venerdì 30 novembre 2007

Nella rassegna stampa di oggi:

1) LETTERA ENCICLICA -SPE SALVI
2) PER LA PACE NEL MONDO OBIETTIVO PRIMO: LA DIGNITÀ DELLA PERSONA
3) Risposta del Papa alla lettera aperta di 138 leader religiosi musulmani
4) La Chiesa: non ci obbligheranno al silenzio
5) Un creatore? Why not?
6) Il nostro destino non è scritto nel solo DNA
7) Emergenza educativa, sfida pastorale
8) Embrioni, la moratoria «sbarca» a Strasburgo
9) Un fisco «formato famiglia»
10) «Un dossier che fa aprire gli occhi» -Le scuole paritarie fanno risparmiare 6 miliardi allo Stato



LETTERA ENCICLICA -SPE SALVI


PER LA PACE NEL MONDO OBIETTIVO PRIMO: LA DIGNITÀ DELLA PERSONA
Avvenire, 30.11.2007
ANDREA LAVAZZA
C’è molto più d’alti scambi di formule diplomatiche nelle lette­re che si sono indirizzati a stretto giro (è il caso di sottolinearlo data la deli­catezza dei temi) 138 leader del mon­do musulmano e Benedetto XVI per il tramite del suo Segretario di Stato. E benché non ci si possa nascondere la differenza oggettiva di rappresentati­vità tra un gruppo di mufti e ayatollah, pur autorevoli, e il capo della Chiesa cattolica, resta il significativo avvio di un dialogo senza simile precedente in tempi recenti.
«Se i musulmani e i cristiani non so­no in pace, il mondo non può esser­lo », scrivevano i 138, cercando di dis­sipare le nuvole che fuorvianti inter­pretazioni del discorso papale di Ra­tisbona avevano fatto addensare sul­l’orizzonte del confronto interreligio­so. E le novità del testo non si limita­vano agli auspici e ai toni: per la pri­ma volta, per riferirsi a Cristo, si cita­va il Vangelo e non il Corano. La con­danna del terrorismo fondamentali­sta chiudeva poi una missiva di in­dubbia portata.
La risposta giunta ora dalla Santa Se­de completa la prima fase di quello che si può auspicare sia l’avvio di u­na diversa stagione. Siamo per ora al­l’alba, e sarebbe sbagliato farsi sover­chie illusioni di un cammino rapido e privo di ostacoli. Basti dire che il messaggio iniziale non ha certo tro­vato larga eco nel mondo islamico, mentre non sono mancati rilievi cri­tici alle «aperture» e alle «concessio­ni » ritenute eccessive.
Diverso l’apprezzamento che Bene­detto XVI ha voluto esprimere nella sua lettera, costruita tutta in positivo, nella quale, con la consapevolezza del­le differenze, si dà atto del passo com­piuto e si rilancia attraverso la propo­sta di un incontro diretto offerto al pri­mo firmatario, il principe giordano Ghazi bin Muhammad bin Talal.
Il Papa, attraverso il cardinale Bertone, riafferma l’importanza del dialogo ba­sato sul rispetto effettivo della dignità della persona, sulla oggettiva cono­scenza della fede dell’altro, sulla con­divisione dell’esperienza religiosa e sull’impegno comune a promuovere mutuo rispetto e accettazione, so­prattutto nelle nuove generazioni. So­no queste le condizioni fondamenta­li che, una volta raggiunte, «renderan­no possibile cooperare in modo pro­duttivo negli ambiti della cultura e del­la società e per la promozione della giustizia e della pace nel mondo».
Se il manifesto dei 138 rimarcava la centralità di musulmani e cristiani, il 55% della popolazione del Pianeta, per la tutela della convivenza, il Pon­tefice, sulla scorta della condivisa fe­de nel Dio unico, creatore e giudice u­niversale, ricorda che l’essere umano è sacro sia per gli uni sia per gli altri. Unicamente quando si giunge ad ac­cettare che la dignità della persona e­sige assoluto ed effettivo rispetto, non solo come principio ma come prassi concreta, può conseguirne un dialo­go proficuo e fecondo.
Ecco, allora, affiorare in filigrana quella mancanza di libertà – non ra­ramente vera persecuzione – che an­cora affligge i fedeli di Cristo in qua­si tutti i Paesi a maggioranza islami­ca. Che nessuno possa essere co­stretto o impedito a praticare una religione è oggi ferma convinzione della Chiesa tutta che tende la ma­no ai fratelli musulmani. Nel vasto arcipelago di fede che fa riferimen­to al Corano si tratta di un principio non ancora pienamente diffuso.
Le parole generose e impegnative che spiccano nelle due lettere costi­tuiscono quindi un invito forte a tut­ti i credenti di buona volontà per­ché barriere cadano e ponti si getti­no fra religioni e culture che resta­no diverse e, proprio per questo, hanno l’opportunità di arricchirsi vicendevolmente.


Risposta del Papa alla lettera aperta di 138 leader religiosi musulmani
CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 29 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della risposta di Benedetto XVI ai 138 leader religiosi musulmani che il 13 ottobre scorso, in occasione della fine del Ramadan, hanno indirizzato una lettera aperta al Papa e ai responsabili delle altre Chiese e confessioni cristiane.

* * *

Sua Altezza Reale
Principe Ghazi bin Muhammad bin Talal
Palazzo Reale
Amman
Giordania

Dal Vaticano, 19 novembre 2007

Sua Altezza Reale,

Il 13 ottobre 2007, 138 leader religiosi musulmani, tra cui Sua Altezza Reale, hanno firmato una lettera aperta indirizzata a Sua Santità Papa Benedetto XVI e ad altri responsabili cristiani. Lei è stato così gentile da presentarla al Vescovo Salim Sayegh, Vicario del Patriarca Latino di Gerusalemme in Giordania, con la richiesta che fosse trasmessa a Sua Santità.

Il Papa mi ha chiesto di esprimere la sua gratitudine a Sua Altezza Reale e a tutti i firmatari della lettera. Desidera anche trasmettere il suo profondo apprezzamento per questo gesto, per lo spirito positivo che ha ispirato il testo e per l’appello a un impegno comune a promuovere la pace nel mondo.

Senza ignorare o sminuire le nostre differenze in quanto cristiani e musulmani, possiamo e quindi dovremmo guardare a ciò che ci unisce, nella fattispecie al fatto di credere nell’unico Dio, il provvido Creatore e Giudice universale che alla fine dei tempi valuterà ciascuno secondo le sue azioni. Siamo tutti chiamati a dedicarci totalmente a lui e ad obbedire alla sua santa volontà.

Memore del contenuto della sua Lettera Enciclica “Deus Caritas Est” (“Dio è Amore”), Sua Santità è rimasto particolarmente colpito dall’attenzione data nella lettera al duplice comandamento che invita ad amare Dio e il prossimo.

Come sa, all’inizio del suo Pontificato Papa Benedetto XVI ha affermato: “Sono profondamente convinto che dobbiamo affermare, senza cedimenti alle pressioni negative dell’ambiente, i valori del rispetto reciproco, della solidarietà e della pace. La vita di ogni essere umano è sacra sia per i cristiani che per i musulmani. Abbiamo un grande spazio di azione in cui sentirci uniti al servizio dei fondamentali valori morali” (Incontro con i Rappresentanti di alcune Comunità Musulmane, Colonia, 20 agosto 2005). Questo terreno comune ci permette di fondare il dialogo sull’effettivo rispetto della dignità di ogni persona umana, sulla conoscenza obiettiva della religione dell’altro, sulla condivisione dell’esperienza religiosa e infine sull’impegno comune nella promozione del rispetto e dell’accettazione reciproci tra i più giovani. Il Papa confida nel fatto che, una volta raggiunto questo obiettivo, sarà possibile cooperare in modo produttivo nei campi della cultura e della società, e per la promozione della giustizia e della pace nella società e nel mondo.

Per incoraggiare la vostra lodevole iniziativa, sono lieto di comunicare che Sua Santità avrebbe molto piacere di ricevere Sua Altezza Reale e un ristretto gruppo di firmatari della lettera aperta, scelto da Lei. Allo stesso tempo, potrebbe essere organizzato un incontro di lavoro tra la Sua delegazione e il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, con la cooperazione di alcuni Istituti Pontifici specializzati (come il Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica e la Pontificia Università Gregoriana). I dettagli precisi di questa riunione potrebbero essere stabiliti in seguito, se Lei considerasse ammissibile la proposta.

Approfitto dell’occasione per ribadire a Sua Altezza Reale la mia più alta considerazione.


Cardinale Tarcisio Bertone
Segretario di Stato



La Chiesa: non ci obbligheranno al silenzio
DA CARACAS
Avvenire, 30.11.2007

Le ultime settimane sono state un’escalation di accuse al vetriolo, condite da insulti pesanti contro la Chiesa cattolica venezuelana. Domenica scorsa Hugo Chavez ha definito come uno «stupido» difensore di «oscuri interessi» il cardinale Jorge Urosa Savino e ha de­scritto i vertici ecclesiastici venezuelani come «il demo­nio ». Dopo aver puntato il dito contro il rettore dell’Uni­versità Cattolica Andres Bello, il gesuita Luis Ugalde, avvertendolo di poter finire in carcere («a Yare»), ha rivol­to la stessa minaccia indiretta al cardinale.
Il vicepresidente Jorge Rodriguez è tornato alla carica martedì, chiedendo alla Conferenza episcopale spiega­zioni su presunte riunioni celebrate in chiese e sedi dio­cesane dove sarebbero state pianificate le azioni violen­te esplose lunedì negli Stati di Aragua e Carabobo, terminate con un morto e diversi feriti.
La Conferenza episcopale ha risposto con un comunicato in difesa del cardinale Savino e di tutti i membri della Chiesa aggrediti verbalmente negli ultimi tempi: «Tutti i cittadini hanno il diritto a mantenere un’opinione sulla proposta di riforma ed esprimerla democraticamente», ma «nessuno ha il diritto di insultare chi è in dissenso con questa». «Mettano pure in carcere i vescovi. Non ci ob­bligheranno al silenzio con azioni di questo tipo», ha det­to il presidente della Conferenza e arcivescovo di Mara­caibo, monsignor Ovidio Perez Morales.
Secondo alcuni osservatori, le relazioni fra il governo e la Chiesa venezuelana vivono il peggior momento dal 1830 ad oggi. Dal primo mandato di Chavez, il rapporto con i vescovi locali è stato caratterizzato da alti e bassi. Ma dopo la pubblicazione di una profonda analisi della riforma costituzionale da parte della Conferenza, la crisi si è aggravata. La riforma – avvertono i prelati – «viola i diritti fondamentali del sistema democratico e della persona», incrementa i poteri del presidente (con il rischio di autoritarismo), «esclude settori politici e sociali del Paese che non sono d’accordo con lo Stato socialista ». Si tratta di un progetto «inutile, moralmente inaccettabile », dice la Cev. La crisi – sottolineano alcuni analisti – potrebbe costare cara a Chavez in termini di immagine popolare. La Chiesa è una delle istituzioni con maggiore credibilità e solidità in Venezuela, un Paese in cui due terzi dei 26 milioni di abitanti si dichiarano cattolici. Impossibile ignora­re questo dato. Non è affatto casuale, dunque, uno stravagante manifesto apparso durante la campagna a favo­re del «sì» alla riforma: raffigura Gesù con la tunica ros­sa (come la camicia socialista del presidente) e il braccio in alto. «Cristo, il primo rivoluzionario», recita lo slogan. Strumentalizzazioni da fine campagna. ( M.Cor.).
Il governo attacca il cardinale di Caracas: difende oscuri interessi. La Conferenza episcopale: «Tutti i cittadini hanno diritto ad esprimere un parere sulle riforme»




Un creatore? Why not?
Di Umberto Fasol
(del 29/11/2007)
Nell’uovo, al momento della fecondazione, entrano il nucleo e il centriolo dello spermatozoo. Rimangono fuori tutto il citoplasma, la membrana cellulare e tutti gli organuli cellulari appartenenti allo spermatozoo. In pratica, entrano soltanto il centro organizzatore della mitosi (il centriolo, che poco dopo si duplicherà) e i cromosomi che contengono le istruzioni di origine paterna.
L’uovo deve fornire tutta la materia prima (il citoplasma), l’energia (i mitocondri) e le catene di produzione dei nuovi prodotti (ribosomi, polimerasi, enzimi) necessari alla nuova vita. I cromosomi paterni, da soli, non possono nemmeno esprimersi: sono come un libro che contiene un messaggio stupendo ma che rimane in attesa di essere aperto da qualcuno per poter «esistere». Il citoplasma dell’uovo ha maturato sostanze che vanno a decondensare la cromatina e ad aprire i siti di inizio dei geni, per consentirne la trascrizione e poi la traduzione, ovvero la formazione delle proteine indispensabili alla nuova vita che si deve sviluppare alla perfezione. Detto in altre parole, è l’uovo, con le sue sostanze, che rende funzionali le istruzioni che erano contenute nello spermatozoo e quindi dà loro senso. E’ come se l’uovo fosse il direttore d’orchestra che decide quando deve suonare il violino e quando la tromba e quando il violoncello, che, altrimenti, rimarrebbero sì presenti in sala, ma perennemente muti.
La domanda che tutti ci poniamo a questo punto è: «Come ha potuto l’uovo diventare direttore dell’orchestra che non ha mai conosciuto prima?», ancora: «Come avrebbe mai potuto l’ambiente dell’uovo (per usare i termini cari ai darwiniani) costruire un sistema complesso (enzimi, energia, materia prima) in grado di interagire con l’ambiente del nucleo dello spermatozoo, che non ha mai visto prima della fecondazione e che proviene addirittura da un altro corpo?» Siamo di fronte ad un fenomeno che ha veramente dell’incredibile! L’ovocita «attende» uno spermatozoo, così come una persona va ad un appuntamento. Sono fatti l’uno per l’altro, eppure non si sono mai visti prima! Invocare, a questo punto, una risposta ragionevole come questa che dice all’incirca così: «l’uovo e lo spermatozoo sono stati progettati dall’esterno del sistema per realizzare una nuova vita individuale» significa uscire dall’ambito della Scienza (con la esse maiuscola, per carità!) e incorrere nella sanzione prevista dalla risoluzione del Parlamento europeo n° 1580 del 4 ottobre 2007, che invita «gli Stati membri e in particolare le autorità educative ad opporsi fermamente all’insegnamento del creazionismo come una disciplina scientifica»? Mi domando: sarebbe più scientifico affermare che le cellule riproduttive sono state selezionate dall’ambiente in tempi che si misurano a milioni di anni, realizzando a piccoli passi, ma in modo assolutamente fortuito e naturale, prima la meiosi, evento di loro esclusiva proprietà, che porta al dimezzamento del numero dei cromosomi attraverso due divisioni cellulari, poi la fecondazione, di cui mantengono l’esclusiva, quindi la mitosi e l’intero sviluppo embrionale, che prevede simmetrie, morfogenesi, organogenesi, sacca amniotica, mancata espulsione uterina, parto miracoloso ed immediato allattamento al seno? Perché dobbiamo abdicare all’uso della ragione proprio quando la stiamo utilizzando al massimo delle sue possibilità, cioè quando siamo alla ricerca della verità delle cose?
Come dire, esemplificando questa volta con l’aiuto dell’ingegneria: tutti vediamo il progetto del cantiere disteso sul tavolo dello studio di professionisti, ma solo la religione può nominare il suo designer; la scienza non può che analizzarne il tratto di matita segmentandolo in milioni di millimetri per cui può dire che si sono accumulati nel tempo, uno dopo l’altro, fortuitamente, selezionati dalla carta (il suo ambiente) e non dalla mano e dalla testa di chi l’ha pensato. Credo, invece, che tutte le volte che abbiamo la possibilità di «allargare la ragione», conferendole fiducia nelle sue capacità di conoscenza e di intuizione, facciamo un profondo servizio alla nostra umanità, perennemente mendicante di verità.




Il nostro destino non è scritto nel solo DNA
Carlo Bellieni spiega le possibili relazioni con l’ambiente
Di Antonio Gaspari

ROMA, venerdì, 30 novembre 2007 (ZENIT.org).- Al recente convegno STOQ tenutosi a Roma nei giorni 15-17 novembre scorsi, il professor Carlo Bellieni, neonatologo, docente di Chimica dell'Ambiente all'Università di Siena, ha tenuto una relazione sulle conseguenze possibili dell'ambiente della Fecondazione in Vitro sullo sviluppo embrionale.
ZENIT lo ha intervistato.
Professor Bellieni, è proprio vero che tutto il nostro destino è scritto nel DNA?
Bellieni: Assolutamente no. Bisogna dire che le recenti ricerche mostrano come nello sviluppo umano esista un equilibrio tra una forza centrifuga (quello che è scritto nel nostro DNA) e una forza centripeta (l’azione dell’ambiente), tanto che anche lo sviluppo del sistema nervoso del feto risente di entrambi, in particolare dell’eccesso o dell’assenza di stimoli esterni. Questo dà l’idea di una libertà di fondo nella nostra natura e di una preferenza basale verso il rapporto con “l’altro” rispetto all’ “isolamento” dall’altro.
Lei ha parlato di un ambiente molto particolare, riferendosi all’ambiente della fecondazione. Cosa intendeva?
Bellieni: Bisogna tener presente che nel momento della fecondazione, ma anche su ovulo e spermatozoo, l’ambiente ha un’importanza fondamentale. Il contatto con le cellule della tuba uterina attiva dei recettori sulla parete dell’embrione che a sua volta inizia una specie di dialogo ormonale col corpo della madre. Verranno prodotte sostanze protettive per l’embrione ed esso verrà stimolato verso particolari modifiche. Cambiare la scena in cui avviene la prima fase della nostra vita non è cosa da poco. Ad esempio recenti studi hanno mostrato come la luce o diverse concentrazioni di ossigeno possano modificare lo sviluppo dell’embrione. Questo deve farci riflettere.
In che senso?
Bellieni: Nel senso che sfiorare qualcosa che per sua natura non dovrebbe essere sfiorato è un atto da fare con la massima cura. L’epigenetica è una branca della biologia che studia proprio questo: l’importanza delle esperienze con l’ambiente per l’espressione dei geni. In poche parole, per via di proteine presenti nel nucleo o di gruppi metilici, alcuni geni vengono “silenziati” a seconda degli stimoli esterni che la cellula subisce.
Ci può fare degli esempi?
Bellieni: Randy Jirtle, genetista statunitense, scrive: “Ogni nutrimento, ogni interazione, ogni esperienza può manifestarsi attraverso cambiamenti biochimici che dettano l’espressione di geni, talora alla nascita, talora 40 anni dopo. […] Non possiamo dire se i geni o l’ambiente abbiano il maggior impatto sulla nostra salute perché sono inesorabilmente legati”. Asim Duttaroy, docente di Scienza della Nutrizione ad Oslo, riportava che lo scarso nutrimento del feto porta a modificazioni dell’espressione di alcuni geni, che porteranno a manifestare obesità, ipertensione e diabete in età adulta; e la rivista Pediatric Research spiega che l’epigenetica è alla base della miglior risposta allo stress che avrà in età adulta l’individuo che è stato oggetto di un serrato contatto con la madre da piccolo.
Ci può far un esempio di come si può modificare l’ambiente uterino?
Bellieni: Un esempio si trova nella diagnosi preimpianto. Questa è l’analisi del DNA che si esegue in una cellula sottratta ad un embrione fatto in totale di otto cellule, al fine di scartarlo se il DNA analizzato non ci soddisfa. Quest’analisi si fa per scartare gli embrioni malati e anche quelli imperfetti, in modo da aumentare le possibilità di impianto dell’embrione. Invece l‘autorevole New England Journal of Medicine ha di recente pubblicato uno studio che mostra che gli embrioni dopo questo espianto si impiantano peggio, diminuendo le possibilità di gravidanza.
Quanto dura la modificazione epigenetica?
Bellieni: Recenti studi hanno mostrato che le modifiche epigenetiche (che sono altra cosa dalle “mutazioni”) che l’ambiente determina sul DNA possono essere trasmesse di generazione in generazione. Questo secondo alcuni studiosi cozza con una visione deterministica dell’evoluzione della vita legata invece a una competizione spietata per la sopravvivenza, che invece si basa su mutazioni casuali, in cui l’ambiente avrebbe non la funzione di indurle ma di selezionarle in base alla legge del “più adatto”: sappiamo che alcune alterazioni geniche indotte dall’ambiente si trasmetteranno ai figli, non scomparendo al momento della fecondazione, come mostrano i lavori di Michael Skinner sui topi in contatto con elementi tossici in epoca prenatale e gli studi sulle donne vissute in carestia durante la seconda guerra mondiale che avrebbero fatto nascere bambini di basso peso… i cui figli sarebbero stati anch’essi di basso peso pur nutriti normalmente in gravidanza.
Qual è dunque la preoccupazione principale?
Bellieni: Un mondo scientifico che cerca in tutti i modi di creare un ambiente a misura di bambino per chi è già nato, conoscendo le complicazioni per la salute che un ambiente avverso provoca, non può fornire all’embrione un ambiente non pari a quello materno nel momento del concepimento, come abbiamo già illustrato recentemente, per evitare rischi, come spiegava una recente sintesi, che chiedeva di valutare “l’impatto dell’esposizione a gonadotropine, ad un alterato ambiente di impianto, condizioni di coltura in vitro, selezione dello sperma, iniezione dello sperma nell’ovulo e crioconservazione”, per spiegare la tendenza di un ristretto numero di bambini nati da fecondazione in vitro a manifestare certe malattie; ma senza ignorare, come anche riportava di recente la rivista Lancet che un rischio può dipendere già da un fattore già presente nei genitori. E i rischi ci sono, come spiega la stessa Lancet. Insomma: un principio di precauzione viene richiesto dalla scienza: che risposta riceve?
Ma se non tutto è scritto nel DNA, che valore ha riprodurre il DNA in laboratorio?
Bellieni: Certamente non quello di riprodurre una copia di una persona, quasi si volesse fare un suo “doppione”. Nessuno pensa ad un risultato simile, come mostra la presenza di gemelli con lo stesso DNA, ma con destini e gusti diversi. Ma l’influsso dell’ambiente ha un impatto così importante sull’espressione dei geni che ci si domanda se ricreare un DNA in laboratorio basti a ricreare un essere vivente: non dimentichiamo il problema dell’imprinting, ovvero della necessità che per sviluppare una persona serve sia il patrimonio genetico materno che quello paterno: un essere costruito solo raddoppiando o il primo o il secondo, non avrebbe un futuro vitale.


Emergenza educativa, sfida pastorale
Avvenire, 30.11.2007
Stereotipi come «ai miei tempi». «Una volta non era così», denotano nell’immaginario collettivo una chiusura nei confronti delle mutate condizioni dei tempi. In realtà, non era sempre così. Un esempio ci viene dal campo vocazionale. Se si guarda a quando preti e religiosi abbondavano e si fa il raffronto con la situazione attuale non può sfuggire che alla base c’è carenza di ordine educativo. Si pensi alla fami­glia, nella quale la presenza dei genitori è sempre più sal­tuaria o la scuola, in cui sta scomparendo la fi­gura dell’insegnan­te come fondamen­tale punto di riferimento.
Mentre i processi educativi prevalenti, per un malinteso rispetto della libertà dei gio­vani, si arrestano in mezzo al guado, l’attuale Pontefice, a cui certamente non si può rimproverare di non chia­mare le cose con il loro no­me, aprendo nel giugno scorso il Convegno ecclesia­le della diocesi di Roma, ha parlato di «emergenza edu­cativa ». L’espressione è sta­ta ripresa da molti interven­ti della Cei e dei singoli ve­scovi, non ultimo il cardina­le Camillo Ruini nel discor­so di apertura dell’Anno ac­cademico presso la Pontifi­cia Università Salesiana di Roma. «Un’educazione vera – ha detto – ha bisogno di ri­svegliare il coraggio delle de­cisioni definitive. Oggi un o­stacolo particolarmente in­sidioso è costituito dalla massiccia presenza, nella nostra società e cultura, di quel relativismo che, non ri­conoscendo nulla come de­finitivo, lascia come ultima misura solo il proprio io con le proprie voglie e, sotto l’ap­parenza della libertà, diven­ta per ciascuno una prigio­ne ».
L’incombere dell’emergen­za educativa spinge la Chie­sa oltre a moltiplicare convegni che studiano i modi di avvicinare gli educatori ai giovani nel servizio di di­scernimento, soprattutto a prendere adeguate iniziative pastorali. A Palermo prose­gue l’esperienza di un labo­ratorio pedagogico per do­centi, genitori e studenti. Si riscoprono gli oratori; dove sono stati rimessi in auge, funzionano e danno frutti promettenti. Lo stesso acca­de in alcune regioni italiane per i seminari minori che hanno ripreso, sia pure con metodiche e dinamiche nuove, a impartire un’edu­cazione di base, presuppo­sto per un efficace processo educativo di crescita. Tutta­via, ciò che si sperimenta con maggiore preoccupa­zione, è la difficoltà di trova­re o comunque di reclutare educatori.
Gli accompagnatori idonei sono sempre meno, e non facili da individuare nella crescente selva di «nuovi e­ducatori »: internet, televi­sione, musica, fumetti, vi­deogiochi, riviste. Da una parte questi sembrano so­stituire i genitori «fantasma» e gli insegnanti quotidiana­mente contestati, dall’altra hanno potenzialità straordi­narie.
È quasi infinita la lista dei si­ti cattolici che internet offre a quanti operano nel cam­po educativo: dal settore della scuola a quello del­l’ambiente, dalle pagine web di taglio cattolico a quelle che, più in generale, tratta­no di cultura, insegnanti, e­ducatori, genitori. Tra i tan­ti il sito: www.educareinsie­me.org.che fa capo all’o­monima associazione di vo­lontariato di Torino. Nella realtà del capoluogo pie­montese esso offre un per­corso di incontri, momenti di preghiera e occasioni di riflessione. Si tratta di una proposta di accompagna­mento lungo un itinerario quotidiano, per testimonia­re come un’educazione e­quilibrata e continua nel percorso di ciascuno e a qualsiasi età, non possa pre­scindere da un cammino spirituale personale.


Scola: economia, rispetta l’umano Venezia

Il patriarca agli imprenditori: «Solidarietà e sussidiarietà le vostre bussole»
DA VENEZIA
FRANCESCO DAL MAS
Avvenire, 30.11.2007
Sono sempre più numerosi gli imprenditori che si richiamano all’etica. Ma non basta. «L’economia esige anche l’antropologia», ha sottolineato il car­dinale Angelo Scola, patriarca di Venezia, incontrando ieri sera gli operatori economici nella se­de di Unindustria Venezia, nel parco scientifico del Vega, a Marghera.
In un contesto in cui si stanno riscrivendo le regole della vita economica e specificatamente quelle del lavoro, Scola – chiamato a spiegare come il capitale umano sia «il» valore dell’impresa – ricorda che «nel quadro del positivismo giuridico dominante, è necessario che la dimensione legale abbia una solida fondazione antropologica». E questo perché «gli attori economici non possono limitarsi a costruire dal basso un quadro convenzionale di regole di comportamento sia pure agile e rispettoso delle libertà individuali e sociali, delle sensibilità culturali, delle peculiarità religiose di uomini e di popoli». Questa impostazione non eviterebbe la grandissima difficoltà di formare «un consenso di esperienza e cultura» sui criteri fondamentali della stessa valutazione etica. Da sola, insomma, l’etica non basta a muovere il desiderio e l’interesse dell’uomo. «Solo una proposta antropologica compiuta muove la libertà dei singoli e la sospinge, attraverso i corpi intermedi, nel circolo virtuoso della vita buona (Aristotele, Tommaso), ad un tempo personale e sociale». In questa prospettiva, la stes­sa dottrina sociale della Chiesa ripropone, in termini aggiornati, la validità del principio della priorità del lavoro sul capitale.
D’altra parte, rassicura il patriarca, la questione antropologica è alla portata di tutti, «è esperienza elementare ». «Ogni uomo ogni giorno gioca la sua libertà in ogni circostanza ed in ogni rapporto, a partire dagli affetti e dal lavoro. Emerge qui chiaramente il peso della relazionalità. Essa domanda che l’altro, il 'differente', venga pensata in positivo e non escluso, come ha spesso fatto la modernità, dissolvendo il soggetto». E, dal canto suo, neppure la vita economica rappresenta una dimensione puramente tecnica, «ma si configura piuttosto, proprio in quanto attività umana, come una realtà polimorfa, necessariamente portata ad investire la riflessione antropologico-morale».
Per garantire l’adeguata dimensione etico-antro­pologica voluta dall’economia – quella che riconosce l’importanza del capitale umano –, il fattore determinante che gli analisti sociali ed economici devono tenere in grande stima – sostiene il patriarca – è l’educazione.
Come, dunque, garantire in concreto il valore del capitale umano? Attraverso la solidarietà e la sussidiarietà. Scola si dice convinto che «se la singola impresa e la rete di imprese» perseguono questo valore, «esso sarà, sempre a posteriori, anche quantificabile ». Certo, debbono mettersi in gioco «tutti gli attori socialmente rilevanti»: la persona, i corpi intermedi, la società civile (e perciò anche l’impre­sa) e lo Stato.



LA DIFESA DELLA VITA
«Il consenso su questi temi è sempre stato trasversale: se si lavora bene, c’è speranza di ottenere qualche risultato»
Embrioni, la moratoria «sbarca» a Strasburgo
Il popolare Mikolasik: pronto a sostenerla
Avvenire, 30.11.2007
DI DANIELA VERLICCHI
A rriva anche al Parlamento euro­peo di Strasburgo l’eco della pro­posta di una moratoria quin­quennale sull’uso degli embrioni lancia­ta dal nostro giornale dopo il clamoroso annuncio dei giorni scorsi sulla scoperta di una tecnica che consente di ottenere cellule staminali multipotenti senza toc­care gli embrioni umani. Ora fa dunque discutere anche l’Europa comunitaria l’i­niziativa lanciata il 21 novembre da Eu­genia Roccella con un’editoriale su Avve­nire
per bloccare la sperimentazione su­gli embrioni in tutti i laboratori d’Europa. Se ne parla, per ora informalmente, den­tro e fuori l’aula. Intanto è l’europarla­mentare slovacco Miroslav Mikolasik, del Partito popolare, a dar voce a chi aderi­sce. «Sosterrò quest’iniziativa e la farò co­noscere ai miei colleghi – dichiara il de­putato, che di professione è medico –: o­ra è essenziale creare una base di con­senso per poi proporre la moratoria alla Commissione europea».
Il percorso è chiaro, ora servono adesio­ni. E Mikolasik è pronto a spendersi per cercarle, da combattente qual è: qualche mese fa, come relatore – critico – della ri­soluzione europea sulla libera circola­zione delle terapie geniche (che utilizza­no anche tratti di dna embrionale), pro­pose una serie di emendamenti etici che avrebbero permesso ai Paesi che rifiuta­no l’utilizzo di embrioni a scopo di ricer­ca di non commercializzare questi far­maci. Gli emendamenti però furono stral­ciati e il testo venne approvato così com’e­ra: una dichiarazione di «esclusione» del­l’etica dal dibattito, com’ebbe a dire lui stesso.
Qual è il significato 'politico' della nuo­va scoperta sulle staminali?
«Anzitutto è una gran bella notizia. Cre­do che questa sia una scoperta fonda­mentale per il futuro dell’umanità. La possibilità di ottenere risultati sempre mi­gliori con cellule adulte è importante per capire e far capire che uccidere embrio­ni non è – come ci dicono – l’unico mo­do per fare ricerca. Le novità che arriva­no da America e Giappone fanno ben sperare. E dimostrano che le cellule a­dulte possono essere impiegate con pro­fitto in tutti i tipi di terapia, anche quelle contro il cancro, i danni neurologici, la leucemia e i linfomi. Queste cellule, ri­programmate, sono in grado di fornire a­gli scienziati linee cellulari multipotenti che possono generare ogni tipo di tessu­to ».
Dunque si può chiedere di fare a meno degli embrioni nei laboratori europei?
«Si deve. Vede, è esattamente come per la pena capitale. Se in Cina si mette a mor­te un criminale e poi si avviano le prati­che per l’espianto degli organi, tutti si di­chiarano contrari. E anch’io lo sono, na­turalmente. Perché, allora, nessuno dice nulla quando si uccidono gli stessi esse­ri umani, solo un po’ più piccoli, per e­spiantare cellule invece che organi?».
Cosa pensa della proposta di moratoria europea lanciata da Eugenia Roccella su «Avvenire»?
«Sosterrò l’iniziativa del vostro giornale e qualsiasi tipo di provvedimento in que­sta linea. Credo fermamente che inne­scare il dibattito possa incoraggiare ulte­riori progressi scientifici anche attraver­so una moratoria, incrementando i fon­di europei sulle cellule staminali adulte. Vorrei anche ricordare che nessuno fino­ra è mai stato curato con terapie derivanti da embrioni, mentre i tessuti ricavati da­gli esperimenti su embrioni di animali sono risultati cancerosi per effetto di u­no sviluppo cellulare incontrollabile, e dunque si tratta di risultati inservibili. Ma come medico ed europarlamentare è l’a­spetto etico del problema a interessarmi di più».
È possibile raggiungere un consenso su questa proposta?
«Il Parlamento europeo in passato ha as­sunto posizioni che non si possono cer­to definire a favore della vita... Grazie al­l’alleanza tra socialisti, liberali ed estrema sinistra sono passati provvedimenti as­sai poco etici, come quello sulle terapie avanzate che ho seguito personalmente. Dunque dobbiamo lavorare molto: far conoscere la proposta di moratoria, di­scutere con i colleghi, convincere gli in­decisi, spendersi in prima persona. Per­sonalmente mi impegno a farlo».
Quale iter dovrà seguire il provvedi­mento?
«All’Europarlamento non c’è l’iniziativa legislativa: un singolo deputato o un gruppo non possono proporre provvedi­menti direttamente all’aula. La sola via da seguire è quindi passare dalla Com­missione europea: porre il problema, scri­vere un testo comune e raccogliere con­sensi perché si legiferi in quella sede. Al­l’interno dell’organo di governo europeo, la sede più indicata è la Commissione Ri­cerca e Sviluppo. Supporterò l’iniziativa in quella Commissione insieme ai colle­ghi italiani che la proporranno. E spero sia il primo passo per l’approvazione della moratoria».
Su quali eurodeputati si può contare?
«Su questi temi il consenso è sempre sta­to trasversale. Sicuramente ci sono i Cri­stiano- democratici all’interno del Ppe, ma anche qualche liberale e non pochi verdi, molto sensibili a livello europeo su questi argomenti. Infine ci sono i mem­bri dell’Uen (la destra europea). Se si la­vora bene, qualche speranza c’è».



Un fisco «formato famiglia»
Avvenire, 30.11.2007
Petizione del Forum: a parità di reddito chi ha figli da mantenere non deve pagare le stesse tasse di chi non ne ha.
L’Agesc è tra le asso­ciazioni promotri­ci della petizione, lanciata dal Forum delle associazioni familiari, «per un fisco a misura di fami­glia ». È un tema su cui nel nostro Paese si è sempre parlato ma non si è ancora vista una iniziativa di leg­ge che prenda finalmente atto che, per esempio, un conto è vivere da soli con un reddito di 40mila euro all’anno, un conto è se con la stessa cifra deve mante­nersi una famiglia con due o più figli. L’ingiustizia di cui soffrono le famiglie è e- vidente anche sul piano dell’investimento in edu­cazione che ogni famiglia vuole realizzare. Nel corso della presentazione a Mi­lano della petizione, il pro­fessor Luca Antonini, do­cente di diritto costituzio­nale all’Università di Pa­dova, ha citato alcune cifre eloquenti. Per educare e mantenere i figli fino a 18 anni è necessaria una spe­sa quantificabile fra i 140 e i 170mila euro, cioè da 7 a 9mila euro all’anno. A fron­te di questo impegno delle famiglie, la detrazione è di 800euro all’anno per ogni figlio, applicabile solo ai redditi bassi. E la pressione fiscale nei confronti delle famiglie è invece applicata come se avessero a disposizione tutto il loro reddito. Il testo della petizione par­te dalla considerazione che «mantenere ed educare i propri figli è, per la fami­glia, oltre che un obbligo morale e naturale anche un diritto-dovere costitu­zionale ». La grande questione fisca­le oggi in Italia è dunque il sistema di tassazione del­le famiglie. Un fisco ingiu­sto significa famiglie pove­re, famiglie che non ce la fanno, figli che non nasco­no. Un Paese che non si rinnova. Le famiglie sono fortemente penalizzate, perché non si tiene vera­mente conto dei carichi fa­miliari.
Va quindi introdotto un si­stema fiscale basato non solo sull’equità verticale (chi più ha più paga), ma anche sull’equità orizzon­tale per cui, a parità di red­dito, chi ha figli da mante­nere non deve pagare, in pratica, le stesse tasse di chi non ne ha. Il reddito imponibile deve dunque essere calcolato non solo in base al reddito percepi­to, ma anche in base al nu­mero dei componenti del­la famiglia.
La petizione chiede quindi, quale primo passo verso u­na vera equità fiscale, un sistema di deduzioni dal reddito pari al reale costo di mantenimento di ogni soggetto a carico, sulla ba­se delle scale di equivalen­za, indipendenti dal reddi­to, che gli studiosi hanno da tempo identificato. Questo sistema è sempli­ce, di immediata applica­zione, mantiene intatta la progressività del prelievo, può sostituire miglioran­dolo l’attuale complicato sistema di detrazioni. Il problema di coloro che non godrebbero delle de­duzioni, a causa di redditi troppo bassi, i cosiddetti incapienti, si può facil­mente risolvere introdu­cendo l’imposta negativa, un’integrazione al reddito pari alla deduzione non goduta. La petizione può essere firmata anche on li­ne al sito del Forum:
www.forumfamiglie.org.




«Un dossier che fa aprire gli occhi» Avvenire, 30.11.2007
Le scuole paritarie fanno risparmiare 6 miliardi allo Stato ogni anno. Il costo sulle spalle delle famiglie Le cifre presentate in un documento che ha raccolto vasti consensi
DI VALERIO LESSI
I l dossier dell’Agesc sui costi della scuola e la penalizzazione che subiscono le fa­miglie che scelgono la scuola paritaria (pubblicata per intero su questa pagina nel mese scorso) ha fatto centro. «L’attenzione è stata alta – afferma il presidente dell’associa­zione, Maria Grazia Colombo – e sono arri­vati anche molti consensi. Più che merito no­stro, merito dei numeri, che una volta tanto parlano chiaro, senza equivoci. L’Agesc ha vo­luto compiere, per il bene di tutti, un servizio di informazione basato sulla verità dei fatti e questo è stato particolarmente apprezzato e riconosciuto anche dagli altri soggetti rap­presentativi per la presenza della scuola cat­tolica nel nostro Paese». Abbiamo raccolto alcune reazioni e pareri. «Il dossier dell’Agesc – osserva padre Francesco Beneduce, segretario nazionale della Fidae – conferma il grande torto perpetrato ai danni delle famiglie italiane rispetto allo spirito del­la Costituzione. A fronte del ritardo di cin­quant’anni, la legge 62 del 2000 ha lasciato i­nalterato il problema della libertà educativa in Italia perché non è stata risolta la questio­ne del finanziamento. Anzi, guardando i da­ti forniti dall’Agesc, si vede che c’è un bene­ficio economico al contrario, a vantaggio del­lo Stato e a svantaggio delle famiglie». Padre Beneduce si dice «grato» per il lavoro svolto dall’Agesc.
«La cultura della libertà educativa – aggiun­ge – va rafforzata anche facendo circolare que­ste cifre. È una cultura che deve crescere an­che dentro la Chiesa per cambiare quella mentalità, purtroppo ancor presente, secon­do la quale la scuola cattolica è per i figli di papà, o è un corpo estraneo o addirittura dan­noso. Appoggiamo la richiesta delle famiglie di una parità che sia anche economica non perché noi ne traiamo vantaggio. Il problema è non far mancare al sistema nazionale di i­struzione il contributo fondamentale della scuola paritaria, espressione di una tradizio­ne secolare che c’era prima della scuola di Stato. Se venisse meno questo contributo, sa­rebbe un impoverimento per tutti».
Il professor Redi Sante Di Pol, presidente del­la Fism, porta l’accento sulla situazione spe­cifica delle scuole materne. «Nel dossier del­l’Agesc – osserva – sono riportati i costi delle scuole materne a carico del ministero. Ma ci sono spese per la gestione didattica che so­no a carico dei Comuni. Quindi la spropor­zione messa in evidenza è ancora più gran­de ». Il professor Di Pol sottolinea inoltre una situazione a macchia di leopardo che carat­terizza le scuole materne: «Alcune regioni del nord hanno leggi che prevedono l’erogazio­ne di contributi anche se minimi, mentre in genere le regioni del sud non danno nulla. Al­cuni Comuni hanno sottoscritto convenzio­ni mentre in molte realtà locali non c’è alcun intervento di sostegno da parte dell’ente lo­cale ».
«Sottoscrivo in pieno il lavoro e il metodo del­l’Agesc – dice a sua volta Vincenzo Silvano, presidente della Foe –. È chiaro che lo Stato risparmia con la scuola paritaria. Abbiamo ora a disposizione dati certi, che di solito ven­gono invece travisati, che fanno capire anche alle famiglie lo sforzo che facciamo per tene­re aperti i nostri istituti. Serve una battaglia per il buono scuola in tutte le Regioni, si de­ve capire che con il buono scuola sgraviamo lo Stato di una spesa che altrimenti sarebbe incredibilmente più alta. Lo Stato dovrebbe anche incentivare la nascita di nuove scuole paritarie, mentre spesso oggi non possiamo rispondere alle richieste perché i costi sono esorbitanti».

giovedì 29 novembre 2007

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI presenta la figura di Sant’Efrem, il Siro
2) Riconciliazione e aiuto per superare la sindrome post-aborto I Centri di Aiuto alla Vita pronti ad aiutare le donne ricorse all’aborto
3) I GENITORI E LA SCUOLA - SE LI COINVOLGIAMO SULLE COSE CHE CONTANO
4) Pillola abortiva. E siamo alla 16ª vittima
5) C’è ancora vita dopo il coma
6) Gli amici di Cristo, ecco la vera storia - Rudolf Schnackenburg, Freundschaft mit Jesus ( Amicizia con Gesù, pp. 122, euro 10
7) Oggi Promessi Sposi, ciclo di letture e mostra a Milano, Corriere della Sera, 29.11.2007






Benedetto XVI presenta la figura di Sant’Efrem, il Siro
Catechesi per l'Udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 28 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in piazza San Pietro, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di Sant’Efrem, il Siro.

* * *
Cari fratelli e sorelle,
secondo l'opinione comune di oggi, il cristianesimo sarebbe una religione europea, che avrebbe poi esportato la cultura di questo Continente in altri Paesi. Ma la realtà è molto più complessa, poiché la radice della religione cristiana si trova nell'Antico Testamento e quindi a Gerusalemme e nel mondo semitico. Il cristianesimo si nutre sempre a questa radice dell'Antico Testamento. Anche la sua espansione nei primi secoli si è avuta sia verso occidente – verso il mondo greco-latino, dove ha poi ispirato la cultura europea – sia verso oriente, fino alla Persia, all'India, contribuendo così a suscitare una specifica cultura, in lingue semitiche, con una propria identità. Per mostrare questa pluriformità culturale dell’unica fede cristiana degli inizi, nella catechesi di mercoledì scorso ho parlato di un rappresentante di questo altro cristianesimo, Afraate il saggio persiano, da noi quasi sconosciuto. Nella stessa linea vorrei parlare oggi di sant'Efrem Siro, nato a Nisibi attorno al 306 in una famiglia cristiana. Egli fu il più importante rappresentante del cristianesimo di lingua siriaca e riuscì a conciliare in modo unico la vocazione del teologo e quella del poeta. Si formò e crebbe accanto a Giacomo, Vescovo di Nisibi (303-338), e insieme a lui fondò la scuola teologica della sua città. Ordinato diacono, visse intensamente la vita della locale comunità cristiana fino al 363, anno in cui Nisibi cadde nelle mani dei Persiani. Efrem allora emigrò a Edessa, dove proseguì la sua attività di predicatore. Morì in questa città l’anno 373, vittima del contagio contratto nella cura degli ammalati di peste. Non si sa con certezza se era monaco, ma in ogni caso è sicuro che è rimasto diacono per tutta la sua vita ed ha abbracciato la verginità e la povertà. Così appare nella specificità della sua espressione culturale la comune e fondamentale identità cristiana: la fede, la speranza — questa speranza che permette di vivere povero e casto in questo mondo ponendo ogni aspettativa nel Signore — e infine la carità, fino al dono di se stesso nella cura degli ammalati di peste.
Sant'Efrem ci ha lasciato una grande eredità teologica: la sua considerevole produzione si può raggruppare in quattro categorie: opere scritte in prosa ordinaria (le sue opere polemiche, oppure i commenti biblici); opere in prosa poetica; omelie in versi; infine gli inni, sicuramente l’opera più ampia di Efrem. Egli è un autore ricco e interessante per molti aspetti, ma specialmente sotto il profilo teologico. La specificità del suo lavoro è che in esso si incontrano teologia e poesia. Volendoci accostare alla sua dottrina, dobbiamo insistere fin dall’inizio su questo: sul fatto cioè che egli fa teologia in forma poetica. La poesia gli permette di approfondire la riflessione teologica attraverso paradossi e immagini. Nello stesso tempo la sua teologia diventa liturgia, diventa musica: egli era infatti un grande compositore, un musicista. Teologia, riflessione sulla fede, poesia, canto, lode di Dio vanno insieme; ed è proprio in questo carattere liturgico che nella teologia di Efrem appare con limpidezza la verità divina. Nella sua ricerca di Dio, nel suo fare teologia, egli segue il cammino del paradosso e del simbolo. Le immagini contrapposte sono da lui largamente privilegiate, perché gli servono per sottolineare il mistero di Dio.
Non posso adesso presentare molto di lui, anche perchè la poesia è difficilmente traducibile, ma per dare almeno un'idea della sua teologia poetica vorrei citare in parte due inni. Innanzitutto, anche in vista del prossimo Avvento, vi propongo alcune splendide immagini tratte dagli inni Sulla natività di Cristo. Davanti alla Vergine Efrem manifesta con tono ispirato la sua meraviglia:
"Il Signore venne in lei
per farsi servo.
Il Verbo venne in lei
per tacere nel suo seno.
Il fulmine venne in lei
per non fare rumore alcuno.
Il pastore venne in lei
ed ecco l’Agnello nato, che sommessamente piange.
Poiché il seno di Maria
ha capovolto i ruoli:
Colui che creò tutte le cose
ne è entrato in possesso, ma povero.
L’Altissimo venne in lei (Maria),
ma vi entrò umile.
Lo splendore venne in lei,
ma vestito con panni umili.
Colui che elargisce tutte le cose
conobbe la fame.
Colui che abbevera tutti
conobbe la sete.
Nudo e spogliato uscì da lei,
egli che riveste (di bellezza) tutte le cose"
(Inno "De Nativitate"11, 6-8).
Per esprimere il mistero di Cristo Efrem usa una grande diversità di temi, di espressioni, di immagini. In uno dei suoi inni, egli collega in modo efficace Adamo (nel paradiso) a Cristo (nell’Eucaristia):
"Fu chiudendo
con la spada del cherubino,
che fu chiuso
il cammino dell’albero della vita.
Ma per i popoli,
il Signore di quest’albero
si è dato come cibo
lui stesso nell’oblazione (eucaristica).
Gli alberi dell’Eden
furono dati come alimento
al primo Adamo.
Per noi, il giardiniere
del Giardino in persona
si è fatto alimento
per le nostre anime.
Infatti tutti noi eravamo usciti
dal Paradiso assieme con Adamo,
che lo lasciò indietro.
Adesso che la spada è stata tolta
laggiù (sulla croce) dalla lancia
noi possiamo ritornarvi"
(Inno 49,9-11).
Per parlare dell’Eucaristia Efrem si serve di due immagini: la brace o il carbone ardente, e la perla. Il tema della brace è preso dal profeta Isaia (cfr 6,6). E’ l’immagine del serafino, che prende la brace con le pinze, e semplicemente sfiora le labbra del profeta per purificarle; il cristiano, invece, tocca e consuma la Brace, che è Cristo stesso:
"Nel tuo pane si nasconde lo Spirito
che non può essere consumato;
nel tuo vino c’è il fuoco che non si può bere.
Lo Spirito nel tuo pane, il fuoco nel tuo vino:
ecco una meraviglia accolta dalle nostre labbra.
Il serafino non poteva avvicinare le sue dita alla brace,
che fu avvicinata soltanto alla bocca di Isaia;
né le dita l’hanno presa, né le labbra l’hanno inghiottita;
ma a noi il Signore ha concesso di fare ambedue cose.
Il fuoco discese con ira per distruggere i peccatori,
ma il fuoco della grazia discende sul pane e vi rimane.
Invece del fuoco che distrusse l’uomo,
abbiamo mangiato il fuoco nel pane
e siamo stati vivificati"
(Inno "De Fide"10,8-10).
E ancora un ultimo esempio degli inni di sant'Efrem, dove parla della perla quale simbolo della ricchezza e della bellezza della fede:
"Posi (la perla), fratelli miei, sul palmo della mia mano,
per poterla esaminare.
Mi misi ad osservarla dall’uno e dall’altro lato:
aveva un solo aspetto da tutti i lati.
(Così) è la ricerca del Figlio, imperscrutabile,
perché essa è tutta luce.
Nella sua limpidezza, io vidi il Limpido,
che non diventa opaco;
e nella sua purezza,
il simbolo grande del corpo di nostro Signore,
che è puro.
Nella sua indivisibilità, io vidi la verità,
che è indivisibile"
(Inno "Sulla Perla" 1, 2-3).
La figura di Efrem è ancora pienamente attuale per la vita delle varie Chiese cristiane. Lo scopriamo in primo luogo come teologo, che a partire dalla Sacra Scrittura riflette poeticamente sul mistero della redenzione dell’uomo operata da Cristo, Verbo di Dio incarnato. La sua è una riflessione teologica espressa con immagini e simboli presi dalla natura, dalla vita quotidiana e dalla Bibbia. Alla poesia e agli inni per la liturgia, Efrem conferisce un carattere didattico e catechetico; si tratta di inni teologici e insieme adatti per la recita o il canto liturgico. Efrem si serve di questi inni per diffondere, in occasione delle feste liturgiche, la dottrina della Chiesa. Nel tempo essi si sono rivelati un mezzo catechetico estremamente efficace per la comunità cristiana.
E’ importante la riflessione di Efrem sul tema di Dio creatore: niente nella creazione è isolato, e il mondo è, accanto alla Sacra Scrittura, una Bibbia di Dio. Usando in modo sbagliato la sua libertà, l’uomo capovolge l’ordine del cosmo. Per Efrem è rilevante il ruolo della donna. Il modo in cui egli ne parla è sempre ispirato a sensibilità e rispetto: la dimora di Gesù nel seno di Maria ha innalzato grandemente la dignità della donna. Per Efrem, come non c’è Redenzione senza Gesù, così non c’è Incarnazione senza Maria. Le dimensioni divine e umane del mistero della nostra redenzione si trovano già nei testi di Efrem; in modo poetico e con immagini fondamentalmente scritturistiche, egli anticipa lo sfondo teologico e in qualche modo lo stesso linguaggio delle grandi definizioni cristologiche dei Concili del V secolo.
Efrem, onorato dalla tradizione cristiana con il titolo di "cetra dello Spirito Santo", restò diacono della sua Chiesa per tutta la vita. Fu una scelta decisiva ed emblematica: egli fu diacono, cioè servitore, sia nel ministero liturgico, sia, più radicalmente, nell’amore a Cristo, da lui cantato in modo ineguagliabile, sia infine nella carità verso i fratelli, che introdusse con rara maestria nella conoscenza della divina Rivelazione.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i religiosi Fatebenefratelli, le Suore della Carità Domenicane della Presentazione, i partecipanti alla Scuola di formazione promossa dal Movimento dei Focolari, i rappresentanti del Centro Italiano di Solidarietà di Viterbo e i fedeli provenienti da Cervia. Cari amici, auguro che la sosta presso i luoghi sacri vi rinsaldi nell’adesione a Cristo e alimenti la carità nelle vostre famiglie e nelle vostre comunità. Saluto gli incaricati della diffusione nel mondo de L’Osservatore Romano, accompagnati dal Direttore responsabile prof. Giovanni Maria Vian e dal Direttore generale Don Elio Torrigiani. Cari amici, vi ringrazio per il vostro impegno nel promuovere gli insegnamenti del Papa in tutto il mondo e vi accompagno con un particolare ricordo nella preghiera, perché il Signore vi ricolmi di copiosi doni spirituali.
Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. La figura dell’apostolo Andrea, la cui festa si celebrerà nei prossimi giorni, sia per voi, cari giovani, un modello di fedele e coraggiosa testimonianza cristiana. Sant’Andrea interceda per voi, cari ammalati, affinché la consolazione divina promessa da Gesù agli afflitti riempia i vostri cuori e vi fortifichi nella fede. E voi, cari sposi novelli, impegnatevi a corrispondere sempre al progetto di amore del quale Cristo vi ha resi partecipi con il sacramento del matrimonio.
[APPELLO DEL SANTO PADRE]
Il 1° dicembre prossimo ricorrerà la Giornata Mondiale contro l’AIDS. Sono spiritualmente vicino a quanti soffrono per questa terribile malattia come pure alle loro famiglie, in particolare a quelle colpite dalla perdita di un congiunto. Per tutti assicuro la mia preghiera.
Desidero, inoltre, esortare tutte le persone di buona volontà a moltiplicare gli sforzi per fermare la diffusione del virus HIV, a contrastare lo spregio che sovente colpisce quanti ne sono affetti, e a prendersi cura dei malati, specialmente quando sono ancora fanciulli.
[© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana]



Riconciliazione e aiuto per superare la sindrome post-aborto I Centri di Aiuto alla Vita pronti ad aiutare le donne ricorse all’aborto



I GENITORI E LA SCUOLA - SE LI COINVOLGIAMO SULLE COSE CHE CONTANO
Avvenire, 29.11.2007
DAVIDE RONDONI
E ora che solo uno su dieci dei genito­ri è andato a votare nelle elezioni sco­lastiche negli istituti statali, si scopre che c’è qualcosa che non va. Sì, insomma, di fronte al grande segno di disinteresse rispetto alla partecipazione prevista dagli attuali ordinamenti ci si domanda: come mai ai genitori interessa poco o niente della scuola? Sembrava questa ieri la domanda prevalente sui media che si sono occupati della faccenda. Dalle percentuali di partecipazione del ’74, anno di attuazione, che videro il 77% dei geni­tori delle scuole elementari, il 72,7% del­le medie e il 60% delle superiori, si è sce­si inesorabilmente fino agli attuali 29,8 e 21,0 e 10,1.
Dunque, ai genitori interessa davvero poco della scuola dei loro figli? Si possono fare infinite analisi sul dato, ma il cuore del problema non deve sfuggire: la scuola come è organizzata tiene lontano i ge­nitori da una responsabilità attiva. Cer­to, molti genitori sono pure svogliati e approssimativi. Ma il grosso del proble­ma è un altro. Lo ha centrato l’ex mini­stro De Mauro in un’intervista di ieri. Infatti, mentre Maria Laura Rodotà invitava i genitori a partecipare ad assemblee per affrontare il problema della sicurezza fuori dalle scuole e per scegliere quali tende ricevere, De Mauro accusava l’attuale centralismo e la mancanza di reale autonomia delle scuole, e dunque la possibilità di coinvolgere i genitori in scelte davvero qualificanti. Come la scelta dei docenti, degli orari, dei contenuti e delle modalità di insegnamento. Chiedere il parere ai genitori solo sulle tende e su problemi di sicurezza, per quanto importanti, significa di fatto escluderli dalla reale missione della scuola, che è quella di istruire educando.
Questa esclusione è figlia di un’idea per cui lo Stato presume di avere l’esclusiva 'paternità' dei contenuti e delle moda­lità formativi ed educativi. In altre parole, è come se la scuola di Stato dicesse: venite, lasciateci i vostri figli da formare, costa poco, e in cambio vi chiediamo poco, al massimo un parere sulle tende e su come tenere lontani brutti ceffi dai cancelli. Una cultura della irresponsabilità, figlia del centralismo statalista, difesa, come riconosce lo stesso ex-ministro, da molti tra coloro che son chiamati a pren­dere decisioni «sia nel Parlamento che tra le rappresentanze politiche e sinda­cali ».
De Mauro parla di grandi resistenze. Ma cosa difendono costoro? Dinanzi a ogni proposta che vuole movimentare l’attuale sistema scolastico, statalista e de­presso, si alza un coro di resistenti. Che accusando ora uno ora l’altro – il ministro se vuol cambiar qualcosa, i cattolici perché vogliono parità e libertà scolastica, o Confindustria che chiede a sua vol­ta scelte innovative – si attesta sulla dife­sa dell’esistente.
Ora anche dal mondo dei genitori arriva un segnale, disperatamente forte: questa scuola ci interessa poco. Forse è ora di chiedere uno scatto di responsabilità a tutti. Una scuola poco interessante per i ragazzi, per i genitori e per chi ci si impegna tutti i giorni è una scuola malata. Che ammala l’intera società di cui è si­lenzioso ma quotidiano humus. Mentre si fa anche troppo parlare di altri problemi minori, snobbare il segnale lanciato dai genitori sarebbe una grave miopia. Certo, si possono migliorare i mec­canismi di rappresentanza. Si possono fare modifiche qua e là. Ma c’è un im­pianto generale a cui metter mano. Lo possono fare uomini coraggiosi e fiduciosi nel futuro. Che non abbiano paura di chiedere più responsabilità a tutti nell’opera grande e delicata della educazione. Ai docenti responsabilità nei confronti della verità e della libertà. Ai geni­tori nei confronti della maturità dei propri figli. Agli studenti nei confronti di un compito che non si esaurisce nel solo cavarsela.
Occorrono uomini che non badino solo al calcolo o alla difesa di posizioni di rendita. Per educare, occorre amare la vita più che il proprio tornaconto.


SILENZIO OMERTOSO IN VISTA DEL VARO
Pillola abortiva. E siamo alla 16ª vittima

Avvenire, 29.11.2007
EUGENIA ROCCELLA
E siamo a sedici. La pillola abortiva Ru486, che forse tra pochi mesi sarà commercializzata in Italia, ha provocato la morte di un’altra donna, che va ad aggiungersi alle quindici di cui abbiamo già dato notizia. Una notizia, però, che quasi nessuno ha raccolto. La grande stampa italiana ha ostinatamente ignorato queste morti, e ha preferito prendere per buono il ritornello ripetuto meccanicamente dai sostenitori della pillola: si tratta di un farmaco assolutamente sicuro, usato in Europa da anni, e l’Italia, autorizzandone la diffusione, non farebbe altro che colmare un vistoso ritardo. Pazienza, ci siamo abituati: che i mezzi di comunicazione di massa filtrino le notizie secondo il proprio orientamento ideologico non sorprende.
Sorprende invece, e soprattutto inquieta, che persino chi ha il compito ufficiale di vigilare sulla sicurezza dei farmaci non disponga di informazioni certe sul numero delle morti.
Nell’ultimo bollettino dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) si può leggere un articolo intitolato «Ru 486: efficacia e sicurezza di un farmaco che non c’è». Lo scopo del pezzo, si legge nel sommario, è di fornire «un aggiornamento dettagliato» sulla pillola abortiva, ma la bibliografia non appare molto aggiornata. Le morti, secondo l’articolo, sarebbero in tutto 9, di cui 6 per sepsi. I conti non tornano: le donne morte per sepsi sono già 9, mentre il totale dei decessi è arrivato, con quest’ultimo tragico caso (ne parliamo diffusamente nell’inserto «è vita») appunto a 16. Non è, però, la sola lacuna dell’articolo citato; anche la contabilità degli eventi avversi non è aggiornata, mentre le percentuali di efficacia si basano su fonti e criteri di valutazione molto discutibili. Nel testo, fra l’altro, non si accenna a uno degli aspetti sanitari più problematici del metodo chimico: circa il 20% delle donne francesi e addirittura il 50% delle inglesi che si rivolgono alle cliniche «Marie Stopes» non si presentano alla visita finale di controllo, e degli esiti dell’aborto non si sa più nulla. Su tutto questo, e su altre informazioni imprecise o incomplete contenute nell’articolo del Bollettino Aifa, torneremo con maggiori dettagli. Oggi vogliamo soltanto ricordare la ragazza di diciott’anni, senza volto, senza nome, senza storia, che è morta grazie alla pillola che i media americani chiamano da tempo «kill pill».
Le 16 donne che hanno pagato così duramente la loro scelta di interrompere la gravidanza, in Europa non hanno mai avuto l’onore di una pagina di giornale. Nessuno ha raccontato la vicenda di Rebecca Tell Berg, sedicenne svedese morta sotto la doccia per una violenta e inarrestabile emorragia, o di Oriane Shevin, figlia del presidente del Comitato nazionale di bioetica francese Didier Sicard. Nemmeno la morte della diciottenne Holly Patterson, che negli Usa ha provocato una campagna di stampa sulle misteriose infezioni letali provocate dal batterio Clostridium, ha avuto eco in Europa. Il velo di silenzio che avvolge i decessi da aborto chimico è così fitto che il New York Times ha avanzato l’ipotesi che le morti possano essere più di quelle di cui con tanta fatica si riesce a sapere qualcosa. Ci auguriamo che l’Agenzia italiana del farmaco, che dovrà esaminare la documentazione scientifica sulla Ru486 per autorizzarne l’eventuale registrazione nel nostro Paese, non si fermi a un approccio superficiale, e svolga in piena trasparenza il proprio compito, offrendo una risposta convincente ai tanti dubbi che la pillola suscita.
Ci auguriamo che l’Agenzia del farmaco non si fermi a un approccio superficiale



C’è ancora vita dopo il coma
Francesca Lozito
Avvenire, 29.11.2007
Ci sarà Maurizio, il papà di Juri.
Anna, mamma di Riccardo. E poi Gianna, mamma di Luigi. Ci sarà la sorella di Paolo. E, naturalmente, ci saranno genitori di Luca. Nomi che fanno parte di una piccola grande storia collettiva: aver vissuto un’esperienza di coma. È senza dubbio un esperimento interessante quello che si terrà questa sera alle 21 al teatro Dehon di Bologna. Nell’ambito della seconda edizione di «Teatro nel risveglio, rassegna delle differenze» l’associazione «Gli amici di Luca» promuove la serata «Ti racconto la mia storia... convivere con la malattia: le famiglie testimoniano la loro esperienza». Si tratta di un reading poetico al quale sono chiamati ad intervenire familiari che hanno vissuto o stanno vivendo le problematiche del coma e degli stati vegetativi. Familiari che hanno perso qualcuno mentre ancora speravano, o che stanno ancora accompagnando qualcuno aspettando il suo risveglio.
«Ero restia a salire su un palco – dice Anna di Reggio Emilia, la mamma di Riccardo che quattro anni fa è entrato in coma in seguito ad un incidente con il motorino – ma penso che il mio racconto possa dare forza a tante altre persone che hanno vissuto la nostra stessa situazione».

Lei leggerà una lettera rivolta direttamente a suo figlio, che oggi pian piano si sta riprendendo: «Una strada difficile – ammette Anna – perché cambia completamente la prospettiva di vita».
Per Fulvio De Nigris, colui che ha voluto fortemente la creazione della prima «Casa dei risvegli» a Bologna e che ha vissuto l’esperienza drammatica di un figlio morto a 16 anni dopo un lungo coma, «dare la possibilità ai genitori di potersi esprimere direttamente vuol dire andare incontro a loro desiderio di parlare, di fare comunità, di dare valore alla propria esperienza». Una realtà, quella bolognese, in cui la struttura scientifica di eccellenza si affianca ad un’intensa attività culturale, che tra l’altro sembra destinata a non rimanere un unicum in Italia.
Da qualche tempo a Napoli è nata l’associazione «Amici di Eleonora», gemella degli «Amici di Luca». È animata da Margherita Rocco e Claudio Lunghini, genitori di Eleonora – una bimba nata nell’agosto del 2003, dopo un parto in situazione disperata, per mesi in coma e morta nel gennaio 2004 – attorno ai quali si sono raccolti un gruppo di amici, medici, professionisti e familiari che hanno profuso tutto il loro impegno per la costituzione di centri specializzati sul coma.
E un primo risultato lo hanno ottenuto: nel piano ospedaliero regionale 2006-2008, approvato nei mesi scorsi, sono previste due strutture di questo genere, una presso l’Azienda Ospedaliera Santobono­Pausillipon di Napoli, per il settore neo-natale, e l’altra presso l’Azienda Ospedaliera Rummo di Benevento, per gli altri casi. In che tempi se ne può prevedere la realizzazione? «È molto probabile che sarà quella di Benevento ad essere inaugurata prima – spiega Lunghini – al Santobono oltre ai problemi economici ci sono criticità per quanto riguarda l’ubicazione». La situazione al sud per la cura di chi esce dalle rianimazioni, e deve riprendere la propria vita dopo essere stata in coma, è senza dubbio difficile, ci sono unità di risveglio solo a Lagonegro e a Crotone: «Ogni giorno – continua Lunghini – riceviamo richieste di familiari di malati, ma anche di primari di rianimazioni che non sanno dove collocare i pazienti in fase post-acuta. E sono richieste che non possiamo ancora esaudire. Fino a quando non verranno inaugurate le due Case».


Gli amici di Cristo, ecco la vera storia
DI MARCO RONCALLI
Avvenire, 29.11.2007
Quando nel suo volume Gesù di Nazaret, Benedetto XVI scrive di voler andare oltre apprezzati studi storico-critici per incontrare nuovamente la persona di Gesù – auspicando un approccio che passa attraverso la Parola e i sacramenti – pare sceglierlo a rappresentante dell’esegesi scientifica contemporanea. Papa Ratzinger «dialoga» con lui nella premessa metodologica del suo libro, ne prende le distanze, va oltre, e alla conclusione della sua opera – pronunciandosi sulle «immagini» che Gesù si attribuisce nel Vangelo di Giovanni («Io sono il pane della vita – la luce del mondo – la porta – il buon pastore – la risurrezione e la vita – la via, la verità e la vita – la vera vite»... cui aggiunge «la sorgente d’acqua»), torna a citarlo, osservando che queste espressioni figurate non sono che variazioni sull’unico tema: il Gesù venuto nel mondo che ci dà la vita perché ci dà Dio. Stiamo parlando di Rudolf Schnackenburg, teologo ed esegeta tedesco, autore di numerose pubblicazioni (la più celebre è un commento in 4 volumi al Vangelo di Giovanni), mancato 5 anni fa. Di lui la Morcelliana manda ora in libreria la prima traduzione di Freundschaft mit Jesus ( Amicizia con Gesù, pp. 122, euro 10), la sua ultima opera dove – in sintonia con diverse delle successive pagine del Gesù di Nazaret di papa Benedetto (nelle quali emerge la convinzione che il metodo storico-critico non basta da solo per comprendere la piena identità di Gesù) – si rivela non solo un maestro dell’esegesi cattolica neotestamentaria, ma anche un pensatore che vuole offrire la sua risposta alla domanda sull’attualità del Figlio di Dio.
Ecco perché, analizzate criticamente e in sintesi alcune immagini attuali di Gesù («il rivoluzionario», «l’esseno», «il crocifisso ma non risorto»…), Schnackenburg subito spiega la sua visione della figura e del significato di Gesù. Che non si esaurisce con la sua comparsa storica, ma nella quale egli viene riconosciuto proprio come colui che continua a vivere: «Il Vivente nei cuori di molti, che affascina (...). Gesù, il mio amico, l’amico di tutti gli uomini». Beninteso, dopo aver insistito sul dato della resurrezione come nucleo e parte costitutiva irrinunciabile della professione di fede. E dopo aver dato risalto all’inadeguatezza delle interpretazioni che appiattiscono la figura di Gesù, a partire dagli stessi riferimenti biblici che gli consentono di mostrarci Gesù come realizzazione assoluta dell’amicizia in una persona.
Queste pagine finiscono dunque per costituire una introduzione spirituale a Gesù, per gli uomini d’oggi che ne desiderano l’incontro nella loro ricerca di senso, che cercano il dono della sua amicizia. Per essere persone capaci di perdono, pronte a farsi sollevare dalla debolezza, e a colmare la coscienza con il dovere interiore dell’amore.
Significative le pagine dedicate – come esempio – da Schnackenburg alla Comunità di Sant’Egidio: a sottolineare come questo movimento vuol cambiare il mondo «attingendo allo spirito di Gesù» aggiungendo che «nell’amicizia con vecchi e malati, con persone d’altra razza e religione, con persone avvilite dalla guerra e dalla guerra civile, dalla fame e dalla miseria, dà prova di sé l’amicizia con Gesù».
Certo, Gesù non ha parlato molto di amicizia. Piuttosto ha comandato l’amore ai nemici. È forse nel Vangelo di Giovanni che apprendiamo come egli valuti l’amicizia (della quale il quarto evangelista accoglie l’idea ellenistica trasponendola sul piano cristiano). Ecco allora l’amico Lazzaro, Simon Pietro, Maria Maddalena, ma soprattutto ecco l’idea – in Giovanni, ma anche in Paolo– del «farsi uno con Cristo», sopportando prove e sofferenze per suo amore. Nelle ultime pagine Schnackenburg offre risalto infine a Gesù «modello umano»: disamina sulla sua piena disposizione d’amicizia verso gli uomini. Lo fa richiamando il teologo Karl Adam (del quale già nel 1931 Morcelliana aveva edito Cristo nostro fratello), poi accennando alle esperienze che di Gesù come modello umano hanno fatto i suoi discepoli.
Premesso che «ciò che Gesù esigeva e attendeva dai suoi discepoli lo realizzava lui stesso nella sua vita», Schnackenburg parla della povertà, del celibato (anche sacerdotale e ricordando che «Gesù ha suggerito ai suoi discepoli di rinunciare al matrimonio 'per il regno dei cieli', ma non ne ha fatto un comando»), della dedizione al servizio. «L’agire di Gesù è sempre il parametro per i discepoli. Nelle sue concezioni e modalità d’azione diviene per loro modello umano. Per quanto spesso i discepoli irretiti nella logica umana lo deludano nel loro comportamento, Gesù non rinuncia mai alla loro amicizia», scrive l’autore. E ammette: «Gesù non poteva essere in tutto un modello umano per i suoi discepoli. Tuttavia resta che, nonostante il potere a lui elargito da Dio e la sua gloria che traluceva già sulla terra, egli rimane loro amico e confidente».
Lazzaro, Simon Pietro, Maria Maddalena... Indagandone i rapporti umani, il teologo tedesco fornisce un’immagine storica del Nazareno diversa da quella del «rivoluzionario» o dell’«esseno», oggi di moda


Oggi Promessi Sposi
Roberta Scorranese, 29.11.2007, Corriere della Sera

mercoledì 28 novembre 2007

Nella rassegna stampa di oggi:
1) In attesa della seconda enciclica di Benedetto XVI “Spe salvi”
2) Immagini di speranza così care a Papa Benedetto
3) L’IDEOLOGIA DEL «GENERE» - QUEL GRIMALDELLO DIETRO UNA CAUSA BUONA
4) E lo scienziato si arrese all’anima
5) «Io, oncologa con il cancro, dico no all’eutanasia»
6) Padova Scola: quella tecnoscienza che illude l’uomo
7) «Io pastore italiano missionario a Mosca» Alberto Savorana
8) Una Chiesa amata dal suo popolo in un Paese che ha bisogno di una rievangelizzazione sistematica – intervista al Card. Angelo Bagnasco



In attesa della seconda enciclica di Benedetto XVI “Spe salvi”Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 28 novembre 2007
“Per la speranza noi siamo salvati” (Rm 8,24)
«Il Discorso della montagna è la chiamata all’imitazione di Gesù Cristo. Egli soltanto è “perfetto come è perfetto il Padre nostro che è nei cieli” (l’esigenza che arriva all’essere, in cui le singole istruzioni del Discorso si concentrano e si uniscono: 5,48). Non possiamo da noi essere “perfetti come il Padre nostro che è nei cieli”, ma lo dobbiamo per corrispondere al compito della nostra natura. Noi non lo possiamo, ma possiamo seguire Lui, aderire a Lui, “diventare suoi”. Se noi apparteniamo a Lui come sue membra, allora diventiamo per partecipazione ciò che egli è; la sua bontà diventa la nostra…
Il secondo aspetto concerne il futuro nascosto nel presente. Il Discorso della montagna è una parola di speranza. Nella comunione con Gesù l’impossibile diventa possibile: il cammello passa per la cruna dell’ago (Mc 10,25). Nell’essere una cosa sola con lui diventiamo anche capaci della comunione con Dio e così della salvezza definitiva. Nella misura della nostra appartenenza a Gesù si realizzano anche in noi le qualità di Gesù: le Beatitudini, la perfezione del Padre. La Lettera agli Ebrei chiarisce questo nesso di cristologia e speranza, quando dice che noi possediamo un’ancora sicura e ferma che arriva fino all’interno del santuario, dietro la tenda, là dove Gesù è entrato (6,19s). L’uomo nuovo non è utopico: egli esiste, e nella misura in cui siamo uniti a Lui, la speranza è presente, niente affatto puro futuro. La vita eterna e la vera comunione, la liberazione non sono utopia, pura attesa dell’inconsistente. La “vita eterna” è la vita reale, anche oggi è presente nella comunione con Gesù. Agostino ha sottolineato questa presenza della speranza cristiana nella sua esposizione del versetto della Lettera ai Romani: “Per la speranza noi siamo salvati” (8,24). Egli dice in proposito: Paolo non insegna che ci sarà speranza per noi, no, egli dice: Noi siamo salvati (Spe salvi). Certamente non vediamo ancora ciò che speriamo, ma siamo già ora corpo del Capo in cui è già tutto presenza ciò che speriamo» [Joseph Ratzinger, Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità, Milano 1989].

Nel 1986, a Collevalenza ho partecipato agli esercizi per sacerdoti e Mons. Luigi Giussani aveva invitato a tenerli Joseph Ratzinger che li ha svolti sulla scia di un volume in cui Josef Pieper tratta filosoficamente di “Amare, sperare, credere”, che oggi il Papa, ampliando le tre “virtù teologali” sul piano teologico e spirituale nell’essenzialità magisteriale sono diventate già due encicliche in attesa della terza sulla fede.
E siccome è possibile comprendere la vera essenza della speranza cristiana e riviverla (e questo è veramente urgente, come il Convegno di Verona ha sottolineato) solo se si guarda in faccia alle imitazioni deformate che oggi cercano di insinuarsi dappertutto, il card. Ratzinger ci ha fatto comprendere la grandezza e la ragione della speranza cristiana mettendo in luce il falso splendore delle sue imitazioni profane, secolarizzate.

Imitazioni profane, secolarizzate della speranza cristiana
E’ partito raccontando il resoconto di un suo amico che fece un viaggio in Olanda riportando di una Chiesa che faceva parlare di sé come di una chiesa migliore per il domani. E trovava questo in contraddizione con seminari vuoti, ordini religiosi senza vocazioni, preti e religiosi che in gruppi voltano le spalle alla loro vocazione, con la scomparsa della confessione, la drammatica caduta alla Messa e via dicendo. Ma dispetto di tutto è la valutazione conclusiva: una Chiesa grandiosa, perché non c’era nessuna parte di pessimismo, tutti andavano incontro al futuro pieni di ottimismo e il fenomeno dell’ottimismo faceva dimenticare ogni decadenza e ogni distruzione; bastava a compensare ogni negativo. Questo ottimismo metodico veniva prodotto da chi interpretava il Concilio con l’ermeneutica cioè l’interpretazione della discontinuità e della rottura, per cui non c’era da spaventarsi del dissolversi del vecchio modo di essere Chiesa per il rinascere di una Chiesa completamente nuova: dal pre-concilio al post-concilio. L’ottimismo metodico si abbinava a una speranza, mentre dissolvendo il rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto- Chiesa che il Signore ci ha donato fino al compimento della storia, era una parodia della fede e della speranza. Però questo ottimismo si abbinava culturalmente e politicamente alla fede liberale nel progresso perenne: il surrogato borghese, secolarizzato della speranza perduta della fede.
In contrapposizione alla fede liberale c’è il pensiero di Ernest Bloch per cui la speranza è l’ontologia del non ancora esistente. Una giusta filosofia non deve mirare a ciò che è (sarebbe conservatorismo reazionario ogni metafisica cioè la realtà o verità), ma a preparare ciò che ancora non è. Giacché ciò che è è, degno di perire; il mondo veramente degno di essere vissuto dev’essere ancora costruito. Il compito dell’uomo creativo è dunque quello di creare il mondo giusto che ancora non esiste; per questo elevato compito la filosofia deve svolgere una funzione decisiva: essa è il laboratorio della speranza, l’anticipazione del mondo di domani nel pensiero, anticipazione di un mondo ragionevole e umano, non più formatosi mediante il caso, ma pensato e realizzato dalla nostra ragione. Per Bloch e per alcuni teologi che lo seguono l’ottimismo è la forma e l’espressione della fede nella storia, ed è perciò doveroso per una persona che vuole servire la liberazione, l’evocazione rivoluzionaria del mondo nuovo e dell’uomo nuovo. La speranza è perciò la virtù di un’ontologia, un’etica, una morale di lotta, la forza dinamica della marcia verso l’utopia.
L’“ottimismo”, che seduce molti, è la virtù teologica di un Dio nuovo e di una nuova religione, la virtù della storia divinizzata, di una “storia” di Dio, dunque del grande Dio delle ideologie moderne e della loro promessa. Questa promessa è l’utopia, il realizzarsi per mezzo della “rivoluzione”, che per sua parte rappresenta una specie di divinità mitica, una “figlia di Dio” in rapporto con il “Dio- Padre” “Storia”. Nel sistema cristiano delle virtù la disperazione, cioè la radicale opposizione verso questa fede e questa speranza immanente, viene qualificata come peccato contro lo Spirito Santo, perché esclude il suo potere di guarire e di perdonare, e si nega così la redenzione. Nella nuova religione vi corrisponde il fatto che il “pessimismo” è il peccato di tutti i peccati, poiché il dubbio per l’ottimismo, per il progresso, per l’utopia è un assalto frontale allo spirito dell’età moderna, è la contestazione del suo credo fondamentale su cui si fonda la sua sicurezza, che è minacciata tuttavia di continuo per la debolezza di quella divinità illusoria che è la storia.
”Tutto questo - racconta Ratzinger mostrando una sua esperienza - mi venne di nuovo in mente quando esplose il dibattito a riguardo del mio Rapporto sulla fede, pubblicato nel 1985. Il grido di rivolta sollevato da questo libro senza pretese culminava nell’accusa: è un libro pessimistico. Da qualche parte si tentò perfino di vietarne la vendita, perché una eresia di quest’ordine di grandezze semplicemente non poteva essere tollerata. I detentori del potere d’opinione misero il libro all’indice. La nuova inquisizione fece sentire la sua forza. Venne dimostrato ancora una volta che non esiste peccato peggiore contro lo spirito dell’epoca che il diventare rei di una mancanza di ottimismo. La domanda non era affatto: è vero o falso ciò che si afferma, le diagnosi sono giuste oppure no; ho potuto constatare che non ci preoccupava di porsi simili questioni fuori moda. Il criterio era molto semplice: è ottimistico oppure no, e davanti a questo criterio il libro era senz’altro fallimentare. La discussione artificialmente accesa sull’uso della parola “restaurazione” che non aveva niente a che fare con quanto detto nel libro, era solo una parte del dibattito sull’ottimismo: sembrava in questione il dogma del progresso. Con la collera che solo un sacrilegio può evocare si picchiava su questa negazione del Dio Storia e della sua promessa. Pensai a un parallelo in campo teologico. Il profetiamo viene da molti congiunto da una parte con la “critica” (rivoluzione, “ermeneutica della discontinuità e della rottura del Vaticano II”), dall’altra con “ottimismo” e in questa forma reso criterio centrale della distinzione fra vera e falsa teologia”.

La vera essenza della speranza cristiana cioè l’incarnazione del Logos e Amore di Dio in Gesù Cristo
L’ottimismo ideologico o atto di fede delle ideologie moderne, questo surrogato della speranza cristiana, deve essere distinto da un ottimismo di temperamento e di disposizione. Simile ottimismo è semplicemente una qualità naturale psicologica che si può unire con la speranza cristiana come con l’ottimismo ideologico, ma per sé non coincide né con l’una né con l’altro. L’ottimismo di temperamento è una cosa bella e utile nelle angosce della vita: chi non si rallegra per la naturale letizia e fiducia che irradia da una persona? Chi non se l’augura per se stesso? Come tutte le disposizioni naturali, un simile ottimismo è anzitutto una qualità moralmente neutrale; di nuovo come tutte le disposizioni deve essere sviluppato e coltivato per formare positivamente la fisionomia morale di una persona. Allora esso può crescere mediante la speranza cristiana e diventare ancora più puro e più profondo; viceversa in un’esistenza vuota e falsa esso può decadere e divenire pura facciata. Importante è non confonderlo con l’ottimismo ideologico, ma anche non identificarlo con la speranza cristiana, la quale può crescere su di esso, ma come virtù teologica è una qualità umana di profondità di gran lunga maggiore e può emergere anche in un temperamento pessimistico.
L’ottimismo ideologico può reggersi culturalmente su base sia liberale che marxista. Nel primo caso esso è fede nel progresso mediante evoluzione e mediante lo sviluppo della storia umana scientificamente guidata. Nel secondo caso è fede nel movimento dialettico della storia, nel progresso mediante lotta di classe e rivoluzione. Le divergenze tra queste decorrenti fondamentali del pensiero moderno sono manifeste; entrambe si sono frantumate in varianti molteplici del modello di fondo: “eresie” che discendono, pur in politiche opposte, dallo stesso ceppo cioè un ottimismo di una secolarizzazione della speranza cristiana; si fonda nel passaggio dal Dio Trascendente al Dio Storia. In questo sta il profondo irrazionalismo di queste strade, a dispetto di tutta la vantata razionalità di superficie.
Lo scopo dell’ottimismo è l’utopia del mondo definitivamente e per sempre libero e felice; la società perfetta, in cui la storia attinge la sua meta e manifesta la vantata sua divinità. La meta prossima è il successo del nostro poter fare. Il fine della speranza cristiana, invece, è il regno, la signoria di Dio, cioè l’unione di uomo e mondo con Dio mediante un atto di divino potere e amore già completo nel crocefisso risorto centro della storia e del mondo, che progressivamente accade nella Chiesa a servizio di tutti e di tutto. Lo scopo prossimo, che ci indica la via e ci conferma la giustezza del grande fine, è la continua presenza di quest’amore e di questo potere che ci accompagna nella nostra attività e ci soccorre là dove finiscono le nostre possibilità.
Scopo delle ideologie è in ultima analisi il successo, in cui possiamo realizzare i nostri piani e desideri. Il nostro fare e potere, in cui confidiamo, sa di essere condotto e confermato da una irrazionale tendenza evolutiva di fondo. La dinamica del progresso fa sì che tutto sia giusto.
Lo scopo invece della speranza cristiana è un dono, il dono dell’amore, che ci viene dato al di là delle nostre possibilità operative; la speranza che esiste questo dono che non possiamo forzare, ma che è la cosa più esenziale per l’uomo che, dunque, non attende il vuoto con la sua fame infinita; garanzia di tanto sono gli interventi dell’amore di Dio nella storia, nel modo più forte la figura di Gesù Cristo, in cui ci viene incontro l’amore divino.
Il prodotto sperato dell’ottimismo dobbiamo alla fine realizzarlo noi stessi e allora aver fiducia che il corso in sé cieco dell’evoluzione alla fine in congiunzione col nostro proprio fare sfoci nel giusto fine. La promessa della speranza, invece, è dono che ci è già stato in qualche modo dato e che attendiamo con fiducia da colui che solo può davvero regalare: da quel Dio che ha già costruito la sua tenda nella storia con Gesù. Tutto ciò significa poi: nel primo caso, nell’ottimismo ideologico, non c’è nulla in realtà da sperare; ciò che aspettiamo dobbiamo farcelo noi stessi e non ci viene dato nulla al di là del nostro potere. Nel secondo caso, nella speranza teologica, esiste una reale speranza al di là delle nostre possibilità, speranza nell’amore illimitato, che è pure potere illimitato.
“L’ottimismo ideologico - osserva Ratzinger - è in realtà pura facciata di un mondo senza speranza, un mondo che con questa illusoria facciata vuole nascondere la sua propria disperazione. Solo così si spiega l’angoscia smisurata e irrazionale, questa paura traumatica e violenta che erompe, quando qualche incidente nello sviluppo tecnico o economico suscita dubbi sul dogma del progresso. Il gusto del terrificante, il violento atteggiamento di un’angoscia reciprocamente fomentata, che abbiamo vissuto dopo Chernobyl, aveva in sé qualcosa di irrazionale e di spettrale, comprensibile unicamente se dietro c’è qualcosa di più profondo che non un caso disgraziato ma, nonostante la sua serietà, limitato. La violenza di queste esplosioni di angoscia è una specie di autodifesa contro il dubbio che può minacciare la fede in una futura società perfetta, giacché l’uomo è per sua essenza rivolto al futuro. Egli non può vivere se questo elemento di fondo del suo essere viene eliminato. A questo punto si colloca anche il problema della morte. L’ottimismo ideologico è un tentativo di dimenticare la morte con il continuo discorrere di una storia protesa alla società perfetta. Qui si dimentica di parlare di qualcosa di autentico e l’uomo viene colmato con una bugia; lo si vede sempre quando la morte stessa si avvicina. Invece la speranza della fede apre su un vero futuro oltre la morte, e solo così i veri progressi che ci sono diventano un futuro anche per noi, per me, per tutti”.

La preghiera è speranza in atto
E il card. Ratzinger conclude: “Un uomo disperato non prega più, perché non spera più; un uomo sicuro del suo potere e di se stesso non prega più, perché si affida soltanto a se stesso. Chi prega spera in una bontà e in un potere che vanno oltre le proprie possibilità. La preghiera è speranza in atto. Nella seconda parte del Padre nostro le nostre ansie e angosce giornaliere si convertono in speranza. E’ presente l’ansia per la nostra riuscita materiale, la pace con il nostro prossimo e infine la minaccia di tutte le minacce: il pericolo di perdere la fede, di cadere nell’abbandono di Dio, di non poter più percepire Dio e di finire così nel vuoto assoluto, esposti a tutti i mali. Nel momento in cui queste mie ansie diventano invocazioni, si apre la strada dai desideri e dalle speranze verso la speranza, dalla seconda parte alla prima del Padre nostro. Tutte le nostre angosce sono in ultima analisi paura per la perdita dell’amore e per la solitudine totale che ne consegue. Tutte le nostre speranze sono perciò nel profondo speranza del grande, illimitato amore: sono speranze del paradiso, il regno di Dio, dell’essere con Dio e come Dio, partecipi della sua natura (2 Pt 1,4). Tutte le nostre speranze sfociano nell’unica speranza: venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà come in cielo così in terra. La terra diventi come il cielo, essa stessa deve diventare cielo. Nella Sua volontà sta tutta la nostra speranza. Imparare a pregare è imparare a sperare ed è perciò imparare a vivere”.


Immagini di speranza così care a Papa Benedetto
Avvenire, 28.11.2007
ELIO GUERRIERO
Dopo «Dio è carità» è stata annunciata l’enciclica sulla speranza. È facile, di conseguenza, immaginare che il Papa voglia dedicare un’enciclica a ciascuna delle virtù teologali, così come Giovanni Paolo II ne dedicò tre a ciascuna delle persone della Trinità.
L’interrogativo a questo punto verte sul motivo per cui Papa Benedetto XVI abbia voluto iniziare dalla carità, anziché dalla fede, secondo l’ordine del catechismo. A sostegno della sequenza scelta dal Papa vi è la decisione di partire non dall’uomo, sia pure credente, bensì dal saldo fondamento dell’amore di Dio. Ha scritto Benedetto XVI: «Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di tutte le cose è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore» ( Deus caritas est, n. 10).
Di qui l’origine della speranza cristiana, la virtù teologica definita nel modo più convincente da san Paolo nella Lettera ai Romani: chi fa esperienza dell’amore di Dio vive secondo lo Spirito; ha la promessa sicura di essere figlio di Dio e la speranza certa della vita eterna. A questo serrato ragionamento teologico hanno attinto la letteratura (Dante), l’arte figurativa e la musica per edificare un universo simbolico presente nelle chiese e nella cultura del nostro Paese e del mondo.
Radicate nell’intimo dell’esperienza e della fede cristiana, le immagini di speranza hanno generato una «millenaria foresta di simboli» (Baudelaire).
La prima immagine cara a Papa Benedetto, che l’ha voluta riprodotta nel Compendio del Catechismo, è quella dell’albero della vita, o trionfo della Croce, rappresentato nel mosaico absidale della basilica di san Clemente a Roma. Attorno al Cristo sofferente vi sono dodici colombe che simboleggiano i dodici apostoli, ai piedi della croce stanno Maria e Giovanni. Un cespo di acanto cresce alla base della croce e dà origine all’albero lussureggiante della redenzione. Ai piedi dell’albero sgorga una sorgente d’acqua zampillante, che dà vita a quattro rivoli, che simboleggiano i Vangeli, ai quali si dissetano i fedeli.
Un’altra immagine di speranza molto cara a Benedetto XVI è quella della natività.
Nella tradizione francescana essa ha dato origine al presepe con lo scopo di rendere ogni volta contemporanei le persone e gli eventi che accompagnarono la nascita di Gesù. Nel presepe vi è un bambino che «si è fatto così vicino a noi che possiamo dargli tranquillamente del tu e accedere direttamente al cuore di Dio». Vi sono poi Maria e Giuseppe, i pastori e i magi, i primi della schiera dei poveri, dei miti, e dei perseguitati cui sono rivolte le beatitudini di Gesù, questi sanno di non poter attendere giustizia dai potenti e dai giudici del mondo, perciò sperano nella misericordia di Dio che ricolma di beni gli affamati. Vi sono poi il bue e l’asino che, secondo la profezia di Isaia, rappresentano il mondo animale che riconosce l’avvento del Messia, mentre il popolo si rifiuta di capire. Con la sensibilità contemporanea possiamo riconoscervi l’anelito del cosmo a sua volta in attesa di salvezza.
La terza immagine è quella dell’Agnello mistico raffigurata nel modo più compiuto dal pittore fiammingo Jan van Eyik nella cattedrale di san Bavone a Gand. È l’immagine della Gerusalemme celeste nella quale martiri e confessori, chierici e laici, dotti e semplici rendono onore, gloria e benedizione a Dio Padre e a Cristo che ha redento gli uomini con il suo sangue. A lui sono affidate le chiavi della storia.
Per questo i suoi discepoli e gli uomini tutti possono riporre in Lui la loro speranza.


L’IDEOLOGIA DEL «GENERE» - QUEL GRIMALDELLO DIETRO UNA CAUSA BUONA
Avvenire, 28.11.2007
MARCO TARQUINIO
Non sempre ai titoli corrispondono testi coerenti e conseguenti. Ma qualche volta accade. E non è sempre u­na buona notizia. La riprova la offre – nuovo caso in questa legislatura – il la­vorìo parlamentare intorno a una pro­posta di legge dall’intitolazione sugge­stiva e, per certi versi, emozionalmente coinvolgente eppure in grado di far scat­tare più di un serio allarme. Ci riferiamo al testo unificato elaborato in Commis­sione Giustizia della Camera per stabili­re «Misure contro gli atti persecutori e la discriminazione fondata sull’orienta­mento sessuale o sull’identità di gene­re ». Un testo sbrigativamente ribattez­zato «legge anti-omofobia» (ma non so­lo e soltanto di questo si tratta) e fatto passare per un «adeguamento» a «obbli­gatori » standard normativi europei (che in realtà obbligatori non sono affatto). Un progetto, lo diciamo subito a scanso di equivoci, che non inquieta di certo per l’obiettivo che suggerisce – l’impegno contro persecuzioni e discriminazioni per motivi di ordine sessuale –, ma per le categorie giuridiche che punta a intro­durre nel nostro ordinamento e per il mo­do in cui persegue questo fine dichiara­to, appunto, sin dal titolo.
Il primo allarme viene fatto suonare dal­l’incipit del titolo della bozza – «Misure contro gli atti persecutori» – e cioè dall’importazione nel codice penale italiano del cosiddetto reato di molestia grave e insistente ( stalking). Un’operazione purtroppo condotta all’insegna di un’indeterminatezza che disorienta e sgomenta. La norma, se davvero venisse varata, punirebbe infatti «chiunque reiteratamente, con qualunque mezzo, minaccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico» o arriva a «pregiudicare in maniera rile­vante il suo modo di vivere». Come s’intuisce facilmente, le possibili applicazioni di una simile vaghissima norma sugli «atti persecutori» sono tante, troppe. Si va dalla situazione in cui un corteggiatore asfissiante importuna una malcapitata a quella di un capo ufficio che impartisce disposizioni, soggettivamente male accolte, a un suo dipendente. Ma si potrebbe anche arrivare – perché no? – alla condizione di «infelicità» procurata a un 'sottoposto' da chi applica una qualunque forma di disciplina (regole associative, obblighi e doveri legati a un particolare status).
Il secondo allarme nasce da un vizio a­nalogo a quello di cui ci siamo appena oc­cupati – la genericità – rafforzato da una dose d’urto di malizia legislativa. La se­conda parte del titolo del testo unificato – «(Misure) contro la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o sul­l’identità di genere» – è, del resto, elo­quente. E il senso complessivo dell’arti­colo 3 è scoperto: l’obiettivo ideologico perseguito è infatti l’introduzione nel­l’ordinamento italiano del concetto finora sconosciuto di gender ( genere), rendendolo sostanzialmente equivalente a «orientamento sessuale», e di creare la base per sostituirlo a quelli di «uomo», «donna» e «sesso». Puntando, per di più, a equipararlo a «razza», «etnia», «nazione » e «religione».
La malizia sta nel mezzo prescelto. Una regola orientata, secondo un sentimento giustamente condiviso, a sanzionare intollerabili atti di violenza e di discriminazione compiuti, per motivi di ordine sessuale, contro la persona viene fatta evolvere in una norma posta a presidio di una pretesa categoria discriminata (gli omosessuali). Ma la malizia sta anche nella strumentalità di tutto questo. Sembra quasi – e senza quasi – che si voglia forgiare un grimaldello in grado di spalancare altre porte legislative. E che si pretenda di farlo, in forza di legge, nel nome della «categoria» sostituita alla «persona », del «genere» dissociato dal «sesso biologico» ovvero dell’opzione culturale sovraordinata alla natura.
C’è da augurarsi che in Commissione Giustizia della Camera, e non solo lì, ci si ripensi. Che si corregga seriamente il titolo, e si riveda saggiamente il testo.


E lo scienziato si arrese all’anima
Avvenire, 28.11.2007
DI ANDREA LAVAZZA
« M i considero un neuroscien­ziato 'spirituale'. Nella mia prospettiva, l’anima si rife­risce all’essenza 'non fisica' della persona che si manifesta come coscienza, pensiero, sentimenti e volontà. Questa parte spiri­tuale dell’essere umano continua a esistere dopo la morte fisica del corpo». Mario Beauregard, ricercatore dell’Università di Montréal, ha appena pubblicato un libro divulgativo che già dal titolo ( The Spiritual Brain. A Neuroscientist’s Case for the Exi­stence of the Soul) sfida le convinzioni dif­fuse tra i suoi colleghi. E sta prepa­rando un volume rivolto agli addetti ai lavori contro la visione materiali­stica dell’uomo.
Perché la maggior parte dei neuro­scienziati nega l’esistenza dell’ani­ma?
«Le neuroscienze sono lo studio del cervello nei suoi vari livelli di orga­nizzazione, con un’impostazione necessariamente materialistica e naturalistica. Perciò quasi tutti gli studiosi ritengono che la loro ricer­ca non abbia nulla a che fare con l’anima, perché essa rappresenta l’aspetto 'non materiale', mentre il materialismo costi­tuisce la tesi metafisica di base. Di conse­guenza, le funzioni mentali superiori, la coscienza e il sé possono ridursi a processi neurochimici e neuroelettrici. E anche le e­sperienze religiose, spirituali e mistiche ( Ersm) diventano sottoprodotti dell’attività cerebrale. In questa cornice ideologica, l’a­nima è semplicemente un’illusione».
Che cos’è allora il 'cervello spirituale' del titolo del suo libro?
«Sono le strutture e le reti cerebrali coin­volte in vari tipi di Ersm. Il concetto è lega­to alle 'neuroscienze spirituali', un nuovo ambito di ricerca all’incrocio tra psicolo­gia, religione, spiritualità e neuroscienze. Il principale obiettivo è quello di esplorare le basi neuronali delle Ersm. È decisivo, però, sottolineare che la comprensione del sub­strato neuronale di tali esperienze non di­minuisce, né svaluta il loro significato e il loro valore».
A questo proposito, Lei ha condotto ricer­che su un gruppo di suore cattoliche...
«Abbiamo usato la risonanza magnetica funzionale per misurare l’attività cerebrale di alcune carmelitane durante lo stato sog­gettivo di unione mistica con Dio. Il punto di partenza era l’ipotesi, avvalorata da stu­di su persone epilettiche intensamente re­ligiose, che il lobo tem­porale fosse la specifica area del cervello asso­ciata alle esperienze di fede. I nostri risultati dicono, al contrario, che sono attive almeno dodici zone diverse del­l’encefalo durante le fa­si di estasi mistica. Zo­ne che normalmente vengono coinvolte in varie funzioni, dalla percezione alle emozio­ni alla rappresentazio­ne corporea. Ciò contraddice l’idea di un’'area di Dio' specificamente localizza­ta ».
Ci sono prove scientifiche dell’esistenza dell’anima?
«Non ancora. Tuttavia, esistono alcuni dati aneddotici relativi a casi di esperienze di quasi-morte (Nde). Quello della cantante americana Pam Reynolds è il più noto, e inspiegabile secondo la scienza materiali­stica. Nel 1991, le fu diagnosticato un gran­de aneurisma cerebrale inoperabile. Il neurochirurgo Robert Spetzler di Phoenix propose di tentare con la tecnica dell’arre- sto cardiaco ipotermico: alle basse tempe­rature agire sui vasi è più agevole, mentre i tessuti possono resistere più a lungo senza ossigenazione. La Reynolds accettò il ri­schio. Durante l’intervento, la si poteva considerare 'morta': il suo cuore fu ferma­to e il suo elettroencefalogramma divenne piatto. Il tronco encefalico, responsabile delle funzioni automatiche, e i suoi emisfe­ri cerebrali non davano più risposte, men­tre la temperatura corporea scese a 22 gra­di. A quel punto, i medici aprirono il cranio con una sega speciale. Successivamente, Pam riferì che in quel preciso momento si sentì proiettata fuori del corpo e fluttuante sul tavolo operatorio. Ma la cosa più note­vole è che raccontò nei dettagli l’intervento (che non conosceva) e quello che diceva l’équipe in azione. Infi­ne, entrò in un tunnel, al cui termine vide una luce calda, e speri­mentò un’unione della propria anima con Dio.
Il caso è importante perché tutto accadde mentre la paziente era 'clinicamente morta' e ciò era certificato da persone esperte dotate di strumenti precisi; i­noltre, Pam raccontò fatti verificabili che non avrebbe potuto sapere se non fosse stata cosciente nel momento in cui avveniva­no ».
Tutto ciò che cosa dimostrerebbe?
«Innanzitutto, indica che la mente, la co­scienza e il sé possono prolungare la loro esistenza quando il cervello è totalmente 'spento' e si è in presenza di morte clinica. In secondo luogo, in quelle condizioni, si hanno comunque le Ersm. E ci si può per­fino spingere ad affermare, sulla base di molti altri racconti diffusi in tutto il mondo e in tutte le culture, che abbiamo la possi­bilità di connetterci, a livello mentale, con una coscienza superiore, cosicché i nostri atti mentali diventano distinti dal cervello, sebbene osservabili per mezzo di esso».
Le neuroscienze che cosa possono dire sulla religione?
«Le tecniche di visualizzazione del cervello possono mostrarci che cosa avviene nel cervello – dal punto di vista chimico ed e­lettrico – durante le esperienze religiose, spirituali e mistiche. Tuttavia, queste infor­mazioni non ci dicono nulla circa la feno­menologia di tali esperienze (la prospettiva di prima persona; l’oggetto cui si riferisco­no). Inoltre, la realtà esterna di Dio non può essere né confermata né smentita dal­l’individuazione dei correlati neuronali delle Ersm. Ecco perché, a mio parere, non
ha senso parlare di neuroteologia».
Ricapitolando, quali sono gli argomenti contro un’interpretazione strettamente materialistica della mente?
«La scienza che adotta questa prospettiva è costretta a negare o a respingere o a cerca­re di dissolvere tramite una spiegazione tutti i fenomeni che sfidano il materiali­smo. E si tratta di una mole crescente che, oltre alle esperienze di quasi-morte, com­prende anche l’effetto placebo (modifica­zioni fisiologiche indotte dalla semplice credenza di aver assunto una sostanza,
ndr). Soltanto una prospettiva non mate­rialistica può offrire spiegazioni scientifi­che di questi fenomeni elusivi, che la ricer­ca attuale accantona».




«Io, oncologa con il cancro, dico no all’eutanasia» - Sylvie Menard: quando ho scoperto la malattia è cambiato il mio sguardo sull’esistenza
DIGNITÀ DEL VIVERE
Avvenire, 28.11.2007
DA MILANO MARINA CORRADI
E ra un giorno di aprile del 2005. La dottoressa Sylvie Menard, 57 anni, direttore del Dipartimento di oncologia sperimentale all’Istituto dei Tu­mori di Milano, era alla mensa. D’improvviso un capogiro, uno svenimento. Nulla di grave, forse il bicchiere d’acqua troppo fred­da che aveva appena bevuto. Co­munque, i colleghi le impongono di fare un esame del sangue. Lei è tranquilla. La sua salute è ottima. Ma i risultati della elettroforesi ri­velano un picco altissimo di im­munoglobuline. Un esito che si spiega solo in un modo, e quel mo­do, un’oncologa come la Menard lo conosce benissimo. «Era il 26 a­prile. Quel giorno, la donna che e­ro stata fino ad allora è morta. L’e­same segnalava un tumore del mi­dollo, un tumore non guaribile. A casa mi sono guardata allo spec­chio: impossibile, mi dicevo, io sto benissimo. Sono riuscita a addor­mentarmi solo quando mi sono convinta che, certamente, si trat­tava di un errore».
Sylvie Menard oggi ha 60 anni. Il viso abbronzato sopra il camice bianco, è al suo posto, all’Istituto dei tumori. Sembra stare benissi­mo, ma è costantemente in tera­pia. Quell’esame, non era un er­rore. Il cancro c’era, e di quelli per cui non c’è ancora una cura riso­lutiva. Sono stati tre anni di una battaglia, che continua. Sylvie Me­nard lavora, e fa una vita norma­le. Ciò che è cambiato, dice, è il suo sguardo sulla vita. Parigina, cresciuta nella Sorbona del 1968, arrivò in Italia con il matrimonio. Dal ’69 in via Venezian, allieva di Umberto Veronesi, è, dice, laica e non credente. Del suo maestro ha condiviso l’impostazione filosofi­ca. E sulll’eutanasia, è sempre sta­ta d’accordo con lui. Fino a quan­do non si è trovata dall’altra parte della barricata. Malata, e di quale malattia. Allora verità e valori so­no stati rivoluzionati. Tutto è cam­biato: «Io, sono nata di nuovo».
La scossa è stata terribile, un ter­remoto. Un oncologo non può il­ludersi, sa. E davanti a quella pro­gnosi, il medico che per tutta la vi­ta ha parlato di cancro si trova sba­lordito e spiazzato: il nemico, ora, è addosso. «Ho conosciuto la im­possibilità, d’un tratto, di fare qualsiasi progetto. Come avere davanti un muro. Il futuro, sem­plicemente non c’era più. Ho smesso di mettere nuove piante in giardino. Tanto, dicevo, non le ve­drò crescere».
Scopre cos’è l’attesa di una dia­gnosi, quando il paziente sei tu. «Il terribile tempo dell’attesa», lo chiama. Quando aspetti l’esito di una biopsia, e non pensi più a nient’altro: «Fissi il telefono, a­spetti, prigioniero di una osses­sione ». Capisce cos’è, essere co­me bloccati in un limbo, quando sai che il male cammina, ma an­cora non ti puoi curare. A casa, l’angoscia dei familiari. Al lavoro, i colleghi. Quelli che vengono a dirti semplicemente : conta su di me. Ma anche quelli che se ti in­travvedono in fondo al corridoio svoltano l’angolo. «Ho scoperto che esiste ancora una parola tabù. È la parola cancro. C’è chi ha pau­ra di te, come se fossi contagioso». E quando dopo venti lunghissimi giorni la terapia può partire, co­me con una improvvisa ribellione dice di no. Che non vuole curarsi. «Era maggio, i primi caldi. Avevo voglia di vivere quell’estate. Per­chè curarmi, se tanto non posso guarire ? Avevo voglia di restare ancora fra i sani'. E’ un’altra not­te difficile. («Quando hai un can­cro – dice – quello che conta sono le notti»). Ma il giorno dopo sce­glie: farà la terapia. 'Qualcosa in me ha reagito. Anche senza guari­re, prolungare la vita di qualche anni, improvvisamente mi è di­ventato fondamentale, volevo vi­vere fino in fondo».
Una metamorfosi attraversa la dottoressa. 'E’ cambiata la consa­pevolezza della vita stessa. Quan­do sei sano, pensi di essere im­mortale. Quando invece la tua fi­ne non è più virtuale, la prospet­tiva si capovolge. Io, il testamento biologico, da sana, lo avrei sotto­scritto. Ora no. Quando hai un cancro, diventi un’altra persona, e ciò che pensavi prima non è più vero. Ciò che da sani non si capi­sce, è che i pazienti sono una po­polazione diversa. Anche io, pri­ma, parlavo di «dignità della vita», una dignità che mi sembrava in­taccata in certe condizioni di ma­lattia. Da sani si pensa che dove­re essere lavati e imboccati sia in­tollerabile, 'indegno'. Quando ci si ammala, si accetta anche di vi­vere in un polmone di acciaio. Ciò che si vuole, è vivere. Non c’è nul­la di indegno in una vita total­mente dipendente dagli altri. E’ indegno piuttosto chi non riesce a vederne la dignità».
Nel tunnel della chemioterapia la Menard vede tutte le certezze del­la sua vita smentite dalla forza del­la concreta realtà. Guarda con al­tri occhi al dibattito sull’eutana­sia. Pensa a Eluana, la ragazza da molti anni in stato vegetativo che il padre vorrebbe lasciare morire. «Ma lo sappiamo, che quella ra­gazza non ha nessuna spina da staccare? Che l’ipotesi è quella di lasciarla morire di fame e di disi­dratazione? Sappiamo che ’stato vegetativo permanente’ non vuo­le dire che non c’è nessuna atti­vità cerebrale? In un lavoro scien­tifico recente è stato dimostrato che se si mette davanti agli occhi di uno di questi malati una foto­grafia di persone care, e si fa una risonanza magnetica, si vede l’ac­censione di una attività cerebrale. Come si può decidere di sospen­dere l’alimentazione?».
Nelle parole della Menard ritrovi quella strana discrasia che noti sempre fra la realtà delle corsie e il dibattito pubblico sulla eutana­sia. Dove la «morte dignitosa» è un «diritto». Nella realtà dolente dei reparti terminali, i malati invece vogliono vivere. Sylvie Menard: «Il favore di tanti all’eutanasia si spie­ga con una sorta di inconscio e­sorcismo, un volere allontanare da sè la possibilità della malattia e del dolore. È una mancanza di imme­desimazione nel malato. Perchè, quando poi ti ci trovi, cambi idea» Ciò che domandano davvero i ma­­lati, dice la Menard, è di non sof­frire. 'Deve essere fatto tutto il possibile, contro il dolore. E in questo in Italia siamo indietro. Bi­sogna insegnare ai medici a usare gli oppiacei, e a non lasciare un paziente nella sofferenza per la paura di usare questi farmaci. An­che questo fa parte di un decalo­go su cui lavora la Commissione per la umanizzazione della medi­cina, voluta da Livia Turco, di cui faccio parte'.
La vera battaglia, dice, è contro il dolore. Non per una morte che, nella esperienza amplissima del­­l’Istituto dei Tumori, i malati «ve­ri » non chiedono. Chiedono, in­vece di non essere abbandonati. 'Temo che l’eutanasia possa es­sere la logica avanzante, se di tan­ti malati, quando muoiono, si di­ce solo: finalmente', dice la Me­nard. «In Olanda – aggiunge – ci sono 10 mila malati che chiedono l’eutanasia all’anno. L’80 per cen­to sono malati di cancro, assistiti nel migliore dei modi dal punto di vista medico. E allora, mi do­mando, come mai tante richieste? Ho il dubbio che sia perchè è gen­te sola, che avverte attorno una tacita pressione a levare il distur­bo. Che avverte che, mentre vie­ne ottimamente curata, la sua presenza è ormai di troppo. Che, se muoiono, qualcuno dirà: final­mente. E allora si adeguano, e ob­bediscono ». Ha ricominciato a curare le sue piante. I colleghi le hanno regala­to una giovanissima quercia. E’ lì nel vaso accanto alla scrivania. Ha, dice, «una nuova gerarchia di va­lori ». Vola a Parigi, per ogni festa di famiglia, non se ne perde più u­na. La domenica si siede a con­templare il suo giardino. Le pare bellissimo, e bellissima ogni mat­tina, qualunque numero ne resti. Ogni giorno da vivere, nessuno da sprecare.
«Il testamento biologico, da sana, l’avrei sottoscritto. Ora no. Quando hai un tumore diventi un’altra persona e ciò che pensavi prima non è più vero». «Quello che chiedono i malati è di non soffrire. Si deve fare tutto il possibile contro il dolore» «All’improvviso ho conosciuto l’impossibilità di fare qualsiasi progetto. Il futuro non c’era più. Ho smesso di mettere nuove piante in giardino. Tanto, dicevo, non le vedrò crescere» Ora ha ricominciato E ogni giorno le appare bellissimo, da vivere.


Padova Scola: quella tecnoscienza che illude l’uomo

DA PADOVA
FRANCESCO DAL MAS
Avvenire, 28.11.2007
È proprio vero che la tecnoscienza libera e rende felice l’uomo? Il patriarca di Venezia, Angelo Scola, ha qualche dubbio. E ieri sera hanno dimostrato di averlo anche quanti hanno affollato l’aula magna della più storica università italiana, quella di Padova, per ascoltare il cardinale sul tema 'Il cuore e la grazia', che riassumeva dieci anni di convegni sull’attualità di sant’Agostino organizzati dall’associazione Rosmini, dalla Pastorale universitaria diocesana di Padova e da una decina di collegi ed istituti. Nell’occasione, don Giacomo Tantardini ha presentato il volume Il cuore e la grazia in sant’Agostino, e specifici contributi sono stati portati dal rettore Vin­cenzo Milanesi e dal procuratore Pie­tro Calogero.
Dopo essersi soffermato sull’umiltà come la via maestra, passaggio obbligato del magistero di Sant’Agostino, e dopo aver ricordato la lectio agosti­niana – specie in De libero arbitrio – sulla volontà e la grazia, il patriarca ha sottolineato che proprio questo testo mette in campo due questioni fondamentali per il cosiddetto uomo postmoderno. La felicità e la libertà.
«Così come le domande di verità e di giustizia sono state le più dibattute dall’uomo moderno (fino alla caduta dei muri, per intenderci), oggi le domande di felicità e di libertà sono diventate l’emblema principe del postmoderno », ha sottolineato Scola. Le risolve la tecnoscienza? Evidentemente no, se­condo il patriarca. Anzi. «Non possia­mo negare che il dominio della tecno­scienza sulla nostra esistenza perso­nale e sociale è divenuto assai rilevan­te nelle democrazie avanzate, soprat­tutto dell’Occidente. La tecnoscienza – ha ribadito Scola – sembra sostituire nella mentalità corrente le religioni o le filosofie nel dirci che cosa è la vita nella sua origine, nel suo svolgimento e nel suo termine. A ben vedere, il fe­nomeno stesso della globalizzazione è strettamente dipen­dente dal fatto che l’Occidente sta im­ponendo a tutto il mondo una conce­zione della felicità come puro prodot­to progressivo della tecnoscienza». Tec­noscienza che sem­bra dare all’uomo il potere di esser feli­ce. «Non solo di vo­lere la felicità ma di poterla realizzare da se stesso, diretta­mente, senza in alcun modo riceverla come un dono». Si esprime così la pre­tesa di una libertà incondizionata. U­na libertà che ha in suo potere tutto: «Posso, perciò devo», questo è l’impe­rativo categorico della tecnoscienza. Il potere del sapere scientifico – come spiega Scola – si do­cumenta, da una parte, nel suo uni­versalismo teorico e pratico (in antitesi alla molteplicità e conflittualità delle religioni), dall’altra nell’enorme incre­mento di possibilità che la scienza, at­traverso la tecnica, mette a disposizio­ne del mondo. «Co­sì la tecnoscienza - non ha dubbi in proposito il patriarca - incentiva di fat­to la rinuncia della ragione a porre le domande sui fondamenti ('Ed io chi sono? Chi alla fine mi assicura, oltre la morte, col suo amore?'). E sospinge la libertà a impegnarsi quasi esclusiva­mente nelle realizzazioni affidate ad una tecnicità sempre più potente e perciò alla fine sempre più autogiusti­ficantesi. Si intravede qui una forma post-moderna di utopia non priva di pesanti conseguenze a livello sociale. Infatti tutto ciò che non rientra nel­l’ottica di questa sorta di 'universali­smo scientifico' viene tutt’al più rele­gato in una specie di riserva indiana, che non può aspirare ad assumere ri­levanza pubblica universale».
È una mentalità crescente, alla quale non basta, tuttavia, contrapporre il la­mento e la ricerca del colpevole. Ma la fede intesa come risposta umana­mente compiuta, cioè laddove «gli uo­mini e le donne del nostro tempo si in­contrino concretamente – dove si tro­vano ad amare e a lavorare, cioè nella loro vita reale – con comunità cristia­ne in cui sia praticabile l’esperienza del dono».
Il patriarca di Venezia, al convegno sull’attualità di Sant’Agostino, ha parlato della nuova utopia odierna che sostituisce religioni e filosofie: «Dà la sensazione di aver raggiunto una libertà totale: posso, perciò devo»



«Io pastore italiano missionario a Mosca»Alberto Savorana, Il Giorno/Il Resto del Carlino/La Nazione
28.11.2007


Una Chiesa amata dal suo popolo in un Paese che ha bisogno di una rievangelizzazione sistematica – intervista al Card. Angelo Bagnasco
Mario Ponzi, L'Osservatore Romano 28.11.2007