giovedì 22 novembre 2007

Nella rassegna stampa di oggi:


1) La preghiera è avere Cristo nel cuore, spiega il Papa, presentando l’insegnamento del Vescovo Afraate il Saggio – il discorso del Papa all’udienza generale di mercoledì 21.11.2007
2) Sintesi della Conferenza sul tema “Pastorale nella cura dei malati anziani” Organizzata dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute
3) Ieri, su staminali riprogrammate – La scoperta? Notizia fuori linea
4) L’indignazione passa presto Per ora vincono le pietre preziose
5) È morto a Fatima il vescovo Zaccheo
6) Casale piange il suo pastore: «Maestro e amico»
7) Embrione: “Non è tutto già scritto. Perciò non va manipolato”
8) Stato vegetativo: Anche se minima, è coscienza
9) Coma profondo - Eppur qualcosa si muove
10) Il Dottor Zivago letto dal gulag
11) Il nuovo ateismo è a senso unico
12) Sorpresa, il papà del sessantotto era una spia al soldo della Cia
13) Il secolo non può essere secolarista - Francis George, Il Foglio





La preghiera è avere Cristo nel cuore, spiega il Papa
Presentando l’insegnamento del Vescovo Afraate il Saggio
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 21 novembre 2007 (ZENIT.org).- La preghiera, per il cristiano, si realizza quando Cristo abita nel suo cuore, afferma Benedetto XVI.
E’ la conclusione alla quale è giunto questo mercoledì durante l’udienza generale in cui ha presentato gli insegnamenti di Afraate il Saggio, Vescovo vissuto nell’attuale Iraq, definito dal Papa “uno dei personaggi più importanti e allo stesso tempo più enigmatici del cristianesimo siriaco del IV secolo”.
“Secondo questo antico ‘Saggio’, la preghiera si realizza quando Cristo abita nel cuore del cristiano, e lo invita a un impegno coerente di carità verso il prossimo”, ha spiegato davanti ai 15.000 pellegrini riuniti in piazza San Pietro in Vaticano.
Citando il Vescovo iracheno, il Papa ha spiegato che “la preghiera è accetta quando dà sollievo al prossimo. La preghiera è ascoltata quando in essa si trova anche il perdono delle offese. La preghiera è forte quando è piena della forza di Dio”:.
“Con queste parole Afraate ci invita a una preghiera che diventa vita cristiana, vita realizzata, vita penetrata dalla fede, dall’apertura a Dio e, così, dall'amore per il prossimo”, ha aggiunto il Santo Padre.
Fedele alla tradizione siriaca, Afraate il Saggio spesso presenta la salvezza operata da Cristo come una guarigione e, quindi, “Cristo stesso come medico”.
“Il peccato, invece, è visto come una ferita, che solo la penitenza può risanare: ‘Un uomo che è stato ferito in battaglia, dice Afraate, non ha vergogna di mettersi nelle mani di un saggio medico…; allo stesso modo, chi è stato ferito da Satana non deve vergognarsi di riconoscere la sua colpa e di allontanarsi da essa, domandando la medicina della penitenza’”, ha spiegato il successore di Pietro.
Per il Papa come per Afraate, Cristo è “maestro di preghiera”.
Con il suo intervento, il Santo Padre ha continuato la serie di meditazioni sui grandi personaggi della Chiesa delle origini.



CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 21 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il discorso pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell'Udienza generale in piazza San Pietro, dove ha incontrato i pellegrini e i fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nella sua riflessione, continuando il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura di Afraate il Saggio persiano.



* * *
Cari fratelli e sorelle,
nella nostra escursione nel mondo dei Padri della Chiesa, vorrei oggi guidarvi in una parte poco conosciuta di questo universo della fede, cioè nei territori in cui sono fiorite le Chiese di lingua semitica, non ancora influenzate dal pensiero greco. Queste Chiese, lungo il IV secolo, si sviluppano nel vicino Oriente, dalla Terra Santa al Libano e alla Mesopotamia. In quel secolo, che è un periodo di formazione a livello ecclesiale e letterario, tali comunità conoscono l’affermarsi del fenomeno ascetico-monastico con caratteristiche autoctone, che non subiscono l’influsso del monachesimo egiziano. Le comunità siriache del IV secolo rappresentano quindi il mondo semitico da cui è uscita la Bibbia stessa, e sono espressione di un cristianesimo la cui formulazione teologica non è ancora entrata in contatto con correnti culturali diverse, ma vive in forme proprie di pensiero. Sono Chiese in cui l’ascetismo sotto varie forme eremitiche (eremiti nel deserto, nelle caverne, reclusi, stiliti), e il monachesimo sotto forme di vita comunitaria, esercitano un ruolo di vitale importanza nello sviluppo del pensiero teologico e spirituale.
Vorrei presentare questo mondo attraverso la grande figura di Afraate, conosciuto anche col soprannome di "Saggio", uno dei personaggi più importanti e allo stesso tempo più enigmatici del cristianesimo siriaco del IV secolo.
Originario della regione di Ninive-Mossul, oggi in Iraq, visse nella prima metà del IV secolo. Abbiamo poche notizie sulla sua vita; intrattenne comunque rapporti stretti con gli ambienti ascetico-monastici della Chiesa siriaca, di cui ci ha conservato notizie nella sua opera e a cui dedica parte della sua riflessione. Secondo alcune fonti fu anzi a capo di un monastero, e infine fu anche consacrato Vescovo. Scrisse 23 discorsi conosciuti con il nome di Esposizioni o Dimostrazioni, in cui tratta diversi temi di vita cristiana, come la fede, l’amore, il digiuno, l’umiltà, la preghiera, la stessa vita ascetica, e anche il rapporto tra giudaismo e cristianesimo, tra Antico e Nuovo Testamento. Scrive in uno stile semplice, con delle frasi brevi e con parallelismi a volte contrastanti; riesce tuttavia a tessere un discorso coerente con uno sviluppo ben articolato dei vari argomenti che affronta.
Afraate era originario di una comunità ecclesiale che si trovava alla frontiera tra il giudaismo ed il cristianesimo. Era una comunità molto legata alla Chiesa-madre di Gerusalemme, e i suoi Vescovi venivano scelti tradizionalmente fra i cosiddetti "familiari" di Giacomo, il "fratello del Signore" (cfr Mc 6,3): erano cioè persone collegate per sangue e per fede alla Chiesa gerosolimitana. La lingua di Afraate è quella siriaca, una lingua quindi semitica come l’ebraico dell’Antico Testamento e come l’aramaico parlato dallo stesso Gesù. La comunità ecclesiale in cui si trovò a vivere Afraate era una comunità che cercava di restare fedele alla tradizione giudeo-cristiana, di cui si sentiva figlia. Essa manteneva perciò uno stretto rapporto con il mondo ebraico e con i suoi Libri sacri. Significativamente Afraate si definisce "discepolo della Sacra Scrittura" dell’Antico e del Nuovo Testamento (Esposizione 22,26), che considera sua unica fonte di ispirazione, ricorrendovi in modo così abbondante da farne il centro della sua riflessione.
Diversi sono gli argomenti che Afraate sviluppa nelle sue Esposizioni. Fedele alla tradizione siriaca, spesso presenta la salvezza operata da Cristo come una guarigione e, quindi, Cristo stesso come medico. Il peccato, invece, è visto come una ferita, che solo la penitenza può risanare: "Un uomo che è stato ferito in battaglia, dice Afraate, non ha vergogna di mettersi nelle mani di un saggio medico…; allo stesso modo, chi è stato ferito da Satana non deve vergognarsi di riconoscere la sua colpa e di allontanarsi da essa, domandando la medicina della penitenza" (Esposizione 7,3). Un altro aspetto importante nell’opera di Afraate è il suo insegnamento sulla preghiera, e in modo speciale su Cristo come maestro di preghiera. Il cristiano prega seguendo l’insegnamento di Gesù e il suo esempio di orante: "Il nostro Salvatore ha insegnato a pregare così, dicendo: «Prega nel segreto Colui che è nascosto, ma che vede tutto»; e ancora: «Entra nella tua camera e prega il tuo Padre nel segreto, e il Padre che vede nel segreto ti ricompenserà» (Mt 6,6)… Quello che il nostro Salvatore vuol mostrare è che Dio conosce i desideri e i pensieri del cuore" (Esposizione 4,10).
Per Afraate la vita cristiana è incentrata nell’imitazione Cristo, nel prendere il suo giogo e nel seguirlo sulla via del Vangelo. Una delle virtù che più conviene al discepolo di Cristo è l’umiltà. Essa non è un aspetto secondario nella vita spirituale del cristiano: la natura dell’uomo è umile, ed è Dio che la esalta alla sua stessa gloria. L’umiltà, osserva Afraate, non è un valore negativo: "Se la radice dell’uomo è piantata nella terra, i suoi frutti salgono davanti al Signore della grandezza" (Esposizione 9,14). Restando umile, anche nella realtà terrena in cui vive, il cristiano può entrare in relazione col Signore: "L’umile è umile, ma il suo cuore si innalza ad altezze eccelse. Gli occhi del suo volto osservano la terra e gli occhi della mente l’altezza eccelsa" (Esposizione 9,2).
La visione che Afraate ha dell’uomo e della sua realtà corporale è molto positiva: il corpo umano, sull’esempio di Cristo umile, è chiamato alla bellezza, alla gioia, alla luce: "Dio si avvicina all’uomo che ama, ed è giusto amare l’umiltà e restare nella condizione di umiltà. Gli umili sono semplici, pazienti, amati, integri, retti, esperti nel bene, prudenti, sereni, sapienti, quieti, pacifici, misericordiosi, pronti a convertirsi, benevoli, profondi, ponderati, belli e desiderabili" (Esposizione 9,14). Spesso in Afraate la vita cristiana viene presentata in una chiara dimensione ascetica e spirituale: la fede ne è la base, il fondamento; essa fa dell’uomo un tempio dove Cristo stesso abita. La fede quindi rende possibile una carità sincera, che si esprime nell’amore verso Dio e verso il prossimo. Un altro aspetto importante in Afraate è il digiuno, che è da lui inteso in senso ampio. Egli parla del digiuno dal cibo come di pratica necessaria per essere caritatevole e vergine, del digiuno costituito dalla continenza in vista della santità, del digiuno dalle parole vane o detestabili, del digiuno dalla collera, del digiuno dalla proprietà di beni in vista del ministero, del digiuno dal sonno per attendere alla preghiera.
Cari fratelli e sorelle, ritorniamo ancora – per concludere – all’insegnamento di Afraate sulla preghiera. Secondo questo antico "Saggio", la preghiera si realizza quando Cristo abita nel cuore del cristiano, e lo invita a un impegno coerente di carità verso il prossimo. Scrive infatti:
"Da’ sollievo agli affranti, visita i malati,
sii sollecito verso i poveri: questa è la preghiera.
La preghiera è buona, e le sue opere sono belle.
La preghiera è accetta quando dà sollievo al prossimo.
La preghiera è ascoltata
quando in essa si trova anche il perdono delle offese.
La preghiera è forte
quando è piena della forza di Dio" (Esposizione 4,14-16).
Con queste parole Afraate ci invita a una preghiera che diventa vita cristiana, vita realizzata, vita penetrata dalla fede, dall’apertura a Dio e, così, dall'amore per il prossimo.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli di Avetrana, accompagnati da Mons. Michele Castoro, Vescovo di Oria ed auguro loro di attingere dalla preghiera nuovo slancio apostolico, per una sempre più incisiva testimonianza cristiana. Saluto i rappresentanti dell’Istituto Gesù–Maria e i fedeli della parrocchia del Preziosissimo Sangue in Roma, che ricordano significative ricorrenze, e li esorto a vivere con rinnovato slancio il comandamento dell’amore evangelico. Saluto le partecipanti al Capitolo Generale delle Suore Missionarie di San Carlo Borromeo–Scalabriniane, e prego perché siano generose dispensatrici di speranza, di solidarietà e di comunione. Saluto gli esponenti della Comunità Radio Mater di Erba ed esprimo apprezzamento per il servizio ecclesiale che svolgono diffondendo la devozione verso la Vergine Santa. Il mio pensiero va ora a quanti partecipano al Congresso internazionale del Cerimoniale di Stato, al Convegno nazionale del Notariato e all’Associazione nazionale Carabinieri della Provincia di Viterbo. Tutti ringrazio per la presenza, invocando su ciascuno copiose grazie celesti per un fecondo impegno a servizio del prossimo.
Saluto infine i giovani, i malati e gli sposi novelli. Domenica prossima, ultima del tempo ordinario, celebreremo la solennità di Cristo, re dell’Universo. Cari giovani, ponete Gesù al centro della vostra vita. Cristo, che ha fatto della Croce un trono regale, insegni a voi, cari malati, a comprendere il valore redentivo della sofferenza vissuta in unione a Lui. Invito voi, cari sposi novelli, a porre Gesù al centro del vostro cammino matrimoniale.

[APPELLO DEL SANTO PADRE:]
Giungono dolorose notizie circa la precaria situazione umanitaria della Somalia, specialmente a Mogadiscio, sempre più afflitta dall’insicurezza sociale e dalla povertà. Seguo con trepidazione l’evolversi degli eventi e faccio appello a quanti hanno responsabilità politiche, a livello locale e internazionale, affinché si trovino soluzioni pacifiche e si rechi sollievo a quella cara popolazione. Incoraggio, altresì, gli sforzi di quanti, pur nell’insicurezza e nel disagio, rimangono in quella regione per portare aiuto e sollievo agli abitanti.



Sintesi della Conferenza sul tema “Pastorale nella cura dei malati anziani”Organizzata dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 21 novembre 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la sintesi della XXII Conferenza Internazionale, organizzata dal Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari (per la Pastorale della Salute), tenutasi in Vaticano dal 15 al 17 novembre 2007 sul tema: “Pastorale nella cura dei malati anziani”.
* * *
SINTESI DELLA XXII CONFERENZA INTERNAZIONALE
DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER GLI OPERATORI SANITARI (PER LA PASTORALE DELLA SALUTE) CIRCA
LA PASTORALE NELLA CURA DEI MALATI ANZIANI
La nostra XXII Conferenza internazionale è stata impostata su una cornice pastorale, pertanto l’Intervento preliminare ha evidenziato l’Eucaristia, intesa come Viatico, come la cura pastorale più importante dei malati anziani.
Abbiamo avuto 40 interventi di grande ricchezza; ciò che qui di seguito esporremo sono solo i punti salienti di queste conferenze, senza pretendere di fare propriamente la sintesi di ognuna. Gli interventi di tutti i Relatori saranno pubblicati integralmente.
I tre punti di tutta la Conferenza sono stati: Realtà, Luce, Azione
I. Realtà
Per iniziare con la realtà, abbiamo accennato alla storia della cura pastorale verso le persone malate anziane attraverso i secoli. Quindi abbiamo recensito la realtà demografica attuale e le principali malattie che affliggono i malati anziani in questa epoca di globalizzazione. In seguito ci siamo interrogati sulle origini di questi flagelli a vari livelli, cioè: personale, tecnologico scientifico, politico-sociale ed ecologico. Come punti emergenti abbiamo notato l’incremento del numero di anziani nel mondo; perciò, il prolungamento della vita è una grazia, ma anche un problema speciale. Si è sottolineata la necessità di un nuovo stile di vita, di una dieta adeguata, della funzione dell’idratazione dell’anziano e di essere sempre in “movimento”. D’altra parte, abbiamo constatato lo sviluppo delle scienze geriatriche, anche non del tutto sufficienti e la necessità di cambiare le politiche sanitarie, ecologiche, anche riguardo le abitazioni.
II. Luce
Nella luce che ci offre la Parola di Dio abbiamo sottolineato il posto speciale che nell’Antico Testamento viene riservato alle “canizie”, che sono l’espressione del rispetto dovuto alle persone anziane, come indicato anche nel quarto comandamento di Dio; le canizie, come le malattie, ci portano ad aspettare il tempo della misericordia e della clemenza di Dio. Il culmine lo abbiamo raggiunto nel considerare l’azione di Cristo di guarire i malati come un anticipo del Regno di Dio, cioè della risurrezione. I Padri della Chiesa han­no proseguito quest’azione attraverso i primi secoli del Cristianesimo. Quanto detto si capisce solamente da una fede e da una carità che si fondano completamente nella morte e risurrezione di Cristo. Così hanno vissuto innumerevoli santi, canonizzati o ignoti, che nel corso della storia, si sono dedicati alla pastorale degli anziani ammalati ed hanno pervaso la storia di questa pastorale.
La virtù della speranza porta con sè tanto la fede come la carità; esse rafforzano la praticità della pastorale dei malati anziani, fortificando la loro autonomia, come requisito indispensabile per parlare della loro responsabilità.
La posizione cattolica si è arricchita mediante una rapida visione dell’atteggiamento di alcune grandi Religioni sui malati anziani. Nella Religione e­braica l’atteggiamento versi i malati anziani si ispira alla visione biblica del Vecchio Testamento. Nella Religione dell’Islam ha un ruolo importante, nella considerazione dei malati anziani, l’attesa della misericordia e clemenza di Dio. Nella Religione Indù il rapporto con la natura influisce sulla tensione verso i malati anziani. Nella Religione buddista la serenità davanti alle malattie influisce anche sulle considerazioni fatte sui malati anziani. Abbiamo riflettuto sulla cultura o “anticultura” della postmodernità, che, in contrasto con tutte le Religioni, è la cultura prevalente oggi in Occidente ed in tante altre parti del mondo.
III. Azione
Tutto questo messaggio deve essere insegnato con la catechesi e l’e­ducazione cattolica, e deve essere ripreso nella spiegazione dei sa­cramenti per questi malati. Si devono prendere in considerazione le risorse psicologiche nel trattamento degli anziani malati, ma non si devono considerare mai come sostitutive dei sacramenti.
Constatiamo che alcune industrie farmaceutiche stanno lavorando fortemente per produrre farmaci pertinenti per i malati anziani nell’ambito della ricerca biomedica. Si stanno instaurando in molti Stati istituzioni adeguate per la loro cura. I contributi a sfondo socio-politico hanno affrontato il tema dei mezzi di comunicazione sociale ed il loro impatto sulla vita delle persone anziane malate, nonché il complesso tema dei sistemi legislativi nazionali ed internazionali su fenomeni con forte impatto demografico e socio-sanitario come le migrazioni; sulle risorse economiche e tecnologiche disponibili. Si deve privilegiare la famiglia come luogo naturale per l’invecchiamento.
Nelle diocesi e nelle parrocchie si devono assistere questi malati, tra i quali i sacerdoti, i Religiosi, le Religiose. Constatiamo che molte Congregazioni, a continuazione dell’azione compassionevole di Cristo, si dedicano a questo scopo con circa 5000 Centri ad hoc. Nell’attenzione ai sacerdoti ed ai religiosi anziani malati dobbiamo curare, come ha fatto Cristo, anche gli aspetti minimi ed ordinari, specialmente quando queste persone hanno perso la loro indipendenza e si sentono soli, ricordando in ogni caso che si è sacerdote per sempre. Pertanto si dovranno cercare lavori più adeguati ai loro diversi impegni ministeriali. Negli hospices s’incrementano le cure pastorali agli anziani, insieme alle cure palliative, come un segno della misericordia di Dio. Inoltre vengono attuate campagne di sensibilizzazione attraverso i Mass media.
Il sostegno spirituale, i sacramenti e la preghiera, per e con i malati anziani, si capiscono meglio come un abbraccio corporale, incarnato, dell’amore di Cristo, proprio quando la propria identità si indebolisce: così si arriva alla felicità ed alla piena saggezza.
Visitando i malati anziani si compie un’opera di misericordia, testimoniando la carità fraterna e partecipando dell’amore di Dio in una solidarietà effettiva per vincere la solitudine; si adempiono i tre ministeri della parola, della santificazione e della comunione, si aiuta anche l’anziano a non perdere la fede. Il visitatore rappresenta l’intera comunità cristiana che sorride e prega per questo malato.
Abbiamo concluso la nostra XXII Conferenza internazionale con il lungimirante e definitivo orientamento che il Santo Padre ci ha offerto nel Suo ricco discorso, una vera guida per la Pastorale dei malati anziani.
Città del Vaticano, 17 Novembre 2007
+ Javier Card. Lozano Barragán


IERI, SU STAMINALI RIPROGRAMMATE LA SCOPERTA? NOTIZIA FUORI LINEA
Avvenire, 22.11.2007
MARINA CORRADI
È strano. La notizia delle due ricerche che in Giappone e in America hanno prodotto cellule staminali pluripo­tenti, molto simili a quelle embrionali, senza distruggere embrioni ma partendo invece da tessuti adulti, per il Times di ieri valeva l’apertura della prima pagina: «Cellule staminali, un passo avan­ti », titola a tutta pagina. E i giornali ita­liani cosa hanno fatto? Repubblica, un titolino schiacciato in basso in prima, per il resto chi vuole vada a pagina 23, se gliene resta il tempo dopo tre pagine fit­te di cronaca sull’arresto del quarto uo­mo di Perugia, cui va anche il titolone di prima. Il Corriere ha scritto di staminali domenica, e basta, abbiamo già dato. La Stampa infila la notizia nell’inserto di Scienze, cioè a dire dove si mettono in genere le comete, e le migrazioni dei pinguini, temi interessantissimi ma sen­za immediata ricaduta sulla nostra quotidianità.
L’Unità piazza la scoperta a pagina otto, in basso, in gergo giornalistico 'a piede', ma almeno la mette.
Per il compassato Times quello delle staminali è un « breakthrough », una conquista da prima pagina. Le Ips – Indu­ced pluripotential cells – ottenute fa­cendo regredire cellule adulte potreb­bero un giorno essere riprogrammate per formare 200 tipi di tessuto diverso, senza i problemi derivanti dal rigetto, giacché proverrebbero dall’organismo dello stesso paziente. Senza clonare e distruggere embrioni. Una miniera di pezzi di ricambio, forse l’inizio della cu­ra per malattie di cui non c’è, oggi, al­cuna cura. Ma i giornali italiani non si scompongono. Pagina 23, o inserto scienze, assieme alle comete.
È strano, davvero. Certo, la tecnica giap­ponese è lontana dall’applicazione te­rapeutica, perché per fare regredire la cellula adulta si sono usati retrovirus cancerogeni. D’altra parte, anche le sta­minali embrionali 'autentiche' con la loro totipotenza ponevano forti rischi proliferativi, ciò che non ha impedito di investirci, di sperare e di titolare a ripe­tizione, senza avere ottenuto una sola applicazione terapeutica in 10 anni. Se uno come Ian Wilmut, già autorizzato dalla Hfea britannica a clonare embrio­ni umani per la sua ricerca, dice 'grazie, ma io cambio strada', una ragione de­ve averla. Forse ne ha più di una: la scar­sa reperibilità degli ovociti femmili ne­cessari a questa ricerca – solo in Roma­nia le donne sono disposte a donare o­vuli in cambio di un pezzo di pane – a fronte della facilità del reperimento di tessuti adulti. La speranza, grande, di a­vere un giorno tessuti naturalmente compatibili con quelli del malato. Di a­vere i 'pezzi' giusti per ogni paziente – senza toccare embrioni.
Dice bene il Times, una conquista. Ma gli stessi giornali che prima del referen­dum del 2005 ripetevano ossessiva­mente, e ignorando del tutto le obiezio­ni di autorevoli ricercatori, che per scon­figgere le malattie neurodegenerative occorreva usare gli embrioni, sulla svol­ta di oggi fanno understatement. Gli e­ditorialisti che avvertivano severi che perdere la corsa dei brevetti sulle sta­minali embrionali avrebbe affossato la ricerca scientifica in Italia, ora non scri­vono.
Come mai è più franco nel dichiarare il cambio di rotta uno scienziato come Wilmut? Proprio perché è uno scienzia­to, e, preso atto di una strada più pro­mettente e facilmente praticabile, nel confronto con la realtà cambia idea. Chi è ideologico, invece, non guarda alla realtà: ha un suo schema cui deve restar fedele, anche se ciò che accade lo con­traddice. (Hannah Arendt: «L’ideologia, è ciò che non vede la realtà»).
Fra degli anni, forse, con le Ips derivate dalla ricerca giapponese e mirate sui no­stri tessuti nervosi bucati dall’Alzheimer cureranno noi, o i nostri figli. Sotto la sto­ria del quarto uomo del delitto di Peru­gia, sui giornali del 21 novembre 2007 c’era una grande notizia, però non quel­la giusta. Una notizia fuori linea. «Un pie­de, pagina otto», disse il caporedattore.


L’indignazione passa presto Per ora vincono le pietre preziose
Avvenire, 22.11.2007
GEROLAMO FAZZINI
Hanno sperato che per il loro Paese si aprisse una nuova pagina. Erano convinti che le drammatiche notizie che, per alcuni giorni, hanno tenuto banco sulle prime pagine dei giornali avrebbero aperto uno squarcio nel velo di omertà e silenzio steso negli anni dal regime birmano. Contavano sull’impatto delle terribili immagini che documentavano la brutale repressione in atto in Myanmar. Hanno creduto che la comunità internazionale, scossa da tutto ciò, si sollevasse finalmente da un torpore colpevole. Invece... A distanza di poche settimane dalla 'rivoluzione color porpora' siamo qui a constatare che i cambiamenti sono solo di facciata. Che tutto è rimasto dov’era e com’era. Che le mobilitazioni di piazza in Occidente e le manifestazioni di solidarietà – assai più effimere e molto meno convinte che in altre occasioni – non hanno prodotto effetti di rilievo.
Come dar torto, a questo punto, agli esuli birmani, alla loro delusione? I fatti parlano da soli. Lo scandaloso traffico di pietre preziose, una delle principali fonti cui ricorrono i militari per rimpinguare le dissestate casse statali, continua. Come se nulla fosse.
Nonostante il boicottaggio sui preziosi importati o lavorati dal Myanmar, proclamato da alcune delle più note case di gioielli del mondo e da alcuni governi, nell’ex capitale Yangon è iniziata – e sta proseguendo col vento in poppa – un’asta di pietre preziose che vede in prima fila compratori dalla Cina. Quella Cina che, con ogni probabilità, utilizzerà la giada per realizzare souvenir per i turisti che affolleranno Pechino alle prossime Olimpiadi. Quella Cina che ha in mano, più di tutti, le chiavi per la soluzione del rebus-Myanmar. Ieri, poi, la commissione diritti umani dell’Assemblea generale dell’Onu ha sì approvato una risoluzione di condanna contro la giunta birmana.
Ma il documento non è vincolante. Ed è passato con 88 voti a favore, ben 66 astensioni e persino 24 contrari, tra cui – guarda caso – la Cina. Nello stesso giro di ore, l’Asean (Associazione dei Paesi del Sud-Est asiatico), pressata dalle proteste birmane, cancellava l’intervento dell’inviato speciale Onu in Myanmar, Ibrahim Gambari considerandolo una 'distrazione' nel programma dei lavori. Gambari ha comunque avuto alcuni incontri bilaterali con singoli rappresentanti dei Paesi membri. Col risultato, però, di sentirsi rinfacciare, dai rappresentanti di Malaysia e Indonesia, l’accusa di «ingerenza in affari interni», la stessa – coincidenza eloquente – avanzata dal ministro birmano Thein Sein. Difficile, a questo punto, non condividere il pessimismo e il senso di frustrazione della popolazione birmana. Sul fronte interno tutto sembra come prima. «I gesti di buona volontà del governo come la scarcerazione dei detenuti protagonisti delle proteste di settembre – denunciano fonti locali – sono falsi»; non di rado chi viene rilasciato ha subito violenze talmente gravi da pagarle con la vita. E Aung San Suu Kyi, leader degli oppositori democratici, di fatto non è libera di parlare con i generali, come invece essi vanno raccontando al mondo. Ma è soprattutto sul versante internazionale che la situazione è pericolosamente (e scandalosamente) stagnante. Il neo­inviato Ue per il Myanmar, Piero Fassino, si sta muovendo animato da buona volontà . Tuttavia, attorno, il quadro appare abbastanza desolante.
La comunità internazionale, nei fatti, si sta dimenticando del Myanmar. Siamo a un momento cruciale. Non possiamo concedere alla giunta militare il lusso di pensare che l’indignazione del mondo sia stata un’emozione passeggera. Che contano più gli affari dei diritti, che il cinismo sia la prima regola della politica... Il popolo birmano non ce lo perdonerebbe mai.




CHIESA IN LUTTO
Nato nel 1934, appassionato interprete del Vaticano II. Così lo ricordano il cardinale Poletto, i vescovi Masseroni e Corti, gli amici dello Spi e dell’Oftal, l’ex presidente Scalfaro
È morto a Fatima il vescovo Zaccheo
Avvenire, 22.11.2007
DA NOVARA
PAOLO VIANA
« Chi lo conosce, sa che don Germano non ama i fronzoli. Il suo appuntamento preferito è il solco del servizio concre­to. E lì, senza girare intorno alle cose, le interpreta e ne comunica la sostanza con efficace immediatez­za, perché crede che questo comunicare sia un mi­nistero per il Regno». Nel 1995 monsignor Aldo Del Monte salutava così Germano Zaccheo, il vicario ge­nerale che aveva realizzato con lui il Sinodo dioce­sano e lasciava Novara da vescovo, per Casale Mon­ferrato. Martedì sera Zaccheo, presidente del Comi­tato per la promozione del sostegno economico al­la Chiesa cattolica e membro della Commissione Cei per i problemi sociali e il lavoro la giustizia e la pace, è stato stroncato da un infarto a Fatima, in Portogallo, durante un incontro del Segretariato pellegrinaggi italiani (Spi), «dopo una giornata trascorsa in serenità e profonda preghiera», attesta il segretario generale dello Spi, don Luciano Mainini.
La morte del vescovo di Casale è stata improvvisa. «Nel pomeriggio aveva tenuto una riflessione su Rosmini – spiega da Fatima don Marco Gaiani – e dopo cena voleva raccogliersi in preghiera con la Madonna ». Stava camminando verso la cappellina delle Apparizioni quando si è accasciato. «Tristezza» e «speranza» sono i sentimenti del cardinale Severino Poletto, presidente della Conferenza episcopale pie­montese, il quale sottolinea come la morte sia «avvenuta proprio a Fatima subito dopo la recita del santo rosario. Una coincidenza che mi dona grande serenità pensando che la Vergine in persona l’abbia voluto accompagnare nella casa del Padre». L’arcive- scovo di Torino parla di «una persona dotata di un grande senso di responsabilità pastorale, frutto del­la sua acuta intelligenza e della sua spiccata sensi­bilità umana» e sottolinea che «sapeva immediata­mente infondere grande simpatia in chi lo incon­trava ». Profondo anche il cordoglio dell’Oftal, l’Opera federativa trasporto ammalati a Lourdes, che lo ri­corda come «consigliere prezioso e attento».
Classe 1934, il vescovo di Casale veniva da Canno­bio, sulla sponda novarese del Lago Maggiore, do­ve amava tornare con la madre Rita, oggi 85enne. Ordinato presbitero nel 1958, nel 1964 – dopo un’e­sperienza pastorale a Villadossola – divenne condi­rettore dell’Azione e degli altri settimanali diocesa­ni, incarico che affiancò a quelli di rettore del Se­minario, vicario per i laici, provicario e infine vica­rio generale. Trent’anni in redazione, gomito a go­mito con monsignor Giuseppe Cacciami, il quale oggi ricorda nella sua Grignasco il grande sodalizio umano e professionale, alimentato dalla comune passione per i media che nella terra di san Gau­denzio ha fatto scuola. «Era un umile servitore del­la Parola, della pace e della carità. Con Don Ger­mano - dichiara monsignor Cacciami - perdo un a­mico carissimo, un compagno di lotte e testimo­nianza cristiana. In questo momento ricordo il suo umorismo, il suo coraggio pastorale, le mille occasioni di bene che non si è mai lasciato sfug­gire... » «Ci siamo conosciuti 55 anni fa e mi colpì subito la sua mentalità aperta», dice don Gregorio Petti­naroli, vicario generale a Novara. «Zaccheo – ag­giunge il provicario don Gianni Colombo – era un vulcano di interessi e di idee». In effetti il Novare­se deve al suo gusto raffinato il recupero e la pro­mozione di numerosi beni artistici e alla sua lun­gimiranza i primi cineforum e la televisione cat­tolica, dove crebbero talenti del calibro del regista Paolo Taggi.
Collaboratore di Avvenire, Settimana, Presbyteri e Communio, Zaccheo fu figlio del Concilio. Vicario generale dal 1987 al 1991 di Del Monte, visse «u­na delle stagioni più fervide delle grandi svolte conciliari a Novara», ricorda un altro novarese, l’ar­civescovo di Vercelli Enrico Masseroni: «L’apertu­ra del seminario ai laici, con la possibilità dello studio della teologia, fu un scelta sofferta ma con­divisa da entrambi: lui vicario generale, io rettore. Entusiasmo e speranza furono le caratteristiche della sua azione pastorale, in quella stagione del post concilio che ci vedeva impegnati sul fronte del rinnovamento, talvolta faticoso».
Sempre da Novara, l’ex presidente della Repub­blica Oscar Luigi Scalfaro, ne rammenta l’in­confondibile sorriso paterno: «Aveva un carattere umano, anche irruente, molto schietto e molto li­bero, direi molto vero, senza nessuna recitazione. È stato un pastore vero. Io sono convinto che la do­te prima di un vescovo non è la cultura e nem­meno una intensa vita di preghiera. Sono impor­tanti, certo, ma i fedeli hanno un grande bisogno di paternità e il vescovo è pastore e padre. Lui lo è stato pienamente».
Zaccheo fu anche vicario del vescovo Renato Cor­ti, il quale rievoca tre momenti: «Il 19 dicembre del 1991, ero appena stato nominato vescovo di Novara e don Germano venne a salutarmi a Mila­no con un grande dono, il libro del XX Sinodo, cui aveva collaborato in modo appassionato e deter­minante perché indicasse le strade per tradurre il Vaticano II nella vita diocesana». Altra data me­morabile: «Il 16 settembre ’95 consacrai Zaccheo vescovo. Dal ’91 al ’95 era stato mio vicario generale, nel periodo iniziale della mia esperienza no­varese. Mi aiutò moltissimo». Infine «il 18 novembre. Lo incontrai alla beatificazione di Rosmini ed era colmo di gioia, come se l’attendesse da tem­po. Nel pomeriggio ha incontrato la stampa e da vecchio giornalista l’ha invitata a dedicare spazio a ciò che è bello, vero, grande, aggiungendo che è Rosmini che ce lo chiede, lui che ha sempre cer­cato la verità. È significativo che l’ultima riflessio­ne a Fatima l’abbia dedicata proprio a Rosmini».



Casale piange il suo pastore: «Maestro e amico»

Si è spento nel giorno in cui la liturgia ricorda e medita la «chiamata di Zaccheo» L’amministratore diocesano: «Si è donato interamente alla Chiesa affidatagli»
DA CASALE MONFERRATO (ALESSANDRIA)

Avvenire, 22.11.2007
PAOLO BUSTO
Aveva da poco concluso l’anno dei festeggiamenti per il nono centenario della fondazio­ne del Duomo di Sant’Evasio, un e­vento ecclesiale di grande intensità che aveva acceso il suo entusiasmo e la sua passione. Martedì sera è spira­to a Fatima, dove si era recato, pelle­grino, per invocare la Vergine e met­tere sotto la sua protezione l’anno ma­riano indetto dall’8 dicembre prossi­mo. Oggi l’intera diocesi casalese piange la morte del suo vescovo, Ger­mano Zaccheo, esprimendo tuttavia il ringraziamento al Signore per aver da­to alla Chiesa locale un sincero mae­stro di fede, una guida ricca di grazia, un vincolo di comunione fraterna.
Nel suo ministero episcopale, Zaccheo ha saputo entrare con la sua innata cordialità nel cuore di tutti: con deli­cata discrezione, con sempre attenta capacità di ascolto, con affettuosa par­tecipazione alla vita di ciascuno, con stimolante ansia pastorale. La rispo­sta dei fedeli di Casale fu altrettanto intensa: gli hanno sempre voluto profondamente bene e hanno visto in lui «l’Apostolo del Signore» inviato al­la Chiesa casalese e il Buon Pastore che guida con mano sicura il suo po­polo verso «la gioia e la pace nella fe- de». Il suo autorevole magistero epi­scopale, ricco di cultura e di grazia, ha donato instancabilmente la Parola di Dio mediante la predicazione omile­tica, una ricchezza di riferimenti al Concilio, un impegno e stimolo al­l’aggiornamento sempre attenti e profondi, profusi nel corso di innu­merevoli incontri e in un’infaticabile peregrinazione in tutte le parrocchie della diocesi.
«Nel dono di sé alla Chiesa casalese – sottolinea l’amministratore diocesano monsignor Antonio Gennaro – monsignor Germano ci ha dato tutta la misura del suo amore a Cristo e ai fratelli; lo abbiamo ben compreso noi sacerdoti, che in tante occasioni go­diamo delle primizie delle sue pater­nità spirituale; i religiosi e le religiose da lui sempre stimolati ad essere se­gno di perfezione evangelica; i giova­ni, che costantemente hanno trovato nel vescovo una particolare capacità di comprensione; il laicato, uomini e donne chiamati sempre più ad una piena promozione nella corresponsa­bilità pastorale; la società civile, che lo ha visto sempre presente in ogni e­vento significativo. La sua profonda devozione a Maria Santissima, e i suoi numerosissimi pellegrinaggi a Lour­des con l’Oftal, la sua predilezione per i più deboli, il sostegno appassionato al Movimento per la Vita, l’affetto per gli anziani, gli ammalati e i poveri, il suo impegno per la pastorale dei gio­vani e il continuo sostegno e accom­pagnamento ai pellegrinaggi diocesa­ni della Peregrinantes danno la misu­ra di un cuore grande che ha amato tanto. La Diocesi che ha vissuto con monsignor Zaccheo l’impegno straor­dinario per il grandioso restauro del­la Cattedrale e le celebrazioni del­l’Anno Santo del 2000, del Centenario di Sant’Evasio del 2003 e del IX Cen­tenario della consacrazione della Cat­tedrale 2007, piange l’amato pastore che non si è mai risparmiato per il be­ne della nostra Chiesa. Tutto ciò lascia un segno indelebile della sua presen­za nella nostra diocesi».
Zaccheo credeva ai «segni». Lo ha sempre detto. E la sua stessa morte è un «segno». È infatti spirato proprio nel giorno in cui il Vangelo della Messa era quello della chiamata di Zaccheo da parte del Signore. Ed è morto a Fatima a «casa di Maria», al San­tuario per il 90° delle apparizioni, in un pellegrinaggio con l’Oftal e alla vigilia della memoria liturgica della Presentazione della Beata Vergine al Tempio. Questa festa religiosa è importante non solo perché in essa viene commemorato uno dei misteri della vita di Maria che Dio ha scelto come Madre del suo Figlio e come Madre della Chiesa, ma soprattutto perché ricorda anche la «presentazione al Pa­dre Celeste di Cristo» e di tutti i cri­stiani.
Zaccheo aveva confidato di aver ac­cettato la nomina a vescovo proprio il 13 maggio 1995, dicendo un sì soffer­to «mentre riecheggiava nella mia memoria – scrisse – l’eco di Fatima e l’im­magine dolce di Maria donna obbediente e fedele». Che l’ha accolto nel­l’eterna liturgia del Cielo.



Carlo Bellieni
in laboratorio
Non è tutto già scritto. Perciò non va manipolato
Sbagliata la visione deterministica per la quale nel Dna c’è già il nostro destino L’ambiente e altri fattori influiscono sullo sviluppo. Figuriamoci cosa provoca l’espianto di una cellula da un embrione
Avvenire, 22.11.2007
La recente notizia della riproduzione in laboratorio di tratti del Dna e quella della marcia indietro dalla strada della clonazione annunciata dal creatore della pecora Dolly, rimettono al centro della discussione sui giornali il fenomeno 'genetica'. In realtà siamo tutti legati ad una visione di questa materia molto datata, rigida e soprattutto deterministica: sembrerebbe che tutto ma proprio tutto della nostra vita sia scritto nel filamento del Dna e che basta controllarlo tecnicamente per riprodurre due Albert Schweitzer o cento Hitler; che l’evoluzione della vita sulla terra sia avvenuta solo per via di brusche mutazioni genetiche; e che si possano mettere impunemente le mani nell’hard disk della nostra vita. Così non è.
Il motivo che ha fatto deragliare tanti progetti di padronanza sul genoma si chiama 'epigenetica'.
Leggiamo sull’enciclopedia online wikipedia la seguente definizione: «Epigenetica: la branca della biologia che studia le interazioni causali fra i geni e il loro prodotto e pone in essere il fenotipo», che detto altrimenti vuol dire che l’ambiente altera l’espressione dei geni: dipende non solo da ciò che è scritto nel Dna, ma anche dal mezzo di coltura, dallo scambio con le cellule vicine se una cellula iniziale di un embrione si differenzierà in cellule specializzate (denti, ossa, capelli, sangue).
Queste cellule, si badi bene, continuano ad avere lo stesso identico Dna ma lo esprimono in modi assolutamente diversi. Randy Jirtle, genetista statunitense, scrive: «Ogni nutrimento, ogni interazione, ogni esperienza può manifestarsi attraverso cambiamenti biochimici che dettano l’espressione di geni, talora alla nascita, talora 40 anni dopo». Asim Duttaroy, docente di Scienza della Nutrizione ad Oslo, riportava che lo scarso nutrimento del feto porta a modificazioni dell’espressione di alcuni geni, che porteranno a manifestare obesità, ipertensione e diabete in età adulta.
L’epigenetica è proprio questo: l’importanza dell’ambiente per la trasmissione delle informazioni da una cellula all’altra.
Dunque «noi non siamo solo quello che è scritto nei nostri geni», e questa scoperta porta a varie conseguenze pratiche. Vediamone alcune. Recenti studi hanno mostrato che le modifiche epigenetiche (che sono altra cosa dalle 'mutazioni') che l’ambiente determina sul Dna possono essere trasmesse di generazione in generazione. Questo cozza con una visione deterministica dell’evoluzione della vita legata invece a una competizione spietata per la sopravvivenza, che invece si basa su mutazioni casuali; per alcuni studiosi l’ambiente non avrebbe solo la funzione di selezionare le mutazioni in base alla legge del 'più adatto' ma anche di indurre cambiamenti duraturi nell’espressione genetica. Ad esempio i lavori di Michael Skinner sui topi venuti a contatto con elementi tossici in epoca prenatale mostrano che le alterazioni possono tramandarsi fino a quattro generazioni; e non dimentichiamo gli studi sulle donne vissute in carestia durante la seconda guerra mondiale che fecero nascere bambini di basso peso… i cui figli sarebbero stati anch’essi di basso peso pur nutriti normalmente in gravidanza. Insomma, l’evoluzione non sarebbe stata puramente casuale, ma, come dice l’ecologista Enzo Tiezzi, regolata da una regola stocastica, ovvero dalla libertà che hanno le frecce di arrivare… intorno ad un bersaglio.
Ma non basta: nell’articolo intitolato «Epigenetica e fecondazione in vitro: servono indagini», pubblicato sull’American Journal of Human Genetics, Emily Niemitz riportava che «una sorprendente quantità di osservazioni recenti suggerisce un legame tra fecondazione in vitro ed errori epigenetici». Tanto che Jane Hallyday, genetista americana, pur spiegando che la gran parte dei nati da Fiv non avrà problemi di salute, riporta che «si è pensato che difetti dell’imprinting possano avvenire nel corso della fecondazione in vitro (…) nelle cellule germinali maschili e femminili e durante i primi stadi dello sviluppo embrionale». D’altronde, si capisce come l’ambiente del concepimento possa avere un influsso sullo sviluppo: studi giapponesi hanno mostrato di recente le conseguenze addirittura della luce sullo sviluppo dell’embrione e il ginecologo americano Banwell quelle dell’esposizione dell’embrione a diverse concentrazioni di ossigeno.
Abbiamo ora parlato di difetti del cosiddetto imprinting e questo ci aiuta a capire un ulteriore mistero: l’insuccesso della clonazione. Dobbiamo sapere che per lo sviluppo di un embrione non è facoltativo, ma obbligatorio avere del Dna che proviene dalla madre e del Dna che proviene dal padre. Perché alcuni geni daranno effetti diversi a seconda che si trovino sul cromosoma di origine materna o di origine paterna, e questo in genetica viene chiamato imprinting. Scrive sempre Emily Niemitz «Negli esseri umani gli embrioni con due patrimoni paterni formano tumori del trofoblasto, mentre gli embrioni che possiedono due patrimoni materni formano dei teratomi».
Perché? Sembra che lo stesso gene se arriva dal padre serve a far crescere l’embrione, mentre quello che arriva dalla madre serve a farlo nutrire, spiega il genetista di Cambridge Miguel Constancia. Sono entrambe operazioni indispensabili, senza le quali non si cresce né sopravvive. Come pensare allora che un individuo si sviluppi senza qualcosa di essenziale per la quale servono due genitori e non uno solo?
Ma dove è ancora più chiaro cosa accade quando si mette mano al 'centro' della vita è nella diagnosi preimpianto. Questa è l’analisi del Dna che si esegue in una cellula sottratta ad un embrione fatto in totale di otto cellule, al fine di scartarlo se il Dna analizzato non ci soddisfa. Quest’analisi si fa per scartare gli embrioni malati e anche quelli imperfetti, in modo da aumentare le possibilità di impianto dell’embrione. Invece l’autorevole New England Journal of Medicine ha di recente pubblicato uno studio che mostra come gli embrioni dopo questo espianto si impiantino peggio, diminuendo le possibilità di gravidanza. Ma come: non era la 'perfida' legge 40 che impedendo la diagnosi preimpianto diminuiva le possibilità di avere un bambino? Mistero delle ideologie. Già: non è tanto strano che togliendo delle cellule in un momento così delicato si possano creare problemi all’embrione, ma ci voleva un’ideologia potentemente pervasiva per non pensarlo, per non domandarsi che messaggi davano le cellule tolte alle altre del piccolo embrione.



fine vita
4 risvegli che sfidano la scienza
Avvenire, 22.11.2007
Cristian, Jesse, Sal­vatore, Jan. Quat­tro storie di vita che rinascono proprio quando nessuno se lo a­spettava, quando qualcu­no, nella comunità dei 'sani', si azzardava a dire che non c’era più nulla da fare. Ma qualcun altro non aveva perso la speranza. Si tratta di casi di vero e pro­prio risveglio dal coma che fanno comprendere come questo sia un territorio an­cora ricco di incertezze dal punto di vista scientifico. Cristian Sacchetti nel 2000 viene investito sulle strisce pedonali: due anni in co­ma, poi, a dicembre del 2002, il ritorno alla vita. «Non ricordo nulla di quei 24 mesi – ha raccontato – è stato come se fossi mor­to ». E invece oggi ha un la­voro e, sebbene abbia subìto danni permanenti al cervello e venga colto da malori improvvisi, non e­sita a dire: «Quanto è bel­lo vivere». Accanto a lui, naturalmente sua madre, Morena, che non ha mai smesso di sperare, anche quando tutti le dicevano che non c’era più nulla da fare. Nel tempo libero Cri­stian fa teatro con persone che come lui sono uscite dal coma, nella compa­gnia messa in piedi dal­l’associazione Luca De Ni­gris di Bologna.
Di Jesse Ramirez, messi­cano, in Italia non si è parlato. Eppure il suo risveglio è avvenuto pro­prio nei giorni della sen­tenza Englaro. Dopo il consulto con i medici, era stata proprio la moglie a togliere il tubo dell’ali­mentazione. Ma Jesse si è risvegliato. Erano passati appena sei mesi dall’inci­dente stradale: lesioni al cranio, al viso, ai polmo­ni, costole rotte e nume­rosi interventi chirurgici. In queste settimane si tro­va in un centro di riabili­tazione e viaggia verso un pieno recupero, con i ge­nitori e gli amici che lo aiutano a superare le dif­ficoltà.
Lo scorso giugno anche Jan Grzebsky si è risve­gliato dopo 19 anni. È polacco e la sua storia sembra la trama di un film: nel 1988 entra in co­ma per un incidente sul la­voro. Allora c’era ancora il comunismo. Il medico di Jan, Boguslaw Poniatow­ski, ha raccontato alla tv di Stato che «per 19 anni la moglie di Jan, Gertruda, ha svolto, da sola, il lavo­ro di un esperto team di infermieri, arrivando a cambiare la posizione del marito ogni ora per evita­re il formarsi di piaghe da decubito».
Nel 2005 Salvatore Crisafulli ritorna alla vita dopo due anni di coma: «Sentivo tutto e piangevo – ammette – sono vivo per mio fratello, i medici dicevano che non ero in grado di avere sensazioni». Pietro, il fratello, aveva lasciato il lavoro in Toscana, per ri­manere a Catania dove Salvatore viveva con la madre. I primi lenti movi­menti di Salvatore sono stati quelli del braccio si­nistro e della testa.
Francesca Lozito




sul campo
Anche se minima, è coscienza
Avvenire, 22.11.2007
di Francesca Lozito
Fare ricerca nell’ambito dello studio del coma e di quanto acca­de dopo il ri­sveglio. Dare un’a­deguata assistenza alle famiglie delle persone che rimangono in stato vegetativo. Sono alcune delle caratteristiche dell’espe­rienza della «Casa dei risvegli», la struttura pubblica di eccellenza nata a Bologna tre an­ni fa e diretta da Roberto Piperno, che è an­che direttore dell’unità operativa di Medici­na Riabilitativa Ospedale Maggiore della stes­sa città e responsabile scientifico del Centro Studi per la Ricerca sul Coma. La «Casa» è na­ta a seguito della vicenda di Luca, un ragaz­zo di 16 anni, morto nel 1998 dopo un lun­go coma.
Professor Piperno, il 'territorio' in cui vivono le persone in stato vegatativo è un po’ il regno del dubbio dal punto di vista scientifico...
«Negli ultimi anni tra gli studiosi si sta affer­mando l’idea che esista una nuova categoria diagnostica, lo stato di coscienza minima sen­za comportamenti. Si tratta di una categoria intermedia tra lo stato vegetativo e quello di coscienza minima, ed è un’ipotesi formulata quest’anno sulla base delle evidenze scienti­fiche di alcuni studi».
Un importante risultato...
«Certo, perché porta ottimismo e fa intrave­dere un quadro dello stato vegetativo più com­plesso, con la possibilità di una prognosi di­versa, vicina a quella di coscienza minima».
Chi, in specifico, tra i malati in stato vegetativo potrebbe essere compreso
in questa categoria?
«Penso al caso pubblicato l’anno scorso su
Science, quello di una donna di 23 anni cli­nicamente in stato vegetativo che però alla ri­sonanza magnetica funzionale mostrava la capacità di 'immaginare' di giocare a tennis e di muoversi all’interno della propria casa».
E, invece, per quanto riguarda i casi di coscienza minima?
«Molti ricorderanno probabilmente Terri Wal­lis, il giovane americano che dopo dicianno­ve anni aveva ripreso spontaneamente a par­lare e che conservav memorie di 19 anni pri­ma, nonostante si potessero osservare dei cambiamenti nel cervello. Quest’anno, poi, un gruppo americano ha applicato la stimo­lazione cerebrale profonda in un caso di sta­to di coscienza minima dopo sei anni di cro­nicità, dopo la quale è ricomparsa la parola. Credo che i criteri dell’irreversibilità dipen­dano in buona parte dalle risorse diagnosti­che e terapeutiche di cui disponiamo».
Sta dicendo che non si può stabilire con decisione quando una situazione di co­ma è irreversibile?
«Le raccomandazioni cliniche ci dicono che ciò succede dopo tre-sei mesi nei casi di e­morragia e anossia, dopo un anno nel caso di traumi, ma i numerosi casi segnalati di re­cupero tardivo e anche i casi citati dimostra­no come non si possa stabilire con precisio­ne ».
Sulla base della sua esperienza i fami­liari dei malati chiedono di 'staccare la
spina', come si usa dire con un’espres­sione un po’ brutale?
«A parte il fatto che si tratta di persone che han­no bisogno di un basso apporto tecnologico, quindi di solito non ci sono macchine da staccare, in generale per quel che vediamo i familiari non s’interrogano tanto sul tema della spina da staccare, quanto piuttosto sul tema del recupero possibile e su quello della fragilità, su come garantire al loro caro il be­nessere di cui ha bisogno».
Quali potrebbero essere le proposte in merito?
«In Italia sono ancora insufficienti le struttu­re specializzate per assisterli, la proposta del­le Suap, le speciali unità di accoglienza per­manente, ha prodotto ancora pochi effetti. Ma si deve consentire anche alle famiglie di scegliere di poter portare il proprio caro a ca­sa, senza sentire su di sé tutto il peso di que­sta scelta. Bisogna comunque ammettere che la situazione è migliore di dieci anni fa, sono sorte numerose strutture riabilitative post a­cute, ma bisogna completare la rete. Perché la vera voragine in cui cadono le famiglie è quella del lungo periodo della cronicità. Cre­do sia assurdo porsi qualsiasi altra domanda e formulare qualsiasi altra richiesta, che vedo piuttosto come una scorciatoia, se non viene completata la rete».
Per parlare chiaro: le è mai capitato che qualche familiare dei suoi pazienti le ab­bia chiesto di smettere di dare da man­giare e da bere al proprio caro?
«No, mai. Le domande sono piuttosto: quan­to migliorerà, quando si sveglierà? Lo stato ve­getativo non è uno stato di morte interrotta o sospesa. Lo stato vegetativo è uno stato e­stremo di fragilità. Per il quale ci vogliono a­deguate politiche di assistenza».
Le nuove conoscenze impediscono scorciatoie sbrigative. Parla Roberto Piperno, direttore della «Casa dei risvegli» di Bologna



di
Alessandra Turchetti
Coma profondo - Eppur qualcosa si muove
Avvenire, 22.11.2007
Uno studio pubblicato recentemente sulla rivista Brain e condotto da un’équipe inglese dell’Università di Cambridge ha fornito dati interessanti e inattesi su un gruppo di pazienti in stato vegetativo. Attraverso l’applicazione della tecnica chiamata «risonanza magnetica funzionale» sono state sottoposte a un test per valutare la capacità di comprensione del linguaggio tre categorie di pazienti: la prima formata da pazienti in stato vegetativo persistente; la seconda da pazienti con il minimo stato di coscienza e quindi di relazione col mondo circostante; la terza da pazienti con grave stato di disabilità in via di recupero dal minimo stato di coscienza.
Come previsto, gli ultimi due gruppi, gravemente disabili ma coscienti, hanno dimostrato una capacità residua di elaborazione del linguaggio. Inatteso, invece, il risultato sul primo gruppo: anche i pazienti in coma permanente hanno isole intatte di funzione cognitiva.
«È un dato importantissimo» sottolinea l’oncologo Marco Maltoni, direttore dell’Unità operativa di cure palliative dell’Azienda sanitaria di Forlì. «Anche in
Uquelle persone clinicamente considerate 'avulse dalla realtà', secondo la definizione ufficiale, sono state trovate delle funzioni cognitive conservate».
n risultato, aggiunge Maltoni, «che ha conseguenze notevoli dal punto di vista scientifico ma anche pratico.
Significa che un medico è autorizzato a sollecitare un parente della persona in coma a parlare e dialogare con lui, perché non sappiamo cosa recepisca esattamente ma esiste la possibilità di avere una relazione in atto. E non si tratta di una speranza illusoria».
È estremamente difficile valutare la funzione cognitiva residua di pazienti che hanno subìto un danno cerebrale tale da alterare più o meno gravemente il livello di coscienza. Per un paziente in coma vegetativo la diagnosi di incapacità a rispondere finalisticamente a stimoli esterni viene fatta sostanzialmente su base clinica.
« Quando una persona esce dal coma – spiega sempre Maltoni – può aprire gli occhi, ma non lo fa intenzionalmente come risposta a sollecitazioni che vengono dal di fuori.
Già in passato è stato dimostrato che possono esserci funzioni cerebrali inalterate ma non rilevabili all’esterno.
Come se, cioè, il blocco avvenisse a livello di capacità d’espressione e non di processo. Questo studio dimostra esattamente questo».
Identificare ciò che specificatamente in questi pazienti permette di elaborare il linguaggio per poi riuscire a comprenderlo è di fondamentale importanza per i familiari e per chi li assiste, dunque, e contribuisce a creare l’ambiente migliore per la riabilitazione.
«Questo dato forse non convincerà chi considera la vita disabile peggiore della morte, ma apre nuove prospettive nell’assistenza e nell’accoglienza del malato in stato vegetativo».
Anche chi è in stato vegetativo persistente conserva una misteriosa funzionalità cerebrale.
È il sorprendente risultato dello studio di un’équipe di Cambridge, pubblicato sulla rivista scientifica «Brain». Che deve far riflettere.



Il Dottor Zivago letto dal gulag
Avvenire, 22.11.2007
DI FABRIZIO ROSSI
D icembre 1952, Siberia o­rientale. Nel gelo a 50 sot­tozero, un uomo percorre nella neve 1500 chilometri con mezzi di fortuna per andare a ri­tirare al 'più vicino' ufficio po­stale la lettera che attendeva da luglio. Scritta con una grafia a lui nota, «rapidissima e volante», re­ca la firma di Boris Pasternak.
Ha così inizio la corrispondenza tra l’autore del Dottor Zivago e Varlam Šalamov, il grande poeta divenuto poi famoso per aver de­nunciato nei Racconti della Koly­ma gli orrori del sistema concen­trazionario sovietico. In occasio­ne dei 50 anni dall’uscita del ce­lebre romanzo, il nuovo numero de «La Nuova Europa» (rivista della Fondazione Russia Cristia­na) ricostruisce in un dossier speciale le vicende legate al Dot­tor Zivago, ripubblicando tra l’al­tro alcune lettere tra Pasternak e Šalamov (l’intero carteggio in Ita­lia è uscito nel 1993 presso Rosel­lina Archinto Editore).
I due non si erano mai conosciuti di persona (il grande momento sarebbe arrivato nel novembre 1953), anche se vent’anni prima a Mosca un giovane Šalamov, rimpiattato in un angolo del circolo dell’Università, aveva ascoltato con devozione il celebre scrittore leggere l’ultima sua creazione, restando colpito per sempre: «Pensavo che la felicità era proprio lì, in quel momento: po­ter vedere un vero poeta e un vero uomo». Il destino, però, l’avrebbe porta­to lontano da Pasternak e dal­l’amata Mosca: arrestato in una notte del gen­naio 1937, Šala­mov iniziò la di­scesa nell’infer­no dei campi della Kolyma.
Ma la poesia si sarebbe rivelata più forte della morte, tanto che dopo 15 anni di lavori for­zati Šalamov poté scrivere a Pasternak: «Conosco persone che sono sopravvissute grazie ai suoi versi… Ha mai pensato agli esseri umani che sono rimasti ta- li soltanto perché con sé avevano le sue parole, i suoi disegni e pensieri? I suoi ver­si venivano letti co­me preghiere. In quei versi c’erano una vita e una forza che, lo ri­peto, hanno mante­nuto umani degli esseri umani».
Dopo la morte di Stalin, Šalamov potrà tornare a Mosca e finalmente andare a conoscere Pasternak. Inizia una serie di incontri; l’ex detenuto ha tante domande per il poeta, quasi sempre partendo da questioni letterarie si finisce per arrivare a parlare del senso della vita («ero andato da lui per imparare a vivere, non per im­parare a scrivere»).
Fino a quando, un giorno, si vede recapitare per posta un plico voluminoso. È il manoscritto del Dottor Zivago: «Mai avrei pensato, mai avrei potuto immaginare neppure nei più remoti sogni degli ultimi 25 anni che avrei letto un suo romanzo inedito, incompiuto, e per di più spedito in manoscritto da lei in persona!». Šalamov, quasi ubriaco di gioia, risponde all’amico senza risparmiare le lodi («da tempo non leggevo in russo qualcosa all’altezza di Tolstoj, Cechov e Dostoevskij »), ma quando incontra nel romanzo la scena del lager non si trattiene dal segnalare le imprecisioni («la descrizione del campo di concentramento non è veritiera»), scusandosi poco dopo: «Mi perdoni se le scrivo tutte queste cose tristi, ma vorrei che avesse un’idea un po’ corretta di questo feomeno significativo e singolare…». La forza del Dottor Zivago risveglia nell’animo del poeta Šalamov quel fascino del Mistero cristiano che in lui, allontanatosi dalla Chiesa sin da giovane, resta indissolubilmente legato all’esperienza della bellezza: «Com’è possibile ad ogni uomo con un minimo di istruzione sfuggire a­gli interrogativi del cristianesimo? E com’è possibile scrivere un romanzo sul passato senza porsi il problema del proprio rapporto con Cristo? C’è da vergognarsi davanti alle semplici donne del popolo che vanno al vespero, e che gli scrittori non vedono, non vogliono vedere, costringendosi a pensare che il cristianesimo non esiste. Tanto più, poi, per me, che ho assistito a liturgie sulla neve, senza paramenti, tra larici millenari, con l’altare rivolto verso un oriente calcolato a casaccio e scoiattoli neri che guardavano impauriti quel rito nel mezzo della tajga…».
Quando Pasternak morirà Šala­mov gli dedicherà una poesia paragonandolo a una «fonte di luce »: grazie a lui aveva scoperto in sé «dei cantucci nuovi», rimasti fino allora così oscuri da fargli credere che non esistessero affatto.
Si conobbero soltanto dopo la morte di Stalin, quando il dissidente, scarcerato, tornò a Mosca e scrisse a Boris: «Alcuni di noi sono sopravvissuti grazie ai suoi versi...» .

Il nuovo ateismo è a senso unico
Due saggi di René Rémond e Luca Volontè smascherano l'ultima crociata anticattolica…
di Eugenia Roccella

Michel Onfray, in Francia, più che come filosofo è noto come ateo militante (anzi, «ateo di servizio», come lui stesso si definisce). Passa da una conferenza a un talk show, in una girandola di occasioni pubbliche in cui diffonde un’accattivante filosofia edonista e libertaria, così facilmente recepibile da essere accusato di dispensare le stesse ricette di felicità che si possono trovare su Cosmopolitan. In Italia una sua versione meno brillante potrebbe essere Pierluigi Odifreddi, definito da alcuni come un «matematico da festival».
Sono figure nuove, alfieri di una violenta propaganda antireligiosa. René Rémond, lo storico e politologo francese da poco scomparso, nel suo ultimo libro (Il nuovo anticristianesimo, intervista con Marc Leboucher, ed. Lindau, pagg. 125, euro 13) non sottovaluta il fenomeno, e ribatte alle accuse, analizzandole a una a una. La più rovente è riassunta con efficacia dal titolo di un’intervista rilasciata dal filosofo: «Il cattolicesimo ci rende la vita impossibile». La fede in Cristo, dice Onfray, esalta il sacrificio e la sofferenza, promettendo un inesistente compenso oltremondano; intanto impedisce all’uomo di perseguire il suo scopo più naturale, la felicità ora e qui. A questa colpa ne aggiunge subito un’altra, quella di ostacolare la scienza e persino l’uso libero della ragione, pretendendo di limitare la ricerca scientifica.
Del resto l’inimicizia tra fede e scienza risale ai tempi di Newton e Galileo, e rivela l’anima nera, aggressiva e fomentatrice di odio, del cristianesimo come di qualunque altra religione. Chi si ritiene possessore della verità, difficilmente può rispettare l’esistenza di altre verità relative, che vede come minacciose. Le religioni, soprattutto quelle monoteiste, portano con sé il germe antico del fanatismo e dell’intolleranza: «Gli oltremondi - scrive Onfray nel suo Trattato di ateologia - mi sembrano subito contromondi inventati da uomini stanchi, sfiniti, essiccati dai ripetuti viaggi tra le dune o sulle piste pietrose arroventate. Il monoteismo nasce dalla sabbia». La laicità sarebbe quindi uno spazio assediato da visioni del mondo arcaiche, intrinsecamente antimoderne, e garantito nella sua genuina purezza solo dall’ateismo.
Rémond risponde punto per punto; contesta un modello di felicità concepito come puro appagamento dei desideri individuali, e confuta con pacata ragionevolezza le accuse rivolte ai cristiani. Perché va detto che la nuova polemica antireligiosa non colpisce tutti i monoteismi «nati dalla sabbia» con la stessa acredine: incrociandosi con le autocensure nei confronti dell’Islam, con l’imbarazzo storico nei confronti dell’ebraismo, e - soprattutto - con la politica, si concentra sulla Chiesa cattolica. In una recente intervista, il cardinale Camillo Ruini avanza una sua spiegazione: ai laicisti piace la Chiesa che perde, non quella che vince. Se la Chiesa è sotto tiro, insomma, è per via della sua ritrovata centralità e capacità di attrazione: «Meglio contestata che irrilevante», è la significativa sintesi dell’ex presidente della Cei.
Luca Volontè, in un libro appena uscito, Furore giacobino (Aliberti editore, pagg. 349, euro 18,50), offre un’esauriente panoramica degli attacchi sferrati contro il mondo cattolico sulla stampa italiana, negli ultimi due anni. Il conflitto si addensa soprattutto intorno ai temi eticamente sensibili - statuto dell’embrione, eutanasia, procreazione assistita, famiglia - ma assume quasi sempre toni aggressivi nei confronti della Chiesa e dei suoi membri più esposti. Il libro ha il merito di rendere evidente come il dibattito pubblico tra laici e cattolici si sia, negli ultimi tempi, irrigidito e ideologizzato. La grande stampa tende a deformare le posizioni della Chiesa, a selezionare solo ciò che può tornare utile alla polemica, ignorando il resto.
Nel mondo cosiddetto laico esiste una censura, pochissimo laica, che oscura non tanto (o non soltanto) le opinioni, quanto le informazioni. Bastano pochi esempi: nessuno, sul Corriere o La Repubblica, ha mai spiegato che la ricerca sulle cellule staminali ottenute dalla vivisezione degli embrioni ha fallito i propri scopi terapeutici, oppure che la pillola abortiva Ru486, che si vorrebbe introdurre in Italia, ha già prodotto 15 morti. Ma gli esempi sono infiniti, e basta scorrere le pagine di Volontè (che fra l’altro è capogruppo dell’Udc alla Camera) per rendersene conto. Al lettore resta da giudicare se si tratti di vero «furore giacobino», o se abbia ragione il cardinale Ruini, e la manipolazione delle notizie, come la violenza di alcune invettive, siano un indiretto tributo a una Chiesa non più perdente.

Il Giornale 22 novembre 2007


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