domenica 11 novembre 2007

Rassegna stampa del 09/11/2007

Emergenza educativa: impegno, bellezza, fatica di educare
S.E. Card. Carlo Caffarra
Castel S. Pietro Terme, 6 novembre 2007
Durante la cena pasquale ebraica, ad un certo punto il figlio doveva rivolgersi al padre dicendo: "perché diversa è questa notte da tutte le notti? Infatti tutte le notti noi mangiamo lievitato e azzimo; questa notte tutto quanto azzimo…". Il padre rispondeva: "schiavi fummo in Egitto del Faraone, e il Signore Dio nostro ci fece uscire di là con mano forte e con braccio disteso" [cit. da C. Girando, Eucarestia per la Chiesa, Gregorian University Press-Morcelliana, Roma-Brescia 1989, 134-135].
Questo testo assai antico ci aiuta a capire profondamente che senso ha parlare oggi di "emergenza educativa": e questo sarà il primo punto della mia riflessione. E ci aiuterà ad individuare alcuni fondamentali orientamenti pratici per uscire da essa e dare origine ad una grande stagione educativa nella nostra Chiesa e nella società civile: e questo sarà il secondo punto della mia riflessione.
1. L’emergenza educativa
Ritorniamo al testo ebraico. Esso ci mostra come si può stringere un legame buono fra le generazioni: la generazione dei padri e la generazione dei figli.
La prima constatazione. Il legame è istituito dalla narrazione del fatto che ha fondato l’identità e quindi la libertà del popolo a cui il bambino appartiene. È stata la liberazione dalla schiavitù egiziana a dare origine ad Israele; è stato l’evento fondatore della sua identità.
La narrazione viene ripetuta ogni anno – ogni anno la Pasqua deve essere celebrata – perché si custodisca la memoria dell’evento fondatore "di generazione in generazione". La memoria deve essere custodita, perché quando si perde la memoria si perde la consapevolezza della propria identità; si è sradicati, spaesati, esiliati da se stessi. Dunque la narrazione che il padre fa al figlio impedisce a questi di ignorare la sua origine, di ignorare la sua dignità di uomo libero, e gli consente di sentire la propria libertà come un bene condiviso con gli altri
In questo modo, mediante quella narrazione, il rapporto fra le generazioni non era solo biologico ma diventava pienamente umano. La generazione dei figli, già legata biologicamente a quella dei padri, entrava nello stesso universo dei padri: la stessa religione, la stessa legislazione, gli stessi valori. Si costituiva un popolo non solo in senso etnico, ma anche culturale. Israele è l’Israele di Dio e Dio è il "Santo di Israele".
Ma c’è un altro aspetto ancora più importante; anzi è il più importante di tutti. La risposta del padre al figlio si conclude nel modo seguente: "in ogni generazione e generazione ognuno è obbligato a vedere se stesso come essendo proprio lui uscito dall’Egitto" [ibid. pag. 111].
La narrazione del padre racconta l’evento fondatore non semplicemente come un fatto che definitivamente appartiene al passato, ma come un avvenimento che continua anche ora ad esercitare il suo influsso. Anche ora, ogni generazione di figli ha bisogno di sapere la sua origine, di accedere alla dignità di uomini liberi, di condividerla dentro una comunità di persone. La tradizione che si trasmette di generazione in generazione è una dimensione essenziale del presente, dal cui riconoscimento o negazione dipende la costituzione del proprio io. Ed è la generazione dei padri a testimoniare questa presenza, ed introdurre così il figlio nella vita.
Si potrebbero dire molte altre cose, ma mi fermo nella considerazione del rito ebraico. Vorrei farvi vedere come esso sia come il paradigma educativo di ogni vero rapporto educativo. Quando nelle vostre famiglie il rapporto padre-figli "funziona", anche in esse accade tutto ciò che accadeva la sera di Pasqua in ogni famiglia ebraica.
Parto da un episodio realmente accaduto in una famiglia. Essa fu colpita da un gravissimo lutto. La bambina di pochi mesi fu colpita da un tumore che la portò alla morte. Il fratellino di qualche anno di vita, dopo qualche giorno dal funerale, chiese a sua madre: "mamma, ma quando torna a casa Lucia?".
La risposta a questa domanda, una delle più radicali che l’uomo possa compiere, ha dato inizio in senso forte alla grande narrazione della vita che i genitori fecero al loro bambino.
Essi non partivano dal niente: dentro al niente si può cadere, ma dal niente non si può partire. Sono due sposi: il matrimonio è condivisione amorosa dello stesso destino. Sono due sposi radicati e fondati dentro l’avvenimento cristiano. Essi hanno risposto narrando quell’incontro che avevano fatto con Cristo risorto dai morti. Un incontro che in quel momento, mediante la testimonianza dei suoi genitori, accadeva anche per il bambino, rispondendo al bisogno di una presenza: la presenza della persona amata. La Tradizione cristiana mediante la testimonianza dei padri diveniva risposta adeguata al bisogno del cuore dei figli: questa è l’educazione.
Possiamo ora tentare come una definizione. L’educazione è la tradizione che diventa presenza dentro alla testimonianza che i padri ne fanno ai figli. Queste tre categorie, tradizione-presenza-testimonianza, costituiscono l’atto educativo. Ho chiamato questa presenza-testimonianza anche la narrazione della vita fatta di generazione in generazione.
A questo punto della nostra riflessione siamo in grado di capire che cosa significa emergenza educativa e perché noi ci troviamo dentro ad una vera e propria "emergenza educativa".
Proviamo a fare una serie di ipotesi, sempre considerando il rapporto fra le generazioni.
Se colui che deve trasmettere una visione della vita ed introdurre dunque il nuovo arrivato nell’universo di senso – diciamo: la generazione dei padri – si sradica dalla tradizione, non possono non succedere che una delle seguenti due conseguenze. O si instaura un rapporto di permissivismo, caratterizzato da una sorta di scetticismo e di indifferentismo: non esiste una verità circa il bene della persona [scetticismo], e quindi tutto alla fine è permesso [indifferentismo], purché non ci si faccia del male. O si instaura un rapporto di egemonia e di autoritarismo: non si fa più nessuna proposta; si impone.
Prima di procedere oltre vorrei solo accennare al fatto che sia l’uno che l’altro esito è accompagnato da una mancanza di vera condivisione del destino dell’altro. Ma non abbiamo ora il tempo di approfondire questo aspetto della questione.
Che cosa significa "se la generazione dei padri si sradica dalla tradizione"? quando e come accade questo sradicamento? Richiamiamo alla memoria ancora una volta il rito ebraico e la domanda del bambino rimasto privo della sorellina.
Alla richiesta del figlio il padre non riuscirebbe a rispondere se avesse perso la memoria dell’evento fondatore oppure se non lo avesse ritenuto vero, realmente accaduto cioè. Smemoratezza e/o incredulità sradicano la generazione dei padri dalla tradizione. Non a caso il Signore attraverso i suoi profeti metteva in guardia Israele soprattutto contro due rischi: la perdita di memoria ["ricordati, Israele…", non dimenticare, Israele…"] e la sfiducia o incredulità ["se non crederete, non avrete stabilità"].
Alla richiesta del bambino la madre non avrebbe saputo rispondere se non in maniera inadeguata ["non può ritornare, perché è morta"], se non avesse in quel momento fatto memoria dell’evento fondatore di senso, la risurrezione di Gesù, e non lo avesse ritenuto un fatto vero.
In un caso e nell’altro la generazione dei padri o diventa una generazione di testimoni ["è accaduto un fatto, e questo fatto ti riguarda ora, poiché esso è il fatto che illumina la tua ragione, dona consistenza al tuo io, rende la tua libertà capace di grande rischi"] o diventa la generazione che apre la porta di casa della generazione dei figli all’ospite più inquietante, il nichilismo.
Possiamo finalmente dire in che cosa consiste l’emergenza educativa in cui ci troviamo. Essa è data da due fattori. Da una parte la generazione dei figli chiede – e non può non farlo – di entrare dentro ad un universo vero, buono, bello; dall’altra parte la generazione dei padri è divenuta straniera all’universo di senso: non sa più che cosa dire. L’emergenza educativa è l’interruzione della narrazione che una generazione fa all’altra: è l’afasia della generazione dei padri e l’incapacità della generazione dei figli di articolare perfino la domanda che urge dentro al loro cuore. I padri non rendono presente nessuna tradizione, perché ne hanno perso la memoria, e diventano testimoni del nulla e trasmettitori di regole. I figli si trovano a vagabondare in un deserto privo di strade, non sapendo più da dove vengono e dove sono diretti.
2. Come uscire dall’emergenza educativa
Mi rendo conto che dovrei argomentare lungamente le affermazioni precedenti. Mi interessa però soprattutto indicare alcune vie, percorrendo le quali si può uscire dall’emergenza educativa.
Parto da una costatazione. Nonostante tutto, esiste la Chiesa. Esiste cioè una realtà, un popolo che custodisce la memoria del fatto che può dare consistenza invincibile alla nostra fragilità mortale; che compie questa custodia attraverso la testimonianza: la testimonianza dei misteri celebrati, l’opera della carità. È questo un fatto innegabile.
Non solo, ma questo fatto [custodia della memoria-testimonianza-carità] ha generato, e non poteva essere diversamente, una cultura, cioè un modo di essere nel mondo e di vivere [di sposarsi, di lavorare, di curare le malattie, di ragionare…] che è precisamente la modalità cristiana. È la grande tradizione cristiana, intesa almeno come forma di vita che ha plasmato un popolo.
A questo punto non posso procedere oltre senza dirvi però che ci sono due modi fondamentali di dimorare dentro a questa tradizione: quello proprio del credente e quello proprio del non credente. Presuppongo che cosa significa credere, e quindi non –credere.
2.1 Mi rivolgo ora ai credenti. Come uscire dall’emergenza educativa? Nessuno ha ricette preconfezionate. Tanto meno io. Voglio però indicarvi una via di uscita, facendo prima una necessaria breve premessa.
Il momento più forte in cui la memoria-testimonianza della Chiesa diventa eminentemente chiara è la celebrazione festiva dell’Eucarestia. Tutto quanto era il rito ebraico prefigurava il rito eucaristico; ciò che ho detto all’inizio è vero perfettamente nel rito eucaristico.
Il primo passo per uscire dall’emergenza educativa è il coinvolgimento pieno dei padri e dei figli dentro alla memoria eucaristica vissuta ogni domenica; è la partecipazione famigliare alla celebrazione eucaristica. Senza questo reale radicarsi dentro quell’evento che dona senso al tutto e alla vita di ciascuno, la narrazione dei padri ai figli rischia di essere vacua: priva di una trama vera. Cioè: incapace di generare un vita vera, buona, bella.
Questo incipit della narrazione della vita può incontrare subito due difficoltà: o il figlio, se piccolo, non capisce; o il figlio, se adolescente, si rifiuta. È la situazione analoga alla domanda da cui è partita tutta la nostra riflessione: "ma che cosa è tutto questo?".
È a questo punto che la costruzione della risposta deve essere condivisa fra la generazione dei padri e la madre Chiesa, la quale offre questa condivisione attraverso una vera e propria proposta educativa. Non si esce dall’emergenza educativa se non si costruisce questa condivisione, nei due sensi di marcia: della Chiesa da parte della famiglia, e della famiglia da parte della Chiesa.
Non voglio dilungarmi ulteriormente su tutta questa problematica. Ho già avuto varie occasioni per farlo, e cerco di non perderne neppure una fra quelle che mi si presentano. Vorrei solo aggiungere che la capacità educativa insita nel fatto cristiano rimane intatta, anche nella condizione di emergenza educativa in cui ci troviamo. Anzi, la storia dimostra che questa capacità si manifesta soprattutto nei momenti di maggior difficoltà e di crisi.
2,2. Mi rivolgo ora ai non-credenti o comunque a chi vive in una condizione di grave incertezza sui temi che stiamo affrontando. Lo faccio iniziando da alcune semplici osservazioni.
Il rapporto educativo istituisce una relazione fra due persone, alla fine. Ciò che è in questione e a rischio nell’atto educativo è una persona; è qualcuno, non qualcosa. Una realtà dunque di incomparabile preziosità.
La tradizione cristiana si presenta come quel terreno nel quale è radicata la vita del nostro popolo, di cui si nutre la nostra cultura. È sapiente che si educhi la generazione dei figli partendo da una censura, da un taglio radicale e profondo non solo con il cristianesimo ma più in generale con la religione come tale? Poiché questo è ciò che oggi si va proponendo, in nome di una male intesa laicità e tolleranza. E qui si pone la seconda osservazione.
Voglio richiamare la vostra attenzione su un fatto. Fra qualche settimana sarà Natale. Può essere che ci sia qualche insegnante nelle scuole che … per rispetto a qualche bambino mussulmano presente in aula parli e presenti il Natale come la festa del solstizio, con l’inevitabile presenza di Babbo Natale, e gli immancabili sermoni sulla pace e la solidarietà. Si trasforma cioè una narrazione storica in un "mito" che offre lo spunto per esortazioni moralistiche. Si compie in realtà un’operazione ideologica, che viene imposta al bambino, sradicandolo dalla tradizione in cui vive.
La seconda osservazione quindi è la seguente. L’oblio della tradizione o la sua trascuratezza ci fa ripartire dal niente, costringendoci a costruzioni ideologiche dettate dal momento. Il padre che nella cena ebraica rispondeva al figlio, la madre che rivela al bambino il senso ultimo della morte della sorellina, mostrano che siamo dentro ad una dimora; che non stiamo vagabondando in un deserto da cui ci si salva solo col nostro impegno. È un popolo, quello di Israele, voluto e protetto da una Potenza infinita; perfino la morte della persona amata non distrugge il senso dell’esistenza, poiché Cristo ci ha redenti.
Una terza osservazione. L’azione educativa è sempre a rischio. Generando una persona libera, è sempre possibile che prima o poi chi è stato educato faccia scelte contrarie alla proposta educativa che lo ha formato. È il rischio educativo. Esso non è solo presente in un rapporto educativo non riuscito, ma in ogni rapporto educativo.
Tutto quanto ho detto nelle due osservazioni precedenti va letto alla luce di questa terza. Radicarsi nella nostra tradizione cristiana non significa rinuncia ad educare alla libertà. Al contrario. Significa però rifiutare l’idea astratta di libertà secondo la quale è libero chi non appartiene a niente e a nessuno. Chi vive così finisce nella schiavitù.
Queste tre osservazioni si proponevano alla fine un solo scopo sul quale consentono credenti, dubbiosi e non-credenti. La vita del nostro popolo, la capacità dei padri di educare i figli; il legame più necessario nella vita di una nazione e più difficile da realizzare, quello cioè fra la generazione dei padri e la generazione dei figli, dipendono dalla custodia della nostra memoria cristiana; dalla testimonianza resa dai padri ai figli che essa è memoria di un fatto che ora dona consistenza e senso alla vita; dal confronto con le sfide inedite di oggi. Memoria, testimonianza, confronto: sono queste le cifre dell’impegno, della bellezza e della fatica di educare.
Conclusione
Avrete notato che la mia riflessione ha sempre parlato di rapporto educativo che si istituisce fra la generazione dei padri e la generazione dei figli. C’è una ragione per cui ho compiuto questa scelta: quel rapporto è il rapporto educativo originario. Ho taciuto completamente – il tempo a disposizione me lo imponeva – sulla scuola, pur essendo tema fondamentale. Essa entra nel fatto educativo con un modo suo proprio, la modalità dell’insegnamento, che richiederebbe una riflessione molto accurata.
Avevo già sostanzialmente elaborato questa riflessione quando è apparso, in queste settimane, in libreria un libro di U. Galimberti: L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani [Feltrinelli, Milano 2007]. Per molti aspetti ci siamo trovati concordi; per altri e ben più decisivi, all’opposto. Quale è una delle tesi fondamentali del libro? Che sradicati dalla grande tradizione che li ha generati, i giovani si sono trovati in casa l’ospite più inquietante: il nichilismo. Non illudiamoci: questa è la condizione di molti giovani oggi. Ed allora?
Il profeta Malachia preannuncia che la venuta del Messia coinciderà colla "conversione del cuore dei padri verso i figli e del cuore dei figli verso i padri" e che sarà questa reciproca conversione a "risparmiare il paese dallo sterminio" [cfr. 3,24]. Quando l’angelo apparve a Zaccaria, gli preannuncia la missione del figlio Giovanni colle parole del profeta [cfr. Lc 1,17].
Il legame, anzi più profondamente la conversione intergenerazionale è già stata donata e rassodata: è un fatto già accaduto. È una grazia già donata nell’evento cristiano. Non dilapidiamola.


SPERPERO DELLA NOSTRA IDENTITÀ
CHINA FATALE. NESSUNO CI CHIEDE DI ABBRACCIARLA

Avvenire, 9.11.2007
CARLO CARDIA
Dagli Stati Uniti viene la proposta di togliere dalla datazione l’acronimo d.C. (perché il riferimento a Cristo offen­derebbe chi è musulmano, o di altra reli­gione) e sostituirlo con e.c. (era comune). In Gran Bretagna una scuola avrebbe in­dotto gli alunni e le loro famiglie a prati­care per un giorno costumi musulmani: uso del chador per le ragazze, separazio­ne tra ragazze e ragazzi, tra uomini e don­ne siano genitori o insegnanti. Però, a­lunni, docenti e genitori, erano per il 90 per cento di religione cristiana.
Questi gli ultimi segni di una china fata­le che l’Occidente sta vivendo in tema di multiculturalità.
I precedenti più prossimi sono noti. In I­talia, un alto tribunale ha perdonato due genitori per le percosse inflitte alla figlio­la Fatima perché la tradizione da cui pro­vengono le giustificherebbe. In Germa­nia, un giudice ha diminuito drastica­mente la pena a chi aveva commesso vio­lenza carnale perché la sua tradizione sar­da legittimerebbe in qualche modo la pre­varicazione sulla donna. A differenza che in passato, né a Roma né a Berlino si è trovato un giudice vero, cioè equo e u­mano.
Io credo si debba riflettere su un elemen­to importante. Siamo di fronte ad una chi­na fatale che nessuno ci chiede di per­correre, a una condanna che ci infliggia­mo da soli, come presi da una bramosia di anonimato che oscura tante cose, per­si in un orizzonte di autopunizione nel quale ci rinchiudiamo. La nostra storia, le grandi svolte spirituali che ci hanno fatti come siamo, che hanno cambiato il mondo e il genere umano, tutto ciò può essere nascosto, messo nell’angolo, per i­gnavia o per paure inesistenti.
In questo modo, facciamo tutto il con­trario di ciò che la multiculturalità po­trebbe essere, cioè molteplicità e ric­chezza, incontro di identità e confronto di valori. Il messaggio di Gesù è grande e decisivo per i cristiani, ma è rispettato, a­scoltato in tutto il mondo, come abbiamo potuto vedere negli incontri che Giovan­ni Paolo II e Benedetto XVI hanno avuto e hanno con i leader religiosi del pianeta. A loro volta, i cristiani rispettano i valori e le esperienze spirituali di altre religioni come un patrimonio che può portar frut­ti e benefici.
Dall’incontro tra le religioni può iniziare un cammino di cui non conosciamo le tappe e gli esiti, ma che interessa l’uma­nità intera. Ma nascondere, svilire, la sto­ria e il ruolo di una religione o dell’altra, incontrarsi facendo finta che non abbia­mo radici, tutto ciò non porta al dialogo interreligioso, porta a dialoghi finti, pone i presupposti di nuovi conflitti.
Concepire il dialogo chiedendo a ragaz­ze non musulmane di indossare il cha­dor è avvilente, toglie autenticità al rap­porto interpersonale, impedisce una ve­ra conoscenza reciproca. Così come le­gittimare pratiche violente con le tradi­zioni culturali vuol dire tornare indietro di secoli, fare del diritto uno strumento di legittimazione del più forte, anziché di af­finamento del costume sociale. La mul­ticulturalità è stravolta, finisce con l’of­fendere quei principi religiosi che gli uo­mini avvertono e sentono nella propria coscienza.
Di fronte a tanti fatti preoccupanti, a scel­te distorte che trasformano le nostre so­cietà in terreni di battaglia, è necessaria una presa di coscienza da parte di tutti. Nell’incontro leale, che si realizza con la propria autenticità religiosa, si constata quante cose abbiamo in comune e si per­corre una strada che stempera gli errori del passato.
Ma un incontro mimetizzato è inficiato dall’ipocrisia, dal nascondimento. Ce­lando i segni del cammino spirituale del­l’umanità ci si adagia ad una visione piat­ta della persona, della sua storia, delle sue idealità, si aggiunge un piccolo tassello a una concezione nichilista che mortifica e umilia. A questa concezione si può ri­spondere con un atto di fiducia nell’essere umano, e nella sua capacità di vivere con gli altri nel rispetto delle rispettive reli­gioni e identità culturali.



L’esaltazione della sterilità
HOTEL ERODE

Nell'albergo "the best of the world" niente cani, telefonini accesi e… bambini. La chiamano civiltà…


L'albergo peggiore del mondo è un bellissimo albergo di Capri, "La Scalinatella". I lettori del mensile statunitense "Condé Nast Traveller"lo hanno definito "the best of the world" e tutto fiero del prestigioso diploma il suo proprietario Nicolino Morgano ha rilasciato alla Stampa un'intervista fantastica come un faraglione.
Un'intervista malthusiana. "Il mio paradiso vietato ai bambini"è il titolo dell'articolo dedicato al pensiero teo-demo-alberghiero di questo Signor Erode, firmato da una Signorina Salomè (vero nome Michela Tamburrino) che ci mette del suo, con domande ammiccanti e improvvisi svelamenti, per costruire un pezzo di bambinofobia da manuale. "Segno di enorme civiltà, i bambini non sono bene accetti tanto quanto gli animali e i telefonini accesi". Non è la prima volta che gli infanti vengono assimilati ai cani, mentre l'analogia coi telefonini mi sembra inedita e preziosa, oltre che indizio di qualche deficienza strutturale: se alla Scalinatella c'è il problema delle suonerie della camera a fianco, chissà che rumore faranno le docce, gli sciacquoni, le televisioni… Niente niente le pareti del paradiso sono di carta velina?
Nicolino, che visto il nome dev'essere stato un bambino perfino lui, magnifica il servizio personalizzato del suo albergo e si vanta di "non dire mai di no al cliente". Un motoscafo? Non c'è problema. Un elicottero? Il tempo di un giro di pale. Il personale della Scalinatella è attrezzato per rispondere alle richieste più strampalate, però sviene quando sente parlare di biberon. I camerieri non sono autorizzati a rifornire le camere di pannolini ma di pannoloni sì, vista la presumibile età media di una clientela senza figli o con figli grandi disposta a pagare 670 euri per la più economica delle stanze vista mare (per quelle vista giardino è previsto lo sconto: euri 540). I prezzi sono da intendersi per coppia siccome tutto alla Scalinatella è a misura di due senza tre, ragione per la quale viene voglia di parasafrare Gide: "Coppie, vi odio!". Stanze chiuse, porte serrate, possesso geloso della felicità, e terrazze con vista su un mare blu e freddo come una lapide di marmo brasiliano. La coppia ideale, nella visione del Signor Erode, è una macchina celibe e improduttiva.
L'albergo peggiore del mondo, peggiore dal punto di vista demografico e morale sebbene silenzioso come un cimitero a dicembre, ha solo trenta camere che vanno pertanto prenotate "da un anno all'altro". Sarebbe un tempo sufficiente per rimanere incinte e partorire un pargolo piagnucoloso ma la coppia-tipo che soggiorna alla Scalinatella non incorre in questi volgari incidenti di percorso. I "turisti esigenti delle classi sociali medio-alte"sembra siano tutti sterili o sterilizzati o usi a copulare frapponendo fra sé e l'altro dosi congrue di ormoni o di lattice. Più nessun "mistero int'a 'sta notte chiara": Peppino di Capri va verso i settant'anni e la luna caprese ormai illumina soltanto un romanticismo da consumatori di preservativi e cliccatori di fotofonini. E'incredibile come le parole si trasformino e degradino, arrivando a capovolgere l'accezione originale. Per uno dei suoi inventori, il poeta Novalis che alla Scalinatella non ci avrebbe mai messo piede, romanticismo è slancio verso l'infinito: "Dove ci sono bambini c'è un'età dell'oro". Pare che a Capri siano in piena età della cenere.
Un giorno, in Piazzetta, Raffaele La Capria si accorse di essere circondato da "facce di pietra, inerti e abbronzantissime", si prese paura e si affrettò a vendere casa, mentre in via Camerelle gli artigiani locali, produttori di sandali, cedevano le ultime botteghe agli stilisti omosessuali, potenziali buoni clienti del Signor Erode se non fosse per la loro tendenza a colmare i vuoti affettivi con abbaianti carlini (un tempo) e labrador (oggi). E'evidente che l'isola vitale del Golfo di Napoli si chiama Ischia, non a caso famosa per i conigli, animali prolificissimi e perciò doppiamente sgraditi a Nicolino Morgano. Per la Signorina Salomé, la cui idea di civiltà sembra corrispondere a una casa di riposo per vecchi milionari, la presenza di giovani sgambettanti creature è un segno di arretratezza: che i bambini vadano all'inferno oppure in campeggio, che è un po'la stessa cosa. Forse sognando di ricevere in premio, a fine intervista, la testa di un medico antiabortista o di un farmacista obiettore, Michela Tamburrino consente al Signor Erode di sbrodolarsi definitivamente addosso: "Di Scalinatella ce n'è una sola". Fosse vero, ma non lo è.

di Camillo Langone
Il Foglio 7 novembre 2007



«Se i turchi attaccano per noi cristiani è la fine»
Kurdistan

Avvenire, 9.11.2007

Petros al-Harboli, vescovo di Zakho: «Noi caldei non sappiamo più dove andare dopo essere stati esiliati una, due, tre volte per sfuggire alle violenze. A causa dell’occupazione americana noi veniamo considerati dai musulmani come dei complici»
DA BAGHDAD
I cristiani iracheni potrebbero essere le vitti­me principali dell’annunciata azione mili­tare turca nel Kurdistan iracheno. A denun­ciare la nuova minaccia che si abbatte su una co­munità minoritaria già decimata dalla guerra e dalle continue violenze dell’estremismo islami­co è monsignor Petros Hanna Issa al-Harboli, vescovo caldeo della diocesi di Zakho, città nel nord dell’Iraq.
Scrive monsignor Harboli sul sito “Baghdadho­pe. blogspot.com”, un sito dei cristiani iracheni, che questi «temono un attacco turco in Kurdi­stan più degli altri perché non sanno dove an­dare dopo essere stati esiliati una, due, tre volte sfuggendo alle violenze». E aggiunge: «I cristia­ni sono oggetto di un’autentica persecuzione in Iraq e solo nel Kurdistan trovano la pace grazie alla tolleranza del governo autonomo curdo».
Nel Kurdistan si sarebbero stabiliti 250 mila dei circa 600 mila cristiani ancora in Iraq. Una sti­ma ottimistica quella del vescovo di Zakho. Se­condo la Christian peace organisation (Cpa), u­na Ong locale, i cristiani rimasti in Iraq sarebbero invece circa 450 mila. Erano più di 800 mila pri­ma della guerra del 2003. Adesso il loro destino è nuovamente incerto. «A causa dell’occupa­zione degli americani – spiega il vescovo – noi siamo considerati complici perché cristiani co­me loro. E allora ci sono i fanatici musulmani che vogliono purificare l’islam e il Medio Oriente dalla presenza dei cristiani». Prova ne sono gli «almeno 27 fedeli uccisi negli ultimi due mesi a Mosul e Kirkuk mentre uscivano dalle loro chie­se o dalle abitazioni private». A dare la notizia, riportata dal Sir della Chiesa Cattolica italiana, è il portavoce della Cpa, il religioso Lucas Bari­ni mentre l’Irin, l’Ufficio della Nazioni Unite di coordinamento degli affari umanitari ne racco­glie la denuncia. «Il panico si è diffuso – dichia­ra Barini – anche perché tra le vittime ci sono molte donne e bambini. Nelle ultime due setti­mane almeno 120 famiglie hanno ricevuto let­tere di minaccia con l’intimazione di lasciare Mosul e Kirkuk entro un mese e ora non sanno dove andare». Neppure il Kurdistan iracheno è più sicuro per loro.
A testimoniare la situazione sempre più dram­matica dei cristiani è anche padre Danilo Anuar, portavoce dell’organizzazione cattolica della Vergine Maria. «Cerchiamo di mantenere la no­stra fede religiosa e di continuare il nostro lavo­ro pastorale – afferma – ma il 23 ottobre è stata uccisa una coppia che aveva ospitato in casa a Mosul un momento di preghiera. Da allora stia­mo chiedendo alle famiglie di pregare solo nel­le proprie case e di non fare uscire i figli». Dopo la caduta di Saddam Hussein i cristiani irache­ni più ricchi sono fuggiti all’estero mentre i po­veri si sono trasferiti sulle montagne del Kurdi­stan. «Questa povera gente – conclude con a­marezza monsignor Petros – ha esaurito le ri­sorse, possono solo rifugiarsi nelle tende, c’è chi vuole sterminare i cristiani e i musulmani one­sti non fanno niente per difenderci». ( R.E.)



E la Treccani scende in campo
Avvenire, 9.11.2007
Aggiornamento piuttosto ideologico e programmatico della voce «Matrimonio» nel quale si sostiene che le convivenze andrebbero riconosciute per «equità sociale» e si chiede che abbiano gli stessi diritti e tutele delle coppie sposate

L’Enciclopedia Treccani, perdendo un po’ dell’abituale aplomb, si getta nella mischia del dibattito politico.
Confonde i piani del diritto e aggiunge una spolverata ideologica, che darà pure sapore, ma certo toglie sincerità alla sostanza.
Aggiornando la voce «Matrimonio», infatti, Alessandra De Rose, sotto la guida del filosofo Tullio Gregory, scrive: «Se appare lontana e forse, considerate le condizioni sociali e culturali, neanche opportuna l’introduzione di istituti 'sconvolgenti' come il matrimonio tra gay, sembra invece più vicina la prospettiva del riconoscimento giuridico e della tutela per due persone che scelgono di condividere una parte importante della loro vita senza sposarsi. Senza intaccare in alcun modo l’istituto del matrimonio e riconoscendo il principio del favor matrimonii, la concessione dei diritti quali l’assistenza reciproca e libera anche nelle strutture pubbliche in caso di malattia, le possibilità di ereditare reciprocamente anche senza testamento e ricevere la pensione di reversibilità, la tutela in caso di separazione, il godimento di tutti i diritti e le agevolazioni previste per le coppie eterosessuali e sposate, non risponde soltanto alle richieste di un minoritario, sia pure in espansione, gruppo selezionato di cittadini, ma piuttosto all’esigenza di garantire anche in tale materia, in uno Stato laico e democratico, i basilari principi di equità sociale».
Come si vede, più un proclama che la stesura di una voce scientifica.
Nella quale la posizione riguardo al matrimonio fra omosessuali è ambigua – secondo l’autrice non è opportuno per cause solo sociali o non è opportuno in sé? Sarebbe 'sconvolgente' per motivi culturali o per se stesso? – mentre il resto del ragionamento appare inficiato da una contraddizione di fondo. In premessa si dice infatti che non andrebbe «intaccato in alcun modo l’istituto del matrimonio» e «riconosciuto il principio del favor matrimonii », ma poi si sostiene che ai conviventi dovrebbero essere garantiti «tutti i diritti e le agevolazioni previste per le coppie eterosessuali e sposate». E dunque quale sarebbe il favor? Come potrebbe non esserne intaccato l’istituto del matrimonio? L’autrice parla di motivi di «equità sociale», riproponendo poi la presunta contraddizione fra l’articolo 2 e il 29 della nostra Costituzione. Una questione già ampiamente risolta dai più illustri costituzionalisti, che hanno sottolineato come l’articolo 2 garantisca i diritti inviolabili dell’uomo in ogni formazione sociale in cui sia inserito, ma non sancisce affatto che vada dato riconoscimento a tutte le formazioni sociali in sé, come in questo caso le convivenze. Mentre l’articolo 29 è chiaro nel definire la famiglia «società naturale fondata sul matrimonio». E così si torna al problema di sempre. Un conto è riconoscere – laddove ve ne fosse bisogno per completare il quadro attuale – diritti e tutele individuali; tutt’altro sarebbe riconoscere giuridicamente le convivenze in sé. Si rischierebbe, ça va sans dir, di non equilibrare diritti e doveri e di trattare in maniera uguale cose differenti. Un’ingiustizia, non una forma di equità sociale.
Com’era prevedibile, comunque, le anticipazioni della voce della Treccani hanno riacceso la polemica politica. Da un lato alcuni esponenti del centrodestra, fra i quali Bertolini (Fi) e Volonté (Udc) assai critici sull’opportunità e sulla sostanza dell’aggiornamento della voce «Matrimonio». Dall’altro, alcuni deputati di Rifondazione comunista e Verdi talmente entusiasti da invitare tutti a comprare l’enciclopedia. Lo ammettiamo: se riuscissero a inserire in Finanziaria uno sconto specifico, saremmo molto tentati dal sorvolare su quest’ultimo aggiornamento e raccogliere il loro invito. ( F.Ricc.)

La Treccani mette i Pacs sotto la voce matrimonio





Tempi num.45 del 08/11/2007 0.00.00
Cultura
Solo il bene non è banale
Gli appunti finora inediti di Hannah Arendt sul male.
Dal processo Eichmann alla rivalutazione della memoria,così il genio ebreo intuì la radicale positività dell'essere di Persico Roberto
Se c'è un pensatore che ha teorizzato e strenuamente difeso la distinzione tra sfera pubblica e privata, tra azione e pensiero, si tratta di Hannah Arendt. Che senso ha, allora, pubblicare ciò che ella stessa chiamava Denktagebuch (diario di pensiero)? In realtà più che di diari si tratta di quaderni di lavoro, in cui la Arendt trascriveva citazioni interessanti accompagnate da osservazioni personali o abbozzava linee di pensiero. Ecco il perché del titolo scelto dall'editore Neri Pozza di Vicenza: Quaderni e diari. 1950-1973 (a cura di Chantal Marazia, 55 euro).
Uno dei temi maggiormente ricorrenti in tali quaderni è quello del male. Non è un caso: la Arendt è stata uno dei primi filosofi a confrontarsi seriamente col fenomeno del totalitarismo, da lei stessa definito, in un frammento che risale all'aprile 1951, «fenomeno limite della politica (il male radicale)». L'espressione è tratta da Kant, ma la Arendt le dà un nuovo spessore. Il male radicale indica ciò che non sarebbe dovuto accadere, ciò che va oltre la capacità umana di riconciliarsi e di punire. Tale ulteriorità del male rispetto alla condizione umana è ben espressa in un altro frammento dell'aprile 1953: «Il male radicale è tutto ciò che è voluto indipendentemente dagli uomini e dalle relazioni che sussistono tra loro». In altre parole, è ciò che rende impossibile l'esistenza plurale degli uomini. In tal modo la Arendt coglie il senso più profondo del fenomeno totalitario, il suo segreto: costruire una società di uomini superflui, ridotti a fasci di reazioni istintuali e incapaci di parola e azione, vale a dire di perseguire il senso della loro esistenza. I campi di concentramento (i Lager e i Gulag, nonché i Laogai cinesi tuttora esistenti) sono esperimenti che vanno in tale direzione.
Eppure la Arendt è passata alla storia per aver coniato un'altra espressione che sembra fare a pugni con ciò che abbiamo detto sinora: la banalità del male. Si tratta di una questione assai importante, uno degli esperimenti di pensiero arendtiani più spericolati e più attuali, di cui non c'è quasi traccia nei quaderni di cui stiamo parlando. In realtà, esaminando il materiale inedito custodito nella Library of Congress a Washington D.C., ci si accorge che a questo tema la Arendt ha dedicato molte energie. Sono parecchi i faldoni che contengono il materiale relativo al processo Eichmann e alla virulentissima polemica che scoppiò in seguito alla pubblicazione del resoconto che la Arendt ne fece per il New Yorker , sottotitolo appunto "Rapporto sulla banalità del male" (1963).
Nel 1961-62 Adolf Eichmann venne processato a Gerusalemme. Si trattò della prima e unica condanna a morte comminata dallo Stato israeliano nel corso della sua storia. Tale "privilegio" toccò al tenente colonnello delle SS che aveva organizzato il trasporto ferroviario di milioni di ebrei attraverso l'Europa verso i campi di sterminio. Per una di quelle dinamiche preterintenzionali che rendono interessante lo studio della storia, il processo, pensato dal governo israeliano come momento di denuncia al mondo del male inflitto agli ebrei, divenne occasione di una catarsi collettiva del popolo israeliano. Gli ex deportati erano sino ad allora vissuti in Israele nascondendo la propria vicenda come una vergogna di cui tacere. Non erano loro i modelli umani che il paese additava ai giovani, ma piuttosto gli eroi morti nella battaglia del ghetto di Varsavia o i contadini nei kibbutz col fucile in spalla. Invece il processo si trasformò in una tragica passerella di testimonianze che mostravano a tutta la società israeliana cos'era stata veramente la Shoah.

Adolf, un burocrate inetto
Il pubblico del processo si aspettava di trovarsi di fronte a un "mostro". In realtà - questa è almeno la tesi della Arendt - Eichmann si rivelò essere un inetto, quasi ridicolo nel suo linguaggio burocratico pieno di formule stereotipate, caratterizzato essenzialmente dall'incapacità di pensare e di giudicare autonomamente, di percepire la realtà nella sua complessità. Si trattò di un'esperienza sconvolgente per la Arendt, che dovette ritornare sulla sua tesi del male radicale. Non per rigettarla ma per renderla più completa. È interessante che ben prima del processo Eichmann, nel settembre 1951, la Arendt aveva già colto alcuni sintomi psicologici del male radicale che vanno nella direzione esemplificata dall'imputato: l'«assoluta mancanza di immaginazione», che impedisce il giudizio, e una passione abnorme per il ragionamento logico, strutturalmente incapace di condividere i punti di vista altrui. Tale tesi espose la Arendt a una polemica così violenta da alienarle la simpatia di molti amici ebrei, che la accusavano di insensibilità nei confronti della tragedia del popolo. Ma la tesi della banalità costituiva un reale progresso teoretico verso la comprensione del male. In una lettera del 24 luglio 1963 al grande studioso Gershom Scholem, la Arendt scriveva: «Quel che ora penso veramente è che il male non è mai "radicale", ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso "sfida" (.) il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua "banalità". Solo il bene è profondo e può essere radicale». L'amico e maestro Karl Jaspers colse acutamente che tale passaggio teorico costituiva la confutazione più profonda di ogni manicheismo e di ogni gnosticismo. In altre parole: l'affermazione della radicale positività dell'essere.

Quei pochissimi che resistono
La Arendt continuò a riflettere a partire da Eichmann per il decennio successivo che le rimase da vivere. L'ufficiale delle SS forniva una chiave ermeneutica per comprendere il fenomeno della Gleichschaltung, l'allineamento della maggior parte della popolazione tedesca con le direttive naziste, l'incapacità di pensare e giudicare autonomamente di fronte al folgorante successo di Hitler. Eichmann era il prototipo dell'uomo comune che fa il male non per piacere o per intima convinzione ideologica, ma per dovere. E ciò spiega la tragica e inaudita moltiplicazione del male nei regimi totalitari. Ma, quasi inconsapevolmente, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta la Arendt ci fornisce anche una sorta di fenomenologia del bene, quando fu costretta a chiedersi che cosa indusse quei pochi che rifiutarono la Gleichschaltung a comportarsi così. Costoro sono chiamati dalla filosofa con un termine mutuato da Otto Kirchheimer, i "non-partecipanti". Tale caratterizzazione negativa indica che nei "tempi bui" del male totalitario il bene emerge essenzialmente come resistenza, rifiuto, non-adesione, dis-obbedienza. E il presupposto fondamentale di tale atteggiamento è individuato dalla Arendt nella «predisposizione a vivere assieme a se stessi», vale a dire a esercitare quel dialogo silenzioso che è il pensiero.
In altre parole, dal punto di vista morale non è tanto importante che l'uomo sia un essere razionale, quanto che sia un essere che pensa e ricorda. Pensare e fare memoria delle cose passate significa infatti «muoversi nella dimensione della responsabilità, mettere radici e acquisire stabilità, in modo tale da non essere travolti da quanto accade (.). Il peggior male non è dunque il male radicale, ma è il male senza radici. E proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti» (Responsabilità e giudizio, Einaudi, pag. 81). Il pensiero e il ricordo costituiscono il presupposto per il generarsi della personalità, di quel nucleo psicologico che permette all'individuo di prendere posizione.

La vittoria dei Giusti
La Arendt ci fornisce così una chiave di lettura per interpretare uno dei fatti più rilevanti del secolo scorso, vale a dire il fenomeno dei Giusti, di coloro che, mettendo a repentaglio la propria vita o quella dei propri cari, si sono opposti al male radicale aiutando il prossimo o semplicemente mantenendo un'autonomia di giudizio e di azione. A Yad Vashem, il museo della Shoah di Gerusalemme, esiste da tanti anni il Giardino dei Giusti, un luogo dove vengono ricordati i "gentili" che hanno aiutato gli ebrei. Ci sono nomi famosi tra loro: Oskar Schindler, Giorgio Perlasca eccetera. A partire da questo primo giardino uno studioso ebreo italiano, Gabriele Nissim, ha fondato un'organizzazione internazionale (Gariwo) che si propone di fare memoria di tutti i Giusti che si sono distinti nei vari casi di genocidio che hanno caratterizzato il secolo scorso, dall'Armenia a Sarajevo. È un approccio vincente pure dal punto di vista educativo. Studiare il male radicale del Novecento a partire dalla memoria del bene significa permettere ai giovani un processo di identificazione con gli "eroi" che non implica alcuna censura del male. È ciò che hanno mostrato Antonia Grasselli e Sante Maletta nel volume I Giusti e la memoria del bene (Cusl, 2006) e che ogni giorno sperimentano i docenti della Rete Storia e Memoria. I Giusti hanno messo radici, poiché solo il bene, e non il male, può essere radicale.
Raffaele Mancini




Gli studenti passano troppo tempo a scuola
di Luca Doninelli
ilGiornale, 9.11.2007
Una notizia, quattro fatti. Primo fatto: gli studenti italiani sono quelli che passano il maggior numero di ore in classe rispetto ai compagni degli altri Paesi dell’Ocse.
Secondo fatto: sono tra i peggiori per quanto riguarda i risultati (ventiseiesimo posto sia nella lettura sia in matematica, con diverse posizioni perse nel giro di pochi anni).
Terzo fatto: i loro insegnanti sono quelli che stanno in classe il numero minore di ore annue.
Quarto fatto: gli studenti italiani costano il 24% in più dei loro compagni stranieri.
In altre parole: gli insegnanti sono troppi e i loro (modesti) stipendi assorbono la stragrande maggioranza degli investimenti destinati alla scuola.
In questi dati scarni c’è un preciso ritratto del nostro Paese, che non vogliamo guardare. Un Paese che da tempo ha rinunciato a immaginare il proprio futuro, lasciando questo compito, nella migliore delle ipotesi, alla buona volontà dei singoli. La prima osservazione, quasi ovvia, che viene da fare è che per troppo tempo la scuola italiana è stata trattata come un problema eminentemente occupazionale da un lato e, dall’altro, come uno spazio - o meglio, come un insieme di molti spazi - da conquistare. Problema occupazionale, ossia: la scuola deve dare innanzitutto lavoro. Perché prima c’era un solo maestro elementare mentre poi ne sono stati necessari tre? Fu un’esigenza educativa a dettare questa riforma? No.
L’educazione dei giovani è un problema che investe tutto un Paese, e la scuola ne è parte essenziale. Educare vuol dire aiutare i giovani a diventare uomini adulti, in grado di assumere le proprie responsabilità fino in fondo. La scuola fa la sua parte in questo grande compito trasmettendo conoscenze.
Questo è lo scopo della scuola, non certo quello di dare lavoro a laureati disoccupati. Viceversa, se la scuola viene trattata come un problema statistico, il primo elemento ad essere messo fuori gioco è proprio il più importante: il valore della persona. E non parlo solo della persona del giovane, ma anche di quella dello stesso insegnante. Non basta, infatti, dare a una persona un’occupazione e uno stipendio: bisogna darle anche uno scopo. Un lavoro senza scopo è degradante e umiliante.
Se, dunque, le risorse pubbliche vengono allocate così malamente, la ragione sta in una totale mancanza di chiarezza sulla funzione e sugli obiettivi della scuola e del sistema che si regge su di essa. Possiamo aggiungere che, alla radice di questo problema, al di là dell’ottusità dimostrata più volte dai sindacati (i quali però sono spesso i soli a farsi carico della solitudine degli insegnanti), c’è un problema ancora maggiore, quello dell’università, dove le rendite di posizione sembrano essere la sola istituzione incrollabile, a fronte di una funzione - educativa e scientifica - sempre più precaria. Ma la scuola è anche un insieme di spazi da occupare. L’assenza di un vero progetto ha portato a un vero assalto a questi spazi da parte di ideologie e gruppi più o meno politicizzati. I ragazzi (e in parte anche i loro insegnanti) sono diventati le cavie, i topi di laboratorio di una congerie di teorie psicopedagogiche con conseguenze devastanti in tutti i campi, in primis i manuali scolastici.
Sfogliate i manuali dei vostri figli e giudicate da voi se da quei libri di storia emerge il valore della ricerca dell’obiettività e della verità storica; se quei libri di filosofia offrono la minima possibilità di comprendere e apprezzare davvero l’opera dei filosofi; se quelle antologie di letteratura possono introdurre davvero alla bellezza e alla forza della letteratura. Sfogliate certi libri di geografia e ditemi se quella è geografia o pura e semplice ideologia. Chiamarli libri è esagerato: sono spazi, semplici spazi che qualcuno occupa in una casa editrice, e attraverso questa nelle ore scolastiche. Una questione di potere, insomma. Pensate che gran parte dei testi di religione cattolica pubblicati in Italia non ricevono nemmeno l’approvazione della Conferenza Episcopale: se questo - al di là del giudizio che possiamo avere sulla Cei - non è fare le cose «a capocchia»...
I dati che stiamo leggendo e commentando non sono solo preoccupanti in sé, ma ci obbligano a riflettere sullo stato di tutto un Paese. La ricerca isterica della visibilità da parte ormai di tutti (dal vip che deve continuamente apparire in tv o sui giornali al poveraccio che spera di rivedersi in tv) non è che uno dei sintomi del malessere generale, di un vuoto che sta crescendo dentro di noi. Sarebbe un crimine lasciar crescere questo vuoto. L’Italia non lo merita, e non lo meritano nemmeno i nostri giovani, che per intelligenza e capacità non sono certo al ventiseiesimo posto.