martedì 27 novembre 2007

Nella rassegna stampa di oggi:


1) L’addio a Zaccheo, «pastore e padre»
2) «Una vita nel segno di Maria»
3) L'attualità dell'enciclica di San Pio X che respinse le tesi moderniste. Intervista al prof. Giovanni Turco, docente di Filosofia e Storia
4) "Chavez vuole pieni poteri e porta il Venezuela a un regime oppressivo"
5) Putin, il pugno di ferro nasconde la paura
6) nervo scoperto - La questione tibetana ostacolo con l’Occidente
7) Omelia del Papa nella Messa con i nuovi Cardinali per la consegna dell’anello
8) Sos embrioni, migliaia di firme per la moratoria
9) Banco Alimentare, raccolte 8.800 tonnellate di cibo
10) Giù le mani dai Re magi!



CHIESA IN LUTTO

Nella gremita cattedrale di Sant’Evasio i funerali del presule morto nei giorni scorsi a Fatima Tra i messaggi di cordoglio anche quelli del Papa, di Bertone, Bagnasco e Betori
L’addio a Zaccheo, «pastore e padre»
DAL NOSTRO INVIATO A CASALE MONFERRATO
LORENZO ROSOLI
Avvenire, 27.11.2007
Cuore di padre e pastore, spirito di pellegrino, talento di comunicatore, passione per la bellezza. È il ve­scovo di Casale Monferrato, Ger­mano Zaccheo, come emerge dal­l’omelia dell’arcivescovo di Tori­no, il cardinale Severino Poletto, e dalla trama di testimonianze e di messaggi che sono risuonati nella cattedrale di Sant’Evasio, gremita ieri pomeriggio per il fu­nerale del presule prematura­mente scomparso la sera di mar­tedì 20 novembre mentre era a Fa­tima. Non solo il Duomo: anche la centralissima piazza Mazzini e la grande chiesa di San Domenico – dove erano allestiti due maxi­schermi – erano affollate. Migliaia i partecipanti, sommando quan­ti si sono recati in uno dei tre luo­ghi predisposti per accogliere quanti volevano dare un ultimo saluto a Zaccheo. Basta questo a suggerire l’affetto della gente di Casale per il vescovo che li ha gui­dati dal 1995. Ma non ci sono so­lo i casalesi: c’è chi viene da altre diocesi, prima di tutto Novara, la Chiesa dove Zaccheo è nato e ha vissuto tutto il suo intenso servi­zio sacerdotale prima della no­mina episcopale.
Da parte di tutti una partecipa­zione intensa e misurata, quel­­l’intrecciarsi di dolore e gratitudi­ne che dà profondità alla soffe­renza e misura al suo manifestar­si. Così è stato il rito in Sant’Eva­sio, iniziato intorno alle 15. Una trentina i vescovi concelebranti; fra loro quelli del Piemonte, in­clusi alcuni emeriti. Duecento i sacerdoti: i più di Casale, altri da Novara, altri ancora da più lonta­no. Come il prete giunto da Forlì­Bertinoro, la diocesi romagnola che lo scorso agosto ospitò la de- legazione casalese in «marcia» verso l’Agorà dei giovani di Lore­to. Ci sono preti presenti per il le­game di Zaccheo con il mondo dei pellegrinaggi: come monsi­gnor Franco Degrandi, presiden­te emerito dell’Oftal (Opera fede­rativa trasporto ammalati a Lour­des), a Fatima nei giorni scorsi proprio insieme al vescovo di Ca­sale; altri invece, come monsignor Luigi Mistò, per l’impegno che Zaccheo aveva con il «Sovvenire» e l’incarico di presidente del Co­mitato per la promozione del so­stegno economico alla Chiesa cat­tolica.
Quando le porte del duomo ven­gono aperte, attorno alle 13,30, ci sono già centinaia di persone, fuori, in attesa. La bara con la sal­ma di Zaccheo è ai piedi del pre­sbiterio. Nel primo banco la mamma del vescovo, Rita, il fra­tello Donato e due nipoti. Nelle due file di sedie immediatamen­te a destra e a sinistra della bara, i sacerdoti ordinati da Zaccheo: gli stessi che sabato avevano ac­colto il feretro giunto dal Porto­gallo e l’avevano portato in duo­mo.
Il saluto iniziale è affidato all’am­ministratore diocesano, monsi­gnor Antonio Gennaro. A lui il compito di tracciare un ritratto spirituale, pastorale e umano del vescovo morto a 73 anni d’età; a lui il compito di ricordare l’«inna­ta cordialità» insieme all’«autore­vole magistero» di Zaccheo, il suo saper essere per ben dodici anni «guida sicura» della comunità ca­salese, la sua devozione a Maria, i suoi rapporti con i sacerdoti, i re­ligiosi, i laici; l’impegno per i po­veri e per la tutela della vita. Ma anche per il restauro e la rinasci­ta della cattedrale, nel nono cen­tenario della sua consacrazione.
«Il Vangelo di oggi ci ha suggerito di ripensare la vita del vescovo Germano come l’immagine viva di Gesù Buon pastore – com­menterà poi il cardinale Poletto nell’omelia –. Come Gesù, egli ha offerto a voi tutto se stesso, vi ha conosciuti, chiamati per nome e voi l’avete seguito – prosegue il porporato, rivolgendosi alla gen­te di Casale –. Insieme con lui a­vete camminato in questi dodici anni crescendo nella comunione e nel reciproco affetto spirituale e cercando di gettare ponti di dia­logo con i lontani dalla fede, così che la Chiesa casalese potesse cre­scere come un solo gregge dietro all’unico pastore, il Signore Ge­sù ».
A questo punto Poletto offre il suo ritratto di Zaccheo, dando voce al proprio cuore e al cuore di un’in­tera Chiesa in lutto. Ricorda «le sue doti di intelligenza, messe a servizio del Regno di Dio»; «la sua parola brillante e immediata e l’eccezionale capacità di scrivere in modo accattivante», grazie al­le quali «ha saputo diffondere il Vangelo in terra monferrina». «Appassionato ed esperto d’arte, vedeva in essa l’espressione della bellezza di Dio»: ma se ha profu­so tanto impegno per il restauro della cattedrale, non è stato solo per senso di responsabilità verso un mirabile edificio storico «ma per far crescere la santità di una Chiesa», la «bellezza spirituale» del popolo di Casale. Vera «dimo­ra di Dio fra gli uomini», cara al suo «grande cuore di padre, fra­tello e amico di tutti».
Migliaia di fedeli ieri hanno dato l’ultimo saluto al vescovo di Casale Monferrato Poletto: «Ha messo la sua intelligenza a servizio del Regno»


«Una vita nel segno di Maria» DAL NOSTRO INVIATO A CASALE MONFERRATO
Avvenire, 27.11.2007
C i sono segni che dicono più di mille parole. Per dire l’affetto dei fedeli per il vescovo Zac­cheo, basti pensare alla folla che ieri ha reso omaggio al suo feretro dopo la Messa esequiale, conclusa intorno alle 17. Solo alle 18,30 è stato pos­sibile chiudere la cattedrale e tumulare la salma nel «Sepolcreto dei vescovi».
Un altro segno eloquente? La messe delle espres­sioni di cordoglio, lette al termine del rito o recate di persona dai più diversi «compagni di strada» del vescovo di Casale, manifestazioni della stima ver­so di lui. Dal telegramma di Benedetto XVI inviato tramite il segretario di Stato vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone, al messaggio personale dello stes­so Bertone a quello del presidente e del segretario della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco e il vescovo Giuseppe Betori, che hanno ricordato il generoso e intelligente servizio di Zaccheo alla Chiesa e all’e­piscopato italiano, fino a quelli dei cardinali Ca­millo Ruini, Dionigi Tettamanzi, Giovanni Lajolo (amico e compagno di studi).
Al cordoglio ha partecipato anche l’Unione delle comunità ebraiche in Italia, col messaggio firmato dal presidente Renzo Gattegna. Fra quanti sono riu­sciti a recarsi a Casale, il vescovo di Trnava-Brati­slava, Jan Sokol, la cui diocesi è gemellata con la diocesi piemontese. Padre Giorgio Vasilescu ha por­tato il «grazie» della Chiesa ortodossa romena, ai cui numerosi fedeli – lavoratori immigrati, i più don­ne, residenti a Casale – Zaccheo aveva aperto la chiesa dei santi Pietro e Paolo. «Zaccheo era uno di noi, voleva e sapeva stare tra la gente», scandisce il sindaco di Casale Paolo Mascarino ricordando il suo impegno per il lavoro, la giustizia, la pace.
Ma l’eloquenza dei segni rimanda a dimensioni più profonde. «Tutta la vita di Zaccheo si è snodata nel segno di Maria», aveva affermato il cardinale Po­letto nell’omelia. La devozione alla Vergine della Santa Pietà di Cannobio (Novara), il paese natale di Zaccheo. I molti pellegrinaggi a Crea, Lourdes, Fa­tima. L’amicizia con l’Oftal. Il suo «sì» alla nomina episcopale pronunciato il 13 maggio 1995, anni­versario delle apparizioni della Madonna ai pasto­relli di Fatima. L’essere morto proprio nell’amata località portoghese, «preso per mano» da Maria. L’essere morto nel giorno in cui la liturgia offre la pagina evangelica dell’incontro fra Gesù e Zaccheo, pagina alla quale aveva attinto il motto episcopale: «Hodie salus facta est». Sì: «Oggi la salvezza si è com­piuta ». (L.Ros.)


L'attualità dell'enciclica di San Pio X che respinse le tesi moderniste
Intervista al prof. Giovanni Turco, docente di Filosofia e Storia
Di Antonio Gaspari


ROMA, lunedì, 26 novembre 2007 (ZENIT.org).- Si svolgerà a Roma, martedì 27 novembre, il convegno sui cento anni della “Pascendi Dominici grecis”, l’enciclica in cui Papa San Pio X condannò l’ideologia nota come “modernismo”.

Il convegno, in cui sarà presentato anche il volume “Pascendi Dominici gregis” (Cantagalli, Siena 2007), è stato organizzato dalla Società Internazionale “Tommaso d’Aquino” (SITA) e si terrà alle ore 16:30 presso la Pontificia Università San Tommaso -“Angelicum” di Roma.

L’enciclica “Pascendi Dominici gregis” venne pubblicata l’8 settembre 1907, con il chiaro intento di contrastare quelle filosofie che sostenevano la modificabilità dei dogmi. A fianco dell’enciclica venne pubblicato il “Decreto Lamentabili Sane Exitu”, contenente la condanna di 61 proposizioni moderniste.

Insieme alle critiche al modernismo, l’enciclica propose un ritorno alla tomistica e sette “rimedi” per combattere quella che definì la “sintesi di tutte le eresie” .

Per saperne di più, ZENIT ha intervistato uno dei relatori al convegno, il professore Giovanni Turco, docente di Filosofia e Storia presso la Scuola militare “Nunziatella” di Napoli e di Storia del pensiero politico presso l’Università Europea di Roma, nonché socio corrispondente della Pontificia Accademia Romana di San Tommaso d’Aquino.

Di che parla l'enciclica “Pascendi Dominicis grecis” ed in quale contesto storico venne pubblicata?
Turco: L’enciclica “Pascendi Dominici gregis” (8 settembre 1907) costituisce un documento fondamentale per capire non solo il ribollire di tendenze filosofiche e teologiche che hanno costituito una minaccia esiziale per il cattolicesimo degli inizi del Novecento, ma ancor più rappresenta la chiave per intendere l’essenza dei problemi dottrinali che hanno attraversato la cultura, non solo cattolica, durante tutto il secolo appena concluso.

L’enciclica traccia un quadro unitario di un complesso di idee ed atteggiamenti intellettuali (e morali) che sono passati alla storia sotto il nome di modernismo. Il movimento modernista prende l’avvio dalle tesi del protestantesimo liberale, diffuse da Auguste Sabatier, e soprattutto dalle dottrine di Alfred Loisy, Georges Tyrrell, Lucien Labethonnière e Maurice Blondel. In Italia analoghe tendenze furono rappresentate da don Ernesto Buonaiuti e da don Romolo Murri, attorno ai quali si collocano diverse figure di ecclesiastici e di laici.

In tale contesto prese forma uno scritto emblematico, il Programma dei modernisti, apparso anonimo nel 1907, ma in realtà redatto principalmente da Buonaiuti. Si trattò di un orientamento che – anche grazie alle tesi del romanzo di Antonio Fogazzaro, Il Santo – ebbe una cospicua diffusione, particolarmente nell’ambito del clero. Il modernismo si proponeva di “riformare” il cattolicesimo e la Chiesa dall’interno, attraverso una sistematica penetrazione delle sue tesi e l’influenza sempre più forte dei suoi sostenitori.

Da notare, inoltre, che il modernismo ebbe notevoli riflessi anche dal punto di vista della dottrina e dell’azione politica, dando luogo ad un vero e proprio modernismo sociale, che accoglieva – pretendendo di considerarlo criterio ed inveramento della stessa fede cristiana – l’idea della libertà negativa (ovvero della libertà limitata solo dalla libertà, ovvero da nessun criterio) come principio basilare dell’ordinamento politico, ed il democratismo, inteso secondo l’accezione moderna, non come forma di governo, ma come fondamento del governo.

Anche sotto questo versante san Pio X seppe cogliere la profondità dei problemi posti da questo orientamento e prese posizione nei suoi confronti, soprattutto attraverso la lettera Notre Charge Apostolique (25 agosto 1910), con la quale fu condannato il movimento politico-sociale del Sillon.

In questo documento il Papa, di fronte alla prospettiva del democratismo cristiano emblematicamente sostenuto dal sillogismo – che pretendeva di identificare democrazia moderna e cristianesimo – insegna, tra l’altro, che “non vi è vera civiltà senza civiltà morale, e non vi è vera civiltà morale senza vera religione”.

Qual è l'attualità di questa enciclica e perchè avete deciso di celebrarne il centenario?

Turco: L’enciclica Pascendi ha un valore esemplare e profetico. La sua esemplarità è soprattutto legata alla capacità di cogliere l’intima coerenza di un complesso di dottrine radicalmente estranee ed opposte non solo al Cristianesimo, ma ad ogni religione, anzi allo stesso riconoscimento della insopprimibile distinzione tra verità ed errore.

Il documento pontificio, infatti, dopo una introduzione, presenta i sette aspetti della mentalità modernista (il filosofo, il credente, il teologo, lo storico, il critico, l’apologista, il riformatore). A tale quadro analitico fa seguito una visione d’insieme del modernismo – nella sua genesi e nei suoi sviluppi – come punto di convergenza di tutte le eresie.

Il testo si conclude con una precisa indicazione di rimedi dottrinali e disciplinari che il Pontefice indica come essenziali per superare la crisi modernista. Va sottolineato che san Pio X dichiara che a fondamento degli studi teologici va posta la filosofia scolastica e principalmente il pensiero di san Tommaso d’Aquino.

Il carattere profetico dell’enciclica – secondo i due principali significati del profetismo autentico – risiede tanto nella penetrazione del giudizio, al di là di ogni moda culturale e di ogni subalternità psicologica, quanto nella capacità di cogliere le linee di tendenza di posizioni che riprenderanno vigore successivamente, sia pure con altre e mutevoli denominazioni, dalla Nouvelle thèologie, degli anni Cinquanta del '900, al progressismo postconciliare, degli anni Sessanta e Settanta, alla “svolta antropologica”, al “biblicismo” ed alla cosiddetta “deellenizzazione”, degli anni successivi, fino a quella ‘secolarizzazione interna che insidia la Chiesa del nostro tempo’ di cui ha parlato recentemente papa Benedetto XVI.

Celebrare, perciò, l’enciclica Pascendi significa riproporne ed evidenziarne il valore e l’attualità. Anzi, l’attualità che è fondata sul valore stesso del documento. Gli insegnamenti di san Pio X sono attuali perché consentono di capire la radice di errori che hanno alimentato gravi equivoci ed ancor più pesanti errori tanto nell’ambito della filosofia quanto in quello della teologia.

Da essi è derivato quel disorientamento e quella confusione di cui hanno parlato ripetutamente Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Questi, in particolare, ha lamentato la pretesa di alcune correnti teologiche di introdurre una radicale “discontinuità e rottura” nella storia della Chiesa degli ultimi decenni.

San Pio X aveva visto la radice della pretesa modernistica di mutare l’essenza stessa della Rivelazione cristiana, nell’agnosticismo, nel fenomenismo e nello storicismo: insomma, nel soggettivismo che pretende di fare della fede un’esperienza e delle verità da credere una elaborazione ed uno strumento della stessa esperienza soggettiva.

In tal modo la Chiesa avrebbe dovuto, anziché insegnare la verità immutabile della salvezza, conformarsi necessariamente allo “spirito del tempo”. San Pio X coglie nella pretesa incapacità della verità (agnosticismo) la premessa della dissoluzione tanto della ragione quanto della fede. Analogamente Benedetto XVI, cento anni dopo, ricorda che la minaccia più grave che incombe sul nostro tempo è la pretesa dell’inaccessibilità della verità, ovvero la “dittatura del relativismo”.


Quali sono gli argomenti che lei solleverebbe per invitare i lettori ad acquistare il libro “Pascendi Dominicis grecis”?

Turco: Suggerire di leggere un libro significa suggerire di incontrare un messaggio (anzi, in questo caso, una dottrina) ed un autore. Ebbene, credo che tanto dall’uno quanto dall’altro punto di vista sia doveroso invitare con convinzione a leggere questa nuova edizione dell’enciclica Pascendi, corredata da una lucida e puntuale introduzione a cura del professor Roberto de Mattei. Il testo, infatti, conserva intatto il suo rilievo e la sua attualità. Non ha un’importanza meramente storica, ma solidamente filosofica e teologica – nonché dogmatica e disciplinare – necessaria per capire posizioni che, nuove solo all’apparenza, hanno le loro premesse nelle tesi che l’Enciclica condanna.

L’autore, poi, san Pio X costituisce una delle figure più insigni e vigorose, pur se coperto da una sorta di intenzionale “congiura del silenzio”, che la storia della Chiesa abbia annoverato.

L’enciclica Pascendi, nonostante sia un testo molto noto agli studiosi (ed elogiato persino da pensatori che ne rifiutarono l’insegnamento) è di fatto quasi sconosciuto ad un pubblico vasto, potenzialmente interessato a conoscerlo.

Mi riferisco ad esempio agli studenti di discipline filosofiche, storiche e teologiche, oltre ovviamente a docenti ed a cultori di tali studi. Credo, inoltre, che sarebbe una lettura utilissima anche, e particolarmente, per sacerdoti e catechisti, giacché l’impianto rigoroso e la penetrazione dottrinale consentono di attingerne elementi sicuramente formativi per il giudizio e per l’insegnamento.

E tali da porre al riparo da una sia pure inconsapevole ripetizione di errori ed equivoci di detrimento sia per la fede che per la ragione.



"Chavez vuole pieni poteri e porta il Venezuela a un regime oppressivo"
Il presidente venezuelano Hugo Chavez minaccia di incarcerare i principali rappresentanti della Chiesa venezuelana, che criticano il suo progetto di riforma costituzionale: le alte gerarchie cattoliche venezuelane, ha detto Chavez, «sono il demonio e difendono gli interessi più marci».
Monsignor Baltazar Porras, attualmente vicepresidente dei vescovi latino-americani, ha parlato con il Giornale del referendum per la riforma della Costituzione, che si terrà il 2 dicembre, e del clima sempre più repressivo in cui vive il Paese…
di Andrea Tornielli


"Chavez vuole pieni poteri e porta il Venezuela a un regime oppressivo"
Parla Balthazar Porras, vicepresidente dei vescovi latinoamericani: "Il referendum del 2 dicembre, se approvato, indebolirà diritti civili e libertà"
«Quello del presidente Chavez rischia di diventare un vero e proprio regime personalista e repressivo. La popolazione non è più tutelata». Sono parole dure quelle che pronuncia monsignor Baltazar Porras, arcivescovo di Merida, capitale dell’omonimo Stato nel nord-ovest del Venezuela. Il prelato, attualmente vicepresidente dei vescovi latino-americani, ha parlato con il Giornale del referendum per la riforma della Costituzione, che si terrà il 2 dicembre, e del clima sempre più repressivo in cui vive il Paese.
Che cosa pensa della riforma della Carta costituzionale che Chavez intende fare?
«Ciò che sarà sottoposto a referendum non è una revisione della Costituzione, ma una nuova Costituzione che di fatto conferisce praticamente tutti i pieni poteri al presidente e al governo, espropriando, nonostante le apparenze, gli spazi di partecipazione del popolo. E le proposte possono essere accettate o respinte solo in blocco, impedendo così qualsiasi opportuno discernimento tra i vari articoli».
Perché la Chiesa definisce «moralmente inaccettabile» la riforma?
«Di fatto affievolisce la tutela dei diritti umani, aumentando la discrezionalità incontrastata del governo; votare 60 articoli raggruppati in due blocchi impedisce ogni scelta selettiva limitando di fatto la libertà di espressione della volontà popolare, e inoltre la campagna elettorale è fortemente manipolata».
Faccia degli esempi.
«La riforma indebolisce i diritti civili, perché limita le libertà e aumenta la discrezionalità del potere: chi non è socialista e bolivariano non è un buon venezuelano, e quindi può essere perseguito. Inoltre l’esperienza comunista castrista è estranea alla nostra cultura, perciò nessuno si augura avventure di questo genere; le posizioni che si richiamano a Che Guevara sono percepite come violenza e ingiustizia».
Qual è lo stato dell’informazione in Venezuela?
«Ogni giorno cresce il numero dei mass media direttamente finanziati dal governo o appartenenti a suoi sostenitori. Le informazioni sono sempre più a senso unico e i media liberi sono sottoposti a limitazioni e pressioni, ad esempio per ottenere il cambio dei dollari necessari per l’acquisto della carta o del materiale televisivo, comprato all’estero. Per non parlare delle pubblicità propagandistiche del governo che tutti i mezzi d’informazione sono obbligati a pubblicare gratuitamente. I media liberi rischiano e così spesso scatta l’autocensura».
Eppure si vedono di continuo manifestazioni popolari di sostegno a Chavez…
«Lei deve sapere che la partecipazione alle manifestazioni promosse dal governo è obbligatoria per tutti i dipendenti pubblici, che altrimenti rischiano il posto di lavoro. Se invece partecipano, viene loro assicurato il mezzo di trasporto, il cestino con il pasto e perfino un indennizzo economico. Ecco perché si vede così tanta gente in camicia rossa, come è accaduto di recente anche alla Coppa America».
Cresce il numero delle violenze e delle uccisioni. Perché?
«Purtroppo ci sono troppe persone armate e la polizia talvolta garantisce loro l’immunità. Ogni manifestazione pacifica, a causa di questi elementi infiltrati, viene usata per giustificare la repressione governativa. I morti assassinati sono circa 200 ogni settimana, senza contare la cattura di ostaggi, le intimidazioni, tutto nella connivente indifferenza del potere».
Come giudica quanto è avvenuto nei giorni scorsi a Santiago del Cile, quando Chavez ha definito ripetutamente l’ex premier spagnolo Aznar «un fascista», suscitando la reazione di re Juan Carlos?
«La forma in cui Chavez si è espresso, così autoritaria e autocratica, ha reso evidente al mondo la crescente intolleranza che noi venezuelani dobbiamo soffrire ogni giorno».
http://blog.ilgiornale.it/tornielli

Il Giornale lunedì 26 novembre 2007
«In galera le gerarchie cattoliche»
Caracas. Il presidente venezuelano Hugo Chavez minaccia di incarcerare i principali rappresentanti della Chiesa venezuelana, che criticano il suo progetto di riforma costituzionale: le alte gerarchie cattoliche venezuelane, ha detto Chavez, «sono il demonio e difendono gli interessi più marci». Il presidente ha anche ipotizzato per la prima volta di abbandonare la carica di capo dello Stato a fine mandato qualora il «no» prevalesse nel referendum costituzionale del prossimo 2 dicembre. «Nel caso perdessimo - ha dichiarato - dovremmo iniziare a pensare a chi potrà sostituirmi quando nel 2012 scadrà l’attuale mandato». La riforma costituzionale sottoposta all’approvazione popolare prevede tra l’altro la possibilità per i presidenti di restare in carica per un numero indefinito di mandati. Sulla base della carta fondamentale oggi in vigore, Chavez sarebbe costretto a lasciare la presidenza al termine del mandato attuale. Secondo alcuni sondaggi, la maggioranza dei venezuelani sarebbe contraria alla riforma.
Il Giornale lunedì 26 novembre 2007


IL PRESIDENTE TEME UN « CONTAGIO UCRAINO »
Putin, il pugno di ferro nasconde la paura
Avvenire, 27 novembre 2007
LUIGI GENINAZZI
A ccanimento (per nulla terapeutico) e inutilmente repressivo. A prima vista non c’è altro modo per definire il duro intervento della polizia russa che nell’ultimo week-end di campagna elettorale ha disperso con la forza le dimostrazioni di protesta organizzate dall’opposizione più radicale.
Tremila persone a Mosca, poche centinaia a San Pietroburgo. I soliti quattro gatti in cerca di rumorosa pubblicità, così avrebbe potuto liquidarli il Cremlino. Invece no. Manganellate, cariche degli Omon (le forze speciali anti­sommossa), fermi e arresti subito convalidati dalla magistratura. A Garry Kasparov hanno perfino impedito di parlare con l’avvocato.
Eppure, «l’ex campione di scacchi non minaccia né la sicurezza della Russia né il futuro radioso di Putin», ha ironizzato il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner. Perché allora tanta brutalità? Qualcuno ha parlato di un antico riflesso autoritario del Cremlino. Ma non si tratta semplicemente di un’eredità dei tempi sovietici. I teorici putiniani l’hanno rielaborata nel concetto di «democrazia sovrana», una forma di regime che sarebbe adatta alle specifiche caratteristiche della Russia e chiuso alle influenze esterne.
A Mosca la chiamano «democrazia guidata» e va di pari passo con la rinascita del senso patriottico e dell’orgoglio nazionale. Chi la contesta viene bollato come nemico del popolo e agente straniero. Pochi giorni fa Putin aveva definito gli oppositori «sciacalli parcheggiati davanti alle ambasciate occidentali in attesa di quattrini».
Non gli basta una campagna elettorale a senso unico, con le tv ridotte a megafono del partito Russia Unita, di cui il presidente è capolista.
Vuole togliere legittimità a qualsiasi posizione critica, ritenuta portavoce di interessi estranei alla nazione. Per il leader del Cremlino tutto si spiega nel quadro di un grande complotto occidentale. Anche il mancato invio degli osservatori internazionali dell’Osce alle elezioni di domenica prossima. La decisione, motivata con le limitazioni imposte ai delegati che avrebbero dovuto monitorare il voto per la Duma, in realtà sarebbe avvenuta «su istigazione del Dipartimento di Stato americano». Lo ha detto ieri Vladimir Putin, aggiungendo alle accuse un malizioso suggerimento secondo cui «l’Osce dovrebbe riformare le proprie strutture».
Toni decisamente sopra le righe, che tradiscono un certo nervosismo. Il che forse si spiega con gli ultimi sondaggi che danno Russia Unita al 62%.
Un percentuale che in Occidente farebbe gongolare qualsiasi politico, ma che nella Russia di Putin avrebbe il sapore di una mezza delusione. Zar Vladimir infatti è sceso direttamente in campo, vestendo i colori di Russia Unita, per ottenere un plebiscito popolare che gli permetta di restare alla guida della nazione anche dopo aver lasciato il Cremlino (le elezioni presidenziali sono state fissate per il prossimo 2 marzo). Per questo non gli basta vincere, deve stravincere. Del resto il suo indice di popolarità è saldamente attorno all’80%. E deve mantenerlo a tutti i costi. Forse è proprio ciò che lo ha indotto a usare il pugno di ferro contro pochi dimostranti. Si sa come vanno le cose: se oggi permetti a un migliaio di persone di gridarti contro, domani te ne puoi ritrovare in piazza diecimila, poi centomila e così via. È successo in Ucraina. E quel che più teme Putin è una rivoluzione arancione sulla piazza Rossa.
Se permetti a un migliaio di persone di gridarti contro, domani te ne puoi ritrovare diecimila...


nervo scoperto - La questione tibetana ostacolo con l’Occidente
Avvenire, 27.11.2007
DI LUCA MIELE
Q uanto il Tibet sia un nervo scoperto per la Ci­na lo conferma una serie di recenti “inci­denti”. Il cancelliere Angela Merkel riceve il Dalai Lama e Pechino (infuriata) annulla tut­ti gli incontri diplomatici già in programma con Ber­lino. Peggio è andata con gli Usa. Il Congresso con­segna alla massima autorità spirituale del Tibet, il Da­lai Lama, la Medaglia d’oro, vale a dire la più alta o­norificenza a stelle strisce – con Bush che ci mette del suo, invitando la Cina a concedere piena libertà reli­giosa. Immediata la reazione: si tratta, tuona Pechi­no, di «una sfrontata interferenza» negli affari inter­ni cinesi. Insomma la que­stione Tibet – che si trasci­na dal 1950 quando av­venne l’occupazione – re­sta per Pechino a dir poco urticante.
Sono sempre irose le rea­zioni cinesi di fronte a qualsiasi tentativo di soli­darizzare con la causa ti­betana. E con l’approssi­marsi delle Olimpiadi, quando tutta l’attenzione mediatica si concentrerà su Pechino, cresce anche il nervosismo. La pacifica rivolta birmana, Paese di cui la Cina è l’occulto “tu­tore”, mostra come il bud­dismo, e in ogni caso la ri­vendicazione di una qual­siasi forma di autonomia spirituale, resti un spina nel fianco del regime. La li­bertà religiosa sarebbe una prima, pericolosa, incri­natura del muro (e del metodo) cinese che contrab­banda il vertiginoso sviluppo economico con il ri­spetto dei diritti umani. Ma anche una riprova di co­me il mondo possa “appassionarsi” velocemente ad una causa umanitaria. Pechino, da parte sua, non sembra avere nessuna voglia di allentare la presa sul Tibet, nel cui sottosuolo si nascondono immense ric­chezze. La massiccia immissione di immigrati sta len­tamente cambiando la geografia antropologica del Tibet. La linea ferroviaria che lo collega con diverse grandi città cinesi sta producendo, nelle parole del Da­lai Lama, un vero e proprio «genocidio culturale». Non solo: nella partita a scacchi che il regime sta gio­cando contro il suo nemico numero uno – quel Da­lai Lama che continua a portare la causa tibetana in giro per il mondo – Pechino sta tentando di dare lo scacco matto. Vuole prendersi il diritto di eleggere la prossima guida spirituale del buddismo. Una mossa alla quale lo stesso Dalai Lama ha cercando di reagi­re, ventilando l’ipotesi che si possa arrivare alla desi­gnazione del suo successore mentre lui è ancora in vita. Una rottura di tradizione antichissime, ma an­che un modo per impedire a Pechino di «ipotecare» la scelta. E far scattare la trappola.
Con l’approssimarsi dei Giochi cresce il nervosismo del regime comunista



Omelia del Papa nella Messa con i nuovi Cardinali per la consegna dell’anello
CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 25 novembre 2007 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell’omelia pronunciata da Benedetto XVI questa domenica, solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo, nella Basilica vaticana presiedendo la concelebrazione eucaristica con i 23 nuovi Cardinali creati nel Concistoro di sabato, ai quali ha consegnato l’anello cardinalizio.

* * *


Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
illustri Signori e Signore,
cari fratelli e sorelle!

Quest’anno la solennità di Cristo Re dell’universo, coronamento dell’anno liturgico, è arricchita dall’accoglienza nel Collegio Cardinalizio di 23 nuovi membri, che, secondo la tradizione, ho invitato quest’oggi a concelebrare con me l’Eucaristia. A ciascuno di essi rivolgo il mio saluto cordiale, estendendolo con fraterno affetto a tutti i Cardinali presenti. Sono lieto, poi, di salutare le Delegazioni convenute da diversi Paesi e il Corpo Diplomatico presso la Santa Sede; i numerosi Vescovi e sacerdoti, i religiosi e le religiose e tutti i fedeli, specialmente quelli provenienti dalle Diocesi affidate alla guida pastorale di alcuni dei nuovi Cardinali.

La ricorrenza liturgica di Cristo Re offre alla nostra celebrazione uno sfondo quanto mai significativo, tratteggiato e illuminato dalle Letture bibliche. Ci troviamo come al cospetto di un imponente affresco con tre grandi scene: al centro, la Crocifissione, secondo il racconto dell’evangelista Luca; in un lato l’unzione regale di Davide da parte degli anziani d’Israele; nell’altro, l’inno cristologico con cui san Paolo introduce la Lettera ai Colossesi. Domina l’insieme la figura di Cristo, l’unico Signore, di fronte al quale siamo tutti fratelli. L’intera gerarchia della Chiesa, ogni carisma e ministero, tutto e tutti siamo al servizio della sua signoria.

Dobbiamo partire dall’avvenimento centrale: la Croce. Qui Cristo manifesta la sua singolare regalità. Sul Calvario si confrontano due atteggiamenti opposti. Alcuni personaggi ai piedi della croce, e anche uno dei due ladroni, si rivolgono con disprezzo al Crocifisso: Se tu sei il Cristo, il Re Messia – essi dicono –, salva te stesso scendendo dal patibolo. Gesù, invece, rivela la propria gloria rimanendo lì, sulla croce, come Agnello immolato. Con Lui si schiera inaspettatamente l’altro ladrone, che implicitamente confessa la regalità del giusto innocente ed implora: "Ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno" (Lc 23,42). Commenta san Cirillo di Alessandria: "Lo vedi crocifisso e lo chiami re. Credi che colui che sopporta scherno e sofferenza giungerà alla gloria divina" (Commento a Luca, omelia 153). Secondo l’evangelista Giovanni la gloria divina è già presente, seppure nascosta dallo sfiguramento della croce. Ma anche nel linguaggio di Luca il futuro viene anticipato al presente quando Gesù promette al buon ladrone: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Osserva sant’Ambrogio: "Costui pregava che il Signore si ricordasse di lui, quando fosse giunto nel suo Regno, ma il Signore gli rispose: In verità, in verità ti dico, oggi sarai con me nel Paradiso. La vita è stare con Cristo, perché dove c’è Cristo là c’è il Regno" (Esposizione del Vangelo secondo Luca, 10,121). L’accusa: "Questi è il re dei Giudei", scritta su una tavola inchiodata sopra il capo di Gesù, diventa così la proclamazione della verità. Nota ancora sant’Ambrogio: "Giustamente la scritta sta sopra la croce, perché sebbene il Signore Gesù fosse in croce, tuttavia splendeva dall’alto della croce con una maestà regale" (ivi, 10,113).

La scena della crocifissione, nei quattro Vangeli, costituisce il momento della verità, in cui si squarcia il "velo del tempio" e appare il Santo dei Santi. In Gesù crocifisso avviene la massima rivelazione di Dio possibile in questo mondo, perché Dio è amore, e la morte in croce di Gesù è il più grande atto d’amore di tutta la storia. Ebbene, sull’anello cardinalizio, che tra poco consegnerò ai nuovi membri del sacro Collegio, è raffigurata proprio la crocifissione. Questo, cari Fratelli neo-Cardinali, sarà sempre per voi un invito a ricordare di quale Re siete servitori, su quale trono Egli è stato innalzato e come è stato fedele fino alla fine per vincere il peccato e la morte con la forza della divina misericordia. La madre Chiesa, sposa di Cristo, vi dona questa insegna come memoria del suo Sposo, che l’ha amata e ha consegnato se stesso per lei (cfr Ef 5,25). Così, portando l’anello cardinalizio, voi siete costantemente richiamati a dare la vita per la Chiesa.

Se volgiamo lo sguardo alla scena dell’unzione regale di Davide, presentata dalla prima Lettura, ci colpisce un aspetto importante della regalità, cioè la sua dimensione "corporativa". Gli anziani d’Israele vanno ad Ebron, stringono un patto di alleanza con Davide, dichiarando di considerarsi uniti a lui e di voler formare con lui una cosa sola. Se riferiamo questa figura a Cristo, mi sembra che questa stessa professione di alleanza si presti molto bene ad esser fatta propria da voi, cari Fratelli Cardinali. Anche voi, che formate il "senato" della Chiesa, potete dire a Gesù: "Noi ci consideriamo come tue ossa e tua carne" (2 Sam 5,1). Apparteniamo a Te, e con Te vogliamo formare una cosa sola. Sei Tu il pastore del Popolo di Dio, Tu sei il capo della Chiesa (cfr 2 Sam 5,2). In questa solenne Celebrazione eucaristica vogliamo rinnovare il nostro patto con Te, la nostra amicizia, perché solo in questa relazione intima e profonda con Te, Gesù nostro Re e Signore, assumono senso e valore la dignità che ci è stata conferita e la responsabilità che essa comporta.

Ci resta ora da ammirare la terza parte del "trittico" che la Parola di Dio ci pone dinanzi: l’inno cristologico della Lettera ai Colossesi. Anzitutto, facciamo nostro il sentimento di gioia e di gratitudine da cui esso scaturisce, per il fatto che il regno di Cristo, la "sorte dei santi nella luce", non è qualcosa di solo intravisto da lontano, ma è realtà di cui siamo stati chiamati a far parte, nella quale siamo stati "trasferiti", grazie all’opera redentrice del Figlio di Dio (cfr Col 1,12-14). Quest’azione di grazie apre l’animo di san Paolo alla contemplazione di Cristo e del suo mistero nelle sue due dimensioni principali: la creazione di tutte le cose e la loro riconciliazione. Per il primo aspetto la signoria di Cristo consiste nel fatto che "tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui … e tutte in lui sussistono" (Col 1,16). La seconda dimensione s’incentra sul mistero pasquale: mediante la morte in croce del Figlio, Dio ha riconciliato a sé ogni creatura, ha fatto pace tra cielo e terra; risuscitandolo dai morti lo ha reso primizia della nuova creazione, "pienezza" di ogni realtà e "capo del corpo" mistico che è la Chiesa (cfr Col 1,18-20). Siamo nuovamente dinanzi alla croce, evento centrale del mistero di Cristo. Nella visione paolina la croce è inquadrata all’interno dell’intera economia della salvezza, dove la regalità di Gesù si dispiega in tutta la sua ampiezza cosmica.

Questo testo dell’Apostolo esprime una sintesi di verità e di fede così potente che non possiamo non restarne profondamente ammirati. La Chiesa è depositaria del mistero di Cristo: lo è in tutta umiltà e senza ombra di orgoglio o arroganza, perché si tratta del dono massimo che ha ricevuto senza alcun merito e che è chiamata ad offrire gratuitamente all’umanità di ogni epoca, come orizzonte di significato e di salvezza. Non è una filosofia, non è una gnosi, sebbene comprenda anche la sapienza e la conoscenza. È il mistero di Cristo; è Cristo stesso, Logos incarnato, morto e risorto, costituito Re dell’universo. Come non provare un empito di entusiasmo colmo di gratitudine per essere stati ammessi a contemplare lo splendore di questa rivelazione? Come non sentire al tempo stesso la gioia e la responsabilità di servire questo Re, di testimoniare con la vita e con la parola la sua signoria? Questo è, in modo particolare, il nostro compito, venerati Fratelli Cardinali: annunciare al mondo la verità di Cristo, speranza per ogni uomo e per l’intera famiglia umana. Sulla scia del Concilio Ecumenico Vaticano II, i miei venerati Predecessori, i Servi di Dio Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II, sono stati autentici araldi della regalità di Cristo nel mondo contemporaneo. Ed è per me motivo di consolazione poter contare sempre su di voi, sia collegialmente che singolarmente, per portare a compimento anch’io tale compito fondamentale del ministero petrino.

Strettamente unito a questa missione è un aspetto che vorrei, in conclusione, toccare e affidare alla vostra preghiera: la pace tra tutti i discepoli di Cristo, come segno della pace che Gesù è venuto a instaurare nel mondo. Abbiamo ascoltato nell’inno cristologico la grande notizia: a Dio è piaciuto "rappacificare" l’universo mediante la croce di Cristo (cfr Col 1,20)! Ebbene, la Chiesa è quella porzione di umanità in cui si manifesta già la regalità di Cristo, che ha come manifestazione privilegiata la pace. È la nuova Gerusalemme, ancora imperfetta perché pellegrina nella storia, ma in grado di anticipare, in qualche modo, la Gerusalemme celeste. Qui possiamo, infine, riferirci al testo del Salmo responsoriale, il 121: appartiene ai cosiddetti "canti delle ascensioni" ed è l’inno di gioia dei pellegrini che, giunti alle porte della città santa, le rivolgono il saluto di pace: shalom! Secondo un’etimologia popolare Gerusalemme veniva interpretata proprio come "città della pace", quella pace che il Messia, figlio di Davide, avrebbe instaurato nella pienezza dei tempi. In Gerusalemme noi riconosciamo la figura della Chiesa, sacramento di Cristo e del suo Regno.

Cari Fratelli Cardinali, questo Salmo esprime bene l’ardente canto d’amore per la Chiesa che voi certamente portate nel cuore. Avete dedicato la vostra vita al servizio della Chiesa, ed ora siete chiamati ad assumere in essa un compito di più alta responsabilità. Trovino in voi piena adesione le parole del Salmo: "Domandate pace per Gerusalemme"! (v. 6). La preghiera per la pace e l’unità costituisca la vostra prima e principale missione, affinché la Chiesa sia "salda e compatta" (v. 3), segno e strumento di unità per tutto il genere umano (cfr Lumen gentium, 1). Pongo, anzi, tutti insieme poniamo questa vostra missione sotto la vigile protezione della Madre della Chiesa, Maria Santissima. A Lei, unita al Figlio sul Calvario e assunta come Regina alla sua destra nella gloria, affidiamo i nuovi Porporati, il Collegio Cardinalizio e l’intera Comunità cattolica, impegnata a seminare nei solchi della storia il Regno di Cristo, Signore della vita e Principe della pace.


DIFESA DELLA VITA

In meno di due giorni, in una decina di città da Nord a Sud, in tantissimi hanno sottoscritto la richiesta per lo stop alla ricerca
Sos embrioni, migliaia di firme per la moratoria
DA ROMA GIANNI SANTAMARIA
Avvenire, 27.11.2007
S i muove il popolo della moratoria. Spiega, convince, fa sottoscrivere l’appello lanciato da Avvenire al Governo italia­no perché si adoperi a far sospendere in Eu­ropa, nei prossimi cinque anni, l’uso per la ricerca degli embrioni, alla luce delle recen­ti scoperte americane e giapponesi.
Intensifica la sua attività l’associazione Scien­za & Vita e scende in campo anche il Movi­mento cristiano lavoratori (Mcl). L’appello «ci trova ampiamente con­vinti e partecipi», ha dichiara­to ieri il presidente nazionale Carlo Costalli. Il movimento «parteciperà con grande pas­sione, e lo farà anche contro le grandi campagne mediatiche che mirano a zittire coloro – i cattolici – che si battono con­tro una ricerca che utilizzi cel­lule staminali ottenute di­struggendo embrioni umani o creando mostruosità in la­boratorio ». Un’opera dal bas­so che già ha contagiato Scienza & Vita. Il sodalizio, nato in difesa del­la legge 40 dal referendum del giugno 2005, nel week end appena trascorso ha iniziato a raccogliere adesioni alla moratoria, grazie al­la mobilitazione di alcuni comitati locali. Al­l’impegno di Moncalieri, di cui abbiamo già dato conto domenica, si sono aggiunti quel­li di Macerata, Lamezia Terme, Brescia, Al­benga, Arezzo e Pesaro Urbino. In totale, compresi messaggi di sostegno giunti diret­tamente al centro nazionale di Roma, si so­no registrati in sole 48 ore – e grazie al lavo­ro di una piccola parte degli 84 gruppi loca­li – oltre 1.500 «sì». Un numero che cresceva ancora ieri, giornata in cui è arrivata anche l’adesione di Scienza & Vita Crotone, che si mobiliterà a breve.
Diverse le modalità di raccolta, unica la sod­disfazione per la risposta. A Lamezia Terme sono stati organizzati banchetti in strada, so­prattutto domenica all’uscita dalle Messe. Nelle Marche è stato organizzato un tam tam negli ambienti di lavoro degli aderenti. A Bre­scia si è approfittato di un incontro pubbli- co già in cantiere per sabato sera. A Macera­ta, dove le adesioni hanno superato quota 400, «non abbiamo neanche dovuto faticare troppo», commenta sorridente il medico Gio­vanni Borroni, presidente locale. Le risposte sono arrivate da professionisti e casalinghe. «Molti non erano proprio a conoscenza del­la questione. L’opinione pubblica ne è all’o­scuro, per colpa dei media laicisti», lamenta Borroni. Allo stesso tempo, però, nota che «la sensibilità sul tema è cresciuta, grazie anche alla capacità da parte dei cattolici di dare spiegazioni convincenti. C’è stato un vero balzo in avanti rispetto al passato». Nel capo­luogo lombardo la presidente di Scienza & Vita, la biologa e ricercatrice Ornella Parolini, ha avuto ampio modo di spie­gare all’uditorio le recenti ac­quisizioni della scienza e l’i­nutilità dell’insistenza sulle embrionali. «Le persone che erano presenti, anche se si può presumere fossero già o­rientate alla difesa della vita, hanno voluto sapere prima di firmare l’adesione alla moratoria, che gli ab­biamo prima illustrato». Sostegno convinto e motivato, dunque, non certo dato con leg­gerezza. Domenica e ieri il numero degli a­derenti è lievitato a 260. In terra calabrese, invece, hanno aderito in 364. «Un frutto del lavoro di sensibilizzazione sui temi bioetici, che abbiamo continuato dopo il referen­dum », spiega il presidente, avvocato Vin­cenzo Massara. Un terreno arato che, però, non ha evitato di dover motivare la richiesta. «Molti hanno aderito perché convinti che non bisogna solo partecipare a convegni, informarsi, proclamare valori, ma anche at­tivarsi per incidere fortemente sulle scelte». Della stessa opinione Costalli, che chiama forze politiche, sociali e Governo a lavorare in Europa «per il riconoscimento dei diritti del concepito, il divieto di manipolazioni ge­netiche e il sostegno economico alla ricerca sulle staminali 'adulte'». In coerenza con i principi della legge 40, «condivisi dalla gran­de maggioranza degli italiani». Una maggio­ranza sempre meno silenziosa.
In campo con Scienza & Vita anche Mcl Il presidente Costalli: «Un appello che ci trova convinti e partecipi»


Banco Alimentare, raccolte 8.800 tonnellate di cibo

Avvenire, 27.11.2007
DA MILANO
GIUSEPPE MATARAZZO
Oltre 8mila e 800 tonnellate di prodotti alimentari raccolti, per un valore di 27 milioni di euro. Questi i numeri dell’undicesima Giornata della colletta alimentare che si è svolta sabato scorso in tutta Italia. Un successo di numeri. Ma soprattutto di solidarietà e im­pegno. La solidarietà di milio­ni di italiani che con un gesto semplice, concreto, immedia­to hanno donato un 'pezzo' della loro spesa per chi è in dif­ficoltà. L’impegno di 100mila volontari con la casacca gial­la, che in 6.800 supermercati, ipermercati e centri commer­ciali di tutto il territorio nazio­nale, hanno invitato le perso­ne a dare qualcosa per i pove­ri (il 13% della popolazione i­taliana, secondo i dati Istat): alimenti non deperibili come olio, omogeneizzati e biscotti per l’infanzia, tonno, carne, pelati e legumi in scatola. Fra le 'casacche gialle ' della soli­darietà anche volti noti dello sport e dello spettacolo come Paolo Brosio, Marcello Lippi e Giancarlo Fisichella.
Un risultato, quello di que­st’anno, molto positivo: rac­colte 400 tonnellate di ali­menti in più rispetto al 2006 (il 5%). Soddisfatti, dunque, i responsabili della Fondazio­ne Banco Alimentare Onlus e della Federazione dell’impre­sa sociale Compagnia delle O­pere che hanno promosso l’i­niziativa. «È la carità che oltre a cambiare la vita cambia an­che le previsioni – commenta Marco Lucchini, direttore ge­nerale della Fondazione Ban­co Alimentare Onlus –: oltre 8.800 tonnellate di generi ali­mentari donati in una sola giornata da oltre 6 milioni di cittadini è un grande motivo di soddisfazione. Il popolo ita­liano, anche in momenti dif­ficili e di sacrifici come quello attuale, è ancora capace di guardare e ascoltare chi pro­pone esempi di speranza, ren­dendosi così vivace protago­nista ». Saranno più di 1.360.000 gli in­digenti che riceveranno gli a­limenti raccolti attraverso gli oltre 8100 enti convenzionati con la rete del Banco Alimen­tare: mense per i poveri, co­munità per minori, banchi di solidarietà e centri d’acco­glienza. «L’attività prevalente del Banco Alimentare – preci­sa Lucchini – non è la colletta, che ne costituisce il momen­to pubblico. Ogni anno rac­cogliamo, dalle eccedenze a­limentari, prodotti che non sono più vendibili, per vari motivi, ma che sono commestibili.
Lo scorso anno abbia­mo raccolto dal mondo agri­colo, dall’industria e dalla ri­storazione 65 mila tonnellate di alimenti di cui quelli prove­nienti dalla giornata della col­letta alimentare costituiscono solo il 12%».
Il Banco Alimentare è nato in Italia nel 1989 dall’incontro tra Danilo Fossati, patron della Star, e monsignor Luigi Gius­sani fondatore di Comunione e Liberazione. Allora si raccol­sero 500 tonnellate distribui­te tra una cinquantina di as­sociazioni. Un’iniziativa dun­que cresciuta nel tempo, che mette al centro la «condivi­sione dei bisogni per condivi­dere il senso della vita».
Successo per l’iniziativa in 6800 supermercati: 5% in più del 2006 Lucchini: «Italiani capaci di ascoltare chi propone esempi di speranza»


Giù le mani dai Re magi!
DI FRANCO CARDINI
Avvenire, 27.11.2007
Rieccoci al tormentone natalizio. Sia ricerca dello scoop sensazionalistico, sia nuovo sussulto del diavoletto agnostico-laicista, tutti gli anni la buona vecchia tradizione cristiana viene insidiata da 'sensazionali' scoperte che la minerebbero alle radici: e che poi si rivelano, sistematicamente, o scoperte dell’acqua calda o vere e proprie bufale. È quest’anno di scena un articolo della rivista Focus-Storia, che chiama in causa due illustri studiosi, Mauro Pesce (studioso di storia del cristianesimo che dovrebb’essere noto anche al grande pubblico per ben altri meriti che non quello di aver cofirmato un libro con Corrado Augias) e Francesco Scorza Barcellona, raffinatissimo conoscitore della problematica degli apocrifi evangelici. Sostiene quindi la rivista divulgativa diretta da Sandro Boeri che i 're' magi, noti dal racconto evangelico di Matteo, 2, 1-2, non sarebbero forse mai esistiti: l’evangelista Matteo è l’unico dei quattro testi 'canonici' a parlarne; il contesto del racconto di Matteo sembrerebbe indicare piuttosto un «artificio letterario­propagandistico », un messaggio lanciato ai non-ebrei (i quali potevano essere attratti dal fatto che il tanto atteso Messia si fosse rivelato a degli astrologi-sacerdoti pagani prima e piuttosto che non agli ebrei stessi) e al tempo stesso sforzarsi di far quadrare la notizia dell’avvenuta nascita del Messia con le profezie dei tributi che gli sarebbero stati recati 'dall’Arabia' (e si vedano Salmi, 72/71, 10-11, 15 e Isaia, 60, 6). Da dove derivano quindi, conclude lo scoop, tutti i dettagli e le cianfrusaglie della tradizione: che i magi fossero 're', che fossero tre, che avessero dei nomi precisi, che viaggiassero in carovana eccetera? La risposta – e qui gli studi di Scorza Barcellona sono fondamentali – è evidente: dai tardivi, fantasiosi vangeli apocrifi (cioè di dubbia tradizione e, per la Chiesa, di non accertata ispirazione divina), che la tradizione cristiana, tanto latina quanto greca e orientale, ha sempre tenuto a debita distanza e che sono sovente frutto di elaborazione ereticale (soprattutto monofisita e nestoriana). Anche la povera cara stella cometa riceve la sua porzione di mazzate: non se ne parla nemmeno; il corpo celeste che per brillantezza ha la maggior probabilità di sostenere quella parte è la cometa di Halley, che però apparve nell’87 e poi nel 12 a.C. per tornar visibile solo nel 66 d.C.
Insomma, se Focus-Storia avesse ragione, sarebbe una bella batosta per noialtri cristianucci che ci apprestiamo a fare il presepio. Ma allegri: niente paura. Siamo solo a metà strada tra la scoperta dell’acqua calda e la bufala assoluta. Anzitutto, che i magi di Matteo non fossero re, che non fossero tre, che non avessero nomi precisi eccetera, lo sapevamo da tempo. Si tratta di tradizioni stratificatesi grosso modo tra VIII e XII secolo d.C. Il fatto è che i vangeli apocrifi, emarginati dalla tradizione ecclesiale, erano noti e molto diffusi, anche a livello di racconto orale. La maggior parte delle nostre conoscenze tradizionali sui Magi deriva da due fonti: la
translatio delle loro supposte reliquie da Milano a Colonia, voluta da Federico Barbarossa nel 1164, e il testo del domenicano Giacomo da Varazze, vescovo di Genova alla fine del Duecento e autore di quel meraviglioso zibaldone agiografico ch’è la Leggenda aurea. Da queste due fonti primarie dipende la tradizione popolare occidentale, radicatasi dal Cinquecento per il tramite iberico anche in America latina, e alla quale è auspicabile si resti tutti affettuosamente fedeli: salvo poi la doverosa distinzione, all’interno di essa, di quel ch’è storicamente e filologicamente verificabile da quel ch’è invece leggenda. E veniamo alla cometa.
Nessuno scrive che fosse tale: né Matteo, né gli apocrifi. I magi di Matteo vengono ap’anatoloù, nel testo greco: ed è lì che hanno visto la 'stella', un corpo che almeno apparentemente si muove ma che non ha code di sorta. Fu poi Giotto, impressionato dalla cometa di Halley da lui vista nel 1301, che se ne ricordò allorché, fra 1305 e 1310, l’affrescò nella Cappella degli Scrovegni a Padova.
Da allora, quella che nella Bibbia vulgata era semplicemente « stella Eius in oriente » venne abitualmente raffigurata come una cometa. Prima, sarebbe stato impossibile: tra l’altro, secondo la tradizione astronomico­astrologica già ellenistica e poi medievale, la cometa annunziava sì mutamenti, ma in genere di segno negativo. Però, fenomeni celesti verificatisi esattamente negli anni della supposta nascita effettiva di Gesù, vale a dire tra il 7 e il 4 a.C. circa, ce ne furono parecchi. Lo stesso Keplero segnalò che nel 7 a.C i due pianeti Giove e Saturno si congiunsero per tre volte consecutive, causando un effetto ottico di straordinaria brillantezza; nel febbraio del 6 a.C.
si registrano le congiunzioni di Giove con la Luna e di Marte con Saturno nella costellazione dei Pesci. Gli astronomi cinesi segnalarono nel 5 a.C. un fenomeno astrale di grande lucentezza nelle costellazioni dell’aquila e del Capricorno: esso rimase visibile una settantina di giorni. Si trattava di una nova, una specie di esplosione nucleare causata dall’accumulo d’idrogeno che produce un 'lampo' di breve durata, poi visibile magari molti anni luce dopo l’esplosione effettiva. Oggi, gli astronomi parlano di nove o addirittura di supernove. Se i magi, assistendo da qualche parte della Persia al fenomeno registrato in Cina nel febbraio-marzo del 5 d.C., mossero più o meno allora verso occidente seguendone il corso apparente, dovettero arrivare in Giudea verso la fine della primavera. Ciò entra in conflitto con la data tradizionale della nascita del Cristo (il 6 gennaio per le Chiesa orientali, il 25 dicembre per quella romana).
Ma sappiamo bene che le due date tradizionali del natale sono state ricavate, rispettivamente, da un’antica festa isiaca delle acque (da qui la liturgia dell’Epifania) e da una festa solare dell’Urbe. In realtà, visto che all’atto della nascita c’erano attorno a Betlemme (quindi a circa ottocento metri sul livello del mare) dei pastori, i quali secondo le tradizioni della transumanza si trasferiscono in alto durante i mesi caldi, si direbbe più probabile che Gesù sia nato appunto tra la primavera e l’autunno piuttosto che non in inverno, quando nell’Alta Giudea fa freddo. Resta la tesi della citazione dei magi, in Matteo, per 'gettare' in qualche modo un ponte ai gentili. Un’idea audace, tanto che gli altri evangelisti canonici non l’hanno raccolta. Matteo è l’unico a parlarne: e lo fa, dobbiamo sottolinearlo, soprattutto in un contesto preciso, quello stesso che gli ha imposto di cominciare il suo testo con la declinazione genealogica di Gesù, quindi con la prova della sua discendenza dal re David e della Sua legittimità, pertanto, come Rex Iudaeorum secondo il testo di Michea, 5, 1-3.
Infine, un appunto va pur fatto a tutto l’impianto del discorso sostenuto da Focus-Storia. I magi non sono personaggi di fantasia. È vero che in tutto l’Oriente, al tempo di Gesù, si chiamavano correntemente magoi gli astrologhi girovaghi, i ciarlatani, insomma i 'magi randagi' a dirla col film di Sergio Citti del 1996. Ma i magi veri c’erano, eccome: erano gli astrologi-sacerdoti d’origine meda, custodi dell’antica sapienza della religione mazdea riformata nel VI secolo a.C. da Zarathustra.
Una religione ancora viva tra l’Iran e l’India attuali, e che la rivoluzione islamica khomeinista ha rispettato, trattando i mazdei come ahl al-Kitab, 'popolo del Libro' detentore della Rivelazione divina affidata al testo dell’Avesta.
È nella loro tradizione che si parla del Saosihans, del 'Soccorritore' nato da una Vergine, annunziato da una stella lucente e destinato a salvare il mondo. Matteo però, povero pubblicano galileo, dei magi mazdei non doveva saper un bel niente o quasi: com’è che con tanto sostanziale esattezza ha mostrato reminiscenze di tradizioni che noi conosciamo soltanto dall’Avesta, giuntoci peraltro attraverso redazioni tardive e non anteriori comunque al III secolo d.C.?
Il Vangelo di Matteo non inventa nulla.
La tradizione fu poi rielaborata in età medievale, dopo la «translatio» delle reliquie da Milano a Colonia e con la «Legenda aurea» Le figure dei «magi» sono davvero esistite: erano gli astrologhi sacerdoti del culto zoroastriano, religione ancor oggi viva tra l’Iran e l’India.
Anche la stella cometa finisce nel mirino