anche a Benedetto XVI, per come guida la Chiesa nella tempesta.

Nella catechesi da lui dedicata lo scorso 10 marzo a questo santo – da lui molto studiato già da giovane teologo – papa Ratzinger ha espresso il suo pensiero anche sui "nemici" interni alla Chiesa.

A quelli che, scontenti, pretendono una palingenesi radicale della Chiesa, un nuovo cristianesimo spirituale fatto di nudo Vangelo senza più gerarchie né precetti né dogmi, Benedetto XVI ha detto che dallo spiritualismo all'anarchia il passo è breve. La Chiesa "è sempre Chiesa di peccatori e sempre luogo di grazia". Progredisce ed evolve, ma sempre in continuità con la tradizione.

A quelli che per riformare la Chiesa puntano tutto su nuove strutture di comando e nuovi comandanti, ha detto che "governare non è semplicemente un fare, ma soprattutto pensare e pregare": cioè "guidando e illuminando le anime, orientando a Cristo".

Gli attacchi che si concentrano su papa Benedetto sono per lui la prova di quanto sia alta la scommessa che egli lancia agli uomini d'oggi, a tutti, anche agli increduli: "vivere come se Dio ci fosse".


Il vescovo Negri - «I cattolici giustizialisti non aiutano il Paese» - Calabro' Maria Antonietta
ROMA - «Il giustizialismo delle denunce della stampa cattolica non fa fare un passo avanti nella soluzione dei problemi del Paese, serve solo a far vendere qualche copia in più a qualche settimanale».

Il giudizio di monsignor Luigi Negri (nella foto), vescovo di San Marino-Montefeltro, sulla situazione italiana è molto chiaro.
«Famiglia cristiana» sostiene che l'opinione pubblica è disgustata di una classe dirigente incapace, immorale, che pensa solo a sistemare se stessa...

«Penso che di questa immoralità non si vede mai la radice culturale. Un certo giustizialismo, si badi bene, non della Chiesa, ma della stampa cattolica soddisfa perché denuncia. Ma non fa fare il benché minimo passo in avanti alla società e al Paese. Denuncia, appunto, e non costruisce».

E allora cosa ci vorrebbe?

«Ci vuole una cultura diversa che nasce dall' educazione. Un educazione non verbalistica, che faccia crescere generazioni nuove di giovani e quindi di cittadini, una cultura che investa di sé anche quel singolare ambito di esercizio della Carità che - come diceva Paolo VI - è la politica».
Educare nuove generazioni è un compito che richiede decenni, i problemi invece sono qui e ora. Cosa risponde?

«È un' obiezione banale, i problemi non si risolvono stigmatizzando le conseguenze negative della mancanza nel nostro Paese e in tutto l' Occidente di una cultura che non si improvvisa e che nasce da un' esperienza nuova di vita. Noi purtroppo siamo gli epigoni di un mondo che ha preteso di vivere senza Dio. Ma una nuova morale può nascere solo da una nuova cultura e da una nuova vita. La Chiesa ha questa vocazione educativa: il suo compito è l' annunzio di Gesù Cristo Salvatore. Cristo stesso mise in guardia dai Farisei che gridano allo scandalo e magari hanno da farsi perdonare colpe più grandi di altri».

Il cardinale Bagnasco indica l' esempio di San Lorenzo martire.

«Sì, i martiri esistono anche oggi, come gli 8 medici uccisi in Afghanistan dai talebani, messi a morte non perché curavano i poveri ma perché erano cristiani. Sono i martiri che dimostrano che una vita positiva è possibile».
Calabro' Maria Antonietta


Il lavoro del Papa - Graziano Tarantini - lunedì 6 settembre 2010 – ilsussidiario.net
Quest’estate mentre ero in vacanza mi è capitato di leggere sul Foglio un articolo di Edoardo Rialti sul Padrone del mondo di Robert Hugh Benson contro il dogma dell’autosufficienza umana. Leggendo tale pagina mi è venuto spontaneo dire a mia moglie: “Come desidererei che i nostri figli maturassero una coscienza così a prescindere da qualunque tipo di lavoro andranno a fare, fosse anche l’occupazione più umile”. Un genitore dovrebbe infatti essere contento che suo figlio arrivi a esprimere una simile consapevolezza di se stesso e della realtà. Dovrebbe desiderarlo più ancora di ogni sua fortuna lavorativa.

Spunti dall’esperienza personale ai quali ritorno leggendo quanto scrive Benedetto XVI nel suo messaggio per la Giornata mondiale della gioventù: «la domanda del posto di lavoro e con ciò quella di avere un terreno sicuro sotto i piedi è un problema grande e pressante, ma allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande». Senz’altro il lavoro è uno strumento fondamentale per la realizzazione della persona e per dare una maturità alla propria vita. Lo è anche dal punto di vista sociale perché assicura le risorse per farsi una famiglia. Quindi andrebbe riformato ogni sistema economico incapace di creare occupazione che in modo miope alla lunga segna anche la sua fine.

Ma l’orizzonte che ci indica il Papa è più largo. Tiene dentro tutti questi aspetti ma proprio per collocarli in una giusta prospettiva, ci invita a guardare più in là. Chi vive riponendo le proprie speranze solo sul lavoro è infatti inevitabilmente destinato al fallimento. Sono tanti gli esempi di persone con floride carriere alle spalle ma dagli esiti umani disastrosi. Dalla rincorsa esasperata di una posizione in tanti casi sono venuti solo motivi di grande disagio personale e sociale di fronte alle inesorabili smentite della realtà.

Oggi spesso, però, con la crisi la questione sembra di tipo opposto: quella di non riuscire a trovare un impiego. È una questione seria molto personale che va affrontata rimettendosi in gioco. Sarebbe infatti un errore vedere come un problema assoluto la crescente disoccupazione e la precarietà che interessa una significativa porzione di popolazione. E aspettare risposte dall’alto che non arrivano, inaridendosi in continue lamentele.


MEETING/ Il comunicato finale e il prossimo titolo "E l’esistenza diventa una immensa certezza” – Redazione - sabato 28 agosto 2010 – ilsussidiario.net
MEETING IL COMUNICATO CONCLUSIVO - Il XXXI Meeting per l’amicizia fra i popoli si chiude come segno tangibile e documentazione della sfida che il Santo Padre ha lanciato: “Testimoniate nel nostro tempo che le grandi cose a cui anela il cuore umano si trovano in Dio”.

Il titolo “Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore” è diventata ipotesi reale per tutti di confronto su ogni questione: ipotesi per i 3193 volontari provenienti da tutta Italia e da oltre 20 paesi stranieri, che anche quest’anno, come ormai si ripete da oltre 30 anni, hanno offerto il loro lavoro per la costruzione di un’opera in cui l’ideale si è incarnato; un’ipotesi di sguardo per le quasi 800.000 presenze, 29 le nazionalità presenti, che si sono confrontate con oltre 130 incontri, 8 mostre, 35 spettacoli.

“Tantissimi ospiti, di ogni fede, cultura, provenienza; è stato sorprendente vedere come per tutti il tema del Meeting sia stato il contenuto prevalente dei loro interventi; non abbiamo ascoltato voli pindarici o teorie astratte, ma una reale lettura della propria esperienza alla luce del titolo”, dichiara il presidente del Meeting Emilia Guarnieri. Il presidente d’Irlanda McAleese, una grande testimonianza personale, il ministro Frattini a confronto con leader di paesi in cui la libertà religiosa viene regolarmente limitata, il presidente Barroso, la figura più rappresentativa dell’Unione Europea, hanno sottolineato la vocazione internazionale del Meeting.

Nella settimana riminese si è discusso dell’uomo e del suo desiderio infinito: il cristianesimo, come ha detto Stefano Alberto nel suo intervento, è una risposta “tanto impossibile a immaginarsi prima che accadesse come avvenimento storico, quanto supremamente conveniente nel suo libero e totalmente gratuito manifestarsi”, e che risponde alle sfide della modernità perché, come recita l’intervento del cardinale Scola “il desiderio integrale dell’uomo, cioè il suo cuore, incontra piena soddisfazione”.

MEETING IL COMUNICATO CONCLUSIVO - E ancora il grande avvenimento che è stato l’abbraccio tra il cardinale Erdö e il metropolita Filaret, forse il più importante incontro ecumenico degli ultimi anni. Come accade tipicamente al Meeting uomini e culture diverse si incontrano: la presentazione de “Il Senso Religioso” di don Giussani in cinese, l’incontro tra il monaco buddista Habukawa, il cardinale Tauran e l’imam Oubrou, il dialogo tra il giurista ebreo Weiler e Giuliano Amato, sono stati momenti in cui si è scoperto come il cuore dell’uomo è il punto di inizio del dialogo e come la religione può essere fattore di pace e non di violenza.

Le mostre (quattro di queste realizzate all’estero), visitate da migliaia e migliaia di persone, hanno svolto come sempre un ruolo fondamentale nella documentazione del desiderio di cose grandi; tra queste la mostra sulla crisi, un tema su cui si sono confrontati in tanti: Bonanni, Passera, Geronzi, Marcegaglia, Gotti Tedeschi, De Bortoli, Marchionne. Molti dei protagonisti del mondo economico hanno dimostrato una sincera curiosità per quello che accade al Meeting e per l’esperienza da cui nasce e che la sostiene, documentata nello spazio centrale della fiera dedicato alla figura di don Giussani nel quinto anniversario dalla scomparsa.

Anche quest’anno particolarmente seguiti gli incontri delle “testimonianze”: Rose e i suoi ragazzi africani, la vedova Coletta e Maria Teresa Landi, Mireille Yoga dal Camerun e Fiammetta da Haiti, padre Monacelli e l’indiano David Frank, hanno raccontato come nessun potere, nessuna circostanza, possano fermare il desiderio di ogni uomo, la cui natura infinita, propria dell’uomo di ogni tempo, ha calcato il palcoscenico del Meeting con il Caligola di Camus interpretato da Stefano Pesce e con la lettura dei canti di Leopardi di Giancarlo Giannini.
MEETING IL COMUNICATO CONCLUSIVO - E ancora altri personaggi come l’arcivescovo Martin, i giornalisti McGurn e Pansa, gli scienziati Moro, Nelson e Ferrari, i giuristi Snead e Kretzmer. Infine la politica con Sacconi, Tremonti, Alfano, Matteoli, Carfagna, Calderoli, Maroni, Galan, Luciano Violante. Non una passerella estranea alla realtà del Meeting: ministri e politici hanno affrontato attese e domande della gente, parlando dei temi e delle sfide del prossimo futuro, lasciando da parte i battibecchi da talk show.

Sono state tantissime le personalità del mondo ecclesiastico, politico, economico e culturale che sono arrivate in veste di ospiti, vivendo il Meeting, visitando le mostre, assistendo agli spettacoli, partecipando agli incontri, osservando quello che è accaduto. “Il Meeting ha avuto successo – continua il presidente del Meeting – perché ha incontrato l’esigenza di ritrovare uno sguardo positivo verso la realtà ed è stato una proposta per il bisogno di cambiamento e di ripresa della vita sociale; è stata l’occasione per verificare che, a partire da un punto inossidabile che rilancia l’umano, ci sono persone e realtà di uomini che mettono l’uomo nelle condizioni di attraversare sicuro la continua tempesta della vita, senza essere in balia delle circostanze”.


Per questo il titolo del Meeting 2011 che si svolgerà dal 21 al 27 agosto sarà: “E l’esistenza diventa una immensa certezza”


MEETING/ Hadjadj: Ecco perché il nostro "terribile" desiderio di felicità non è vano - INT. Fabrice Hadjadj - sabato 28 agosto 2010 – ilsussidiario.net
«Basta premere la mano contro la propria gola e sentire la pulsazione del sangue nelle nostre arterie. È il segno che la nostra vita deve divenire come un fiume: entrare in rapporto con la sorgente tramite tutti i ruscelli della nostra storia e sgorgare senza posa in offerta». In questa lunga intervista il filosofo francese Fabrice Hadjadj, oggi al Meeting Rimini per presentare il libro di don Luigi Giussani L’io rinasce in un incontro, parla con il sussidiario del cuore umano, continuamente in bilico tra l’assurdo e la grazia.

“Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore”. Secondo lei, in che senso il titolo del Meeting di quest’anno è una sfida per i nostri giorni?

La sfida è riconoscere in sé un desiderio che non viene da sé. È molto sorprendente il cuore, soprattutto per un individualista. Non parlo a livello spirituale o sentimentale. Parlo proprio del miocardio. Abbiamo in noi questo organo che batte un tempo che non abbiamo deciso noi, una specie di direttore d’orchestra al quale è attaccata tutta la nostra vita fisiologica. Si tratta di ossigenare il nostro sangue certamente, il che associa il cuore alla respirazione, il “poema della respirazione”, dice Rilke, poiché l’inspirazione e l’espirazione ci elargiscono questo insegnamento ammirabile: la vita non sta nell’indipendenza, nell’isolamento, nell’autonomia, sta in un movimento (un teologo direbbe in una “pericoresi”) dove non si finisce mai di ricevere e di donare. Ecco immediatamente ridotte a nulla tutte le pretese d’indipendenza!

Don Giussani dice che il semplice fatto che il nostro cuore esiste è una provocazione.

Ha perfettamente ragione. Basta premere la mano contro la propria gola e sentire la pulsazione del sangue nelle nostre arterie. È il segno che la nostra vita deve divenire come un fiume: entrare in rapporto con la sorgente tramite tutti i ruscelli della nostra storia e sgorgare senza posa in offerta. La promessa si trova del resto in Isaia: Ecco, io dirigerò la pace verso di lei come un fiume (Is 66, 12). E anche nel Vangelo: Chi crede in me, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo cuore (Gv 7, 38). Certamente questa promessa può fare paura. Certuni preferiscono ridursi ai loro piccoli bidoni di acqua stagnante. In ogni caso, ciò che è certo è che il cristianesimo non è una serie di norme soffocanti, è al contrario il “desiderio di cose grandi”, talmente grandi che superano la capacità umana. Per accoglierle bisogna accettare di essere dilatati, di essere persino squarciati.

È proprio necessario richiamare la “natura” per definire il cuore dell’uomo?
Il termine “natura” viene da “nascere”. Esser nato è aver ricevuto l’esistenza e quindi non essere l’origine del proprio essere. Avere una natura è aver ricevuto alla nascita una certa struttura di esistenza, un dinamismo, una tendenza che è in me e di cui non sono l’artefice. Ritroviamo quanto abbiamo detto del cuore: il centro del mio essere non è sotto il mio controllo, ciò che ho di più intimo mi rimanda ad un altro che non sono io. Io mi sveglio con i miei desideri: bere un caffè, sfogliare il giornale, guadagnare più soldi, baciare Caterina Murino, ma ecco, c’è in me anche un’altra cosa, questo terribile desiderio di felicità.

Perché lo chiama “terribile”?

I soldi possono darmi la felicità? Può farlo Caterina? Se questo desiderio di felicità non trova vie d’uscita, finisce per farmi distruggere la cosa che avevo inizialmente desiderato: siccome questa cosa non è la “cosa grande”, glielo rinfaccio e la getto via. Oppure distrugge me stesso: siccome mi accontento di cose piccole, accordo loro un valore che non hanno e soffoco il mio cuore. Attenzione, non voglio dire che Caterina Murino, creata ad immagine di Dio (e che immagine!), sia una cosa piccola. Ma per potere essere in accordo con il mio cuore, bisognerebbe che Caterina fosse piena di grazia, di verità, di eternità persino (come la sua fragile bellezza mi lascia intravedere). Bisognerebbe che Caterina fosse divina. Non posso farci niente. È nella mia natura (nella natura di ogni uomo per poco che ascolti un pochino il proprio cuore). Dante l’ha capito molto bene. C’è in noi il desiderio della Cosa Grande che è Dio stesso. Ma questo desiderio di Dio non deve portarci a disprezzare le creature (disprezzare le creature sarebbe necessariamente disprezzare il loro Creatore). Al contrario: il desiderio di Dio ci fa desiderare la divinizzazione delle creature. Pertanto desiderare “cose grandi” non significa respingere una Beatrice nana, né fantasticare di una Beatrice di due metri e quaranta, bensí desiderare una Beatrice tale “che Dio parea nel suo volto gioire” (Paradiso XXVII, 105).

Oggigiorno siamo convinti che le idee “forti” non hanno alcun diritto o potere su di noi. Al meglio, se esse ne hanno su qualcuno, questo è riservato all’ambito privato, non al pubblico. È lo stesso anche per il cristianesimo? Deve esso limitare la sua “pretesa” sull’uomo?
Affermare che le idee forti non hanno alcun potere su di noi, ecco qui un’idea, e una idea debole. L’uomo non è un animale governato dagli istinti. Ciò che per l’uomo gioca il ruolo dell’istinto è la sua ragione. Egli è cioè sempre orientato da idee, buone o cattive, idee di tutte le fattezze (e di tutte le contraffazioni). L’uomo inizia pertanto sempre con l’essere un ideologo (almeno dopo il peccato originale). Utilizza termini astratti. Ad esempio dice “va bene”. Così, in una conversazione qualsiasi. Ma “va bene” è qualcosa d’astratto ed enorme, è una questione immensa nella sua bocca e non se ne rende conto perché è un ideologo. Di fatto, dovrebbe uscire dall’ideologia ed andare verso la realtà, cioè domandarsi: cosa è veramente, realmente, “bene”? Si tratta semplicemente di prendere coscienza delle parole che sono già lì, sulla nostra lingua, tra le nostre parole più quotidiane e riscoprire il loro peso concreto.

Qual è questo peso?

Don Giussani amava ripetere queste parole del salmista: Sei tu, Signore, l’unico mio bene (Sal 16, 2). Questa è concretezza per quanto se ne dica! Ciò traccia un cammino, afferma concretamente in cosa consiste il mio bene, e mi conduce ad atti che impegnano la mia vita. Ma questa parola possiede anche qualcosa d’esorbitante. È la ragione per cui don Giussani aggiungeva: “Una frase così carica e così perentoria, così definitiva e totalizzante, chi la può ripetere?” (L’io rinasce in un incontro, p. 59).

E per quanto riguarda la sfera privata, che gode di un diritto assoluto?

Per quanto concerne le “convinzioni private”, si tratta di un’invenzione borghese: il piccolo possidente vuole affermare che possiede una proprietà che è proprio sua e che non appartiene a nessun altro. Ma, allo stesso tempo, finisce per rendersene conto: questa proprietà è morta se egli non ci accoglie nessuno. Ogni spazio privato si realizza solamente nell’ospitalità. E così diventa pubblico. Al contrario, prendete un giardino pubblico: esso assume tutto il suo valore quando, ad esempio, siete con una ragazza seduti su una panchina, o con un vecchio amico, in una conversazione intima. Ogni spazio pubblico si realizza solo nell’incontro tra persone. E così diventa privato. Riporto questi esempi per mostrare che la separazione pubblico/privato è una finzione molto artificiale. È letteralmente una mutilazione poiché tale finzione dichiara: ciò che avete nel vostro cuore non dovete gridarlo nelle piazze. Ma se non c’è più comunicazione tra il vostro cuore e le vostre parole, non siete più un uomo. Siete una carpa. Ed abboccate a tutti gli ami.

Lei ha scritto che la pretesa cristiana è di “prendere il potere sul tuo cuore, cioè conquistarti senza ledere né la tua intelligenza, né la tua volontà ma, al contrario, di rinforzarle”. Come possiamo vivere la “pretesa” totale della verità incontrata senza rinunciare a noi stessi?
La risposta si trova nella sua domanda: non c’è incontro che se ci sono due esseri ben distinti. Allora, incontrare la verità non è un’alienazione ma un compimento. Se le dico: “Dio vuole tutto di te”, lei si spaventerà perché comparerà il desiderio di Dio al suo, e il suo è stretto, possessivo, riduttivo. Ma le ripeto quanto ho detto: “Dio vuole tutto di te”, sottolineo, “tutto di te”, cioè te stesso completamente, senza mutilazioni, senza diminuzioni, senza alienazione, e dunque te stesso con la tua anima e il tuo corpo, con la tua intelligenza e la tua volontà, con tutta la tua libertà, e persino con una libertà infinitamente più alta, perché sbarazzata da tutto ciò che ti è di ingombro. Ciò ci riconduce alle parole del salmo che si canta ai vespri della domenica: Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion: domina fino al cuore dei tuoi nemici (Sal 109, 2). Se forzo il nemico, se lo piego con una anche piccola seduzione psicologica, dominerò forse il suo corpo, ma non il suo cuore. Dominare fino al cuore è la pretesa più terribile e allo stesso tempo l’intenzione più dolce. Perché non ci sono altri mezzi per dominare fino al cuore che di farsi amare liberamente ed intelligentemente, ossia rispondendo alle “esigenze del cuore”. Il catechismo della Chiesa cattolica lo dice chiaramente: “Vivere in cielo è essere con Cristo. Gli eletti vivono in lui, ma conservando, anzi, trovando la loro vera identità, il loro proprio nome” (Catechismo, §1025). Perché questo? Perché “l’io nasce e rinasce in un incontro”. Perché io sono me stesso solo nella mia relazione con il mio Creatore e, tramite lui, con le altre creature. Essere originale non è fare l’eccentrico. È volgersi verso l’origine e vivere nel suo zampillio sorgivo.

La meraviglia sembra essere la dimensione più adeguata alla forma originale della nostra ragione. Come possiamo ritrovare questa dimensione per salvare la ragione?

La grandezza dell’intelligenza è effettivamente quella di saper sentirsi stupida. Attenzione: sentirsi stupida non significa essere stupida. Infatti, colui che è veramente stupido è al contrario colui che crede di sapere tutto, che ha risposte per tutto. Chi si sente stupido si mette in ascolto ed impara. Un proverbio ebraico dice: “Chi è saggio? Chi sa imparare da ogni cosa”. C’è quindi un legame tra stupore e stupidità. È qui - stupendosi, sentendosi stupida - che la ragione si apre a quanto la supera, a ciò che è incontro vivo, che è al di là del calcolo (ma non disprezziamo il calcolo, questa capacità di soppesare il reale che è anch’essa un mistero - dobbiamo solamente sottomettere il calcolo alla lode, come nella musica). Il problema non è quindi come fare per riscoprire questa dimensione.

Perché dice questo?
Perché non si tratta di fare. Se ci limitiamo al “fare”, rimaniamo nell’ambito del nostro potere, delle nostre capacità, e ci si chiude allo stupore. Non si tratta di fare, ma di essere. L’essere è infatti, in fondo, stupore. Per rendersene conto bisogna sapersi abbandonare al riposo, vivere - almeno un giorno alla settimana, un momento nella giornata - la benedizione del shabbat, che si potrebbe anche chiamare la nostra essenza domenicale. Fermate tutto (Fermatevi! Sappiate che io sono Dio, dice il salmo 45) e guardate un fiore, un paesaggio, ascoltate un quartetto di Mozart (o di Haydn), contemplate il volto di un bambino… Ammirate persino una bottiglia, una semplice bottiglia, come sa ammirarla Morandi, non con una genialità speciale, ma con un ampio respiro, con il cuore aperto e disponibile (il che è ancor meglio della genialità), ed ecco apparire il mistero, l’incomprensibilità della presenza di questa bottiglia… Anche la bottiglia più piccola è una bottiglia gettata in mare, che nasconde un messaggio del creatore di tutte le cose.

L’anno scorso lei ha concluso la sua intervista al sussidiario con queste parole: “Occorre che l’azione inizi con un gesto di gratuità. Se questa gratuità non è presente, non sarò mai nella direzione dell’essere”. Da dove può venire questa gratuità?

Non mi ricordo d’averlo detto. Forse perché era proprio un “gesto di gratuità”… La gratuità può avere due sensi. C’è la gratuità dell’assurdo. E c’è la gratuità della grazia. Tutto ciò che facciamo, tutti i nostri calcoli, tutti i nostri progetti, devono sfociare nell’una o nell’altra di queste gratuità. Hai trovato un buon lavoro, e poi? Sposi una donna, e poi? Hai dei bambini, e poi? O non c’è nessun senso, e ti ritrovi nella gratuità dell’assurdo. Oppure tutto ciò ha il senso d’un amore, un amore che dà la vita, e ti ritrovi nella gratuità della grazia. O l’una o l’altra. Ma prima ancora di capire la gratuità riguardo alla finalità dell’esistenza, essa può essere capita a partire dalla sua stessa presenza: come è possibile che io sia qui? Da dove mi arriva questo dono? È un regalo avvelenato? Anche qui: o riconosco la grazia di essere, oppure trovo assurda l’esistenza (ma in quest’ultimo caso mi contraddico, perché sfrutto l’esistenza per disprezzare l’esistenza - questa è la mia propria assurdità). Il rendimento di grazie è il fondamento di ogni azione perché, se non riconosco la grazia di essere, allora tutto quanto potrò fare sarà dell’ordine del disprezzo dell’essere, del regressione, della negazione. Questo potrà assumere un’apparenza umanistica, presentarsi come un’utopia di società perfetta; in verità, giacché non vedo l’esistenza come una grazia, quest’utopia sarà il trionfo del nulla: il suo fondamento sarà il risentimento. Sotto pretesto di costruire un superuomo o una super-società, l’impresa sarebbe la distruzione della società e dell’uomo.

Lei presenterà il libro di don Giussani L’io rinasce in un incontro. Cosa le ha suggerito la lettura di questo libro? Condivide la scelta del titolo?
Sapete, se io ho incontrato la gente di Cl è stato perché quelle persone hanno trovato delle affinità tra il mio modo di porre le questioni e quello di don Giussani. Io non lo conoscevo per nulla soltanto due anni fa. Poi mi hanno chiesto di fare una presentazione a Parigi del libro Si può vivere così? (era l’aprile 2009). In quel momento ho potuto sperimentare quell’affinità di pensiero. Quello fu un vero incontro, per l’appunto. Mi colpì la semplicità, la forza, la tangibilità concreta delle sue parole. Così, la lettura di L’io rinasce in un incontro è stata la continuazione della stessa onda. Ogni volta che leggo don Giussani non è che trovi delle nuove idee, perché abbiamo lo stesso radicamento in san Tommaso e la poesia e soprattutto (io questo lo devo al teatro) un senso analogo del dramma. No, quello che io trovo, cosa che è molto meglio, è la novità delle idee che io possiedo già, una sorta di energia, di slancio missionario, di spinta nel comunicarle e nel viverle nella «drammaticità e la letizia…». Quanto al titolo del libro, ha la sua evidenza. Un’evidenza che si immerge nelle profondità di Dio. Cosa sappiamo noi di quelle profondità? Dio è Trinità. Egli è unico in tre Persone. Il padre genera il Figlio nella comunione con lo Spirito. Così che Dio stesso è eternamente nascita e incontro. Una nascita ed un incontro infinito….
(Federico Ferraù. Traduzione a cura di Ugo Moschella)


Sì, è tempo di ritrovare limiti. Ma il cuore non rientri del tutto di Davide Rondoni - Avvenire, 1 settembre 2010
Ormai si sta consumando il grande rientro. La fine delle vacanze. Il rientro nei luoghi di dimora, di lavoro. E tra un po’ in quelli di scuola e di studio. Vorrei però che gli italiani non rientrassero del tutto.
Sì, insomma, mi piacerebbe che il rientro non fosse un completo rientro. Che qualcosa rimanesse ancora fuori, in un certo senso. Che esorbitasse. Che non accettasse di rientrare nei soliti limiti e schemi. Nella routine. Mi auguro che mentre si rientra e ci si adegua nuovamente alle solite cose, qualcosa di insolito resista.
Intendo il cuore, quella cosa che durante le vacanze ci si è mossa dentro per una bellezza di panorama, per una dolce e allegra compagnia, per una tenerezza verso i figli. Quel cuore che durante le vacanze ha cercato – a volte confusamente – uno spazio di felicità, di miglioramento dei rapporti, di gusto. Vorrei che il cuore non rientrasse del tutto nei limiti che gli imponiamo o che accettiamo siano altri a imporre. Così come durante le vacanze il nostro cuore ha cercato di essere felice – profittando di un maggiore spazio, di un vacuum rispetto a impegni e limiti – vorrei che ora, mentre ci accingiamo a riempire di nuovo lo spazio con obblighi di vario genere, vorrei – ecco – che il cuore continuasse a volere, a desiderare, a cercare una strada per colmarsi di bellezza e gioia.

Il rientro non sia il momento in cui chiudere le imposte del cuore, e chiuderlo a morire perché ora, eh sì, ora abbiamo da fare. Come se le facce nei luoghi di lavoro non fossero le stesse di coloro che, appena ieri, durante le vacanze, si godevano le ferie in cerca di un po’ di bene per sé e per i cari. Le facce che – uguali alle nostre in questo senso – giravano per spiagge e monti con un simile desiderio di bellezza. Rientriamo, sì, ma lasciamo che il cuore non rientri del tutto nei limiti che pensiamo debba avere. Troppe volte, quasi in modo paradossale, facciamo rientrare la parte più profonda di noi stessi e la mettiamo sul tavolo tipo un pc al proprio posto.
Anzi meno, perché le nostre aspirazioni, il nostro desiderio di felicità non servono nemmeno come un tastiera digitale, sono apparentemente meno utili. E allora le lasciamo in quegli spazi di minivacanza che sono i weekend o altre inserzioni di dopolavoro di vario genere. Come se i luoghi normali del vivere non dovessero essere investiti dal desiderio del cuore.
Come se dove si lavora e ci si occupa di cose serie, no, qui il cuore non serve. Lo si fa dunque rientrare alle dimensioni mute, minime, asettiche. Che non disturbi. Che non crei strani moti. Lo si mette in un cassetto. Al massimo lo si onora con una cartolina attaccata alla base del pc. O una foto sul desk.
Minimi indizi del fatto che un cuore ci batte dentro.

No, il rientro non sia un rientro totale. Una nuova sottomissione. Una nuova commedia, un po’ disumana. Non rientrare del tutto significa lasciare ancora spazio al desiderio di libertà nel senso più vero del termine. Rientriamo, ok, si deve, ma con qualcosa che non ci faccia rientrare del tutto. O meglio: rompiamo gli schemi di ciò in cui si rientra.

Il vero desiderio di libertà, il cuore, non si lascia fuori dall’uscio quando si ricominciano le cose obbligatorie, ma si porta dentro alle opere e i giorni.

Solo così li fa più umani.


Lei ha la verità in tasca! Dal sito http://www.libertaepersona.org - Su karamazov.it è comparsa una tipica frase che a molti cattolici è capitato di sentire ogniqualvolta abbiano difeso una loro convinzone…
Su karamazov.it è comparsa una tipica frase che a molti cattolici è capitato di sentire ogniqualvolta abbiano difeso una loro convinzone: "Come tutte le persone che appartengono a un credo religioso, lei é convinto di avere la veritá in tasca e di poterla brandire come una clava contro chi la pensa diversamente. La religione é intrinsecamente intollerante perché prevede l’esistenza di una veritá assoluta che solo i credenti posseggono. Personalmente preferisco il dubbio, anche il dubbio etico. L’etica laica é l’etica del dubbio e non puó presentarsi come veritá assoluta, perció costringe chi la segue a rimettere costantemente in gioco le proprie convinzioni e ad accettare il confronto, accontentandosi di veritá provvisorie".

Magistrale la risposta del moderno Karamazov:

L'idea che vi sia una sorta di equivalenza tra religione e intolleranza, e che laicismo sia sinonimo di dubbio e tolleranza, é il piú falso, oltre che il piú radicato, dei pregiudizi della modernitá. Da Robespierre in poi, il laicismo, nelle sue svariate declinazioni politiche e sociali, non ha mai avuto esitazione a tagliare teste, certissimo della propria missione di promozione del progresso e della pubblica moralitá. L’ideologia del dubbio, dello scetticismo vantato come conquista intellettuale, come la definí il cardinale Biffi, quando si traduce in azione politica abbandona immancabilmente qualunque incertezza e tentazione relativista.

Basterebbe ricordare quella forma di laicismo, il socialismo reale, che per quasi un secolo ha instaurato in piú della metá del globo un gigantesco sistema carcerario, in cui il livello di intolleranza, di sopruso, di annichilimento dell’essere umano non ha uguali nella Storia. E’ un vero peccato che i vari carnefici dell’ateismo di stato, come Stalin, Mao o Pol Pot, prima di massacrare decine di milioni di persone, non fossero sfiorati dal dubbio di fare la cosa giusta. E i loro eredi politici, come Castro o Chavez (personaggi, va ricordato, riveriti e omaggiati dai maitre a penser del laicismo nostrano, come Gianni Vattimo), non si puó certo dire che “rimettano costantemente in gioco le loro convinzioni” o che brillino in fatto di tolleranza e di rispetto dei diritti umani (dei dissidenti politici torturati e uccisi nelle prigioni cubane si é ormai perso il conto).

Se questi riferimenti le sembrano inappropriati, parliamo allora di altre manifestazioni dell’ideologia laicista nell’Occidente democratico, piú innocue almeno all’apparenza, come il pacifismo, l’ambientalismo, il multiculturalismo, il movimento abortista o quello per i diritti degli omosessuali. Sono le molteplici forme di un moralismo ossessivo che non nutre dubbi di sorta sulla giustezza delle proprie posizioni e che certamente non si distingue per la sua tolleranza nei confronti di coloro che individua come gli avversari da demonizzare e da abbattere con ogni mezzo, fino alla legittimazione della violenza fisica e verbale. Non trova sia paradossale che chi un attimo dopo averci assicurato che non esiste una veritá assoluta e che é un intollerante chi sostiene il contrario, afferma che un’etica certamente esiste (la sua) e lancia anatemi contro chi non si adegua? Un paradosso smascherato dal genio di G.K. Chesterton, il quale nel capolavoro Ortodossia scrive che il cristiano non dubita della veritá, ma di se stesso, mentre il materialista dubita della veritá, ma non dubita affatto di se stesso.

E soprattutto non dubita mai della propria moralitá, perché aderisce ai canoni morali fittizi che lui stesso si é costruito su misura. L’ossesione moralistica del laicismo é in fondo una fuga dal proprio vuoto morale. Un vuoto che lei stesso riconosce, senza forse rendersene conto. Perché credere che una cosa sia bene o male oggettivamente, non solo per me, ma per ogni essere umano, significa credere in una veritá assoluta. Ogni valore morale, inclusa la tolleranza, é una veritá assoluta, o non é. Quando lei afferma che "l'etica laica é l’etica del dubbio e non puó presentarsi come veritá assoluta" ammette implicitamente che un'etica laica non esiste. “L’etica del dubbio” é un’etica che non c’é. O se preferisce é una finzione, con cui dissimulare l’insostenibile vuoto morale del laicismo.

Quanto a me, posso assicurarla che non ho la veritá in tasca, per la semplice ragione che per me la veritá é Cristo, cioé Qualcuno che non si puó tenere in tasca. Semmai é Lui a tenere in tasca me. Di questo non ho alcun dubbio.


5 settembre 2010 - Chesterton contro Gheddafi - Appunti inediti per spiegare che la religione d’Europa non può essere l’islam di Edoardo Rialti - © FOGLIO QUOTIDIANO
E’ sera in Egitto, e un turista inglese corpulento e ansimante, vestito di bianco impeccabile, accompagnato da una signora dai capelli rossi e l’aria gentile e paziente, sua moglie, osserva le strade e le persone. Tornato in albergo prende il proprio taccuino di appunti e riflessioni, e scrive: “Lungo la strada per il Cairo uno può notare almeno una ventina di gruppi esattamente uguali alla Sacra Famiglia nei dipinti della fuga in Egitto, con una sola differenza: che è l’uomo a cavalcare l’asino”.

Siamo nel 1919, e l’uomo era G. K. Chesterton, diretto a Gerusalemme; avrebbe poi raccolto i reportage delle varie tappe del suo viaggio-pellegrinaggio in un volume del 1920, “The New Jerusalem” (non più pubblicato in Italia da oltre settant’anni e di cui riproponiamo qui alcuni stralci in una traduzione inedita, ndr). Alle spalle oltre vent’anni come giornalista, già decine di libri e innumerevoli conferenze, al cuore delle riflessioni del celebre polemista c’è sempre e innanzitutto lo sguardo di un poeta, capace di farsi colpire da un’immagine, una scena, sorprendendo e inseguendo gli imprevedibili nessi che questa è in grado di rivelare, sbaragliando le più facili e scontate presunzioni.
Così il viaggio nel tempo che Chesterton compie e annota via via che si muove nello spazio, da Londra, a Parigi, Roma, il Cairo e infine Gerusalemme, riflettendo sulle peculiarità delle diverse fasi della storia e delle civiltà, sono sempre suscitate innanzitutto da un particolare visivo. Così è anche nel caso dell’islam, che ha conquistato l’oriente e l’Africa un tempo romane, eppoi cristiane e bizantine. Il giornalista inglese è al Cairo, e guarda: “Dalla sua superba altitudine il viaggiatore ammira per la prima volta il deserto, da cui giunse la grande conquista”. Per prima cosa un’immagine: “La prima vista del deserto è simile a quella di un gigante nudo a distanza”. Chesterton continua a guardare, ed ecco, pian piano, emergere una scoperta, che porta in sé una considerazione assai più vasta: “Solo coloro che hanno visto il deserto nei dipinti generalmente lo pensano del tutto piatto. Ma quando la mente si è abituata alla sua monotonia, ecco un curioso cambiamento prenderne il posto: parrebbe strano dire che la monotonia della sua natura diventa novità; ma chiunque provasse il comune esperimento di dire qualche parola ordinaria come ‘luna’ o ‘uomo’ una cinquantina di volte, questi troverebbe che l’espressione è diventata straordinaria per semplice ripetizione”.

Questa è “la via del deserto”, la sua filosofia e l’ultimo orizzonte di quanto in esso nasca, il grande segreto delle “religioni del deserto, specialmente dell’Islam”. Noi “pensiamo al deserto e alle sue rocce come antiche; ma in un certo senso sono innaturalmente nuove, ed ecco che possiamo cominciare a comprendere sia l’immensità che l’insufficienza di quella potenza che emerse dal deserto, la grande religione di Maometto”.
Pochi grandi artisti occidentali hanno trovate parole così semplici e magnanime come quelle di Chesterton – l’innamorato campione dell’occidente che aveva scritto la ballata “Lepanto” e il romanzo “L’osteria volante” in cui denunciava la minaccia di una islamizzazione della società inglese – per tessere un vero elogio dell’islam: “Nel cerchio rosso del deserto, nel luogo tenebroso e segreto, il profeta scopre le cose ovvie. Non lo dico come semplice scherno, giacché le cose ovvie vengono facilmente dimenticate, ed è proprio vero che ogni civiltà elevata decade nello scordare le ovvietà”. Ma ecco poi giungere, con un sorriso e inchino rispettoso, come nei migliori duelli, il guanto di sfida: “L’islam era contento con l’idea di possedere una grande verità, in effetti una verità colossale. Si trattava d’una verità così grande che era difficile accorgersi che si trattava d’una mezza verità”. La stessa grandezza della religione musulmana ne costituisce il massimo limite: “In altre parole, il musulmano, l’uomo del deserto, è abbastanza intelligente dal credere in Dio. Ma il suo credo manca di quell’umana complessità che deriva dall’istituire paragoni”. Invece lo sguardo di un poeta, e di un vero filosofo, vive di paragoni, perché questi soddisfano sia l’immaginazione che la ragione, salvando la misteriosa, affascinante complessità del cosmo; un uomo come Chesterton non si sarebbe mai accontentato per niente di meno, mentre “per farla breve, l’uomo del deserto tende a semplificare troppo, e apprendere la sua prima verità come la verità ultima”.

Per Chesterton l’uomo senza pensieri non è chi non pensi a niente, ma inaspettatamente, e qui egli cita e chiama in gioco l’amato Stevenson, “chi non abbia un pensiero da contrapporre all’altro mentre aspetta il treno alla stazione”. Questa dialettica vitale è il cuore della grande cultura occidentale. E’ un luogo davvero comune parlare dei “paradossi di Chesterton”: ma è proprio qui che essi attingono la loro forza, e il loro significato: si rivelano supremamente intelligenti, proprio perché costringono a scoprire nessi laddove non ce li aspetteremmo. Un “ateo di ferro” come il giovane C. S. Lewis – che trovò in Chesterton “lo scrittore più ragionevole che avesse mai letto” – li definiva i bagliori accecanti della spada di un guerriero che lotti per la vita; una cosa tremendamente seria, e capace di fare breccia nelle corazze più dure, come la sua, che qualche anno dopo, anche grazie a Chesterton, si convertì. Invece “i musulmani hanno un pensiero, e uno supremamente vitale; la grandezza di Dio che livella tutti gli uomini. Ma i musulmani non hanno un altro pensiero da contrapporre, perché davvero non dispongono di altro. E’ la frizione tra due realtà spirituali, tradizione e invenzione, o sostanza e simbolo, che permette alla mente di accendersi”. I milioni di lettori la cui mente sia stata accesa dalle parole di Chesterton, spesso fino a cambiare radicalmente opinioni e vita, lo possono testimoniare.

L’islam predica e propugna l’unità di tutti gli uomini, ma livellandone le differenze e specificità; la sua sterile uguaglianza “è quella del deserto e non del campo arato”. Di qui il sorgere d’un genere tutto peculiare di fanatismo, l’ideologia di ciò che viene sentito come ovvio: “Fanatismo suona come il piano contrario di buon senso, eppure, cosa abbastanza curiosa, sono facce della stessa medaglia. Il fanatico del deserto è pericoloso proprio perché prende la sua fede come un fatto, e neppure come una verità nel nostro senso più trascendentale. Divide i musulmani dai non musulmani proprio come dividerebbe l’uomo dal cammello”.
In sintesi, la migliore definizione dell’islam è che questo costituisce “un movimento, una reazione per la semplicità”. Tuttavia questo livellamento è ormai caratteristica diffusa anche di un occidente che ha smarrito la conoscenza di sé: “Ogni cristiano moderno che critichi così il movimento islamico farebbe altrettanto bene a criticare se stesso e il proprio mondo. Perché invero molte cose moderne sono semplici movimenti al modo del movimento musulmano. Al massimo costituiscono delle mode, in cui una cosa viene esagerata perché era stata prima trascurata”.
Ma cosa, dunque, contraddistingue il vero sguardo occidentale, figlio del cristianesimo? Un appassionato, verrebbe da dire spregiudicato amore per la complessità dell’umana esperienza, salvando e abbracciando quello che altrimenti finirebbe ridotto o censurato: e qui il giornalista inglese evoca soprattutto due grandi bacini: il rapporto col passato, ed il rapporto con il sesso. Entrambi questi fattori giocarono un ruolo fondamentale per il convertito Chesterton, che come poi Lewis avrebbe potuto benissimo definirsi “un pagano convertito in un mondo di puritani apostati”. Da quando Dio si è fatto uomo, tutta la storia umana, nelle sue glorie e nelle sue bassezze, diventa, per così dire, “un affare divino”, e questo permette di guardare al passato, personale e collettivo, con quel sentimento di “pathos” e una “ironia” altrimenti impensabili, “che divideva il cuore dei primi cristiani in presenza della grande arte e letteratura pagana”. Non si può che immaginare un Chesterton deliziato ed entusiasta ad ascoltare dal cielo le parole di Benedetto XVI a Ratisbona, o al Collegio dei Bernardini. “La cristianità, se possibile, non deve perdere niente”.

Così, rispetto alle tradizioni culturali la civiltà cristiana ha potuto amare gli antichi senza venerarli ideologicamente (come invece accadde con Aristotele nei sapienti musulmani), o criticarli senza doverli distruggere. Nell’autentico sguardo cristiano troviamo sempre “questa combinazione che non costituisce un compromesso, ma piuttosto una complessità fatta di due entusiasmi contrari; come quando gli Anni Bui copiavano i poemi pagani mentre negavano le leggende pagane; o quando i papi del Rinascimento imitavano i templi greci mentre negavano gli dei greci”. Invece “Saladino, il grande guerriero Saraceno, non fece che spogliare le piramidi per costruire una fortezza militare in cima al Cairo. E’ un poco difficile comprendere quale sia il dovere dell’uomo nei confronti della Sfinge, e così i mammelucchi la usarono del tutto come bersaglio”.

Pochi autori del ’900 hanno cantato con tanta appassionata gioia di Chesterton la grande avventura dell’attrazione per una creatura che sia altra e diversa da sé, l’epica gioiosa della sessualità. Basti pensare a “Le avventure di un uomo vivo”, dove il protagonista escogita mille espedienti per sedurre e fare l’amore con mille donne dai nomi diversi, che in realtà sono solo la sua unica, amatissima moglie. Predicendo che si sarebbe arrivati ad un mondo da incubo in cui si sarebbe potuti divorziare per “incompatibilità”, Chesterton nel 1920 ribatteva che il bello delle donne è proprio quello di essere del tutto, incompatibilmente, meravigliosamente diverse dagli uomini. E proprio nel bacino della religione in cui Dio si è fatto uomo (maschio), la donna, “il sesso debole” sono state elevate a una dignità senza pari. Chesterton si divertiva a dire che Dio avrebbe inventato il matrimonio “per nobilitare l’uomo, giacché senza le donne gli uomini resterebbero sempre dei barbari”. Quello che diceva per la ragione potrebbe essere detto del rapporto con l’altro sesso: lo amava troppo per adorarlo, proprio perché lo conosceva bene. Egli, le cui ultime parole svegliandosi del coma per poi morire qualche istante dopo, sono state un “Ciao, mia cara” rivolto alla moglie, notava sorridendo che “ovunque sia cavalleria c’è cortesia; e ovunque sia cortesia c’è commedia. Non c’è commedia nel deserto”. E nell’usare quest’ultima parola sicuramente l’uomo che aveva scritto di non voler andare in cielo se non avrebbe ritrovato il tetto della propria casetta appena fuori Londra, e sua moglie dentro ad aspettarlo, sapeva di riprendere anche il titolo con cui il più grande poeta cristiano aveva cantato nella Firenze del ’300 il suo viaggio verso Dio, che era anche e sempre il suo viaggio verso la donna che gli aveva per sempre cambiato la vita.

Invece “è ammirabile che l’islam ammetta l’uguaglianza di tutti gli uomini, ma si tratta di una uguaglianza tra maschi”. Per Chesterton le donne costituivano il vertice della creazione, e come tale vanno trattate: “La cavalleria non è un’idea ovvia. Si tratta di un delicato equilibrio tra i sessi che conferisce il più raro e poetico genere di piacere a coloro in grado di coglierlo”; mentre, osservando la struttura sociale islamica nota che “il maschio musulmano è, specialmente nella propria famiglia, re, prete e giudice. Quel che voglio dire è che non possiede solo il regno, la potenza e la gloria, ma persino il glamour. […] Egli può comprendere la pietà per il più debole; ma la reverenza per il più debole è per lui semplicemente senza senso”.
Questo è per Chesterton “l’uomo del deserto, che si muove e non si posa mai, ma che possiede molte superiorità alle razze senza posa delle città industriali”. Ma tutti i movimenti e gli echi devono arrestarsi da qualche parte. Mentre le verità parziali, più o meno grandi, più o meno nobili – e in questo caso Chesterton nota che si tratta di una realtà che dura da oltre 1.300 anni e per la quale tanti “uomini semplici e seri e splendidi” hanno dato la vita – “non possono fare altro che muoversi; non hanno trovato dove riposare”. Al pari del femminismo, e del comunismo, molto meno profondi, l’islam è tormentato dalla sua riduttiva semplicità. La differenza rimane sempre la stessa, proprio laddove ad uno sguardo superficiale parrebbero le maggiori somiglianze. E’ un luogo comune che al fondo le professioni di fede non fanno che indicare la stessa nobile ultima realtà. Non dicono tutte che c’è un Dio? E’ vero, ma “come lo dicono” sottende immense differenze, dalle conseguenze altrettanto immense per la vita dell’uomo. Per rispondere Chesterton torna ancora una volta all’immagine, allo sfondo da cui tutto è nato: “il messaggio più elevato di Maometto è un pezzo di divina tautologia. Proprio il grido che Dio è Dio è una ripetizione di parole, come le sabbie e i cieli burrascosi del deserto che si ripetono ancora e ancora. Quella frase è come un’eco eterna, che non può smettere mai di ripetere le stesse sacre parole. Mentre molte persone, per esempio, immaginano che il Credo di Atanasio sia zeppo di vane ripetizioni, ma questo perché le persone sono troppo pigre per ascoltarlo, o non abbastanza lucide per comprenderlo. Vi si usano gli stessi termini, come in una proposizione di Euclide, ma come in una proposizione di Euclide i passaggi sono tutti altrettanto differenziati e progressivi”. E’ questa la radice della straordinaria tendenza innovativa della cultura occidentale: non potrebbe essere altrimenti in un cosmo culturale la cui religione sia la più progressista e materialista – per dirla con Rodney Stark e Romano Guardini – che si possa immaginare. In Cristo Dio stesso si è definitivamente coinvolto con la storia umana, e quindi è sempre possibile scoprire cose nuove, sul mondo e su stessi.

“La filosofia del deserto può solo cominciare ancora e ancora. Non può crescere; non può disporre di ciò che i protestanti chiamano progresso e i cattolici sviluppo”. E qui Chesterton dà prova della salute e della solidità di questa prospettiva con un’immagine che solo un simile sguardo potrebbe permettersi di suscitare: volete sapere se la filosofia che abbracciate funziona, è davvero in grado di rispondere esaurientemente al mondo? Ancora una volta, dipende da quanto somigli al fare l’amore, perché “i credi condannati come complessi possiedono qualcosa del segreto del sesso: prolificano i pensieri”. In questi giorni il leader libico Muammar Gheddafi ripete ogni volta che può che all’Europa converrebbe convertirsi in massa all’islam, e che le donne sono molto più rispettate nella sua religione. Francamente si sente tanto la mancanza di una Fallaci che possa chiedergli se egli condivida il cattolicissimo pensiero di Chesterton secondo cui “Dio avrebbe creato gli uomini solo come scusa per creare poi le donne”. Ma si sa, e Chesterton ce l’aveva già detto, “non c’è commedia nel deserto”.