martedì 13 novembre 2007

Lettera pastorale dell’Arcivescovo Forte: Il battesimo e la bellezza di Dio
ROMA, lunedì, 12 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la Lettera pastorale per l’anno 2007-2008 sul battesimo di monsignor Bruno Forte, Arcivescovo metropolita di Chieti-Vasto.

* * *

L’acqua della vita
Il battesimo e la bellezza di Dio
Lettera pastorale per l’anno 2007-2008
Vorrei provare a capire con te che cos’è il battesimo,
che cosa significa darlo ai nostri bambini o riceverlo da adulti
o riscoprirlo a un certo punto del nostro cammino con gli occhi della fede:
se ho scelto di parlartene, è perché sono profondamente convinto
che in esso si compia l’incontro con Dio che cambia il cuore e la vita,
un incontro decisivo in cui - se tu lo vuoi - Gesù Risorto si unisce a te,
per accompagnare col Suo amore fedele la tua esistenza
e inondarla della bellezza
che inizia nel tempo e non tramonterà mai.


1. “Dove abita Dio?” La domanda sembrò folgorare la folla di bambini venuti ad incontrarmi in Cattedrale. Bastò poco, però, perché uno di loro alzasse la mano, gridando senza alcuna incertezza: “A Gerusalemme!”. “È vero - osservai rivolgendomi al piccolo “teologo” -, Dio ha abitato a Gerusalemme quando Gesù, il Suo unico Figlio, si è fatto uomo per amore nostro. Ma Gesù - una volta morto e risorto - ha mandato il Suo Spirito per raggiungerci dovunque noi siamo: perciò, ora Dio abita dovunque gli si apra la porta del cuore”. Il silenzio che seguì alle mie parole racchiudeva forse la domanda, che quei piccoli cuori non sapevano esprimere e che pure ci riguarda tutti: come si fa ad aprire la porta del cuore al Dio di Gesù Cristo? E come Colui che è venuto fra noi tanti secoli fa può raggiungerci oggi e venire a dimorare fra noi, in noi? È Gesù stesso a indicarlo ai due discepoli di Giovanni il Battista, che lo avevano raggiunto per chiedergli: “Maestro, dove abiti?”. La risposta fu netta: “Venite e vedrete!”. Il racconto prosegue: “Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio” (Giovanni 1,39). Per aprire la porta del cuore a Dio che vuol venire ad abitarvi occorre dunque un cammino - “andarono dunque” -, che porti alla conoscenza della Sua dimora - “videro dove abitava” -, per poi “fermarsi presso di Lui” e far esperienza della vita con Lui. Questo cammino avviene nella concretezza dello spazio e del tempo, anche se ha il potere di trasformare il tempo pesante dei nostri affanni in un tempo lieve, indimenticabile, quale può essere soltanto quello di un incontro d’amore di cui, a distanza di anni, si ricorda perfino l’ora precisa in cui avvenne: “Erano circa le quattro del pomeriggio”!

2. la porta del cuore. Sin dall’inizio la Chiesa ha seguito le orme del Maestro, proponendo a chi vuole incontrare Gesù un itinerario analogo a quello da Lui indicato ai discepoli del Battista: questo cammino è detto catecumenato (dal verbo greco “katechéo”, che significa “insegno a viva voce”, ma anche “apprendo dalla viva voce”). Costruito sul rapporto vivo e diretto fra chi trasmette la fede e chi l’accoglie, esso mira a portare per mano chi lo desidera ad aprire a Cristo la porta del cuore, affinché Lui venga a dimorarvi e trasformi dal di dentro la vita intera nella comunione della Chiesa e nel mondo. Per l’adulto che chiede il battesimo si tratta di un vero e proprio percorso di iniziazione cristiana, che unisce catechesi ed esperienza progressiva del dono di Dio. Per chi è stato battezzato da piccolo il cammino coincide con l’educazione alla fede, che in un certo senso realizza nel tempo l’itinerario proposto da Gesù ai due discepoli del Battista, per far prendere piena coscienza del dono ricevuto e viverlo in tutta la sua bellezza. Qual è questo dono? Che cosa avviene nel battesimo? Ad operarvi è Dio Padre, che attraverso le parole della fede e l’acqua della vita ci fa Suoi figli nel Figlio, liberandoci dal potere del peccato e rendendoci partecipi della vita nuova dello Spirito, che ci fa Chiesa. Il peccato che viene cancellato è quello che - come la morte - segna ogni essere umano sin dal suo concepimento: “Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia, perché come il peccato aveva regnato con la morte, così regni anche la grazia con la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore” (Romani 5,20s). Mentre ci libera dal male, il battesimo ci fa realizzare, dunque, quell’incontro decisivo con Cristo, che ci consentirà di vivere l’intera esistenza come una storia d’amicizia con Lui nella comunione della Chiesa.

3. Dal Vangelo al battesimo. “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28,19s). Queste parole di Gesù racchiudono tutti gli elementi essenziali del battesimo: anzitutto, l’annunzio di quanto Lui ha fatto e insegnato; quindi, l’accoglienza del Suo dono, espressa mediante la confessione della fede; infine, l’effusione dell’acqua nel nome della Trinità. L’annunzio del Vangelo è la premessa necessaria al battesimo: in una società dove i più venivano battezzati, esso si dava quasi per scontato e l’importanza della preparazione al battesimo veniva piuttosto trascurata. Nella società complessa, multireligiosa e multiculturale, in cui viviamo, l’urgenza di far risuonare l’annuncio della fede e di chiamare alla conversione a Cristo si mostra in tutta la sua necessità. Nel caso del battesimo di un bambino questa urgenza riguarda anzitutto i genitori. Ad essi vorrei dire, appellandomi con tutto l’amore possibile alla loro responsabilità: avete dato la vita naturale a vostro figlio senza chiedergli prima il permesso, convinti che la vita è un bene da dare e da far amare, e avete fatto qualcosa di veramente bello. Ora, chiedendo di farlo partecipe della vita divina col battesimo, dovete essere consapevoli di quello che domandate per assumervi con piena convinzione l’impegno di fargli gustare e di far sviluppare in lui la vita nuova che gli è offerta in dono. La catechesi a voi genitori in preparazione al battesimo del vostro bambino è perciò indispensabile: la grazia del fonte battesimale si irradia così anzitutto su di voi, e mentre la vostra creatura è rigenerata dall’alto, vengono risvegliati o perfino accesi in voi il dono e la bellezza della fede. Al tempo stesso, è importante aiutarvi nella scelta dei padrini e delle madrine, perché sia guidata dall’unico scopo di affiancare ai vostri figli testimoni credibili dell’amore di Gesù, desiderosi di assumere questo impegno per tutta la vita. La catechesi ai padrini e alle madrine non è meno importante di quella a voi genitori o agli adulti che chiedono il battesimo! Leggere questa lettera e parlarne, potrà servire anche a questo scopo.

4. La domanda della vita. La celebrazione del battesimo inizia con un dialogo. Ai genitori si chiede che cosa domandano per il figlio che vogliono battezzare, agli adulti che cosa si aspettano per sé dal battesimo. La risposta è eco della più profonda attesa del cuore umano: “la vita eterna”. Il nostro cuore ha sete della vita che vince la morte, della gioia più forte di ogni dolore, della bellezza che non tramonti mai: chiedendo la vita eterna ci si aspetta, allora, “una vita buona; la vera vita; la felicità anche in un futuro ancora sconosciuto” (Benedetto XVI, Omelia nella festa del Battesimo del Signore, 8 Gennaio 2006). Certo, nel domandare un dono così grande può nascere nel cuore l’interrogativo che anche Maria fece all’Angelo: “Come accadrà questo?”. La risposta che il battesimo ci propone è un invito a fidarci di Dio nella comunione della Sua Chiesa: “Noi non siamo in grado di assicurare questo dono per tutto l’arco del futuro sconosciuto e, perciò, ci rivolgiamo al Signore per ottenerlo da Lui” (ib.). Chi riceve il battesimo non è più solo: il Dio che è amore lo custodirà sempre! Grazie a questo amore, il battezzato “viene inserito in una compagnia di amici che non lo abbandonerà mai nella vita e nella morte… Questa compagnia di amici è la famiglia di Dio, che porta in sé la promessa dell’eternità… Essa gli darà parole di vita eterna: parole di luce che rispondono alle grandi sfide della vita e danno l’indicazione giusta circa la strada da prendere… Questa famiglia di Dio, questa compagnia di amici è eterna, perché è comunione con Colui che ha vinto la morte, che ha in mano le chiavi della vita. Essere nella famiglia di Dio significa essere in comunione con Cristo, che è vita e dà amore eterno oltre la morte” (ib.).

5. La confessione di fede. Il dono della vita, offerto nel battesimo, come qualsiasi altro dono, richiede di essere accolto: “Un dono di amicizia implica un ‘sì’ all’amico e un ‘no’ a quanto non è compatibile con questa amicizia” (ib.). Perciò, nella celebrazione del battesimo siamo chiamati a dire ‘no’ al peccato e alle seduzioni di Satana, cioè a una vita fondata sull’apparenza, sull’egoismo e sulla menzogna, che ci porta a separarci da Dio e dagli altri per affermare noi stessi, vivendo l’illusione di poter essere felici senza amare. Al tempo stesso, siamo chiamati a dire ‘sì’ al Dio che è Amore, al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. È il ‘sì’ espresso dalla parola “credo”, con cui ci consegniamo totalmente a Dio (“credere” secondo un’etimologia medioevale verrebbe da “cor dare”, dare il cuore). Credi nel Padre se accetti di consegnarti perdutamente a Lui, che da sempre ti ama e per sempre ti amerà: il “sì” che dici a Lui vuol dire affidarti all’amore infinito da cui veniamo, in cui ci muoviamo e siamo, e verso cui tendiamo. Credi nel Figlio se vuoi unirti nel più profondo del tuo essere a Lui, l’eterno Amato che accoglie l’amore del Padre e lo restituisce nella gratitudine: il ‘sì’ al Figlio significa accettare di dipendere con Lui dal Padre, per vivere la tua vita in obbedienza al disegno di Dio, come ha fatto Gesù. Credi nello Spirito Santo se lo invochi come il dono che ti fa libero e ti unisce a Dio e agli altri: il “sì” allo Spirito vuol dire confessare l’eterna carità come sorgente di unità, di libertà e di pace, da accogliere nel tuo cuore e da vivere nel tempo e per l’eternità.

6. La risposta di Dio. A questa professione di fede il Dio vivente risponde facendoci entrare nell’alleanza d’amore con Lui: un’alleanza così fedele, che la nostra appartenenza a Lui e alla Chiesa non potrà mai essere perduta, quali che siano le nostre infedeltà o i nostri rifiuti. Grazie al dono del battesimo abbiamo la certezza di appartenere per sempre a Dio e possiamo sperimentare la dolcezza di stare nelle mani di Colui che non ci tradirà mai. In questa relazione definitiva con Dio consiste propriamente il “carattere” impresso dal battesimo, il legame con Lui, che proprio grazie alla Sua fedeltà non potrà più essere cancellato e ci unirà per sempre alla Sua famiglia, la Chiesa. Perciò esiste fra tutti i battezzati - quale che sia la loro appartenenza confessionale (cattolici, ortodossi, evangelici, anglicani…) - una comunione più forte delle loro diversità, che - pur realizzandosi in gradi diversi - è il fondamento dell’impegno ecumenico, teso a superare le divisioni storiche fra di loro. La passione per l’unità che Cristo vuole è inscritta nella stessa grazia battesimale! Ed è anche per questa fedeltà di Dio all’alleanza stabilita col battesimo che la Chiesa riconosce ed ama come suoi figli quei credenti che non vivano fedelmente il dono ricevuto. È anzi suo dovere annunciare a tutti la buona novella della misericordia di Dio senza mai stancarsi, sempre pronta ad aiutare ciascuno a realizzare il cammino di vita cui è stato chiamato. “Diventa ciò che sei!”: questo invito dovrà risuonare incessantemente per chiunque abbia ricevuto il dono del battesimo, quale che sia la fedeltà con cui lo ha vissuto e lo vive.

7. I gesti e i simboli del battesimo. Oltre ai dialoghi, la celebrazione del battesimo comprende alcuni gesti, con cui si manifesta il ‘sì’ di Dio a chi chiede il sacramento della vita nuova. Il primo gesto è il segno della croce fatto sulla fronte di chi viene battezzato: questo gesto esprime appartenenza e protezione, perché la Croce è il distintivo e la difesa del cristiano, ed indica al tempo stesso la strada del discepolo, perché la Croce è come la sintesi di tutta la vita di Gesù e di chi voglia seguirLo. Poi c’è l’infusione dell’acqua o l’immersione in essa: da una parte, l’acqua significa la vita, perché non c‘è vita dove essa manca, e rappresenta così la rigenerazione offerta nel battesimo; dall’altra, l’acqua è simbolo di morte e di condanna, come fu l’acqua del Mar Rosso per l’esercito del Faraone, e significa la purificazione dal male che il sacramento opera. Il battesimo ci ricopre con l’acqua della morte e della vita, ci “immerge” in essa (come dice lo stesso nome, derivato dal verbo greco “baptízo”, “immergo”), per esprimere che, immersi con Cristo nella Sua morte, siamo resi partecipi con Lui della vita nuova di Pasqua, per rinascere con Lui. Nella celebrazione del battesimo vengono poi adoperati l’olio, la veste bianca e la candela accesa. L’olio è simbolo della salute (in antico era considerato un medicamento prezioso) e della bellezza (perché rende splendente ciò che unge): esso è utilizzato in due gesti diversi. L’unzione con l’olio dei catecumeni significa che colui che chiede il battesimo è pronto a ricevere da Dio la guarigione e la forza per vincere il male; l’unzione sulla fronte con l’olio del crisma sta a dire che il battezzato è unto dallo Spirito del Risorto, che lo unisce a Cristo sacerdote, re e profeta e lo fa membro del Suo corpo, la Chiesa, partecipe così della bellezza di Dio. La veste bianca è simbolo dell’urgenza di irradiare questa bellezza, manifestando con la parola e la vita la gioia di essere nuova creatura. La candela accesa al cero pasquale, infine, è simbolo della verità che Cristo fa risplendere nel cuore di chi Lo accoglie, e del calore del Suo amore. Vita nuova, bellezza, splendore, verità, amore: ecco le realtà significate dai gesti e dai simboli del battesimo.

8. Nel nome della Trinità: fede, speranza e amore. “Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”: queste parole significano che fra il battezzato e ciascuna delle Persone divine è stabilita una relazione, che tocca in profondità il cuore e che dovrà esprimersi in tutta la vita. Nel battesimo Dio Padre agisce con potenza come nella resurrezione di Gesù (cf. Colossesi 2,12). È Lui ad attrarre il nostro cuore alla fede ed è Lui ad accoglierci come figli nel Figlio (cf. Galati 3,26s). In quanto il Padre è “il Dio che è amore” (cf. 1 Giovanni 4,8 e 16), l’impronta della Sua azione nel battezzato è la carità: la vocazione che ci è data col battesimo è anzitutto l’amore, riversato nei nostri cuori dallo Spirito (cf. Romani 5,5), per essere vissuto fedelmente alla presenza di Dio, “nascosti” nel Suo cuore divino (cf. Colossesi 3,3). Il battesimo ci unisce poi al Figlio Gesù, affinché, “sepolti insieme a lui nella morte, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Romani 6,4). La vita di Gesù è stata tutta vissuta nel segno dell’obbedienza al Padre: analogamente, la vita nuova che nasce col battesimo è un cammino di fede, da vivere insieme a Cristo davanti a Dio Padre nel dolore e nella gioia, nella morte e nella vittoria sulla morte: “Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” (Romani 6,3). Innestato a Cristo come il tralcio alla vite, il battezzato è reso capace di offrire se stesso quale “vittima viva, santa, gradita a Dio” (cf. Romani 12, 1), per rendere testimonianza al Signore in ogni cosa e dare ragione della sua speranza (cf. 1 Pietro 3, 15): egli vive così il suo “sacerdozio” battesimale. Infine, grazie all’azione dello Spirito Santo, nel battesimo ci viene data l’adozione a figli: “Che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Galati 4,6). Questa vita di figli ci è partecipata nella speranza, che è come il domani di Dio iniziato nel nostro presente. Fede, speranza e carità sono allora l’impronta della Trinità impressa in noi col battesimo: in forza della grazia ricevuta con l’acqua della vita, il cristiano è un credente, uno speranzoso e un innamorato di Dio...

9. Nella comunione della Chiesa. Generandoci alla vita eterna nel battesimo, lo Spirito forma di noi un solo corpo, la Chiesa: “E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito” (1 Corinzi 12,13). Grazie al dono dello Spirito, il cristiano entra a far parte della famiglia dei figli di Dio, radunata nel nome della Trinità, e sa perciò di non essere mai solo, nella vita come nella morte, nel tempo come nell’eternità. Nella comunione della Chiesa sarai aiutato a vivere la tua vocazione al servizio degli altri, sapendo che a ognuno lo Spirito distribuisce i suoi doni come vuole, sì che la comunità sia ricca di carismi differenti, chiamati a convergere in vista dell’utilità comune (cf. 1 Corinzi 12,4-7). Mettendo anche tu i doni ricevuti da Dio al servizio degli altri, sentirai quanto la tua vita possa essere bella e degna di essere vissuta. In particolare, avvertirai l’urgenza di trasmettere agli altri il dono della fede e dell’amore: ai tuoi figli anzitutto, se sei padre o madre; ai giovani, se sei genitore o educatore o hai comunque a cuore il futuro di tutti; a chi lavora con te, mettendolo a parte con semplicità e convinzione della bellezza della fede; agli ammalati e agli anziani, che spesso si sentono soli e fragili, come a tutti coloro che ami o che hanno bisogno del tuo amore, facendo loro sentire con la tua vicinanza la presenza del Padre e del Suo amore infinito. Credendo, sperando e amando potrai aprire sempre di più a Dio la porta del tuo cuore e aiuterai gli altri ad aprirla, nella salute come nella malattia, nel dolore come nella gioia di essere tutti avvolti dall’amore dell’unico Padre celeste.

10. Vieni, Gesù, versa l’acqua nel bacile… La vita secondo lo Spirito si esprimerà negli umili sì di ogni giorno, nelle tante scelte fatte alla luce della fede, della speranza e dell’amore, che sarai chiamato continuamente a vivere. Eppure, decisivo resterà sempre per te il primo incontro con Cristo, quello avvenuto nel battesimo, anche se ne prenderai coscienza solo dopo, perfino molto dopo averlo ricevuto. Quando, però, ti sentirai “toccato” da Dio, quando il tuo cuore arderà per Lui, come avviene in chi si scopre amato da sempre e per sempre, allora “saprai” che quel miracolo d’amore è legato al battesimo che ti è stato dato da bambino o che hai chiesto da adulto. “Toccato” da Dio, potrai irradiare la Sua presenza fra coloro in mezzo a cui Lui ti invia, esprimendo tutte le meravigliose ricchezze infuse in te con l’acqua della vita: “Ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento della storia - affermava il Card. Joseph Ratzinger pochi giorni prima di essere eletto Papa (Subiaco, 1 Aprile 2005) - sono uomini che, attraverso una fede illuminata, rendano Dio credibile in questo mondo… Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini”. Chiedere di essere “toccati” da Dio, lasciandoci illuminare dalla Sua luce e aprendogli totalmente il cuore perché lo riempia di sé, significa voler vivere il nostro battesimo. Lo domandiamo al Signore con le parole di un’antica preghiera: “Gesù vieni, ho i piedi sporchi. Fatti servo per me. Versa l’acqua nel bacile. Vieni, lava i miei piedi. So che quel che dico è temerario; ma temo quelle tue parole: ‘Se non ti laverò i piedi, non avrai parte con me’. Lavami dunque i piedi perché abbia parte con te. Ma che dico, lava i miei piedi? Questo l’ha potuto dire Pietro, che aveva bisogno di lavarsi solo i piedi perché era tutto puro. Io invece, una volta lavati i piedi, ho bisogno di quel battesimo di cui Tu hai detto: ‘Quanto a me, con un altro battesimo devo essere battezzato’” (Origene, Omelia V su Isaia, 2). Aiutami a vivere questo battesimo, mio Signore e mio Dio! Amen!






I RAGAZZI CON BASTONI, IL NUOVO NICHILISMO
A ridosso degli stadi spuntano le nostre banlieues
DAVIDE RONDONI
Avvenire, 13.11.2007
L i abbiamo visti: dirigenti, presidenti, campioni che non sapevano che dire.
Balbettavano, mezze frasi, qualche giro di parole, si chiedevano: ma cosa è ? Si era nelle ore dopo la morte del povero ragazzo, e dopo la furia che si è accesa. Di fronte a quello scoppio si chiedevano, balbettavano: ma cosa è ?
Presidenti, gente responsabile, con la testa sulle spalle e in genere ben riuscita nella vita. Gente che, come si dice, muove miliardi. Eppure balbettavano, facevano giri di parole: ma cosa è, da dove viene questa rabbia, questa furia... E anche gli altri, i campioni, gli allenatori dei campioni, gente abituata a stare in mezzo al cosiddetto 'mondo', e sempre sui giornali, in quella che sembra essere la realtà, dicevano: fa paura questa cosa, che cosa è... Perché non sapevano come chiamare questa violenza che scatta e dietro a un dolore acuto e giusto accende un fuoco così alto. Non sapevano come chiamare questo radunarsi in venti, in cento, in ottocento per distruggere e per colpire. Per andar contro la polizia, e per andar contro tutto. Non sapevano come chiamare questo far corpo intorno a un drappo, e l’organizzarsi, e la guerriglia. E allora lo chiamano tifo violento, lo chiamano delinquenti, ma è come non dire niente. È restare sulla superficie, e quando si è superficiali certi fenomeni c’è da esser sicuri che ritorneranno. Più forti. Infatti si era visto a Catania, ed è successo di nuovo. E’ qualcosa di fronte a cui serve poco balbettare: è tifo violento, è delinquenza. In pochi minuti centinaia di ragazzi disposti ad andare con bastoni e fuoco contro le caserme. Come se ci fosse in loro qualcosa che aspetta solo l’occasione e solo il segnale per erompere. Come se ci fosse una nera fiamma che attende l’occasione propizia per uscire. Come se covassero un segreto tremendo, e si sentissero in guerra o dei posseduti, che al momento del rito non si tirano indietro. Ieri dunque abbiamo visto il mondo che pensa di essere al centro dell’attenzione, il mondo dei riusciti, ecco, non riuscire a spiaccicare una parola sensata, fuori dai luoghi comuni. Abbiamo visto la loro impotenza, e il fallimento.
Come in Francia, con le sommosse delle banlieues, dei quartieri a rischio, venne alla ribalta un fenomeno giovanile che i francesi non sapevano come chiamare, così anche qui non sappiamo come chiamare questo radunarsi violento: che non è tifo, non è politica, non è disagio sociale. O è di tutto un po’, tra simboli confusi e sovrapposti, ma non solo, poiché non basterebbe l’unione di queste polveri a far detonare l’ordigno che ci sta scoppiando nelle mani.
Cosa è? Il nome di questo fenomeno è quello che coraggiosamente papa Ratzinger fece risuonare il primo gennaio, nella giornata dedicata alla pace. Fu strano, e molti non lo notarono. O non lo vollero notare. Ma tra i nemici della pace il Papa insieme a guerra e terrorismo indicò il nichilismo. Aveva ragione, ora tra questi bagliori di guerra lo vediamo meglio. Il nichilismo non è soltanto una filosofia.
Quei ragazzi con i bastoni non sono certo dei lettori di filosofia, ma agiscono in modo nichilista. Il sentimento scettico e corrosivo di coloro che vediamo seduti a conversare nei salotti televisivi, o che sono voci della loro musica, protagonisti dei video, è divenuto in loro la rabbia, il non aver più niente di caro o di sacro. Niente al di sopra della ebbra dimostrazione della forza, per difesa o offesa. Il sorrisetto degli intellettuali che seminano dubbio e irrisione su tutto diviene in quei ragazzi la violenza e il branco come unica legge.
Come modo per sentirsi esistere. In loro esiste una specie di pura disperazione, una rabbia pura. Se ai nichilisti in cattedra o sul giornale è riservata la soddisfazione di una certa fama e un buon agio economico, a loro invece nemmeno quella. Resta solo il sentimento della vita come di una fregatura. E se poi ti ammazzano l’amico o il compagno e gira voce di dar fuoco a una caserma, perché non farlo ? Anzi, con più rabbia ancora...







CulturaCattolica.it
lunedì 12 novembre 2007
La morte di Gabriele Sandri
Ieri abbiamo assistito a due fatti distinti: un incidente tragico la cui dinamica ancora è da chiarire, e una guerriglia organizzata e trasversale.
Domenica mattina, sono da poco passate le nove, rissa tra laziali e juventini in un autogrill vicino ad Arezzo, da una volante della Polstrada che sta facendo alcuni controlli sulla carreggiata dell’autostrada in direzione opposta, parte un colpo di pistola che uccide Gabriele Sandri, 28enne romano, noto come dj e animatore del Piper.
Il questore di Arezzo dichiara: "Tragico errore, ma accertamenti ancora in corso".

Poi scoppia l’inferno, perché il nostro non è un paese normale, dove le regole sono certe e vanno rispettate, dove davanti alla morte e al dolore s’impone il rispetto.

No, il nostro è un paese in ostaggio.

In ostaggio di chi aspetta la domenica per sfogare la rabbia, la violenza, contro altri come loro, contro la polizia identificata come “il nemico”, contro la tifoseria avversaria, contro vetrine e auto in sosta.
La voce corre veloce, la guerriglia si scatena.
A Roma i tifosi assaltano il commissariato, ma io li chiamerei delinquenti, teppisti, guerriglieri, per rispetto a chi “tifoso” lo è nel vero senso del termine.

Poi gli scontri con le forze dell’ordine si spostano anche dall’altra parte del Tevere, nella zona di viale Tiziano. Un gruppo di circa 70-80 “tifosi” a volto coperto e armati di bastoni e spranghe assalta la sede del Coni, nei pressi dello stadio Olimpico, le guardie di sorveglianza, non armate, si barricano all’interno dell’edificio, mentre gli ultras devastano le aree interne della sede.

A Bergamo gli ultras dell’Atalanta riescono a dettare legge e a far sospendere la partita Atalanta - Milan, è una dichiarazione di resa, è chiaro chi comanda e decide le regole?

Che dire?

Se Gabriele Sandri fosse stato ucciso oggi, si starebbe parlando di una fatale tragedia, nella quale un agente della POLSTRADA ha ucciso accidentalmente un giovane dj, una disgrazia, inspiegabile, perché è difficile immaginare un agente in servizio da più di dieci anni, quindi non una persona inesperta, che dall’altra parte dell’autostrada, a una cinquantina di metri dal punto dove si consuma la tragedia, prende la mira e spara intenzionalmente.

Invece, il fatto è accaduto ieri mattina, domenica e la notizia ha scatenato l’ira furibonda di chi non attende altro che un pretesto per scatenare la violenza, da chi si organizza per andare allo stadio ma la partita non la vede nemmeno perché il suo compito è un altro.
Da ieri non si fa che un gran parlare, si riempie il vuoto, si tacitano i dubbi e le coscienze riempiendo l’etere e la carta di parole.
Sembra che il problema sia il calcio, che la soluzione stia nella sospensione o meno del campionato, ma un tragico elenco comparso ieri su La Gazzetta dello sport, mette in fila i nomi delle persone che dal 1963 a oggi hanno perso la loro vita con la scusa del calcio, poliziotti e tifosi morti inutilmente e ogni volta si è sperato che fosse l’ultima, scoprendo poi alla tragedia successiva che non si è stati capaci di porre fine alla violenza.

Perché la violenza scoppia la domenica, ma ha radici nel vivere quotidiano, nella mancanza di regole certe, in una legalità “elastica”, dove chi distrugge, non paga, dove si trova sempre qualcuno che ha una remota giustificazione, le radici sono sempre le stesse, quelle che fanno gridare all’emergenza bullismo, all’emergenza educazione, all’emergenza criminalità, all’emergenza baraccopoli alle periferie delle città.

Ma la soluzione non può essere una soluzione di “emergenza”, non ci interessano i ministri pronti a dire “ci vogliono Leggi ancora più severe” basterebbe la certezza della pena, basterebbe che le leggi che ci sono siano applicate, sempre.
Perché allo Stato, alle istituzioni non chiediamo di far fronte alle emergenze, ma di affrontare con determinazione costante i problemi quotidiani, per evitare che si trasformino in emergenze.




Il Papa non è buonista. L’accoglienza non prescinde dalla sicurezza

di Massimo Introvigne (Il Giornale della Libertà, anno 1, n. 23, 9 novembre 2007)

La polemica fra Pier Ferdinando Casini e alcune frange del mondo cattolico accusate di “buonismo” per il loro atteggiamento nei confronti degli immigrati ha indotto molti a leggere con attenzione le poche ma importanti parole dedicate da Benedetto XVI alla questione dell’immigrazione nell’Angelus di domenica scorsa. “Auspico – ha detto il Papa – che le relazioni tra popolazioni migranti e popolazioni locali avvengano nello spirito di quell’alta civiltà morale che è frutto dei valori spirituali e culturali di ogni popolo e Paese. Chi è preposto alla sicurezza e all’accoglienza sappia far uso dei mezzi atti a garantire i diritti e i doveri che sono alla base di ogni vera convivenza e incontro tra i popoli”.
Parole, come si vede, molto chiare. Anzitutto, è impossibile impostare con serietà la questione dell’immigrazione se si rimane nell’angusto orizzonte del relativismo, secondo cui ogni popolo ha i “suoi” valori e non esistono valori universali e assoluti. Così, per esempio, il matrimonio monogamico sarebbe un valore attestato e vissuto da secoli in Occidente ma non si potrebbe, senza essere razzisti o imperialisti, imporlo a popoli che da secoli praticano la poligamia. E anche l’atteggiamento dei nomadi Rom sul rapporto con il territorio e la proprietà privata (altrui) avrebbe lo stesso intrinseco valore dei principi di legalità maturati dalla nostra cultura. Non è così. Tutto il magistero di Benedetto XVI insegna che un’autentica “civiltà morale” si costruisce intorno a un tessuto di valori che non sono propri di questo o di quel popolo, ma di “ogni popolo”. Principi come non uccidere, non rubare, non spacciare droga, rispettare il lavoro e la famiglia non sono europei o asiatici, italiani o balcanici, cristiani o buddhisti o atei: sono principi universali, che s’impongono a ogni persona umana in quanto persona. La Chiesa stessa non li indica come valori che deduce dal Vangelo: come Benedetto XVI ha ricordato tante volte, i valori universali possono essere riconosciuti dalla ragione a prescindere da ogni esperienza di fede, e dunque vincolano anche chi ha una religione diversa da quella storicamente maggioritaria in Italia o non ne ha nessuna, senza che questo vincolo costituisca un’oppressione delle minoranze o un’ingerenza della Chiesa nella vita sociale.
Dai valori universali che la ragione è capace di riconoscere discendono “diritti e doveri”. La “vera convivenza” non si può costruire sulla sola rivendicazione dei diritti. Occorre anche che le persone di cultura, lingua, abitudini e provenienza diversa che la globalizzazione porta a convivere sullo stesso territorio si riconoscano pure negli stessi doveri. Diversamente, la convivenza è sostituita dalla violenza e dallo scontro di tutti contro tutti.
Certamente sia nel patrimonio spirituale della Chiesa cattolica sia nell’ethos nazionale italiano è forte il senso dell’accoglienza del più povero e del più debole. Ma lo Stato non può orientare la sua politica dell’immigrazione al solo principio di accoglienza, e infatti Benedetto XVI menziona insieme “sicurezza e accoglienza”. Buonista è chi parla solo di accoglienza dimenticando la sicurezza, solo di diritti dimenticando i doveri, solo di minoranze dimenticando che esistono anche i diritti delle maggioranze, primo fra tutti quello a una vita sicura e a uno Stato che ci sappia proteggere dalla violenza quotidiana. Né sono sufficienti le belle parole. Il Papa ricorda che spetta a “chi è preposto”, cioè allo Stato, “fare uso dei mezzi adatti” perché anche la sicurezza, e non solo l’accoglienza, sia garantita. Mezzi adatti significa politica dell’immigrazione seria e non velleitaria e pasticciona come è purtroppo quella del governo Prodi, ma anche tribunali che funzionino e giudici che condannino. Il buonismo – anche di certi cattolici dalla lacrimuccia facile – è forse buono con il prepotente e il violento, ma è certamente cattivo con chi della prepotenza e della violenza è quotidianamente vittima.



Dottoressa anti aborto, l’Ordine la mette sotto inchiesta
DA LONDRA
ELISABETTA DEL SOLDATO
Avvenire, 13.11.2007

U
na dottoressa inglese è nel mirino del General medical council, l’Ordine dei medici britannici, dopo che alcuni colleghi l’hanno accusata di «abusare» della sua carica per convincere le sue pazienti a non abortire. Tamie Downes, medico condotto di un piccolo paese in Cornovaglia, nel Sud dell’Inghilterra, è ora indagata dal Gmc perché avrebbe infranto il codice etico cercando di dissuadere le sue pazienti a mettere fine alla loro gravidanza quando queste sono «confuse» sulla scelta. La Downes, che da anni si oppone all’aborto e si rifiuta di praticarlo sulle pazienti, sarebbe colpevole di mettere avanti le sue opinioni personali quando invece le sarebbe richiesto di mantenere un atteggiamento professionale e distaccato. Il caso ora minaccia di alimentare l’acceso dibattito tra le lobby pro e contro l’aborto che in questi giorni si stanno scontrando sulla possibilità di cambiare la legge e ridurre il limite dell’aborto dalle attuali 24 a venti settimane. Secondo il medico condotto, le accuse che ha ricevuto sono infondate.
«Non cerco e non ho mai cercato di convincere nessuno – spiega la Downes - . Alle mie pazienti fornisco i fatti che ho a disposizione e poi lascio loro il tempo di decidere. La scelta sta alla madre, io non ho il diritto di scegliere per lei». Detto questo, continua, «sono convinta che un medico abbia l’obbligo professionale di aiutare una paziente a fare una scelta obiettiva». Delle donne che ha in cura e che le chiedono consiglio sull’aborto, un terzo, sottolinea la dottoressa, decide di tenere il bambino. «Non ho mai avuto la sensazione che le mie pazienti si sentano forzate dalle mie opinioni personali.
Tutt’altro. La decisione del Gmc
mi rattrista molto perché sono convinta che le donne sarebbero penalizzate da una situazione in cui il medico non si sente libero di discutere i pro e i contro dell’aborto con loro». Un medico condotto su cinque in Gran Bretagna si rifiuta di praticare interruzioni di gravidanza. Il diritto di obiezione è garantito dall’Abortion Act del 1967, una legge che attualmente è sotto esame da parte della Commissione di scienza e tecnologia della Camera dei Comuni e che potrebbe presto essere modificata e inserita all’interno del nuovo Human Tissue and Embryology Act, la normativa sui tessuti umani ed embriologia in discussione in Parlamento. Secondo recenti raccomandazioni avanzate dalla Commissione di scienza e tecnologia, i medici che si oppongono all’aborto dovrebbero informare della loro posizione i loro pazienti e, nel caso, metterli in contatto con un altro medico. Ieri un portavoce del Gmc si è rifiutato di commentare sul caso specifico della dottoressa Downes ma ha sottolineato che «ogni medico che impone le proprie vedute personali su un paziente lo fa infrangendo il codice medico e andando contro gli interessi dello stesso paziente».
Tamie Downing: «Alle mie pazienti fornisco i fatti. Poi sono loro a decidere». I medici inglesi: «Così si infrange il codice»



Il Papa: «No alla violenza che manipola la religione»
DI GIORGIO D’AQUINO
Avvenire, 13.11.2007
No al terrorismo; no a chi abusa del nome di Dio manipolando la religione per attentare alla vita umana e al­la libertà. Lo ha detto il Papa ricevendo ieri le lettere credenziali del nuovo ambasciatore indonesiano, Suprapto Martosetomo. Un’occasione per riconoscere e incoraggiare il ruolo cruciale dell’Indone­sia nella lotta al terrorismo e nella promozione del dialogo interreli­gioso. L’Indonesia – ha sottolinea­to il Pontefice – è infatti uno Stato multireligioso e multietnico, e insieme il Paese con la maggior popolazione islamica al mondo – il 90% dei suoi oltre 200 milioni di abitanti.
Il terrorismo, «qualunque sia il pretesto, è un’offesa criminale che, per i suoi attentati alla vita umana e alla li­bertà, mina le reali fondamenta della società», soprat­tutto «quando il santo nome di Dio è invocato come giu­stificazione per tali atti», ha scandito Benedetto XVI. Ri­cordando come anche l’Indonesia sia minacciata «dal fenomeno del terrorismo internazionale», ha ribadito che «la Chiesa, ad ogni livello, in fedeltà all’insegna­mento del suo Maestro, condanna inequivocabilmen­te la manipolazione della religione per fini politici, ri­chiamando con urgenza l’applicazione della legge u­manitaria internazionale in ogni suo aspetto per com­battere il terrorismo». L’Indonesia, per la sua peculiare composizione religiosa e culturale, «gioca un ruolo im­portante e positivo nella promozione della coopera­zione interreligiosa, al suo interno e nella comunità in­ternazionale »: «Dialogo, rispetto per le convinzioni de­gli altri e collaborazione al servizio della pace sono i mezzi più sicuri per assicurare la concordia sociale».
Al proposito il Papa ha additato la crescente «collabo­razione tra cristiani e musulmani in Indonesia, soprat­tutto per prevenire i conflitti etnici e religiosi nelle zo­ne più turbolente». Nel grande arcipelago i cattolici sono «piccola minoranza» ma «desiderano partecipare pienamente alla vita della nazione», con l’opera educativa e sanitaria al servizio degli uomini d’ogni fede e condizione, e con la trasmissione dei «valori etici fondamentali per un autentico progresso civile e una convivenza pacifica». Mentre «il diritto al libero esercizio della loro religione in completa uguaglianza coi loro concittadini è garantita dalla Costituzione nazionale, la pro­tezione di quei diritti umani fondamentali – ha aggiunto – chiede una vigilanza costante da parte di tutti».
Il Papa si è detto infine soddisfatto della recente adesione dell’Indonesia alla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici e l’ha incoraggiata – quale membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu – nell’impegno globale per la pace e lo sviluppo.
Lotta al terrorismo e dialogo tra le fedi: ricevendo il nuovo ambasciatore dell’Indonesia, il Pontefice ha sottolineato il ruolo globale del Paese asiatico





«Ucraina, il genocidio da riconoscere» Nasce un comitato che vuole squarciare il velo che da 75 anni nasconde lo sterminio di milioni di contadini, pianificato da Stalin
DI ANTONIO GIULIANO
Avvenire, 13.11.2007

Morti due volte. Prima per la fame. Poi per l’oblio in cui furono seppelliti per oltre settant’anni dal regime sovietico.
Gli ucraini sterminati da Stalin tra il 1932 e il 1933 sono stati loro malgrado i protagonisti di una delle pagine più nere del comunismo.
Per la prima volta nel corso della storia uno Stato usò a fini politici la confisca di beni alimentari come arma di distruzione di massa del proprio popolo. Holodomor ('fame di massa') è il neologismo entrato nella lingua ucraina per identificare una tragedia senza precedenti. Uno sterminio tra i più ignorati: Stalin intimò l’assoluto silenzio. E la censura fu applicata alla perfezione. Alla persecuzione ucraina è dedicata la nuova campagna di sensibilizzazione del 'Comitato storico-umanitario un Giardino dei Giusti a Torino', presieduto da Pasquale Totaro. Un organismo nato per promuovere nel capoluogo piemontese un parco che ricordi i crimini contro l’umanità nel Novecento: 36 aiuole, ognuna dedicata ad una persecuzione di massa, con particolare riguardo per i Giusti (36 secondo un’antica tradizione ebraica), coloro che hanno saputo rispondere all’odio con l’amore.
Oltre a suscitare l’attenzione di associazioni e istituzioni in tutt’Italia, il comitato torinese ha inaugurato un ciclo di conferenze che si è aperto con il genocidio armeno. Ora è la volta di un altro genocidio, ancora non riconosciuto: quello ucraino. E per far luce su questa occultata repressione comunista, nel 75° anniversario, il comitato ha organizzato il prossimo 1 dicembre a Torino la conferenza 'Holodomor: per non dimenticare'. Parteciperanno tra gli altri: Olena Ponomareva, ucrainista dell’Università 'La Sapienza' di Roma, e Oleb Hrytsaienko, consigliere dell’ambasciata ucraina in Italia.
Sarà l’occasione per riprendere in mano un capitolo del XX secolo a lungo ignorato anche dagli storici, e «ben oltre la caduta del muro di Berlino», come ha spiegato Gabriele De Rosa, secondo cui il ritardo è imputabile anche all’aver considerato «l’Ucraina una provincia dell’Urss». Un massacro le cui origini risalgono al 1929, quando Stalin impose la creazione di un’industria di Stato (industrializzazione forzata) e la nascita delle aziende collettive nelle campagne (collettivizzazione). La resistenza dei contadini, soprattutto ucraini, scatenò la furia del dittatore. Prima la liquidazione dei kulaki, i piccoli proprietari terrieri: furono soppressi o deportati, almeno in dodici milioni, nell’estremo nord. Poi il numero delle vittime aumentò a dismisura con l’abolizione della proprietà privata della terra e l’obbligo di entrare nelle aziende agricole statali (kolchoz). E per finire 'il terrore di massa attraverso la fame', durato otto mesi tra il 1932 e il 1933. Una carestia che Stalin studiò a tavolino e produsse artificialmente. Un’intollerabile politica fiscale prosciugò tutte le risorse monetarie. Fu requisita l’intera produzione agricola per l’ammasso statale nei kolchoz: per chi fosse stato sorpreso a rubare sarebbe scattata la fucilazione o la detenzione superiore a dieci anni, secondo la legge del 7 agosto del 1932, detta 'delle cinque spighe', proposta dal dittatore in persona.
Vennero confiscate le derrate alimentari alla popolazione e ne fu proibito il commercio, pena la fucilazione o dieci anni di internamento. Fu vietata qualsiasi azione di sostegno da parte delle altre regioni dell’Unione Sovietica.
E venne ritirato il passaporto interno in modo che le famiglie affamate non potessero trovar cibo in altre zone. La repressione fu accompagnata da un attacco spietato alla cultura ucraina, alla fede ortodossa, alla coscienza nazionale. Oggi dagli archivi del Cremlino viene fuori che le vittime della 'grande fame' furono circa otto milioni in tutta l’Urss. Ma nella sola Ucraina i morti furono almeno tre milioni e mezzo, per inedia o fenomeni correlati, come cannibalismo, suicidi ed epidemie.
Da granaio del mondo, questo Paese fu ridotto ad una steppa di villaggi vuoti. Un enorme lager dove milioni di uomini donne e bambini morivano di fame o agonizzavano, ma gli altri non avevano neppure la forza per seppellirli. In quegli anni la figlia di Vladimir Korolenko, scrittore russo di fine Ottocento, scrisse una lettera alla vedova di Lenin, Nadezda Krupskaja, a proposito della carestia ucraina. Nella missiva compare il pensiero dei vertici comunisti: «Non è poi un guaio se moriranno qualche decina di milioni di persone, tanto ne abbiamo abbastanza». Ma 'bocche cucite' anche sui numeri. La direttiva sentenziava: «È categoricamente proibito a qualunque organizzazione tenere la registrazione dei casi di gonfiore o morte per fame, tranne che agli organi della Gpu (la polizia politica segreta)». E nel 1934 arrivò la disposizione per cui tutti i registri dell’anagrafe degli anni 1932-1933 fossero spediti ai reparti speciali, dove con ogni probabilità furono distrutti. Come se quella gente non fosse mai esistita.
L’«Holodomor» si avviò con le stragi di kulaki; poi vennero la carestia indotta, le deportazioni, le requisizioni di derrate: così Mosca trasformò il granaio d’Europa in una steppa desolata



L’evoluzione? Non esclude il Dio creatore
DI BENEDETTO XVI
Avvenire, 13.11.2007

Nelle quattro relazioni che abbiamo ascoltato, davanti a noi si apre un ampio spettro su cui potremmo discutere molto a lungo, ma per cui purtroppo abbiamo poco tempo a disposizione. Dopo la pausa possiamo ancora discutere alcune questioni. Penso che soprattutto gli stessi relatori vogliano dirsi qualcosa l’uno con l’altro, l’uno per l’altro, e l’uno contro l’altro, ma sempre in una contrapposizione produttiva che mira a far sì che conosciamo la verità e ce ne assumiamo la responsabilità.
Dobbiamo pensare a quello che vogliamo fare con il tesoro delle quattro relazioni. Anch’esse forse hanno un telos. Ho l’impressione che sia stata la provvidenza che ha indotto il cardinale Schönborn a scrivere una glossa sul New York Times, a rendere di nuovo pubblico questo tema e a indicare dove stiano le questioni: che non si tratta di decidersi né per un creazionismo, che si chiude sostanzialmente alla scienza, né per una teoria dell’evoluzione che dissimula i propri vuoti o lacune e non vuole vedere le questioni che travalicano le possibilità del metodo delle scienze naturali. Si tratta piuttosto di questa interazione fra diverse dimensioni della ragione, in cui si schiude anche la via alla fede.
Quando egli fra ratio e fides mette l’accento sulla scientia o philosophia, allora in fondo si tratta di recuperare nuovamente una dimensione della ragione che avevamo perduta. Senza di essa la fede verrebbe esiliata in un ghetto e così si perderebbe il suo significato per la totalità della realtà e dell’essere umano.
Quello che ora dico, in effetti, è già in certo qual modo superato dalle nuove relazioni, perché è derivato direttamente dall’ascolto della relazione del professor Schuster, ma lo vorrei dire comunque. Il professor Schuster ha da un lato indicato in modo sorprendente la logica della teoria dell’evoluzione che si è andata sviluppando, arrivando a poco a poco a una grande coesione, e anche le correzioni interne che nel contempo si sono trovate (soprattutto a Darwin); dall’altro, ha anche molto chiaramente messo in risalto le questioni che restano aperte.
Non è che adesso io voglia stipare il buon Dio in questi vuoti: egli è troppo grande per trovare posto in quei vuoti. Ma a me pare importante sottolineare che la teoria dell’evoluzione implica delle domande che devono essere assegnate alla filosofia e che di per sé esulano dall’ambito proprio delle scienze naturali.
A me pare importante, in particolare, come prima cosa, che la teoria dell’evoluzione in gran parte non sia dimostrabile sperimentalmente in modo tanto facile perché non possiamo introdurre in laboratorio 10.000 generazioni. Ciò significa che ci sono dei vuoti o lacune rilevanti di verificabilità-falsificabilità sperimentale a causa dell’enorme spazio temporale cui la teoria si riferisce.
Come seconda cosa a me è parsa importante un’altra sua affermazione: la probabilità non equivale a zero ma neppure a uno. Per cui si pone la domanda: a quale altezza si situa la probabilità? Ciò è importante se vogliamo interpretare correttamente la frase di Papa Giovanni Paolo II: «La teoria dell’evoluzione è più di un’ipotesi». Quando il Papa disse questo, aveva i suoi buoni motivi. Ma nello stesso tempo è anche vero che la teoria dell’evoluzione non è ancora una teoria completa, scientificamente verificabile.
Come terza cosa vorrei accennare ai salti di cui ha già parlato anche il cardinale Schönborn. Non basta la somma di piccoli passi. Ci sono dei «salti». La domanda sul loro significato va ulteriormente approfondita.
Come quarta cosa è interessante che i mutanti positivi siano solo pochi e che il corridoio, in cui si poteva svolgere lo sviluppo, è stretto. Questo corridoio è stato aperto e attraversato. Le scienze naturali stesse e la teoria dell’evoluzione possono rispondere in modo sorprendente a molte cose, ma nei quattro punti menzionati rimangono ancora aperte questioni rilevanti.
Prima che giunga alla mia conclusione, vorrei dire qualcosa, cui ha già accennato anche il cardinale Schönborn: non solo alcuni testi scientifico-popolari, ma anche scientifici sull’evoluzione affermano di frequente che la «natura» o l’«evoluzione» avrebbe fatto questo o quello. Qui ci si domanda: chi è propriamente la «natura» o l’«evoluzione» come soggetto? Infatti non esiste! Quando si dice che la natura fa questo o quello, ciò può essere solo un tentativo di raggruppare una serie di eventi in un soggetto che però non esiste come tale. A me pare evidente che questo espediente verbale – forse inevitabile – racchiuda in sé domande di un certo peso.
Riassumendo potrei dire: le scienze naturali hanno schiuso grandi dimensioni della ragione che finora non erano state aperte, e ci hanno trasmesso così delle nuove conoscenze. Ma nella gioia per la grandezza della loro scoperta esse tendono a toglierci dimensioni della ragione di cui continuiamo ad avere bisogno. I loro risultati sollevano delle domande che vanno oltre la competenza del loro canone metodologico e alle quali in esso non è possibile dare una risposta. Tuttavia, sono domande che la ragione deve porre e che non possono essere lasciate solo al sentimento religioso. Bisogna considerarle come domande ragionevoli e trovare anche dei modi ragionevoli di trattarle.
Sono le grandi domande fondamentali della filosofia che ci si presentano in forma nuova: la domanda sull’origine e sul futuro dell’uomo e del mondo. Inoltre, di recente, mi sono reso conto di due cose, che hanno illustrato anche le tre relazioni che si sono succedute: c’è da un lato una razionalità della stessa materia. Si può leggerla.
Essa ha una matematica in sé, è essa stessa ragionevole, anche se nel lungo cammino dell’evoluzione c’è l’irrazionale, il caotico e il distruttivo; ma la materia come tale è leggibile.
D’altro lato, a me pare che anche il processo come un tutto abbia una razionalità. Nonostante il suo errare e percorrere strade sbagliate lungo lo stretto corridoio, nella scelta delle poche mutazioni positive e nello sfruttamento della poca probabilità, il processo stesso è qualcosa di razionale. Questa doppia razionalità che si rende di nuovo accessibile corrispondendo alla nostra ragione porta inevitabilmente a una domanda che esorbita dalla scienza, ma che comunque è una domanda della ragione: da dove viene questa razionalità? C’è una razionalità originaria che si rispecchia in queste due zone e dimensioni della razionalità? Le scienze naturali non possono e non devono rispondere direttamente, ma noi dobbiamo riconoscere la domanda come ragionevole e osare credere alla ragione creatrice e affidarci a essa.
Da una parte c’è la razionalità della materia, che apre una finestra sul Creator Spiritus. A questo non dobbiamo rinunciare. È la fede biblica nella creazione che ci ha indicato la via a una civiltà della ragione, nelle cui possibilità c’è anche naturalmente quella di annientarsi nuovamente. Questa è una dimensione che deve rimanere e che io definisco anche una dimensione di contatto fra il greco e il biblico, che dovettero ambedue fondersi in una interna ragione e in una interna necessità.
D’altro lato, tuttavia, noi dobbiamo anche vedere i limiti.
Naturalmente, nella natura c’è la razionalità, ma essa non ci permette di avere una visione totale del piano di Dio. Quindi nella natura permangono la contingenza e l’enigma dell’orribile, un po’ come lo descrive Reinhold Schneider dopo una visita al Museo di scienze naturali di Vienna. (Anch’io una volta ho visitato con mio fratello questo museo, ed eravamo sgomenti di fronte a tante cose orribili in natura.) Nonostante la razionalità, che c’è, noi possiamo constatare una componente di orrore, che non è più risolvibile filosoficamente. Qui la filosofia reclama qualcosa di ulteriore e la fede ci mostra il Logos, che è la ragione creatrice e che in modo incredibile poté farsi carne, morire e risuscitare. In questo modo ci si rivela un volto del Logos del tutto diverso da quello che noi possiamo presagire e cercare a tentoni partendo da una ricostruzione dei fondamenti della natura. Anche le due parti dell’anima greca vi alludono: da una parte la grande filosofia e dall’altra la tragedia, che in ultima analisi rimane senza risposta.






Colletta alimentare 24.11.2007
Nessuna azione sociale può sostituire il metodo dell’aiuto reciproco

Di Giorgio Vittadini

Il punto di Don Mauro Inzoli



Una rete di carità nata per i poveri del Paese. Oltre un milione di persone raggiunte ogni giorno

Come un pacco della spesa può cambiare la vita della gente





Bindi: famiglia, no a ideologie


Creati embrioni da una scimmia