Famiglia minacciata. La storia di Jalal, profugo in Italia
Avvenire, 10.11.2007
DI JALAL MIKHAIL
Ero l’ultima persona che avrebbe voluto lasciare il mio Paese, l’Iraq. Amo come un pazzo la mia terra, mi sento iracheno, io sono iracheno come tutta la mia famiglia. Per questo, pur piangendo di dolore per le nostre sventure, continuavo a pensare, a sperare tenacemente assieme a mia moglie che un giorno le cose sarebbero andate meglio, che qualcosa sarebbe cambiato. Sono iracheno e cristiano caldeo: da secoli la nostra Chiesa si è radicata, vive in queste terre. Iracheno e cristiano, senza aver mai pensato che questo dovesse rappresentare un problema per la mia tranquillità, addirittura per la mia esistenza. Ma incredibilmente lo è diventato, sono un profugo. Per questo scrivo sotto pseudonimo. Difficoltà non me ne sono mancate in passato: dopo 14 anni di servizio militare compresa la guerra all’Iran, ho aperto una piccola attività commerciale di liquori e poi di computer. Grazie alla conoscenza delle lingue, in particolare l’italiano, avevo già lavorato come interprete con la Croce rossa internazionale e alcune associazioni umanitarie. Vita dignitosa ma non serena perché eravamo sotto il regime di Saddam Hus- sein. Guardati a vista come minoranza, ma più o meno tollerati.
I giornalisti italiani
Alla fine del 2002, pochi mesi prima della guerra, sono arrivati i giornalisti stranieri compresi gli italiani. Una telefonata, un primo contatto di persona: arruolato sul campo. Sono diventato uno “stringer”: la guida, il traduttore, il procacciatore di notizie e se necessario di cibo e di tutto il necessario. L’uomo di fiducia in una Baghdad in guerra. Non nascondo che mi fa piacere se adesso talora mi chiamano «collega». Un mese di guerra con i giornalisti, l’arrivo degli americani e la speranza di poter finalmente costruire un futuro normale per i miei figli: quella che voi in Occidente chiamate una vita normale. Ogni mese mi ripetevo che le cose sarebbero andate meglio, mentre i segnali erano sempre peggiori. La mancanza di un governo forte, gli attentati, i rapimenti dei nostri preti e le bombe contro le chiese a Baghdad come a Mosul.
La sopravvivenza
Accompagnando i giornalisti ho finito con il farmi una precisa idea sulla situazione politica. Sono stato testimone di attentati, come delle prime elezioni del nuovo Iraq. Ma la sera, quando rientravo a casa, era la vita quotidiana a restare l’ostacolo più difficile da superare. Ogni giorno, giorno dopo giorno. Intanto avevo trasformato la mia attività principale in agenzia di trasporti. Ancora due anni fa, nel 2005, l’energia elettrica a Baghdad era distribuita per un paio d’ore al giorno. I miei figli, come tutti al quartiere Hay al-Wahda, studiavano a lume di candela. Adesso è peggio: la corrente elettrica arriva per un paio d’ore ma ogni due o tre giorni. La scorsa estate siano rimasti una settimana senza energia. Una settimana con punte di 60 gradi centigradi. Galleggiamo sul petrolio ma, non ci crederete, la benzina è introvabile a Baghdad. Due anni fa un litro di benzina costava circa 200 dinari, pari a 25 centesimi di euro. Ora il prezzo è raddoppiato. Ma non ci si può rifornire: le pompe sono quasi sempre vuote. Vita difficile, ma non abbastanza da farmi desistere.
Le minacce
Ma l’ambiente per noi caldei è diventato sempre più ostile non solo per le difficili condizioni di sopravvivenza. Andare all’università o a scuola, specie per le nostre ragazze, è ormai divenuto impossibile: paura degli attentati e dei rapimenti. E poi l’obbligo di indossare il velo a scuola come nei mercati. Una violenza psicologica contro di noi cristiani che è diventata, subdolamente, una vera persecuzione. Frasi pronunciate per strada o strane visite nel negozio: «Ma come, qui vivono ancora cristiani?». E se uno decide di restare lo stesso i capi degli estremisti ti impongono di mettere una tenda davanti alla porta, come prescritto dall’islam, mentre altoparlanti provocatoriamente collocati sui muri di cinta delle nostre case diffondono versi del Corano. Sono arrivati a scrivere sui muri di una chiesa di un quartiere vicino: «O Maometto, preghiamo di darci la vittoria».
Le condizioni per chi resta
Nel quartiere di Dora, quello dei cristiani, c’erano oltre 5mila famiglie. Ora saranno una ventina. Queste le condizioni per chi resta. Pagare la jizia, la tassa coranica imposta a quelli che loro chiamano «miscredenti ». Una consuetudine prima sconosciuta in Iraq. Sono arrivati a chiedere 1 milione di dinari al mese, pari a 800 dollari. «Così ci aiutate a lottare contro l’occupante e vi comportate da bravi cittadini», ci spiegavano con le loro barbe lunghe i capi estremisti sunniti. Oppure una famiglia caldea deve dare in sposa una nostra ragazza a un loro guerrigliero. Infine, terza possibilità, lasciare la casa a loro disposizione senza portare via nulla.
La fuga
A maggio, aprendo il negozio, ha trovato una busta con dentro un proiettile e un editto del Consiglio dei mujaheddin: «Devi lasciare la tua casa e il negozio entro 24 ore altrimenti porteremo a compimento la legge». Non c’era più la possibilità di restare.
Ma nemmeno fuggire è stato facile: ho venduto in segreto a un parente, a prezzo stracciato, l’auto dell’agenzia di trasporti. Nessuno deve sapere che vuoi scappare o che stai incassando denaro contante. Ti rapirebbero. Anche per questo non ho venduto i mobili, ma solo raccomandato a un mio zio di trasferirsi nella mia vecchia abitazione. Almeno lui cercherà di conservare al meglio le nostre poche cose. Solo a un vicino di casa, un caldeo di cui avevo fiducia, l’ultima sera ho detto: «Ti saluto, scappo al Nord, verso Mosul». Meglio non dare indicazioni precise neanche agli amici. Ho affittato un gippone che mi è costato mille dollari. Destinazione Damasco. Un viaggio terribile, per il rischio degli attentati e la presenza delle bande estremiste. Dicevo a mia moglie e ai miei figli: «Pregate il Signore e anche Maria ausiliatrice, la nostra patrona ». Siamo arrivati alla frontiera irachena ma le guardie non volevano farci passare. Avevo ottenuto, grazie all’interessamento dei colleghi italiani, un visto turistico. Due ore di attesa. Li abbiamo supplicati, i miei figli erano in lacrime. Che fare? «Siamo iracheni come voi. Perché ci volete del male?». Chiedevano mille dollari per farci passare. Una cifra per me impossibile. Ho trattato: 100 dollari a testa, 600 dollari per portare in salvo la mia famiglia. Altri 400 dollari per i visti e per «velocizzare» la pratica alla frontiera siriana. Ce l’abbiamo fatta. Solo passato il confine ci siamo sentiti in salvo.
E ora?
Sono in Italia da poco più di una settimana. Ho tanti amici italiani, ho lavorato con loro sentendomi rispettato e rispettandoli. Per questo spero che l’Italia possa diventare per me una seconda patria, lo chiedo all’Italia e da cristiano mi appello anche alla Chiesa: aiutatemi a costruire un futuro per Marleene, Morin, Nadia e Moris, i miei quattro figli.