domenica 11 novembre 2007

«Iracheno e cristiano: costretto a scappare»

Famiglia minacciata. La storia di Jalal, profugo in Italia
Avvenire, 10.11.2007

DI JALAL MIKHAIL
Ero l’ultima persona che avrebbe vo­luto lasciare il mio Paese, l’Iraq. Amo come un pazzo la mia terra, mi sen­to iracheno, io sono iracheno come tutta la mia famiglia. Per questo, pur piangendo di dolore per le nostre sventure, continuavo a pensare, a sperare tenacemente assieme a mia moglie che un giorno le cose sarebbe­ro andate meglio, che qualcosa sarebbe cambiato. Sono iracheno e cristiano caldeo: da secoli la nostra Chiesa si è radicata, vive in queste terre. Iracheno e cristiano, senza aver mai pensato che questo dovesse rap­presentare un problema per la mia tran­quillità, addirittura per la mia esistenza. Ma incredibilmente lo è diventato, sono un pro­fugo. Per questo scrivo sotto pseudonimo. Difficoltà non me ne sono mancate in pas­sato: dopo 14 anni di servizio militare com­presa la guerra all’Iran, ho aperto una pic­cola attività commerciale di liquori e poi di computer. Grazie alla conoscenza delle lin­gue, in particolare l’italiano, avevo già la­vorato come interprete con la Croce rossa internazionale e alcune associazioni uma­nitarie. Vita dignitosa ma non serena per­ché eravamo sotto il regime di Saddam Hus- sein. Guardati a vista come minoranza, ma più o meno tollerati.
I giornalisti italiani
Alla fine del 2002, pochi mesi prima della guerra, sono arrivati i giornalisti stranieri compresi gli italiani. Una telefonata, un pri­mo contatto di persona: arruolato sul cam­po. Sono diventato uno “stringer”: la guida, il traduttore, il procacciatore di notizie e se necessario di cibo e di tutto il necessario. L’uomo di fiducia in una Baghdad in guer­ra. Non nascondo che mi fa piacere se a­desso talora mi chiamano «collega». Un me­se di guerra con i giornalisti, l’arrivo degli americani e la speranza di poter finalmen­te costruire un futuro normale per i miei fi­gli: quella che voi in Occidente chiamate u­na vita normale. Ogni mese mi ripetevo che le cose sarebbero andate meglio, mentre i segnali erano sempre peggiori. La man­canza di un governo forte, gli attentati, i ra­pimenti dei nostri preti e le bombe contro le chiese a Baghdad come a Mosul.
La sopravvivenza
Accompagnando i giornalisti ho finito con il farmi una precisa idea sulla situazione po­litica. Sono stato testimone di attentati, co­me delle prime elezioni del nuovo Iraq. Ma la sera, quando rientravo a casa, era la vita quotidiana a restare l’ostacolo più difficile da superare. Ogni giorno, giorno dopo gior­no. Intanto avevo trasformato la mia attività principale in agenzia di trasporti. Ancora due anni fa, nel 2005, l’energia elettrica a Baghdad era distribuita per un paio d’ore al giorno. I miei figli, come tutti al quartiere Hay al-Wahda, studiavano a lume di can­dela. Adesso è peggio: la corrente elettrica arriva per un paio d’ore ma ogni due o tre giorni. La scorsa estate siano rimasti una settimana senza energia. Una settimana con punte di 60 gradi centigradi. Galleggia­mo sul petrolio ma, non ci crederete, la ben­zina è introvabile a Baghdad. Due anni fa un litro di benzina costava circa 200 dinari, pa­ri a 25 centesimi di euro. Ora il prezzo è rad­doppiato. Ma non ci si può rifornire: le pom­pe sono quasi sempre vuote. Vita difficile, ma non abbastanza da farmi desistere.
Le minacce
Ma l’ambiente per noi caldei è diventato sempre più ostile non solo per le difficili condizioni di sopravvivenza. Andare all’u­niversità o a scuola, specie per le nostre ra­gazze, è ormai divenuto impossibile: pau­ra degli attentati e dei rapimenti. E poi l’ob­bligo di indossare il velo a scuola come nei mercati. Una violenza psicologica contro di noi cristiani che è diventata, subdolamen­te, una vera persecuzione. Frasi pronun­ciate per strada o strane visite nel negozio: «Ma come, qui vivono ancora cristiani?». E se uno decide di restare lo stesso i capi de­gli estremisti ti impongono di mettere una tenda davanti alla porta, come prescritto dall’islam, mentre altoparlanti provocato­riamente collocati sui muri di cinta delle nostre case diffondono versi del Corano. Sono arrivati a scrivere sui muri di una chie­sa di un quartiere vicino: «O Maometto, pre­ghiamo di darci la vittoria».
Le condizioni per chi resta
Nel quartiere di Dora, quello dei cristiani, c’erano oltre 5mila famiglie. Ora saranno u­na ventina. Queste le condizioni per chi re­sta. Pagare la jizia, la tassa coranica impo­sta a quelli che loro chiamano «miscreden­ti ». Una consuetudine prima sconosciuta in Iraq. Sono arrivati a chiedere 1 milione di dinari al mese, pari a 800 dollari. «Così ci aiutate a lottare contro l’occupante e vi comportate da bravi cittadini», ci spiega­vano con le loro barbe lunghe i capi estre­misti sunniti. Oppure una famiglia caldea deve dare in sposa una nostra ragazza a un loro guerrigliero. Infine, terza possibilità, lasciare la casa a loro disposizione senza portare via nulla.
La fuga
A maggio, aprendo il negozio, ha trovato u­na busta con dentro un proiettile e un e­ditto del Consiglio dei mujaheddin: «Devi lasciare la tua casa e il negozio entro 24 o­re altrimenti porteremo a compimento la legge». Non c’era più la possibilità di resta­re.
Ma nemmeno fuggire è stato facile: ho venduto in segreto a un parente, a prezzo stracciato, l’auto dell’agenzia di trasporti. Nessuno deve sapere che vuoi scappare o che stai incassando denaro contante. Ti ra­pirebbero. Anche per questo non ho ven­duto i mobili, ma solo raccomandato a un mio zio di trasferirsi nella mia vecchia abi­tazione. Almeno lui cercherà di conservare al meglio le nostre poche cose. Solo a un vi­cino di casa, un caldeo di cui avevo fiducia, l’ultima sera ho detto: «Ti saluto, scappo al Nord, verso Mosul». Meglio non dare indi­cazioni precise neanche agli amici. Ho af­fittato un gippone che mi è costato mille dollari. Destinazione Damasco. Un viaggio terribile, per il rischio degli attentati e la pre­senza delle bande estremiste. Dicevo a mia moglie e ai miei figli: «Pregate il Signore e anche Maria ausiliatrice, la nostra patro­na ». Siamo arrivati alla frontiera irachena ma le guardie non volevano farci passare. A­vevo ottenuto, grazie all’interessamento dei colleghi italiani, un visto turistico. Due ore di attesa. Li abbiamo supplicati, i miei figli erano in lacrime. Che fare? «Siamo irache­ni come voi. Perché ci volete del male?». Chiedevano mille dollari per farci passare. Una cifra per me impossibile. Ho trattato: 100 dollari a testa, 600 dollari per portare in salvo la mia famiglia. Altri 400 dollari per i visti e per «velocizzare» la pratica alla fron­tiera siriana. Ce l’abbiamo fatta. Solo pas­sato il confine ci siamo sentiti in salvo.
E ora?
Sono in Italia da poco più di una settimana. Ho tanti amici italiani, ho lavorato con loro sentendomi rispettato e rispettandoli. Per questo spero che l’Italia possa diventa­re per me una seconda patria, lo chiedo al­l’Italia e da cristiano mi appello anche alla Chiesa: aiutatemi a costruire un futuro per Marleene, Morin, Nadia e Moris, i miei quat­tro figli.