Nella rassegna stampa di oggi:
1) Sulla strada per l’unità nei rapporti per l’unità nei rapporti con l’ortodossia una svolta
2) Relativismo di Rino Camilleri;
3) L’utilità delle opere – di Giorgio Vittadini
4) Un giorno di spesa per un aiuto lungo un anno – Colletta alimentare
5) L’Europa contro le persecuzioni - Rotto il silenzio. In difesa della libertà
6) Il trauma del figlio-padrone A 18 anni davanti al primo no
7) Mauro: superato «il pregiudizio»
8) Così Gérard-François Dumont, professore alla Sorbona, ha indicato i rischi dei pacs: «Riconoscimento coppie, non aprite quella porta»
SULLA STRADA PER L’UNITÀ NEI RAPPORTI CON L’ORTODOSSIA UNA SVOLTA
LUIGI GENINAZZI
Avvenire, 16.11.2007
« Mille anni sono come il giorno di ieri che è appena passato», dice il salmo. Divisi dallo scisma del 1054, cattolici e ortodossi riflettono insieme sulla tradizione canonica del primo millennio. Un salto all’indietro che rappresenta un grande balzo in avanti, un volgersi al passato per guardare con più speranza al futuro. Per la prima volta un documento ufficiale sottoscritto da molti esponenti ortodossi riconosce un primato al vescovo di Roma, definito « protos
tra i Patriarchi» della Chiesa antica e sottolinea il fatto che «Roma, in quanto Chiesa che presiede nella carità, occupava il primo posto nell’ordine canonico». Il testo riassume le conclusioni della riunione della Commissione per il dialogo teologico tra cattolici e ortodossi che si è tenuta lo scorso ottobre a Ravenna.
Non è la fine dello scisma d’Oriente, la strada verso la piena unità è ancora lunga. C’è accordo sulla supremazia del vescovo di Roma, ma restano le divergenze sulle sue prerogative. Eppure la svolta c’è, eccome. Per la prima volta il mondo ortodosso accetta di discutere dell’ostacolo principale alla riunificazione (o forse l’unico vero motivo di dissenso teologico, dopo che la diatriba sul Filioque è stata praticamente accantonata). Il documento di Ravenna infatti costituisce «una solida base per la discussione futura sulla questione del primato nella Chiesa a livello universale». La prossima riunione, prevista nel 2009, metterà a tema «il ruolo del vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel primo millennio». Si realizza così il sogno di Giovanni Paolo II che nell’enciclica 'Ut unum sint' del 1995, la prima dedicata all’ecumenismo, si era detto disponibile a mettere in discussione «la forma d’esercizio» del primato del Romano Pontefice. Papa Wojtyla non rinunciava in alcun modo all’autorità che è garanzia della comunione ecclesiale ma avvertiva che «dopo secoli di aspre polemiche le altre Chiese ci scrutano con uno sguardo nuovo» ed invitava pastori e teologi a un «dialogo fraterno sulle modalità del ministero del vescovo di Roma». Un’eredità, quella wojtyliana, che è stata fatta propria da Papa Ratzinger, a cominciare dall’impegno ecumenico. C’è un filo che lega «la struggente ansia d’unità» manifestata da Giovanni Paolo II nella sua lettera agli ortodossi del 1988 alla rivendicazione fatta da Benedetto XVI nel giugno del 2006 quando definì le sedi di Roma e di Costantinopoli «Chiese veramente sorelle». E non a caso, nella Dichiarazione congiunta siglata un anno fa ad Istanbul da Papa Ratzinger e da Bartolomeo I, si fa riferimento al lavoro portato avanti dalla Commissione per il dialogo teologico tra cattolici ed ortodossi come a uno strumento essenziale per costruire insieme l’unità. Certo, non mancano le difficoltà. Nel momento in cui Roma e Costantinopoli s’avvicinano ecco che Mosca, 'la terza Roma', fa un passo indietro, in polemica non tanto con il Vaticano ma con El Fanar, sede storica del Patriarca ecumenico. Sul documento di Ravenna manca la firma dei russi, avendo abbandonato i lavori per protestare contro la presenza dei delegati della Chiesa ortodossa d’Estonia, non riconosciuta da Mosca. «Gli ortodossi possiedono un tesoro – ha scritto Olivier Clément –. Peccato che a volte preferiscano starci seduti sopra e litigare in modo accanito». Ma è un tesoro che può arricchire tutti, non solo le Chiese d’Oriente.
Relativismo
di Rino Cammileri
In esclusiva per i forum di TotusTuus.Net, riprende la pubblicazione degli «Antidoti».
La «dittatura del relativismo» (è il titolo di un libro di Roberto De Mattei edito da Solfanelli) è, certo, ormai sotto gli occhi di tutti.
Ma è anche una contraddizione in terminis.
Infatti, la stessa affermazione «tutto è relativo» è un’affermazione assoluta.
Si obietterà che questa è filosofia, giochi di parole.
Invece, che le cose stiano arrivando al loro limite logico è confermato da quel che vediamo dilagare.
Stefano Fontana, direttore dell’Osservatorio Internazionale «Cardinale Van Thuân», che è un centro di promozione della dottrina sociale della Chiesa, ha avvertito che ormai la «dittatura del relativismo» sta moltiplicando a vista d’occhio i casi in cui si può legittimamente reclamare l’obiezione di coscienza.
Un medico, un infermiere, un farmacista; ma anche un impiegato comunale che si rifiuta di registrare unioni civili di persone dello stesso sesso, un operatore di un laboratorio che pratichi la selezione degli embrioni, un lavoratore di casa editrice o di televisione che non intenda avallare la produzione di pornografia, un avvocato o un magistrato che si trovino davanti a situazioni-limite (casi, questi, sempre più frequenti).
Eppure, l’esercizio della libertà di coscienza tramite obiezione viene vietato dal relativismo in nome della libertà di coscienza.
Se un musulmano si rifiuta di mangiare la carne di maiale servita in una mensa pubblica (scolastica, aziendale, ospedaliera….), il relativismo vuole che lo si accontenti.
Se un cattolico si rifiuta di prestare la sua opera in casi di aborto, vendita di anticoncenzionali e pillole abortive, eutanasia, pornografia eccetera eccetera, lo stesso relativismo si trasforma in tirannia.
Ma proprio il dilagare dei casi in cui l’obiezione di coscienza è necessaria dimostra che, ormai, le élites politiche e culturali “remano contro” il resto del mondo.
Strano esempio di democrazia…
L’utilità delle opere – di Giorgio Vittadini
Un giorno di spesa per un aiuto lungo un anno
L’Europa contro le persecuzioni
Rotto il silenzio. In difesa della libertà Avvenire, 16.11.2007
GIORGIO PAOLUCCI
L e violenze perpetrate nei confronti dei cristiani in Medio Oriente e in altre aree del pianeta sono eventi tragicamentre ricorrenti. Uccisioni, minacce, persecuzioni e distruzioni si sono registrate recentemente in Egitto, Iraq, Sudan, Turchia, Arabia Saudita, Pakistan, Cina, Vietnam, Filippine, solo per menzionare i Paesi più noti. L’attenzione dei mass media internazionali oscilla tra silenzi, sottovalutazioni e attenzioni a singoli, eclatanti casi, come è accaduto per l’assassinio di don Andrea Santoro o per il rapimento di padre Giancarlo Bossi. Le cancellerie internazionali non brillano certo per protagonismo nel denunciare e contrastare il fenomeno: spesso si preferisce chiudere gli occhi, sia per non arrecare danno ai rapporti economici con gli Stati in cui si perpetrano le violenze, sia perché la denuncia delle persecuzioni contro i cristiani non appartiene alla sfera degli argomenti più cari al politically correct.
A questa congiura del silenzio ha partecipato per lungo tempo anche il Parlamento Europeo, da cui però ieri si è levata, finalmente, una voce forte e chiara. Per la prima volta nella sua storia – per iniziativa del Partito popolare europeo e dopo una lunga e laboriosa trattativa – l’assise di Strasburgo ha approvato con il voto favorevole di tutti i gruppi tranne i Verdi una risoluzione «su gravi episodi che mettono a repentaglio l’esistenza delle comunità cristiane e di altre comunità religiose». Si sa che le parole in queste circostanze e su certi argomenti vengono soppesate con grande attenzione. E dunque va sottolineato che il documento si riferisce ai cristiani non come singoli individui ma come collettività, e rileva che è in pericolo addirittura la loro stessa esistenza. È una denuncia forte, corroborata da una serie impressionante di episodi riportati nella risoluzione (ne parliamo nelle pagine interne), che mette ancora più in evidenza la lunga latitanza dell’Europarlamento sull’argomento.
La natura della questione, si badi bene, è tutt’altro che confessionale: non stiamo assistendo alla difesa di una comunità religiosa 'contro' un’altra o rispetto a un potere statale. Si tratta invece di riaffermare laicamente che la libertà di coscienza e di religione non è un una fissazione di pochi: è un diritto umano fondamentale, garantito da vari strumenti giuridici internazionali ma che troppo spesso è rimasto lettera morta. E la libertà, per essere autentica e piena, deve comprendere anche la possibilità di cambiare la propria fede, una possibilità che viene di fatto negata nei Paesi di tradizione islamica.
Qualcuno potrebbe paventare reazioni negative da parte degli Stati che si sentono nel mirino della risoluzione approvata a Starsburgo, lamentando il possibile irrigidimento del dialogo e di certe relazioni diplomatiche. Ma quale dialogo può mai esserci se non si parte dalla riaffermazione di principi che appartengono alla stessa natura umana? Come guardarsi in faccia e costruire percorsi di convivenza rinunciando preventivamente a un confronto serrato su questioni che stanno a fondamento della convivenza internazionale? In questo senso sono significativi due passaggi della risoluzione: il primo sollecita i governi dei Paesi interessati a migliorare la sicurezza delle comunità cristiane proteggendole dalla discriminazione e dalla repressione; il secondo impegna la Commissione Europea a prestare particolare attenzione alla situazione dei cristiani nel momento in cui si mettono a punto i programmi di cooperazione economica. Come dire che anche il sostegno economico allo sviluppo deve fare i conti con il rispetto della libertà religiosa. È un passaggio impegnativo, che potrebbe preludere a scenari nuovi anche nei rapporti tra l’Europa e molti Paesi del Sud del mondo. Vedremo se alle parole seguiranno fatti. Intanto, il silenzio assordante che regnava sul Vecchio Continente è stato finalmente rotto. Ai cristiani troppo a lungo dimenticati che vivono in Africa e in Asia, da oggi l’Europa appare un po’ meno dimentica della loro sorte.
UNA TIPOLOGIA UMANA NUOVA CREATA DAI GENITORI D’OGGI
Il trauma del figlio-padrone A 18 anni davanti al primo no
Avvenire, 16.11.2007
MARINA CORRADI
U n accigliato rapporto dell’Eurispes segnala il diffondersi dei figli-padroni. Padroni del proprio tempo, dei propri consumi, dei siti Internet in cui passano la giornata. Da bambini dispotici ad adolescenti aggressivi, che un po’ di timore lo mettono anche agli insegnanti, dall’alto del loro fanciullesco metro e ottanta. Senza nulla togliere all’Eurispes, il figlio padrone è già da tempo un’evidenza. Basta andare a vedere un film di Disney per incrociare certi padri che sul finire dell’intervallo tornano al posto trafelati, carichi di aranciata e giganteschi pacchi di pop corn.
«Avevo detto Coca Cola», urla il figlioletto di sei anni, mentre le luci si spengono, e il padre, affranto, chiede scusa. Il figlio padrone, in genere cresciuto oscillando fra baby sitter e nonni, vede poco il padre e la madre, molto impegnati nel lavoro, ma li conosce comunque abbastanza per annusare un tacito senso di colpa dei due, troppo assenti da casa, nei suoi confronti. Il figlio padrone sa che quando i genitori tornano tardi e stanchi morti, prendendo in corsa il testimone da una baby sitter annoiata, è il momento migliore per piazzare una delle sue terribili grane, in un pianto da convulsione. Per quanto piccolo, già conosce lo sgomento sulle facce dei due, la loro disperata volontà di trattare, comunque: per un sorriso, e per un po’ di pace. Il figlio padrone è, quasi sempre, un figlio unico. È difficile infatti essere figli padroni in due: comunque, due fratelli devono spartirsi un territorio, dei giocattoli, delle attenzioni. Questo limita naturalmente la tendenza all’onnipotenza infantile. Ma purtroppo oggi, per mancanza di mezzi o di tempo, o per una sorta di parsimonia affettiva, di figli se ne fa uno. Dicono: meglio uno, così possiamo dargli tutto. Premessa che già a sentirla fa accapponare la pelle, nell’intravvedere la montagna di giocattoli, vestiti, lezioni di judo, danza, tiro con l’arco, mimo, sub con cui risponderanno a ogni desiderio del piccolo, prima ancora che il poveretto abbia il tempo di pronunciarli. Il figlio padrone, dunque, cresce convinto che il mondo esista per appagare i suoi desideri. I guai vengono quando cresce, e si trova davanti un professore, degli altri compagni, una ragazza, che gli dicono di no. Un 'no' a quindici anni è un trauma, se da quando sei nato non te lo ha mai detto nessuno.
Qualcuno, sbalordito, prende a calci i compagni, o il banco – talvolta il professore. Quasi sempre, i genitori accorrono in suo aiuto. Pare che difendano il figlio, ma in realtà difendono solo se stessi. Il loro sistema-famiglia chiuso e autarchico, la modesta pace di domeniche in cui si è disposti a non chiedere al ragazzo né dove vai, né con chi, purché non alzi la voce. La prima vittima dei figli padrone sono loro stessi. Educati a essere arroganti, e al primo 'no' prepotenti; menomati nella radicale esigenza dei figli, che è sì di essere amati, ma anche conoscere un limite, un argine alla propria pretesa. Un argine senza il quale non scatta nemmeno la beata ribellione dell’adolescenza, la contestazione dei vecchi, la voglia di rifare il mondo daccapo. Infatti i figli oggi non contestano. Malinconici consumano, si adeguano alle mode, tardano il più possibile a uscire di casa – intuendo che l’aria non sia così tiepida, fuori. I figli padroni, avendo già avuto tutto, non hanno veramente voglia di nulla – che è la cosa più triste per un uomo, a diciott’anni.
Di modo che, quando da McDonald’s incroci lui e lei e il bimbetto, paonazzo nell’urlare che vuole il ketchup, subito, e vedi come il padre corre con le spalle curve a procurarselo, non ti viene da ridere.
Meglio era il tempo dei padri padrone – almeno a quelli ci si ribellava. Ma i figli despoti dei padri inesistenti, dove troveranno un limite, se non nell’incrocio o nello scontro delle proprie vezzeggiate prepotenze?
Mauro: superato «il pregiudizio» Avvenire, 16.11.2007
DA STRASBURGO
A un documento in difesa delle comunità cristiane Mario Mauro pensava da anni, i primi tentativi erano stati bloccati dal muro di gomma di un laicismo non sempre velato, ma ieri il vicepresidente dell’Europarlamento ha avuto la soddisfazione di veder approvare alla quasi unanimità una mozione a cui lavorava da mesi. E che molto esplicitamente indica come primo obiettivo la difesa delle comunità cristiane.
Cos’è accaduto perché questa volta, dopo tanti rifiuti e tentennamenti, l’assemblea mettesse al centro dell’attenzione le violenze contro i cristiani in molte aree?
Credo davvero che ora in seno al Parlamento europeo il confronto senza pregiudiziali e per il bene comune renda possibile incontrarsi sulla verità. È accaduto che di fronte a tanti tragici episodi il Parlamento riconosce che la violazione dei diritti dei cristiani è legata “tout court” alla fede che essi professano. È stato superato «il» pregiudizio, quello nei confronti dei cristiani.
Le risoluzioni di Strasburgo ancora non hanno valore giuridicamente vincolante per i governi e la Commissione europea, ma a volte possono esercitare una solida pressione politica. In questo caso, quale potrà essere l’impatto sulle decisioni di Consiglio e Commissione?
L’impatto sarà verificabile da subito. Per esempio quando si tratta di aiuti e programmi di cooperazione, dal momento che l’Ue è il principale donatore internazionale. Prendiamo il caso di un delegato della Commissione in Sudan, che si renda conto che in quel Paese le comunità cristiane subiscono violenze senza che le autorità le difendano: a quel punto gli aiuti potrebbero essere sospesi fino a quando la situazione non cambi concretamente. La libertà religiosa è la cartina di tornasole per il rispetto di tutte le altre libertà e dei diritti dell’uomo: la persecuzione dei cristiani nel mondo rappresenta infatti una delle più feroci sfide contemporanee alla dignità della persona.
Il suo progetto iniziale riguardava la difesa dei cristiani in Medio Oriente, come è poi maturato l’allargamento ad altre parti del mondo?
Per la verità intendevo presentare il progetto di risoluzione in ottobre, nella scorsa sessione plenaria, ma il coordinamento dei gruppi politici mi ha chiesto di posticipare alla plenaria di novembre per avere il tempo di preparare un testo più dettagliato e accompagnato da un più ampio consenso. Così è stato, e si è deciso di ampliare la portata oltre l’area medio-orientale. Proprio il fitto lavoro di coordinamento svolto in questi ultimi giorni e le informazioni su numerosi episodi avvenuti fuori dal Medio Oriente, ad esempio in Cina e Vietnam, ci ha condotto a trovare un nuovo titolo che non prevedendo più l’esclusivo riferimento al Medio Oriente, ci ha permesso di avere un testo di più ampio respiro. Sicuramente il testo non è comprensivo di tutte le violenze contro i cristiani ma è evidente che il messaggio politico è rivolto anche a Paesi ed episodi che non sono stati citati.
In quale dei suoi interlocutori degli altri gruppi, nel mettere a punto il testo della risoluzione, ha trovato un atteggiamento più costruttivo?
Mi pare importante segnalare che alla base del compromesso c’è stato un fruttuoso negoziato con il Pse, in particolar modo con il suo presidente Martin Schulz, e con l’onorevole Pasqualina Napoletano. Li ringrazio per il lavoro che abbiamo svolto insieme.
Franco Serra
INTERVENTO Così Gérard-François Dumont, professore alla Sorbona, ha indicato i rischi dei pacs
«Riconoscimento coppie, non aprite quella porta» Avvenire, 16.11.2007
Lo studioso, ascoltato in Senato nei giorni scorsi a proposito del progetto sui Cus, ha spiegato come il dare un rilievo pubblico alle unioni di fatto finisca per scoperchiare un vaso di Pandora di rivendicazioni infinite Obiettivo: conseguire per i conviventi gli stessi diritti (senza però i doveri) delle coppie sposate E il tutto a carico dei contribuenti
Pubblichiamo stralci dell’audizione che Gérard-François Dumont, professore alla Sorbona di Parigi e presidente della rivista 'Population & Avenire', ha reso nei giorni scorsi alla Commissione Giustizia del Senato nell’ambito della discussione sulla regolamentazione delle coppie di fatto. Dumont ha descritto le legislazioni in vigore in altri Paesi, concentrandosi in particolare sui Pacs francesi e infine trae qualche conseguenza per l’Italia.
Nuove legislazioni, fonti di rivendicazioni continue.
È evidente che nessuna legislazione che verta sull’instaurazione di un diritto concernente la coppia mette fine al dibattito o alle rivendicazioni delle associazioni di omosessuali. Non le soddisfano né il partenariato omosessuale (la formula legislativa scelta dai Paesi del Nord Europa per regolamentare le unioni omosessuali, ndr), né i Pacs. Esse li considerano solo tappe che devono preludere a nuove disposizioni. Ogni nuovo conseguimento di diritti per la coppia, accordato nell’intento di allinearla ai diritti del matrimonio, si accompagna all’affermazione di nuove rivendicazioni. Le associazioni di omosessuali chiedono sistematicamente le stesse regole del matrimonio, ad esempio in materia di autorità parentale congiunta sui figli avuti con altri partner. Sollecitano diritti sociali equivalenti a quelli del matrimonio, nel diritto o nelle convenzioni collettive. Chiedono l’utilizzo del termine 'matrimonio' per una situazione che riguarda solo la coppia. Chiedono per la loro coppia celebrazioni in municipio come per il matrimonio (ma senza lo stesso contenuto in materia di solidarietà familiare).
(…) Insomma, i Paesi che hanno varato una legislazione sulle coppie, si tratti del partenariato omosessuale o dei Pacs, hanno aperto una sorta di vaso di Pandora che conteneva una catena di rivendicazioni di cui non si vede la fine. Inoltre, alle rivendicazioni delle associazioni di omosessuali se ne aggiungono altre riguardanti tutte le coppie, e non solo i partner dello stesso sesso. Infatti nei Paesi che hanno scelto di varare i Pacs, la richiesta verte sull’allineamento totale dei Pacs ai diritti del matrimonio, e dunque sull’attribuzione alla coppia degli stessi diritti del matrimonio, senza l’applicazione dei doveri propri del matrimonio. Si tratta di avere i 'vantaggi' del matrimonio senza gli 'inconvenienti', i diritti che procura il matrimonio senza conoscerne i doveri. Talvolta viene avanzata l’idea di sopprimere in maniera pura e semplice il matrimonio, considerato un’istituzione sorpassata sostenuta dalle Chiese, mentre l’individualismo deve regnare 'sovrano' (…).
Coppia e famiglia, matrimonio e 'mini-matrimonio'.
È vero che in Francia la famiglia, con la sua combinazione di diritti e doveri, sembrava aver fatto ritorno nei discorsi elettorali che hanno preceduto le presidenziali del 2007. Nicolas Sarkozy, ad esempio, nell’ultimo messaggio della campagna presidenziale annunciava la rottura con l’ideologia del maggio del 1968, quella del «cittadino che non deve niente al suo Paese, che ha solo diritti, che non ha alcun dovere».
Aggiungeva: «L’idea della Francia per la quale mi batto […] è una Francia dove si è smesso di detestare la famiglia, il lavoro, il successo». Ebbene: se dal maggio 2007 sono state prese o annunciate decisioni che investono il lavoro e lo sviluppo, non si può dire lo stesso per la famiglia, che pure era citata al primo posto. Il suo nome non figura neanche tra le 35 competenze dei ministri del governo Fillon, né tra quelle dei segretari di Stato. E i testi votati in Parlamento nell’estate del 2007 segnano un nuovo passo indietro sulla famiglia, con l’estensione dei diritti della coppia (si tratta del 'pacchetto fiscale' e della legge 'in favore del lavoro, dell’impiego e del potere d’acquisto', in cui i vantaggi per le famiglie sono estese alle coppie unite dai Pacs, ndr). È per questo che i Pacs appaiono un mini-matrimonio bello e buono, con i suoi diritti e i suoi doveri. Per la società, il diritto della coppia antepone il primato del momento in contrapposizione al diritto del matrimonio che si preoccupa delle solidarietà future in seno alla famiglia e, in particolare, verso le generazioni future. I Pacs sostituiscono l’antica moneta del matrimonio con quella sorta di nuova moneta sociale che è la coppia. Come gli economisti hanno evidenziato da tempo, «la moneta cattiva scaccia quella buona». Dunque i Pacs si sostituiscono al matrimonio, come attesta la loro crescita in concomitanza con la diminuzione dei matrimoni, poiché la legge privilegia il legame di coppia ai legami della famiglia e tra generazioni. (…)
Riconoscimenti fiscali e sociali e sviluppo durevole.
Tutte le legislazioni che pongono la coppia quale soggetto di diritto – si tratti di partenariati omosessuali o di Pacs – hanno effetti finanziari, in particolare per le casse pubbliche. Da una parte, l’esistenza di tali formule giuridiche comporta di per sé costi amministrativi a carico delle amministrazioni pubbliche e, dunque, dei contribuenti: registrazione dei partenariati o dei Pacs, aggiornamento dei documenti amministrativi, rilascio di certificati, registrazione delle rotture, arrivo di nuovi processi riguardanti l’applicazione dei nuovi diritti accordati alla coppia che vanno ad aggiungersi ai carichi di lavoro già eccessivi dei tribunali… D’altra parte, i diritti fiscali e sociali concessi alle coppie rappresentano costi significativi, in particolare per lo Stato, per le casse della previdenza sociale e pensionistiche. Questi due tipi di costi mobilitano risorse che i servizi pubblici non possono dedicare né alle famiglie, né all’educazione, né alla ricerca, né all’invecchiamento demografico, né all’integrazione degli immigrati, tutte politiche indispensabili nei Paesi europei.
Conclusione.
Ogni nuovo progetto legislativo dovrebbe implicare uno studio preliminare delle ragioni per prenderlo in considerazione e del bilancio che si può fare di decisioni simili prese in altri Paesi. Andrebbe aggiunta la preoccupazione di fare dell’ingegneria sociale, di riflettere sulle diverse conseguenze possibili di quella decisione. Dovrebbe essere questo il metodo da usare nell’esame di ogni progetto e di ogni articolo di legge riguardante la coppia. Un’analisi oggettiva condotta secondo tale metodo invita, per le ragioni sopra precisate, a essere molto circospetti, persino reticenti di fronte a legislazioni centrate sulla coppia che non sembrano iscriversi nella preoccupazione della solidarietà tra generazioni e del benessere delle generazioni future. Tale preoccupazione deve invece essere al centro di ogni pensiero elaborato all’alba del XXI secolo, necessariamente fedele allo spirito dello sviluppo durevole, e che si preoccupi dell’esistenza di società durevoli che mettano al primo posto gli scambi armoniosi tra generazioni, e dunque la famiglia.
Gérard-François Dumont
(traduzione di Anna Maria Brogi)