mercoledì 28 novembre 2007

Nella rassegna stampa di oggi:
1) In attesa della seconda enciclica di Benedetto XVI “Spe salvi”
2) Immagini di speranza così care a Papa Benedetto
3) L’IDEOLOGIA DEL «GENERE» - QUEL GRIMALDELLO DIETRO UNA CAUSA BUONA
4) E lo scienziato si arrese all’anima
5) «Io, oncologa con il cancro, dico no all’eutanasia»
6) Padova Scola: quella tecnoscienza che illude l’uomo
7) «Io pastore italiano missionario a Mosca» Alberto Savorana
8) Una Chiesa amata dal suo popolo in un Paese che ha bisogno di una rievangelizzazione sistematica – intervista al Card. Angelo Bagnasco



In attesa della seconda enciclica di Benedetto XVI “Spe salvi”Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 28 novembre 2007
“Per la speranza noi siamo salvati” (Rm 8,24)
«Il Discorso della montagna è la chiamata all’imitazione di Gesù Cristo. Egli soltanto è “perfetto come è perfetto il Padre nostro che è nei cieli” (l’esigenza che arriva all’essere, in cui le singole istruzioni del Discorso si concentrano e si uniscono: 5,48). Non possiamo da noi essere “perfetti come il Padre nostro che è nei cieli”, ma lo dobbiamo per corrispondere al compito della nostra natura. Noi non lo possiamo, ma possiamo seguire Lui, aderire a Lui, “diventare suoi”. Se noi apparteniamo a Lui come sue membra, allora diventiamo per partecipazione ciò che egli è; la sua bontà diventa la nostra…
Il secondo aspetto concerne il futuro nascosto nel presente. Il Discorso della montagna è una parola di speranza. Nella comunione con Gesù l’impossibile diventa possibile: il cammello passa per la cruna dell’ago (Mc 10,25). Nell’essere una cosa sola con lui diventiamo anche capaci della comunione con Dio e così della salvezza definitiva. Nella misura della nostra appartenenza a Gesù si realizzano anche in noi le qualità di Gesù: le Beatitudini, la perfezione del Padre. La Lettera agli Ebrei chiarisce questo nesso di cristologia e speranza, quando dice che noi possediamo un’ancora sicura e ferma che arriva fino all’interno del santuario, dietro la tenda, là dove Gesù è entrato (6,19s). L’uomo nuovo non è utopico: egli esiste, e nella misura in cui siamo uniti a Lui, la speranza è presente, niente affatto puro futuro. La vita eterna e la vera comunione, la liberazione non sono utopia, pura attesa dell’inconsistente. La “vita eterna” è la vita reale, anche oggi è presente nella comunione con Gesù. Agostino ha sottolineato questa presenza della speranza cristiana nella sua esposizione del versetto della Lettera ai Romani: “Per la speranza noi siamo salvati” (8,24). Egli dice in proposito: Paolo non insegna che ci sarà speranza per noi, no, egli dice: Noi siamo salvati (Spe salvi). Certamente non vediamo ancora ciò che speriamo, ma siamo già ora corpo del Capo in cui è già tutto presenza ciò che speriamo» [Joseph Ratzinger, Guardare Cristo. Esercizi di fede, speranza e carità, Milano 1989].

Nel 1986, a Collevalenza ho partecipato agli esercizi per sacerdoti e Mons. Luigi Giussani aveva invitato a tenerli Joseph Ratzinger che li ha svolti sulla scia di un volume in cui Josef Pieper tratta filosoficamente di “Amare, sperare, credere”, che oggi il Papa, ampliando le tre “virtù teologali” sul piano teologico e spirituale nell’essenzialità magisteriale sono diventate già due encicliche in attesa della terza sulla fede.
E siccome è possibile comprendere la vera essenza della speranza cristiana e riviverla (e questo è veramente urgente, come il Convegno di Verona ha sottolineato) solo se si guarda in faccia alle imitazioni deformate che oggi cercano di insinuarsi dappertutto, il card. Ratzinger ci ha fatto comprendere la grandezza e la ragione della speranza cristiana mettendo in luce il falso splendore delle sue imitazioni profane, secolarizzate.

Imitazioni profane, secolarizzate della speranza cristiana
E’ partito raccontando il resoconto di un suo amico che fece un viaggio in Olanda riportando di una Chiesa che faceva parlare di sé come di una chiesa migliore per il domani. E trovava questo in contraddizione con seminari vuoti, ordini religiosi senza vocazioni, preti e religiosi che in gruppi voltano le spalle alla loro vocazione, con la scomparsa della confessione, la drammatica caduta alla Messa e via dicendo. Ma dispetto di tutto è la valutazione conclusiva: una Chiesa grandiosa, perché non c’era nessuna parte di pessimismo, tutti andavano incontro al futuro pieni di ottimismo e il fenomeno dell’ottimismo faceva dimenticare ogni decadenza e ogni distruzione; bastava a compensare ogni negativo. Questo ottimismo metodico veniva prodotto da chi interpretava il Concilio con l’ermeneutica cioè l’interpretazione della discontinuità e della rottura, per cui non c’era da spaventarsi del dissolversi del vecchio modo di essere Chiesa per il rinascere di una Chiesa completamente nuova: dal pre-concilio al post-concilio. L’ottimismo metodico si abbinava a una speranza, mentre dissolvendo il rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto- Chiesa che il Signore ci ha donato fino al compimento della storia, era una parodia della fede e della speranza. Però questo ottimismo si abbinava culturalmente e politicamente alla fede liberale nel progresso perenne: il surrogato borghese, secolarizzato della speranza perduta della fede.
In contrapposizione alla fede liberale c’è il pensiero di Ernest Bloch per cui la speranza è l’ontologia del non ancora esistente. Una giusta filosofia non deve mirare a ciò che è (sarebbe conservatorismo reazionario ogni metafisica cioè la realtà o verità), ma a preparare ciò che ancora non è. Giacché ciò che è è, degno di perire; il mondo veramente degno di essere vissuto dev’essere ancora costruito. Il compito dell’uomo creativo è dunque quello di creare il mondo giusto che ancora non esiste; per questo elevato compito la filosofia deve svolgere una funzione decisiva: essa è il laboratorio della speranza, l’anticipazione del mondo di domani nel pensiero, anticipazione di un mondo ragionevole e umano, non più formatosi mediante il caso, ma pensato e realizzato dalla nostra ragione. Per Bloch e per alcuni teologi che lo seguono l’ottimismo è la forma e l’espressione della fede nella storia, ed è perciò doveroso per una persona che vuole servire la liberazione, l’evocazione rivoluzionaria del mondo nuovo e dell’uomo nuovo. La speranza è perciò la virtù di un’ontologia, un’etica, una morale di lotta, la forza dinamica della marcia verso l’utopia.
L’“ottimismo”, che seduce molti, è la virtù teologica di un Dio nuovo e di una nuova religione, la virtù della storia divinizzata, di una “storia” di Dio, dunque del grande Dio delle ideologie moderne e della loro promessa. Questa promessa è l’utopia, il realizzarsi per mezzo della “rivoluzione”, che per sua parte rappresenta una specie di divinità mitica, una “figlia di Dio” in rapporto con il “Dio- Padre” “Storia”. Nel sistema cristiano delle virtù la disperazione, cioè la radicale opposizione verso questa fede e questa speranza immanente, viene qualificata come peccato contro lo Spirito Santo, perché esclude il suo potere di guarire e di perdonare, e si nega così la redenzione. Nella nuova religione vi corrisponde il fatto che il “pessimismo” è il peccato di tutti i peccati, poiché il dubbio per l’ottimismo, per il progresso, per l’utopia è un assalto frontale allo spirito dell’età moderna, è la contestazione del suo credo fondamentale su cui si fonda la sua sicurezza, che è minacciata tuttavia di continuo per la debolezza di quella divinità illusoria che è la storia.
”Tutto questo - racconta Ratzinger mostrando una sua esperienza - mi venne di nuovo in mente quando esplose il dibattito a riguardo del mio Rapporto sulla fede, pubblicato nel 1985. Il grido di rivolta sollevato da questo libro senza pretese culminava nell’accusa: è un libro pessimistico. Da qualche parte si tentò perfino di vietarne la vendita, perché una eresia di quest’ordine di grandezze semplicemente non poteva essere tollerata. I detentori del potere d’opinione misero il libro all’indice. La nuova inquisizione fece sentire la sua forza. Venne dimostrato ancora una volta che non esiste peccato peggiore contro lo spirito dell’epoca che il diventare rei di una mancanza di ottimismo. La domanda non era affatto: è vero o falso ciò che si afferma, le diagnosi sono giuste oppure no; ho potuto constatare che non ci preoccupava di porsi simili questioni fuori moda. Il criterio era molto semplice: è ottimistico oppure no, e davanti a questo criterio il libro era senz’altro fallimentare. La discussione artificialmente accesa sull’uso della parola “restaurazione” che non aveva niente a che fare con quanto detto nel libro, era solo una parte del dibattito sull’ottimismo: sembrava in questione il dogma del progresso. Con la collera che solo un sacrilegio può evocare si picchiava su questa negazione del Dio Storia e della sua promessa. Pensai a un parallelo in campo teologico. Il profetiamo viene da molti congiunto da una parte con la “critica” (rivoluzione, “ermeneutica della discontinuità e della rottura del Vaticano II”), dall’altra con “ottimismo” e in questa forma reso criterio centrale della distinzione fra vera e falsa teologia”.

La vera essenza della speranza cristiana cioè l’incarnazione del Logos e Amore di Dio in Gesù Cristo
L’ottimismo ideologico o atto di fede delle ideologie moderne, questo surrogato della speranza cristiana, deve essere distinto da un ottimismo di temperamento e di disposizione. Simile ottimismo è semplicemente una qualità naturale psicologica che si può unire con la speranza cristiana come con l’ottimismo ideologico, ma per sé non coincide né con l’una né con l’altro. L’ottimismo di temperamento è una cosa bella e utile nelle angosce della vita: chi non si rallegra per la naturale letizia e fiducia che irradia da una persona? Chi non se l’augura per se stesso? Come tutte le disposizioni naturali, un simile ottimismo è anzitutto una qualità moralmente neutrale; di nuovo come tutte le disposizioni deve essere sviluppato e coltivato per formare positivamente la fisionomia morale di una persona. Allora esso può crescere mediante la speranza cristiana e diventare ancora più puro e più profondo; viceversa in un’esistenza vuota e falsa esso può decadere e divenire pura facciata. Importante è non confonderlo con l’ottimismo ideologico, ma anche non identificarlo con la speranza cristiana, la quale può crescere su di esso, ma come virtù teologica è una qualità umana di profondità di gran lunga maggiore e può emergere anche in un temperamento pessimistico.
L’ottimismo ideologico può reggersi culturalmente su base sia liberale che marxista. Nel primo caso esso è fede nel progresso mediante evoluzione e mediante lo sviluppo della storia umana scientificamente guidata. Nel secondo caso è fede nel movimento dialettico della storia, nel progresso mediante lotta di classe e rivoluzione. Le divergenze tra queste decorrenti fondamentali del pensiero moderno sono manifeste; entrambe si sono frantumate in varianti molteplici del modello di fondo: “eresie” che discendono, pur in politiche opposte, dallo stesso ceppo cioè un ottimismo di una secolarizzazione della speranza cristiana; si fonda nel passaggio dal Dio Trascendente al Dio Storia. In questo sta il profondo irrazionalismo di queste strade, a dispetto di tutta la vantata razionalità di superficie.
Lo scopo dell’ottimismo è l’utopia del mondo definitivamente e per sempre libero e felice; la società perfetta, in cui la storia attinge la sua meta e manifesta la vantata sua divinità. La meta prossima è il successo del nostro poter fare. Il fine della speranza cristiana, invece, è il regno, la signoria di Dio, cioè l’unione di uomo e mondo con Dio mediante un atto di divino potere e amore già completo nel crocefisso risorto centro della storia e del mondo, che progressivamente accade nella Chiesa a servizio di tutti e di tutto. Lo scopo prossimo, che ci indica la via e ci conferma la giustezza del grande fine, è la continua presenza di quest’amore e di questo potere che ci accompagna nella nostra attività e ci soccorre là dove finiscono le nostre possibilità.
Scopo delle ideologie è in ultima analisi il successo, in cui possiamo realizzare i nostri piani e desideri. Il nostro fare e potere, in cui confidiamo, sa di essere condotto e confermato da una irrazionale tendenza evolutiva di fondo. La dinamica del progresso fa sì che tutto sia giusto.
Lo scopo invece della speranza cristiana è un dono, il dono dell’amore, che ci viene dato al di là delle nostre possibilità operative; la speranza che esiste questo dono che non possiamo forzare, ma che è la cosa più esenziale per l’uomo che, dunque, non attende il vuoto con la sua fame infinita; garanzia di tanto sono gli interventi dell’amore di Dio nella storia, nel modo più forte la figura di Gesù Cristo, in cui ci viene incontro l’amore divino.
Il prodotto sperato dell’ottimismo dobbiamo alla fine realizzarlo noi stessi e allora aver fiducia che il corso in sé cieco dell’evoluzione alla fine in congiunzione col nostro proprio fare sfoci nel giusto fine. La promessa della speranza, invece, è dono che ci è già stato in qualche modo dato e che attendiamo con fiducia da colui che solo può davvero regalare: da quel Dio che ha già costruito la sua tenda nella storia con Gesù. Tutto ciò significa poi: nel primo caso, nell’ottimismo ideologico, non c’è nulla in realtà da sperare; ciò che aspettiamo dobbiamo farcelo noi stessi e non ci viene dato nulla al di là del nostro potere. Nel secondo caso, nella speranza teologica, esiste una reale speranza al di là delle nostre possibilità, speranza nell’amore illimitato, che è pure potere illimitato.
“L’ottimismo ideologico - osserva Ratzinger - è in realtà pura facciata di un mondo senza speranza, un mondo che con questa illusoria facciata vuole nascondere la sua propria disperazione. Solo così si spiega l’angoscia smisurata e irrazionale, questa paura traumatica e violenta che erompe, quando qualche incidente nello sviluppo tecnico o economico suscita dubbi sul dogma del progresso. Il gusto del terrificante, il violento atteggiamento di un’angoscia reciprocamente fomentata, che abbiamo vissuto dopo Chernobyl, aveva in sé qualcosa di irrazionale e di spettrale, comprensibile unicamente se dietro c’è qualcosa di più profondo che non un caso disgraziato ma, nonostante la sua serietà, limitato. La violenza di queste esplosioni di angoscia è una specie di autodifesa contro il dubbio che può minacciare la fede in una futura società perfetta, giacché l’uomo è per sua essenza rivolto al futuro. Egli non può vivere se questo elemento di fondo del suo essere viene eliminato. A questo punto si colloca anche il problema della morte. L’ottimismo ideologico è un tentativo di dimenticare la morte con il continuo discorrere di una storia protesa alla società perfetta. Qui si dimentica di parlare di qualcosa di autentico e l’uomo viene colmato con una bugia; lo si vede sempre quando la morte stessa si avvicina. Invece la speranza della fede apre su un vero futuro oltre la morte, e solo così i veri progressi che ci sono diventano un futuro anche per noi, per me, per tutti”.

La preghiera è speranza in atto
E il card. Ratzinger conclude: “Un uomo disperato non prega più, perché non spera più; un uomo sicuro del suo potere e di se stesso non prega più, perché si affida soltanto a se stesso. Chi prega spera in una bontà e in un potere che vanno oltre le proprie possibilità. La preghiera è speranza in atto. Nella seconda parte del Padre nostro le nostre ansie e angosce giornaliere si convertono in speranza. E’ presente l’ansia per la nostra riuscita materiale, la pace con il nostro prossimo e infine la minaccia di tutte le minacce: il pericolo di perdere la fede, di cadere nell’abbandono di Dio, di non poter più percepire Dio e di finire così nel vuoto assoluto, esposti a tutti i mali. Nel momento in cui queste mie ansie diventano invocazioni, si apre la strada dai desideri e dalle speranze verso la speranza, dalla seconda parte alla prima del Padre nostro. Tutte le nostre angosce sono in ultima analisi paura per la perdita dell’amore e per la solitudine totale che ne consegue. Tutte le nostre speranze sono perciò nel profondo speranza del grande, illimitato amore: sono speranze del paradiso, il regno di Dio, dell’essere con Dio e come Dio, partecipi della sua natura (2 Pt 1,4). Tutte le nostre speranze sfociano nell’unica speranza: venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà come in cielo così in terra. La terra diventi come il cielo, essa stessa deve diventare cielo. Nella Sua volontà sta tutta la nostra speranza. Imparare a pregare è imparare a sperare ed è perciò imparare a vivere”.


Immagini di speranza così care a Papa Benedetto
Avvenire, 28.11.2007
ELIO GUERRIERO
Dopo «Dio è carità» è stata annunciata l’enciclica sulla speranza. È facile, di conseguenza, immaginare che il Papa voglia dedicare un’enciclica a ciascuna delle virtù teologali, così come Giovanni Paolo II ne dedicò tre a ciascuna delle persone della Trinità.
L’interrogativo a questo punto verte sul motivo per cui Papa Benedetto XVI abbia voluto iniziare dalla carità, anziché dalla fede, secondo l’ordine del catechismo. A sostegno della sequenza scelta dal Papa vi è la decisione di partire non dall’uomo, sia pure credente, bensì dal saldo fondamento dell’amore di Dio. Ha scritto Benedetto XVI: «Dio è in assoluto la sorgente originaria di ogni essere; ma questo principio creativo di tutte le cose è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore» ( Deus caritas est, n. 10).
Di qui l’origine della speranza cristiana, la virtù teologica definita nel modo più convincente da san Paolo nella Lettera ai Romani: chi fa esperienza dell’amore di Dio vive secondo lo Spirito; ha la promessa sicura di essere figlio di Dio e la speranza certa della vita eterna. A questo serrato ragionamento teologico hanno attinto la letteratura (Dante), l’arte figurativa e la musica per edificare un universo simbolico presente nelle chiese e nella cultura del nostro Paese e del mondo.
Radicate nell’intimo dell’esperienza e della fede cristiana, le immagini di speranza hanno generato una «millenaria foresta di simboli» (Baudelaire).
La prima immagine cara a Papa Benedetto, che l’ha voluta riprodotta nel Compendio del Catechismo, è quella dell’albero della vita, o trionfo della Croce, rappresentato nel mosaico absidale della basilica di san Clemente a Roma. Attorno al Cristo sofferente vi sono dodici colombe che simboleggiano i dodici apostoli, ai piedi della croce stanno Maria e Giovanni. Un cespo di acanto cresce alla base della croce e dà origine all’albero lussureggiante della redenzione. Ai piedi dell’albero sgorga una sorgente d’acqua zampillante, che dà vita a quattro rivoli, che simboleggiano i Vangeli, ai quali si dissetano i fedeli.
Un’altra immagine di speranza molto cara a Benedetto XVI è quella della natività.
Nella tradizione francescana essa ha dato origine al presepe con lo scopo di rendere ogni volta contemporanei le persone e gli eventi che accompagnarono la nascita di Gesù. Nel presepe vi è un bambino che «si è fatto così vicino a noi che possiamo dargli tranquillamente del tu e accedere direttamente al cuore di Dio». Vi sono poi Maria e Giuseppe, i pastori e i magi, i primi della schiera dei poveri, dei miti, e dei perseguitati cui sono rivolte le beatitudini di Gesù, questi sanno di non poter attendere giustizia dai potenti e dai giudici del mondo, perciò sperano nella misericordia di Dio che ricolma di beni gli affamati. Vi sono poi il bue e l’asino che, secondo la profezia di Isaia, rappresentano il mondo animale che riconosce l’avvento del Messia, mentre il popolo si rifiuta di capire. Con la sensibilità contemporanea possiamo riconoscervi l’anelito del cosmo a sua volta in attesa di salvezza.
La terza immagine è quella dell’Agnello mistico raffigurata nel modo più compiuto dal pittore fiammingo Jan van Eyik nella cattedrale di san Bavone a Gand. È l’immagine della Gerusalemme celeste nella quale martiri e confessori, chierici e laici, dotti e semplici rendono onore, gloria e benedizione a Dio Padre e a Cristo che ha redento gli uomini con il suo sangue. A lui sono affidate le chiavi della storia.
Per questo i suoi discepoli e gli uomini tutti possono riporre in Lui la loro speranza.


L’IDEOLOGIA DEL «GENERE» - QUEL GRIMALDELLO DIETRO UNA CAUSA BUONA
Avvenire, 28.11.2007
MARCO TARQUINIO
Non sempre ai titoli corrispondono testi coerenti e conseguenti. Ma qualche volta accade. E non è sempre u­na buona notizia. La riprova la offre – nuovo caso in questa legislatura – il la­vorìo parlamentare intorno a una pro­posta di legge dall’intitolazione sugge­stiva e, per certi versi, emozionalmente coinvolgente eppure in grado di far scat­tare più di un serio allarme. Ci riferiamo al testo unificato elaborato in Commis­sione Giustizia della Camera per stabili­re «Misure contro gli atti persecutori e la discriminazione fondata sull’orienta­mento sessuale o sull’identità di gene­re ». Un testo sbrigativamente ribattez­zato «legge anti-omofobia» (ma non so­lo e soltanto di questo si tratta) e fatto passare per un «adeguamento» a «obbli­gatori » standard normativi europei (che in realtà obbligatori non sono affatto). Un progetto, lo diciamo subito a scanso di equivoci, che non inquieta di certo per l’obiettivo che suggerisce – l’impegno contro persecuzioni e discriminazioni per motivi di ordine sessuale –, ma per le categorie giuridiche che punta a intro­durre nel nostro ordinamento e per il mo­do in cui persegue questo fine dichiara­to, appunto, sin dal titolo.
Il primo allarme viene fatto suonare dal­l’incipit del titolo della bozza – «Misure contro gli atti persecutori» – e cioè dall’importazione nel codice penale italiano del cosiddetto reato di molestia grave e insistente ( stalking). Un’operazione purtroppo condotta all’insegna di un’indeterminatezza che disorienta e sgomenta. La norma, se davvero venisse varata, punirebbe infatti «chiunque reiteratamente, con qualunque mezzo, minaccia o molesta taluno in modo tale da infliggergli un grave disagio psichico» o arriva a «pregiudicare in maniera rile­vante il suo modo di vivere». Come s’intuisce facilmente, le possibili applicazioni di una simile vaghissima norma sugli «atti persecutori» sono tante, troppe. Si va dalla situazione in cui un corteggiatore asfissiante importuna una malcapitata a quella di un capo ufficio che impartisce disposizioni, soggettivamente male accolte, a un suo dipendente. Ma si potrebbe anche arrivare – perché no? – alla condizione di «infelicità» procurata a un 'sottoposto' da chi applica una qualunque forma di disciplina (regole associative, obblighi e doveri legati a un particolare status).
Il secondo allarme nasce da un vizio a­nalogo a quello di cui ci siamo appena oc­cupati – la genericità – rafforzato da una dose d’urto di malizia legislativa. La se­conda parte del titolo del testo unificato – «(Misure) contro la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o sul­l’identità di genere» – è, del resto, elo­quente. E il senso complessivo dell’arti­colo 3 è scoperto: l’obiettivo ideologico perseguito è infatti l’introduzione nel­l’ordinamento italiano del concetto finora sconosciuto di gender ( genere), rendendolo sostanzialmente equivalente a «orientamento sessuale», e di creare la base per sostituirlo a quelli di «uomo», «donna» e «sesso». Puntando, per di più, a equipararlo a «razza», «etnia», «nazione » e «religione».
La malizia sta nel mezzo prescelto. Una regola orientata, secondo un sentimento giustamente condiviso, a sanzionare intollerabili atti di violenza e di discriminazione compiuti, per motivi di ordine sessuale, contro la persona viene fatta evolvere in una norma posta a presidio di una pretesa categoria discriminata (gli omosessuali). Ma la malizia sta anche nella strumentalità di tutto questo. Sembra quasi – e senza quasi – che si voglia forgiare un grimaldello in grado di spalancare altre porte legislative. E che si pretenda di farlo, in forza di legge, nel nome della «categoria» sostituita alla «persona », del «genere» dissociato dal «sesso biologico» ovvero dell’opzione culturale sovraordinata alla natura.
C’è da augurarsi che in Commissione Giustizia della Camera, e non solo lì, ci si ripensi. Che si corregga seriamente il titolo, e si riveda saggiamente il testo.


E lo scienziato si arrese all’anima
Avvenire, 28.11.2007
DI ANDREA LAVAZZA
« M i considero un neuroscien­ziato 'spirituale'. Nella mia prospettiva, l’anima si rife­risce all’essenza 'non fisica' della persona che si manifesta come coscienza, pensiero, sentimenti e volontà. Questa parte spiri­tuale dell’essere umano continua a esistere dopo la morte fisica del corpo». Mario Beauregard, ricercatore dell’Università di Montréal, ha appena pubblicato un libro divulgativo che già dal titolo ( The Spiritual Brain. A Neuroscientist’s Case for the Exi­stence of the Soul) sfida le convinzioni dif­fuse tra i suoi colleghi. E sta prepa­rando un volume rivolto agli addetti ai lavori contro la visione materiali­stica dell’uomo.
Perché la maggior parte dei neuro­scienziati nega l’esistenza dell’ani­ma?
«Le neuroscienze sono lo studio del cervello nei suoi vari livelli di orga­nizzazione, con un’impostazione necessariamente materialistica e naturalistica. Perciò quasi tutti gli studiosi ritengono che la loro ricer­ca non abbia nulla a che fare con l’anima, perché essa rappresenta l’aspetto 'non materiale', mentre il materialismo costi­tuisce la tesi metafisica di base. Di conse­guenza, le funzioni mentali superiori, la coscienza e il sé possono ridursi a processi neurochimici e neuroelettrici. E anche le e­sperienze religiose, spirituali e mistiche ( Ersm) diventano sottoprodotti dell’attività cerebrale. In questa cornice ideologica, l’a­nima è semplicemente un’illusione».
Che cos’è allora il 'cervello spirituale' del titolo del suo libro?
«Sono le strutture e le reti cerebrali coin­volte in vari tipi di Ersm. Il concetto è lega­to alle 'neuroscienze spirituali', un nuovo ambito di ricerca all’incrocio tra psicolo­gia, religione, spiritualità e neuroscienze. Il principale obiettivo è quello di esplorare le basi neuronali delle Ersm. È decisivo, però, sottolineare che la comprensione del sub­strato neuronale di tali esperienze non di­minuisce, né svaluta il loro significato e il loro valore».
A questo proposito, Lei ha condotto ricer­che su un gruppo di suore cattoliche...
«Abbiamo usato la risonanza magnetica funzionale per misurare l’attività cerebrale di alcune carmelitane durante lo stato sog­gettivo di unione mistica con Dio. Il punto di partenza era l’ipotesi, avvalorata da stu­di su persone epilettiche intensamente re­ligiose, che il lobo tem­porale fosse la specifica area del cervello asso­ciata alle esperienze di fede. I nostri risultati dicono, al contrario, che sono attive almeno dodici zone diverse del­l’encefalo durante le fa­si di estasi mistica. Zo­ne che normalmente vengono coinvolte in varie funzioni, dalla percezione alle emozio­ni alla rappresentazio­ne corporea. Ciò contraddice l’idea di un’'area di Dio' specificamente localizza­ta ».
Ci sono prove scientifiche dell’esistenza dell’anima?
«Non ancora. Tuttavia, esistono alcuni dati aneddotici relativi a casi di esperienze di quasi-morte (Nde). Quello della cantante americana Pam Reynolds è il più noto, e inspiegabile secondo la scienza materiali­stica. Nel 1991, le fu diagnosticato un gran­de aneurisma cerebrale inoperabile. Il neurochirurgo Robert Spetzler di Phoenix propose di tentare con la tecnica dell’arre- sto cardiaco ipotermico: alle basse tempe­rature agire sui vasi è più agevole, mentre i tessuti possono resistere più a lungo senza ossigenazione. La Reynolds accettò il ri­schio. Durante l’intervento, la si poteva considerare 'morta': il suo cuore fu ferma­to e il suo elettroencefalogramma divenne piatto. Il tronco encefalico, responsabile delle funzioni automatiche, e i suoi emisfe­ri cerebrali non davano più risposte, men­tre la temperatura corporea scese a 22 gra­di. A quel punto, i medici aprirono il cranio con una sega speciale. Successivamente, Pam riferì che in quel preciso momento si sentì proiettata fuori del corpo e fluttuante sul tavolo operatorio. Ma la cosa più note­vole è che raccontò nei dettagli l’intervento (che non conosceva) e quello che diceva l’équipe in azione. Infi­ne, entrò in un tunnel, al cui termine vide una luce calda, e speri­mentò un’unione della propria anima con Dio.
Il caso è importante perché tutto accadde mentre la paziente era 'clinicamente morta' e ciò era certificato da persone esperte dotate di strumenti precisi; i­noltre, Pam raccontò fatti verificabili che non avrebbe potuto sapere se non fosse stata cosciente nel momento in cui avveniva­no ».
Tutto ciò che cosa dimostrerebbe?
«Innanzitutto, indica che la mente, la co­scienza e il sé possono prolungare la loro esistenza quando il cervello è totalmente 'spento' e si è in presenza di morte clinica. In secondo luogo, in quelle condizioni, si hanno comunque le Ersm. E ci si può per­fino spingere ad affermare, sulla base di molti altri racconti diffusi in tutto il mondo e in tutte le culture, che abbiamo la possi­bilità di connetterci, a livello mentale, con una coscienza superiore, cosicché i nostri atti mentali diventano distinti dal cervello, sebbene osservabili per mezzo di esso».
Le neuroscienze che cosa possono dire sulla religione?
«Le tecniche di visualizzazione del cervello possono mostrarci che cosa avviene nel cervello – dal punto di vista chimico ed e­lettrico – durante le esperienze religiose, spirituali e mistiche. Tuttavia, queste infor­mazioni non ci dicono nulla circa la feno­menologia di tali esperienze (la prospettiva di prima persona; l’oggetto cui si riferisco­no). Inoltre, la realtà esterna di Dio non può essere né confermata né smentita dal­l’individuazione dei correlati neuronali delle Ersm. Ecco perché, a mio parere, non
ha senso parlare di neuroteologia».
Ricapitolando, quali sono gli argomenti contro un’interpretazione strettamente materialistica della mente?
«La scienza che adotta questa prospettiva è costretta a negare o a respingere o a cerca­re di dissolvere tramite una spiegazione tutti i fenomeni che sfidano il materiali­smo. E si tratta di una mole crescente che, oltre alle esperienze di quasi-morte, com­prende anche l’effetto placebo (modifica­zioni fisiologiche indotte dalla semplice credenza di aver assunto una sostanza,
ndr). Soltanto una prospettiva non mate­rialistica può offrire spiegazioni scientifi­che di questi fenomeni elusivi, che la ricer­ca attuale accantona».




«Io, oncologa con il cancro, dico no all’eutanasia» - Sylvie Menard: quando ho scoperto la malattia è cambiato il mio sguardo sull’esistenza
DIGNITÀ DEL VIVERE
Avvenire, 28.11.2007
DA MILANO MARINA CORRADI
E ra un giorno di aprile del 2005. La dottoressa Sylvie Menard, 57 anni, direttore del Dipartimento di oncologia sperimentale all’Istituto dei Tu­mori di Milano, era alla mensa. D’improvviso un capogiro, uno svenimento. Nulla di grave, forse il bicchiere d’acqua troppo fred­da che aveva appena bevuto. Co­munque, i colleghi le impongono di fare un esame del sangue. Lei è tranquilla. La sua salute è ottima. Ma i risultati della elettroforesi ri­velano un picco altissimo di im­munoglobuline. Un esito che si spiega solo in un modo, e quel mo­do, un’oncologa come la Menard lo conosce benissimo. «Era il 26 a­prile. Quel giorno, la donna che e­ro stata fino ad allora è morta. L’e­same segnalava un tumore del mi­dollo, un tumore non guaribile. A casa mi sono guardata allo spec­chio: impossibile, mi dicevo, io sto benissimo. Sono riuscita a addor­mentarmi solo quando mi sono convinta che, certamente, si trat­tava di un errore».
Sylvie Menard oggi ha 60 anni. Il viso abbronzato sopra il camice bianco, è al suo posto, all’Istituto dei tumori. Sembra stare benissi­mo, ma è costantemente in tera­pia. Quell’esame, non era un er­rore. Il cancro c’era, e di quelli per cui non c’è ancora una cura riso­lutiva. Sono stati tre anni di una battaglia, che continua. Sylvie Me­nard lavora, e fa una vita norma­le. Ciò che è cambiato, dice, è il suo sguardo sulla vita. Parigina, cresciuta nella Sorbona del 1968, arrivò in Italia con il matrimonio. Dal ’69 in via Venezian, allieva di Umberto Veronesi, è, dice, laica e non credente. Del suo maestro ha condiviso l’impostazione filosofi­ca. E sulll’eutanasia, è sempre sta­ta d’accordo con lui. Fino a quan­do non si è trovata dall’altra parte della barricata. Malata, e di quale malattia. Allora verità e valori so­no stati rivoluzionati. Tutto è cam­biato: «Io, sono nata di nuovo».
La scossa è stata terribile, un ter­remoto. Un oncologo non può il­ludersi, sa. E davanti a quella pro­gnosi, il medico che per tutta la vi­ta ha parlato di cancro si trova sba­lordito e spiazzato: il nemico, ora, è addosso. «Ho conosciuto la im­possibilità, d’un tratto, di fare qualsiasi progetto. Come avere davanti un muro. Il futuro, sem­plicemente non c’era più. Ho smesso di mettere nuove piante in giardino. Tanto, dicevo, non le ve­drò crescere».
Scopre cos’è l’attesa di una dia­gnosi, quando il paziente sei tu. «Il terribile tempo dell’attesa», lo chiama. Quando aspetti l’esito di una biopsia, e non pensi più a nient’altro: «Fissi il telefono, a­spetti, prigioniero di una osses­sione ». Capisce cos’è, essere co­me bloccati in un limbo, quando sai che il male cammina, ma an­cora non ti puoi curare. A casa, l’angoscia dei familiari. Al lavoro, i colleghi. Quelli che vengono a dirti semplicemente : conta su di me. Ma anche quelli che se ti in­travvedono in fondo al corridoio svoltano l’angolo. «Ho scoperto che esiste ancora una parola tabù. È la parola cancro. C’è chi ha pau­ra di te, come se fossi contagioso». E quando dopo venti lunghissimi giorni la terapia può partire, co­me con una improvvisa ribellione dice di no. Che non vuole curarsi. «Era maggio, i primi caldi. Avevo voglia di vivere quell’estate. Per­chè curarmi, se tanto non posso guarire ? Avevo voglia di restare ancora fra i sani'. E’ un’altra not­te difficile. («Quando hai un can­cro – dice – quello che conta sono le notti»). Ma il giorno dopo sce­glie: farà la terapia. 'Qualcosa in me ha reagito. Anche senza guari­re, prolungare la vita di qualche anni, improvvisamente mi è di­ventato fondamentale, volevo vi­vere fino in fondo».
Una metamorfosi attraversa la dottoressa. 'E’ cambiata la consa­pevolezza della vita stessa. Quan­do sei sano, pensi di essere im­mortale. Quando invece la tua fi­ne non è più virtuale, la prospet­tiva si capovolge. Io, il testamento biologico, da sana, lo avrei sotto­scritto. Ora no. Quando hai un cancro, diventi un’altra persona, e ciò che pensavi prima non è più vero. Ciò che da sani non si capi­sce, è che i pazienti sono una po­polazione diversa. Anche io, pri­ma, parlavo di «dignità della vita», una dignità che mi sembrava in­taccata in certe condizioni di ma­lattia. Da sani si pensa che dove­re essere lavati e imboccati sia in­tollerabile, 'indegno'. Quando ci si ammala, si accetta anche di vi­vere in un polmone di acciaio. Ciò che si vuole, è vivere. Non c’è nul­la di indegno in una vita total­mente dipendente dagli altri. E’ indegno piuttosto chi non riesce a vederne la dignità».
Nel tunnel della chemioterapia la Menard vede tutte le certezze del­la sua vita smentite dalla forza del­la concreta realtà. Guarda con al­tri occhi al dibattito sull’eutana­sia. Pensa a Eluana, la ragazza da molti anni in stato vegetativo che il padre vorrebbe lasciare morire. «Ma lo sappiamo, che quella ra­gazza non ha nessuna spina da staccare? Che l’ipotesi è quella di lasciarla morire di fame e di disi­dratazione? Sappiamo che ’stato vegetativo permanente’ non vuo­le dire che non c’è nessuna atti­vità cerebrale? In un lavoro scien­tifico recente è stato dimostrato che se si mette davanti agli occhi di uno di questi malati una foto­grafia di persone care, e si fa una risonanza magnetica, si vede l’ac­censione di una attività cerebrale. Come si può decidere di sospen­dere l’alimentazione?».
Nelle parole della Menard ritrovi quella strana discrasia che noti sempre fra la realtà delle corsie e il dibattito pubblico sulla eutana­sia. Dove la «morte dignitosa» è un «diritto». Nella realtà dolente dei reparti terminali, i malati invece vogliono vivere. Sylvie Menard: «Il favore di tanti all’eutanasia si spie­ga con una sorta di inconscio e­sorcismo, un volere allontanare da sè la possibilità della malattia e del dolore. È una mancanza di imme­desimazione nel malato. Perchè, quando poi ti ci trovi, cambi idea» Ciò che domandano davvero i ma­­lati, dice la Menard, è di non sof­frire. 'Deve essere fatto tutto il possibile, contro il dolore. E in questo in Italia siamo indietro. Bi­sogna insegnare ai medici a usare gli oppiacei, e a non lasciare un paziente nella sofferenza per la paura di usare questi farmaci. An­che questo fa parte di un decalo­go su cui lavora la Commissione per la umanizzazione della medi­cina, voluta da Livia Turco, di cui faccio parte'.
La vera battaglia, dice, è contro il dolore. Non per una morte che, nella esperienza amplissima del­­l’Istituto dei Tumori, i malati «ve­ri » non chiedono. Chiedono, in­vece di non essere abbandonati. 'Temo che l’eutanasia possa es­sere la logica avanzante, se di tan­ti malati, quando muoiono, si di­ce solo: finalmente', dice la Me­nard. «In Olanda – aggiunge – ci sono 10 mila malati che chiedono l’eutanasia all’anno. L’80 per cen­to sono malati di cancro, assistiti nel migliore dei modi dal punto di vista medico. E allora, mi do­mando, come mai tante richieste? Ho il dubbio che sia perchè è gen­te sola, che avverte attorno una tacita pressione a levare il distur­bo. Che avverte che, mentre vie­ne ottimamente curata, la sua presenza è ormai di troppo. Che, se muoiono, qualcuno dirà: final­mente. E allora si adeguano, e ob­bediscono ». Ha ricominciato a curare le sue piante. I colleghi le hanno regala­to una giovanissima quercia. E’ lì nel vaso accanto alla scrivania. Ha, dice, «una nuova gerarchia di va­lori ». Vola a Parigi, per ogni festa di famiglia, non se ne perde più u­na. La domenica si siede a con­templare il suo giardino. Le pare bellissimo, e bellissima ogni mat­tina, qualunque numero ne resti. Ogni giorno da vivere, nessuno da sprecare.
«Il testamento biologico, da sana, l’avrei sottoscritto. Ora no. Quando hai un tumore diventi un’altra persona e ciò che pensavi prima non è più vero». «Quello che chiedono i malati è di non soffrire. Si deve fare tutto il possibile contro il dolore» «All’improvviso ho conosciuto l’impossibilità di fare qualsiasi progetto. Il futuro non c’era più. Ho smesso di mettere nuove piante in giardino. Tanto, dicevo, non le vedrò crescere» Ora ha ricominciato E ogni giorno le appare bellissimo, da vivere.


Padova Scola: quella tecnoscienza che illude l’uomo

DA PADOVA
FRANCESCO DAL MAS
Avvenire, 28.11.2007
È proprio vero che la tecnoscienza libera e rende felice l’uomo? Il patriarca di Venezia, Angelo Scola, ha qualche dubbio. E ieri sera hanno dimostrato di averlo anche quanti hanno affollato l’aula magna della più storica università italiana, quella di Padova, per ascoltare il cardinale sul tema 'Il cuore e la grazia', che riassumeva dieci anni di convegni sull’attualità di sant’Agostino organizzati dall’associazione Rosmini, dalla Pastorale universitaria diocesana di Padova e da una decina di collegi ed istituti. Nell’occasione, don Giacomo Tantardini ha presentato il volume Il cuore e la grazia in sant’Agostino, e specifici contributi sono stati portati dal rettore Vin­cenzo Milanesi e dal procuratore Pie­tro Calogero.
Dopo essersi soffermato sull’umiltà come la via maestra, passaggio obbligato del magistero di Sant’Agostino, e dopo aver ricordato la lectio agosti­niana – specie in De libero arbitrio – sulla volontà e la grazia, il patriarca ha sottolineato che proprio questo testo mette in campo due questioni fondamentali per il cosiddetto uomo postmoderno. La felicità e la libertà.
«Così come le domande di verità e di giustizia sono state le più dibattute dall’uomo moderno (fino alla caduta dei muri, per intenderci), oggi le domande di felicità e di libertà sono diventate l’emblema principe del postmoderno », ha sottolineato Scola. Le risolve la tecnoscienza? Evidentemente no, se­condo il patriarca. Anzi. «Non possia­mo negare che il dominio della tecno­scienza sulla nostra esistenza perso­nale e sociale è divenuto assai rilevan­te nelle democrazie avanzate, soprat­tutto dell’Occidente. La tecnoscienza – ha ribadito Scola – sembra sostituire nella mentalità corrente le religioni o le filosofie nel dirci che cosa è la vita nella sua origine, nel suo svolgimento e nel suo termine. A ben vedere, il fe­nomeno stesso della globalizzazione è strettamente dipen­dente dal fatto che l’Occidente sta im­ponendo a tutto il mondo una conce­zione della felicità come puro prodot­to progressivo della tecnoscienza». Tec­noscienza che sem­bra dare all’uomo il potere di esser feli­ce. «Non solo di vo­lere la felicità ma di poterla realizzare da se stesso, diretta­mente, senza in alcun modo riceverla come un dono». Si esprime così la pre­tesa di una libertà incondizionata. U­na libertà che ha in suo potere tutto: «Posso, perciò devo», questo è l’impe­rativo categorico della tecnoscienza. Il potere del sapere scientifico – come spiega Scola – si do­cumenta, da una parte, nel suo uni­versalismo teorico e pratico (in antitesi alla molteplicità e conflittualità delle religioni), dall’altra nell’enorme incre­mento di possibilità che la scienza, at­traverso la tecnica, mette a disposizio­ne del mondo. «Co­sì la tecnoscienza - non ha dubbi in proposito il patriarca - incentiva di fat­to la rinuncia della ragione a porre le domande sui fondamenti ('Ed io chi sono? Chi alla fine mi assicura, oltre la morte, col suo amore?'). E sospinge la libertà a impegnarsi quasi esclusiva­mente nelle realizzazioni affidate ad una tecnicità sempre più potente e perciò alla fine sempre più autogiusti­ficantesi. Si intravede qui una forma post-moderna di utopia non priva di pesanti conseguenze a livello sociale. Infatti tutto ciò che non rientra nel­l’ottica di questa sorta di 'universali­smo scientifico' viene tutt’al più rele­gato in una specie di riserva indiana, che non può aspirare ad assumere ri­levanza pubblica universale».
È una mentalità crescente, alla quale non basta, tuttavia, contrapporre il la­mento e la ricerca del colpevole. Ma la fede intesa come risposta umana­mente compiuta, cioè laddove «gli uo­mini e le donne del nostro tempo si in­contrino concretamente – dove si tro­vano ad amare e a lavorare, cioè nella loro vita reale – con comunità cristia­ne in cui sia praticabile l’esperienza del dono».
Il patriarca di Venezia, al convegno sull’attualità di Sant’Agostino, ha parlato della nuova utopia odierna che sostituisce religioni e filosofie: «Dà la sensazione di aver raggiunto una libertà totale: posso, perciò devo»



«Io pastore italiano missionario a Mosca»Alberto Savorana, Il Giorno/Il Resto del Carlino/La Nazione
28.11.2007


Una Chiesa amata dal suo popolo in un Paese che ha bisogno di una rievangelizzazione sistematica – intervista al Card. Angelo Bagnasco
Mario Ponzi, L'Osservatore Romano 28.11.2007