Social News Ottobre2007
Studenti italiani e droga
All’origine di indebolimento cognitivo e demotivazione
Lo segnala con urgenza il nuovo libro di Claudio Risé “Cannabis. Come perdere la testa e a volte la vita” (San Paolo ed., 2007) nel capitolo: “Alla guida: il controllo è tutto”.
La cannabis rende difficile studiare e portare a termine la propria formazione scolastica. In Europa ormai molti governi se ne stanno accorgendo e avviano campagne mediatiche e nelle scuole contro il dilagare dell’uso di questa droga. In Italia ancora si attendono risposte, mentre negli ultimi 5 anni il consumo di cannabis tra gli studenti (e in particolare le studentesse) ha continuato a salire. Ne parla il nuovo libro di Claudio Risé “Cannabis. Come perdere la testa e a volte la vita” (San Paolo Ed., 2007, www.claudio-rise.it ) di cui proponiamo un estratto.
La cannabis è la droga più diffusa fra i giovani, soprattutto delle scuole superiori, che affermano di poterla reperire con grande facilità proprio tra aule e corridoi. Dal 2001 al 2005 i consumatori di cannabis in Italia sono raddoppiati passando dal 6,2 all’11,9%. Nel 2005 almeno 75.000 giovani in età scolastica ne hanno fatto uso quotidiano, mentre 145 mila studenti hanno fatto uso combinato di più sostanze, in cui nel 98% dei casi le principali sono state marijuana e hashish. Quando c’è “fumo” in giro, magari durante la ricreazione o le pause del pranzo prima delle attività pomeridiane, ogni sforzo dei docenti per creare un clima di classe sereno e favorevole ai processi di apprendimento e studio rischia di essere vanificato. Per questo motivo è necessaria un’informazione chiara, destinata agli insegnanti, ai ragazzi e alle famiglie, sugli effetti della cannabis. Il principio attivo della cannabis colpisce diverse parti del cervello, provocando sintomi che possono durare per ore. Agisce sulla corteccia prefrontale, che presiede ai meccanismi di ragionamento e capacità di giudizio e decisione, determinando atteggiamenti provocatori o devianti. Agisce sulla corteccia cerebrale che regola i meccanismi del linguaggio, dell’udito e della vista (nonché della comprensione di ciò che si vede o si sente). Agisce sull’amigdala e l’ippocampo, da cui dipendono il controllo delle emozioni e gli stimoli all’apprendimento, provocando incapacità di attenzione e soprattutto assenza di motivazione e indifferenza. Agisce poi sull’ipotalamo che regola i meccanismi del sonno e della veglia, e l’equilibrio nel livello di alcuni ormoni provocando sbalzi tra momenti di grande eccitazione e di sonnolenza. Infine, agisce sul cervelletto che nel corpo dell’essere umano garantisce una buona postura, il corretto svolgersi del movimento, le abilità di manualità fine e l’equilibrio, provocando anche difficoltà a scrivere, usare una gomma o girare una pagina.La prima cosa che gli insegnanti devono sapere, quindi, è che “la cannabis non è un prodotto banale, ma comporta alterazioni cerebrali e influenza il comportamento”. Essa provoca negli studenti che ne fanno uso, magari nei bagni della scuola per poi rientrare in classe, una trasformazione delle percezioni, la perdita di controllo di sé, comportamenti compulsivi irresistibili con rimozione di qualsiasi inibizione; e ancora: grande euforia, stati di confusione mentale, fino a sonno ed apatia, o ritiro in una vera letargia.
Secondo altre ricerche poi, giovani sofferenti di dipendenza da questa sostanza, contraggono debiti per acquistarla ricorrendo poi a comportamenti devianti o violenti, come il bullismo,per recuperare il denaro. In una situazione scolastica in cui, come abbiamo visto dalle statistiche, il consumo di cannabis è sempre più diffuso, può risultare molto difficile stabilire una relazione educativa, didattica, ma anche personale, con i ragazzi che presentano questa abitudine e i sintomatici problemi comportamentali connessi, che spesso danneggiano, disturbano e sfavoriscono il successo scolastico di un’intera classe. Altrettanto frequentemente, poi, le principali vittime sono proprio questi ragazzi “difficili” che rischiano di essere abbandonati a se stessi (magari con l’invito a uscire dall’aula) da una scuola che ancora non vuole e non sa affrontare questi temi specifici, e dai compagni o dagli amici che preferiscono evitare la loro compagnia. Isolandoli, e abbandonandoli a percorsi e compagnie più pericolose. A scuola, inoltre, l’allievo è (o dovrebbe essere) impegnato nel comprendere e acquisire un oggetto culturale, o conoscenze e abilità, nell’imparare a usare strumenti, nel diventare capace di utilizzare tutte queste competenze per conoscere il mondo ed entrare in una relazione costruttiva con esso. Gli insegnanti fanno spesso il loro meglio, con la metodologia e gli strumenti a loro disposizione, per rendere questi oggetti adatti ad essere compresi e utilizzati dagli allievi, ma cosa succede quando un ragazzo ha appena fumato cannabinoidi, o quando addirittura ne è un consumatore regolare? I gravi effetti disturbanti della cannabis sul sistema cognitivo sono confermati ormai da numerosi studi, anche se i ricercatori nell’ambito delle neuroscienze ritengono ci sia ancora molto da mettere in evidenza, sopratutto per quanto riguarda il cervello di preadolescenti e adolescenti, in fase di sviluppo e perciò particolarmente sensibile e vulnerabile. L’effetto tossico sulla corteccia prefrontale disattiva le capacità di ragionamento complesso e le abilità nel prendere decisioni anche operative. La disabilitazione provocata sulla corteccia cerebrale influenza negativamente l’elasticità e la flessibilità del pensiero, le capacità di comprensione ed espressione verbale, il ragionamento finalizzato al risolvere problemi. L’effetto su amigdala e ippocampo poi, a causa dell’alto numero qui presente di neurorecettori sensibili al principio attivo dei cannabinoidi, è particolarmente intenso: da questi organi dipende il modo in cui nel cervello le informazioni si trasformano in pensieri o sentimenti, e i sintomi sono l’incapacità di mantenere l’attenzione, i disturbi della memoria a breve termine, l’impossibilità di formulare correttamente le idee. Compare poi la sonnolenza causata dall’azione del principio attivo sull’ipotalamo. In una situazione così è difficile proporre la lettura di brani, lo svolgimento di esercizi di matematica, l’acquisizione mnemonica di concetti e formule, l’applicazione concentrata sui compiti più semplici.
Va considerato poi che i disturbi provocati sulla vista e sull’udito, sulla prontezza dei riflessi e sulla capacità di reagire in modo rapido agli stimoli esterni, sulla capacità di camminare o mantenere il corpo in equilibrio con una postura adeguata, e sull’abilità di eseguire operazioni con le mani, rendono difficile anche formare i giovani nell’ambito dell’istruzione professionale. Se può diventare molto complicato portare un servizio da tavola con un vassoio, ben più pericoloso (per sé e per gli altri) risulta maneggiare coltelli in un laboratorio di cucina, esercitarsi su un tornio o una fresatrice, addestrarsi realizzando un impianto elettrico. L’uso dei cannabinoidi però, ed è necessario che i ragazzi ne siano informati, non produce solo effetti che durano per qualche ora dopo l’assunzione di questa droga. L’azione neurotossica, soprattutto quando subita prima dei 15 anni, e/o con l’uso regolare, determina un definitivo danneggiamento del cervello che si sconta poi per tutta l’esistenza. Innanzitutto la disabilità riguarda la perdita della capacità di memorizzare informazioni ed eventi: il danno provocato dalla marijuana è dovuto al fatto che il THC altera il normale funzionamento dell’ippocampo nell’elaborare informazioni. Normalmente, durante l’invecchiamento le persone perdono cellule neuronali nell’ippocampo, ma alcuni studi realizzati su cavie hanno dimostrato che l’esposizione cronica a THC accelera la perdita di questi neuroni, anche in pochi mesi di consumo. Le cavie, esposte a THC ogni giorno per 8 mesi, esaminate a 11 o 12 mesi hanno mostrato una perdita di cellule nervose equivalente ad animali con il doppio della loro età. Come dire che una persona che ha fatto uso regolare di marijuana, a 40 anni rischia di avere questa area del cervello come quella di una persona di 80. È proprio del dicembre 2006 l’ulteriore conferma, data da Nature,del danno inesorabile provocato dal THC sui neuroni dell’ippocampo, con conseguenze croniche nella capacità di immagazzinare e rielaborare, riprendendole, le informazioni. Diverse ricerche, poi, hanno mostrato che altri danni su alcune aree cerebrali possono essere definitivi, tanto che il deficit nella attenzione, nella capacità di focalizzare un problema e risolverlo può essere permanente. Di ulteriore gravità, e le ricerche svolte riguardano soprattutto gli adolescenti, è lo stato di demotivazione (amotivational syndrome) e incapacità di perseverare nei propri scopi in cui possono cadere i consumatori di cannabis: “il consumatore abituale può cadere in quello stato che gli studiosi americani definiscono ‘avolitional’, letteralmente ‘avolitivo’. È una situazione grave della volontà e della affettività, un appiattimento assoluto della persona”. Sono infatti gli studiosi che si occupano di demotivazione a sottolineare spesso che “aumentano gli studenti che dimostrano un marcato disinteresse per i processi di insegnamento-apprendimento, sono sempre più numerosi i ragazzi apatici, con poca voglia di fare, fisicamente presenti in classe, ma mentalmente assenti. Spesso questi allievi demotivati mettono in luce una serie di problematiche personali: depressione, isolamento, incapacità di socializzare; oppure: aggressività, disadattamento, delinquenza. […] Non bisogna stupirsi di ciò, sappiamo come il mondo della droga sappia facilmente avvicinare i giovani”.
http://www.claudio-rise.it/cannabis/opuscoli.htm
Claudio Risè
Docente di Psicologia dell’Educazione alla Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Milano Bicocca, Corso di laurea specialistica in Scienze Infermieristiche. Membro del Comitato Scientifico di Fondazione Liberal.
Antonello Vanni
Scrittore e docente universitario di bioetica
www.antonello-vanni.it
Il Papa ricorda l’esempio di carità di San Martino
Intervento in occasione dell'Angelus domenicale
CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 11 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI affacciandosi alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico per recitare la preghiera dell’Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini convenuti in piazza San Pietro in Vaticano.
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Cari fratelli e sorelle!
La Chiesa ricorda oggi, 11 novembre, san Martino, Vescovo di Tours, uno dei santi più celebri e venerati d’Europa. Nato da genitori pagani in Pannonia, l’attuale Ungheria, intorno al 316, fu indirizzato dal padre alla carriera militare. Ancora adolescente, Martino incontrò il Cristianesimo e, superando molte difficoltà, si iscrisse tra i catecumeni per prepararsi al Battesimo. Ricevette il Sacramento intorno ai vent’anni, ma dovette ancora a lungo rimanere nell’esercito, dove diede testimonianza del suo nuovo genere di vita: rispettoso e comprensivo verso tutti, trattava il suo inserviente come un fratello, ed evitava i divertimenti volgari. Congedatosi dal servizio militare, si recò a Poitiers, in Francia, presso il santo Vescovo Ilario. Da lui ordinato diacono e presbitero, scelse la vita monastica e diede origine, con alcuni discepoli, al più antico monastero conosciuto in Europa, a Ligugé. Circa dieci anni più tardi, i cristiani di Tours, rimasti senza Pastore, lo acclamarono loro Vescovo. Da allora Martino si dedicò con ardente zelo all’evangelizzazione delle campagne e alla formazione del clero. Anche se a lui vengono attribuiti molti miracoli, san Martino è famoso soprattutto per un atto di carità fraterna. Ancora giovane soldato, incontrò per la strada un povero intirizzito e tremante per il freddo. Prese allora il proprio mantello e, tagliatolo in due con la spada, ne diede metà a quell’uomo. La notte gli apparve in sogno Gesù, sorridente, avvolto in quello stesso mantello.
Cari fratelli e sorelle, il gesto caritatevole di san Martino si iscrive nella stessa logica che spinse Gesù a moltiplicare i pani per le folle affamate, ma soprattutto a lasciare se stesso in cibo all’umanità nell’Eucaristia, Segno supremo dell’amore di Dio, Sacramentum caritatis. E’ la logica della condivisione, con cui si esprime in modo autentico l’amore per il prossimo. Ci aiuti san Martino a comprendere che soltanto attraverso un comune impegno di condivisione, è possibile rispondere alla grande sfida del nostro tempo: quella cioè di costruire un mondo di pace e di giustizia, in cui ogni uomo possa vivere con dignità. Questo può avvenire se prevale un modello mondiale di autentica solidarietà, in grado di assicurare a tutti gli abitanti del pianeta il cibo, l’acqua, le cure mediche necessarie, ma anche il lavoro e le risorse energetiche, come pure i beni culturali, il sapere scientifico e tecnologico.
Ci rivolgiamo ora alla Vergine Maria, perché aiuti tutti i cristiani ad essere, come san Martino, testimoni generosi del Vangelo della carità e infaticabili costruttori di condivisione solidale.
Beata libertà. Il miracolo postumo di Antonio Rosmini
Sul grande pensatore liberale pendeva fino a sei anni fa la condanna del Sant'Uffizio. È stato assolto. E ora è proclamato beato. Il filosofo Dario Antiseri traccia il ritratto di questo maestro di un liberalismo aperto alla religione
di Sandro Magister
ROMA, 12 novembre 2007 – È vicina una beatificazione che è essa stessa un miracolo: quella del sacerdote e filosofo Antonio Rosmini.
Un miracolo perché appena sei anni fa su questo nuovo beato pendeva ancora una condanna spiccata nel 1887 dalla congregazione del Sant'Uffizio contro 40 proposizioni tratte dai suoi scritti.
L'assoluzione è arrivata il 1 luglio 2001 con una nota dell'allora prefetto della congregazione per la dottrina della fede, cardinale Joseph Ratzinger.
E solo dopo la rimozione di questo ostacolo la causa di beatificazione ha proceduto spedita.
Antonio Rosmini sarà proclamato beato domenica 18 novembre a Novara, la diocesi del nord nella quale trascorse l'ultima parte della sua vita. Presiederà la celebrazione, su mandato di papa Benedetto XVI, il cardinale Josè Saraiva Martins, prefetto della congregazione delle cause dei santi.
Rosmini, oltre che sacerdote di grande spiritualità, fu profondo pensatore e scrittore prolifico. L'edizione completa delle sue opere, curata da Città Nuova, occuperà alla fine 80 grossi volumi. Padre Umberto Muratore, religioso della congregazione fondata dallo stesso Rosmini, non teme di paragonarlo, come filosofo, a giganti come san Tommaso e sant'Agostino.
Il suo libro ancor oggi più letto e tradotto è "Delle cinque piaghe della santa Chiesa". Una delle piaghe da lui denunciate fu l'ignoranza del clero e del popolo nel celebrare la liturgia. Ma sbaglia chi vede in lui un antesignano dell'abbandono del latino. Scrisse invece che "volendo ridurre i sacri riti nelle lingue volgari si andrebbe incontro a un rimedio peggiore del male".
Fu grande anche come teorico della politica. Fu spirito liberale di lega purissima, in un'epoca, la metà dell'Ottocento, in cui il liberalismo, per la Chiesa, faceva rima col diavolo. Nel suo libro "Filosofia della politica" Rosmini si dice ammirato della "Democrazia in America", il capolavoro del suo contemporaneo Alexis de Tocqueville, padre del liberalismo amico dello spirito religioso.
Rosmini anticipò di più di un secolo le tesi sulla libertà di religione affermate dal Concilio Vaticano II. Fu critico del cattolicesimo come "religione di stato". Fu instancabile difensore delle libertà dei cittadini e dei "corpi intermedi" contro le prevaricazioni di uno stato onnipotente.
Non sorprende, quindi, che a diffondere oggi il pensiero di Rosmini, in campo cattolico, siano soprattutto i fautori del liberalismo aperto alla religione, che in Europa ha i suoi maestri nella "scuola di Vienna" di Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek.
Il profilo di Rosmini riprodotto qui sotto è scritto proprio da un esponente di spicco di questi cattolici liberali, Dario Antiseri, professore alla Libera Università degli Studi "Guido Carli" di Roma e autore di una apprezzatissima "Storia della filosofia" tradotta in più lingue. La sua nota è uscita il 1 novembre sul quotidiano della conferenza episcopale italiana, "Avvenire".
Antiseri concentra l'attenzione su un solo aspetto della figura di Rosmini, quello di teorico della politica. Ma è l'aspetto in cui forse più emerge la sua originalità. Le tesi di Rosmini sono ancora invise a larga parte dei cattolici, vescovi e preti compresi.
Fatto beato Rosmini, questo suo pensiero ha ancora molto da camminare, prima di diventare linguaggio universalmente accettato, nella Chiesa cattolica.
Rosmini, l’antitotalitario di Dario Antiseri
La preoccupazione prima e fondamentale di Antonio Rosmini, in ambito politico, è stata quella di stabilire le condizioni in grado di garantire la dignità e la libertà della persona umana. Ed è in tale prospettiva che, a suo avviso, risulta cruciale la questione della proprietà.
Contrario all’economicismo socialista, Rosmini ebbe chiarissimo il nesso che unisce la proprietà alla libertà della persona.
"La proprietà – egli scrive nella "Filosofia del diritto" – esprime veramente quella stretta unione di una cosa con una persona. […] La proprietà è il principio di derivazione dei diritti e dei doveri giuridici. La proprietà costituisce una sfera intorno alla persona, di cui la persona è il centro: nella quale sfera niun altro può entrare".
Il rispetto dell’altrui proprietà è il rispetto della persona altrui. La proprietà privata è uno strumento di difesa della persona dall’invadenza dello stato.
Persona e stato: fallibile la prima, mai perfetto il secondo. Ed ecco un famoso passo tratto dalla "Filosofia della politica":
"Il perfettismo – cioè quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane, e che sacrifica i beni presenti alla immaginata futura perfezione – è effetto dell’ignoranza. Egli consiste in un baldanzoso pregiudizio, per quale si giudica dell’umana natura troppo favorevolmente, se ne giudica sopra una pura ipotesi, sopra un postulato che non si può concedere, e con mancanza assoluta di riflessione ai limiti naturali delle cose".
Il perfettismo ignora il gran principio della limitazione delle cose; non si rende conto che la società non è composta da "angeli confermati in grazia", quanto piuttosto da "uomini fallibili"; e dimentica che ogni governo "è composto da persone che, essendo uomini, sono tutte fallibili".
Il perfettista non fa uso della ragione, ne abusa. E intossicati dalla nefasta idea perfettista sono, innanzi tutto, gli utopisti. "Profeti di smisurata felicità" i quali, con la promessa del paradiso in terra, si adoperano alacremente a costruire per i propri simili molto rispettabili inferni.
L’utopia – afferma Rosmini – è "il sepolcro di ogni vero liberalismo" e "lungi dal felicitare gli uomini, scava l’abisso della miseria; lungi dal nobilitarli, gli ignobilita al par de’ bruti; lungi dal pacificarli, introduce la guerra universale, sostituendo il fatto al diritto; lungi d’eguagliar le ricchezze, le accumula; lungi da temperare il potere de’ governi lo rende assolatissimo; lungi da aprire la concorrenza di tutti a tutti i beni, distrugge ogni concorrenza; lungi da animare l’industria, l’agricoltura, le arti, i commerci, ne toglie via tutti gli stimoli, togliendo la privata volontà o lo spontaneo lavoro; lungi da eccitare gl’ingegni alle grandi invenzioni e gli animi alle grandi virtù, comprime e schiaccia ogni slancio dell’anima, rende impossibile ogni nobile tentativo, ogni magnaminità, ogni eroismo ed anzi la virtù stessa è sbandita, la stessa fede alla virtù è annullata".
E qui va precisato che, connessa al suo antiperfettismo, c'è la decisa critica di Rosmini all’arroganza di quel pensiero che celebra i suoi fasti negli scritti degli Illuministi e che poi scatena gli orrori della Rivoluzione francese.
La dea Ragione sta a simboleggiare un uomo che presume di sostituirsi a Dio e di poter creare una società perfetta. Il giudizio che Rosmini dà sulla presunzione fatale dell’Illuminismo richiama alla mente analoghe considerazioni, prima di Edmund Burke e successivamente di Friedrich A. von Hayek.
Antiperfettista, a motivo della naturale "infermità degli uomini", Rosmini si affretta, sempre nella "Filosofia politica", a far presente che gli strali critici da lui puntati contro il perfettismo "non sono volti a negare la perfettibilità dell’uomo e della società. Che l’uomo sia continuamente perfettibile fin che dimora nella presente vita, egli è un vero prezioso, è un dogma del cristianesimo".
L’antiperfettismo di Rosmini implica, dunque, un impegno maggiore. Da qui viene, tra l’altro, la sua attenzione a quella che egli chiama "lunga, pubblica, libera discussione", poiché è da siffatta amichevole ostilità che gli uomini possono tirare fuori il meglio di sé ed eliminare gli errori dei propri progetti e idee.
Leggiamo ancora nella "Filosofia del diritto":
"Gli individui di cui un popolo è composto non si possono intendere, se non parlano molto tra loro; se non contrastano insieme con calore; se gli errori non escono dalle menti e, manifestati appieno, sotto tutte le forme combattuti".
Antistatalista e dunque difensore dei "corpi intermedi", alfiere dei diritti di libertà, Rosmini è stato attentissimo alle sofferenze e ai problemi dei bisognosi, dei più svantaggiati.
Ma la doverosa solidarietà cristiana non gli fa chiudere gli occhi sui danni dell’assistenzialismo statale.
"La beneficenza governativa – egli afferma – ha un ufficio pieno in vista delle più gravi difficoltà, e può riuscire, anziché di vantaggio, di gran danno, non solo alla nazione, ma alla stessa classe indigente che si pretende di beneficiare; nel qual caso, invece di beneficenza, è crudeltà. Ben sovente è crudeltà anche perché dissecca le fonti della beneficenza privata, ricusando i cittadini di sovvenir gl’indigenti che già sa o crede provveduti dal governo, mentre nol sono, nol possono essere a pieno".
Sin qui, dunque, alcune posizioni di Antonio Rosmini teorico della politica. Di esse non è difficile comprendere l’estrema rilevanza e l’impressionante attualità.
E insieme l’incalcolabile danno – non solo per la cultura cattolica – provocato dalla lunga emarginazione di questo sacerdote filosofo.
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Le tappe della sua vita
Antonio Rosmini nasce a Rovereto, nell'Impero Austro-Ungarico, il 24 marzo del 1797. Frequenta la scuola pubblica. Nell’agosto 1816 sostiene gli esami finali nel liceo imperiale ottenendo la qualifica di "eminenza" in tutte le materie e un giudizio in cui si parla di lui come "dotato di acutissimo ingegno".
Nell’autunno del 1816 inizia a frequentare i corsi di teologia all’università di Padova, dove si laurea il 23 giugno 1822. Intanto, nel 1821, era stato ordinato sacerdote dal vescovo di Chioggia.
Il patriarca di Venezia, il cardinale Ladislao Pyrcher, lo porta con sé a Roma. Qui, introdotto dall’abate Mauro Cappellari, futuro papa col nome di Gregorio XVI, incontra due volte il pontefice Pio VIII, che al prete-filosofo dà questo consiglio: "Si ricordi, ella deve attendere a scrivere libri, e non occuparsi degli affari della vita attiva; ella maneggia assai bene la logica e noi abbiamo bisogno di scrittori che sappiano farsi temere".
Nel 1830 pubblica la sua prima grande opera filosofica “Nuovo saggio sull’origine delle idee”.
Il 2 febbraio 1831 sale al soglio pontificio il cardinal Cappellari, sincero amico di Rosmini, e il 20 settembre del 1839 l’Istituto della Carità, da lui fondato, viene approvato in via definitiva.
In poco più di dieci giorni, dal 18 al 30 novembre del 1832, Rosmini scrive "Delle cinque piaghe della santa Chiesa", in cui denuncia i pericoli che minacciano l’unità e la libertà della Chiesa e ne indica i rimedi. Il libro sarà pubblicato nel 1846.
Nel 1839 pubblica il “Trattato della coscienza morale”, in cui argomenta che l’intelligenza è illuminata dalla luce dell’essere che è la luce della verità, per cui vi è nell’uomo qualcosa di “divino”. Le sue tesi sono aspramente attaccate da alcuni gesuiti.
Nel 1848, su mandato del re del Piemonte Carlo Alberto di Savoia, Rosmini torna a Roma in missione diplomatica, con lo scopo di indurre papa Pio IX a presiedere una confederazione di stati italiani. Ma quando il governo piemontese pretende che anche il papa entri in guerra contro l'Austria, Rosmini rinuncia al suo incarico diplomatico.
Pio IX gli ordina però di restare a Roma. Si parla di lui come prossimo cardinale segretario di stato e, dopo la fondazione della Repubblica Romana, come primo ministro. Ma egli rifiuta di presiedere un governo rivoluzionario che priva il papa della libertà. Il 24 novembre 1848 Pio IX fugge a Gaeta. Rosmini lo segue. Ma presto cade in disgrazia, in disaccordo con la linea politica del cardinale Giacomo Antonelli, che vuole il sostegno al papa di eserciti stranieri. Nel 1849 prende congedo da Pio IX.
Durante il suo viaggio di ritorno nel nord d'Italia, a Stresa, lo raggiunge la notizia che le sue opere "Delle cinque piaghe della santa Chiesa" e "La costituzione civile secondo la giustizia sociale" sono state messe all’Indice dei libri proibiti.
Attaccato dai gesuiti, ma confortato dalle visite degli amici, tra i quali lo scrittore Alessandro Manzoni, Rosmini trascorre i suoi ultimi anni a Stresa, guidando le due congregazioni da lui fondate e scrivendo la sua opera più alta, la “Teosofia”.
Processato una prima volta dal Vaticano nel 1854, è assolto. Muore a Stresa il 1° luglio 1855. La condanna della Chiesa cadrà nel 1887 su 40 proposizioni tratte dalle sue opere. La revoca della condanna arriverànel 2001.
MA LA PAROLA DI DIO NON È INCATENATA
Come la cultura dominante ostacola e cerca di soffocare la voce della Chiesa cattolica