venerdì 23 novembre 2007

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Creati per amare: una chiave di lettura - S.E. Card. Carlo Caffarra
2) Come è possibile credere al giorno d’oggi?
3) Tre anni di carcere a sacerdote cinese: ha inaugurato una chiesa (col permesso dello stato)
4) Tre anni di carcere a sacerdote cinese: ha inaugurato una chiesa (col permesso dello stato)
5) Con le cellule riprogrammate una svolta che spazza via le manipolazioni (Comunicato Scienza & Vita)
6) Il Papa firmerà la sua Enciclica sulla speranza il 30 novembre
7) «Strategia famiglia Sfida per l’Europa» Dai vescovi Ue una proposta per dare più forza a genitori e figli
8) Banco Alimentare: spesa di solidarietà -Domani giornata nazionale della colletta
9) intervista a Mons. Mauro Inzoli «È la carità che cambia la vita»
10) Malati di sclerosi, una casa per non restare soli
11) Mamma e papà? No, «genitore A e B»
12) La lotta alla fame tra i principi non negoziabili
13) Finalmente l'Ue riconosce la persecuzione dei cristiani






CREATI PER AMARE: una chiave di lettura
S.E. Card. Carlo Caffarra
Belluno, Centro papa Luciani, 17 novembre 2007
Penso che sia più importante dirvi quale è la domanda fondamentale a cui ho cercato di rispondere in questo libro, piuttosto che farne un riassunto anche se ragionato. E dirvi la risposta che ho cercato di costruire a quella domanda, aggiungendo qualche considerazione pedagogica sulla rilevanza educativa che ha questo discorso. Considerazione che come pastore mi coinvolge profondamente.
Vi ho pertanto indicato come si organizzerà la mia riflessione. Attorno a tre punti. Nel primo cercherò di formulare la domanda; nel secondo di costruire la risposta; nel terzo la rilevanza educativa. Non voglio appesantire la mia riflessione con citazioni dal testo.
1. La domanda
Consentitemi di iniziare da una citazione piuttosto lunga di K. Woitila:
"Non esiste nulla che più dell’amore occupi sulla superficie della vita umana più spazio, e non esiste nulla che più dell’amore sia sconosciuto e misterioso. Divergenza tra quello che si trova sulla superficie e quello che è il mistero dell’amore: ecco la fonte del dramma. Questo è uno dei più grandi drammi dell’esistenza umana. La superficie dell’amore ha una sua corrente, corrente rapida, sfavillante, facile al mutamento. Caleidoscopio di onde e di situazioni così piene di fascino. Questa corrente diventa spesso tanto vorticosa da travolgere la gente, donne e uomini. Convinti che hanno toccato il settimo cielo dell’amore – non lo hanno sfiorato nemmeno. Sono felici un istante, quando credono di aver raggiunto i confini dell’esistenza, e di aver strappato tutti i veli, senza residui. Sì, infatti: sull’altra sponda non è rimasto niente, dopo il rapimento non rimane nulla, non c’è più nulla" [K. Woitila, Tutte le opere letterarie, Bompiani, Milano 2001, 821].
Il testo pone già tutti gli interrogativi che costituiscono la domanda fondamentale circa l’amore. È la "divergenza tra quello che si trova sulla superficie e quello che è il mistero dell’amore" a costituire "la fonte del dramma". Anzi a costituire "uno dei più grandi drammi dell’esistenza umana".
Che senso ha parlare di "mistero dell’amore", di parlare cioè di amore come mistero? Possiamo partire proprio da questa domanda.
Due sono i tipi di verità che possiamo conoscere. Ci sono conoscenze il cui contenuto non esercita nessuna provocazione alla nostra libertà; non le rivolgono nessuna sfida: sono estranee alla progettazione che ciascuno fa della propria vita. Per millenni l’uomo ha ritenuto che la terra fosse immobile ed il sole le girasse attorno. Ad un certo momento l’uomo venne a sapere che le cose stavano all’opposto. Forse che il passaggio dal sistema tolemaico al sistema copernicano ha portato maggiore luce a domande del tipo: ma piuttosto che compierla è meglio subirla l’ingiustizia? oppure: dopo la morte io vivrò ancora o finirò del tutto? Che sia la terra o il sole a star fermi, in ordine alle grandi domande sul senso della vita è del tutto indifferente.
Ma ci sono conoscenze dal cui contenuto dipende la libera progettazione della propria vita ed il suo senso. Kant riteneva che le domande di questo tipo fossero alle fine tre: che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa ho il diritto di sperare? Ed aggiungeva che alla fine è una sola, che Leopardi formula nel modo seguente: "ed io chi sono?": la domanda circa se stesso, circa la verità di se stesso.
Il modo cui l’uomo cerca di rispondere alle domande del primo tipo è profondamente diverso dal modo con cui cerca di rispondere alle domande del secondo tipo.
Il primo modo prescinde completamente da chi fa la domanda e cerca la risposta: ciascuno può sostituire ciascuno nel procedimento cognitivo. Il secondo non può prescindere da chi fa la domanda e cerca la risposta: la domanda è circa te stesso. È di te che ci si interroga.
Voglio spiegare questo punto assai importante con un esempio… un po’ rozzo. Se tu vuoi sapere se è la terra o il sole a star fermo, non importa che chi fa la domanda sia onesto o un ladro. Ma le cose cambiano se ci si chiede se il furto è lecito o illecito. Nessuno chiede … ad una volpe se mangiare le galline è lecito o meno (!)
Per brevità, da questo momento in poi chiamiamo il primo tipo di domande "problemi", il secondo tipo "misteri". I problemi, se ci pensate un momento, sono risolti – quando sono risolti – dalla scienza e dalla tecnica. I misteri non sono "risolti", ma vengono resi "consapevoli" da un modo di usare la ragione che non può non partire dall’esperienza che ognuno di noi fa di se stesso. Agostino pensava a questo modo di usare la ragione, quando diceva: "non uscire fuori; la verità abita in te".
Siamo arrivati ad un punto centrale della nostra riflessione [e del libro presentato], su cui vi chiedo di prestare molta attenzione.
La verità che chiamiamo "mistero" è raggiungibile attraverso l’esperienza che ciascuno ha di se stesso o apprende dagli altri circa se stesso. Dire che l’amore è un mistero significa precisamente che esso non è percepito nella sua essenza attraverso "quello che si trova alla superficie", attraverso la "sua corrente, corrente rapida, sfavillante, facile al mutamento". Esso è percepito con l’esperienza che ciascuno ha di se stesso [o apprende da altri] quando fa esperienza dell’amore. Scremandola rigorosamente dai pregiudizi, dai riduzionismi, dalle false interpretazioni, dall’intervento di fattori coesistenti ma estranei all’amore stesso. Solo così superiamo la "divergenza tra quello che si trova alla superficie e quello che è il mistero dell’amore".
Non abbiamo però ancora posto la domanda ultima sull’amore. Abbiamo solamente fatto una delimitazione di campo. Abbiamo solo detto che la domanda sull’amore è una domanda che coinvolge colui che la pone, perché l’amore non è un problema che ci poniamo ma un mistero che ci coinvolge. È venuto quindi il momento di costruire questa domanda.
La più radicale negazione dell’amore che sia stata fatta, fu quando venne scritto: "l’inferno sono gli altri". Cioè: la persona umana è condannata ad una pena cui non può sfuggire. Sono gli altri. Ognuno è condannato ad essere-con-gli altri.
Perché questa è la negazione più radicale dell’amore? Perché nega alla radice ciò che denota primo et per se l’amore: la relazione con l’altro. È negata ogni bontà a questa relazione.
Ma ci sono due modi di rapportarsi ad un altro: o perché trovo utilità in questo rapporto o perché l’altro ha in se stesso e per se stesso "qualcosa" da meritare di entrare in rapporto con lui. Da non lasciarmi indifferente. Il rapporto che un’impresa produttrice di prodotti per bambini ha col bambino è molto diverso dal rapporto che col bambino ha sua madre.
Se noi ci domandiamo: è possibile un rapporto con l’altro che non sia alla fine un rapporto di utilità? noi ci domandiamo: è possibile l’amore inteso come riconoscimento, affermazione dell’altro per se stesso ed in se stesso?
Se noi ci domandiamo: è possibile "uscire da se stessi" ed incontrare l’altro in se stesso e per se stesso? noi ci domandiamo: è possibile l’amore inteso come incontro-comunione con l’altro? Se noi ci domandiamo: è possibile donare non ciò che abbiamo, ma ciò che siamo, in una parola, se stessi? noi ci domandiamo: è possibile l’amore come auto-donazione gratuita? Amore come affermazione dell’altro in se stesso e per se stesso; come incontro e comunione con l’altro; come auto-donazione gratuita all’altro: è un sogno? È una utopia? È un orizzonte verso cui camminare ma non è mai raggiungibile? È un’impossibilità per l’uomo? Alla fine: il rapporto con l’altro è inevitabilmente una provvisoria contrattazione fra opposte individualità alla ricerca del proprio benessere? E alla fine: ma quale è la vera natura dell’uomo? Il mistero dell’amore ci conduce dentro al mistero dell’uomo.
2. La risposta
La sfida più grave che viene fatta quando cominciamo a costruire la risposta a quelle domande, è stata formulata da D. Hume quando scrisse: "In realtà noi non facciamo un solo passo di là di noi stessi".
Se le cose stanno così, se in realtà ciascuno è così imprigionato in se stesso da non avere alcuna via di uscita, l’amore non è difficilmente praticabile: è semplicemente impensabile. È cioè un’esperienza non difficile, ma impossibile da vivere. La risposta a quella serie di domande con cui abbiamo concluso la riflessione precedente non potrebbe che essere negativa.
Questa premessa ci aiuta a capire qualcosa di molto importante. La risposta alla domanda sull’amore è inscindibilmente connessa alla risposta che diamo alla domanda sulla verità, sulla nostra capacità di conoscere la verità. Non si è capaci di amare se non si è capaci di accedere alla realtà [dell’altro], se cioè non si è capaci di verità: amore e verità stanno in piedi o cadono insieme.
Queste riflessioni che meriterebbero ben più ampio sviluppo, ci hanno indicato ancora una volta che una riflessione sull’amore esige una riflessione sull’uomo. Proviamo dunque a percorrere un breve itinerario verso l’amore.
Quale è l’aspetto che noi vediamo immediatamente nell’esperienza di un atto d’amore? Che cosa avviene realmente in ciascuno di noi quando compiamo un atto d’amore? Viene affermata la persona dell’altro nella sua unicità irripetibile. Quando compiamo un atto di amore, noi, per così dire "estraiamo" una persona da una serie, e la guardiamo e l’affermiamo come unica.
Quando andate a comperare il giornale, voi vi accontentate di dire all’edicolante il titolo: volete una copia di quella testata, indifferentemente. È … la serie che vi interessa, non una copia piuttosto che un’altra. L’atto d’amore ha tutto un’altra logica. Un uomo che paga la prostituta, vuole una donna. E l’atto più contrario all’amore, perché non afferma e non riconosce che amare una persona significa guardarla come unica nell’universo dell’essere. Il buon pastore quando si accorge che manca una pecora, non pensa che alla fine una su cento non è poi una grave perdita. La va a cercare. La persona non è numerabile, perché ogni persona vale in sé e per sé.
Voglio aiutarvi a percepire questo con un altro esempio. Se uno vi chiede se diecimila è un numero grande o piccolo, voi non siete in grado di rispondere fino a quando non lo ponete in rapporto con altri numeri. In rapporto a dieci è grande; in rapporto a un miliardo è piccolo. Se voi chiedete che valore ha una sola persona, non potete dire che in rapporto a tre ha un valore, ma non in rapporto a diecimila. La persona non è numerabile perché vale in sé e per sé.
Chi ama, chi almeno una volta ha compiuto un atto di amore, sa che le cose stanno così. Lo sa lo/a sposo/a che ama la sposa/o; lo sa il genitore che ama ogni figlio; lo sa il pastore che ama ogni fedele; lo sa la vergine consacrata che cura la miseria dell’uomo che le chiede aiuto.
Proviamo ora ad analizzare un poco questo vissuto [un atto di amore] per vedere che cosa esso porta dentro di sé. Solo così noi possiamo renderci conto del "mistero dell’amore", esserne più profondamente conquistati.
Che cosa in realtà significa la proposizione "cogliere la persona nella sua irripetibile unicità"? ricordate l’esempio del giornale: purché sia della stessa testata, una copia vale l’altra. Ricordate la prostituzione: purché sia una donna, l’una vale l’altra. Riflettete bene. Se mi rapporto ad una realtà – cosa o persona – in vista di qualcosa d’altro; se istituisco cioè un rapporto strumentale, ciò che vale e mi attrae è lo scopo e quindi uno strumento può essere sostituito con l’altro, purché mi faccia raggiungere lo scopo. In breve: qualcosa/qualcuno è insostituibile quando è in se stesso e per se stesso e non in ordine a …, e quindi può essere voluto in questo modo. Senza accorgercene, abbiamo dato la definizione di persona. La persona è precisamente ciò che esiste in se stesso e per se stesso, ed esige di essere considerata e trattata come tale.
Quando noi compiamo un atto di amore, noi viviamo l’esperienza che esiste la persona; entriamo nell’universo delle persone; affermiamo non teoricamente ma in realtà che l’universo dell’essere è diviso in due grandi regioni: il mondo delle persone, il mondo delle non persone. Chi abita il primo non è interscambiabile: non ha prezzo, perché ha una dignità. Chi abita il secondo è scambiabile: ha un prezzo, perché è privo di dignità. Il vissuto dell’amore ci fa vivere la peculiarità propria della sostanza personale rispetto a ciò che è impersonale. Chi ama, afferma che la persona esiste in se stessa e per se stessa.
Ma il vissuto dell’amore non afferma solo l’altro come persona; non è solo percezione della verità dell’essere – persona dell’altro. Ma in esso – nel vissuto dell’amore – colui che compie l’atto di amore, afferma in grado eminente anche se stesso. Sembra essere una contraddizione, ma se prestiamo attenzione a ciò che accade in noi quando amiamo, vediamo che amando, noi realizziamo noi stessi nel modo più elevato.
Proviamo a chiederci: quale delle nostre facoltà è messa soprattutto in azione quando compiamo un atto di amore?
Certamente la nostra intelligenza. Tuttavia a guardare le cose un po’ in profondità, ci rendiamo conto che l’esercizio della nostra intelligenza è una, anzi la condizione dell’amore. Già gli antichi dicevano "ignoti nulla cupido". Tuttavia rasenta la banalità, ma è la verità, il dire che tu puoi conoscere una persona e odiarla profondamente. I demoni – dice S. Giacomo – conoscono l’esistenza di Dio, e tremano. L’intelligenza quindi è in gioco quando amiamo, ma più come condizione perché sia possibile amare. La ragione non ama.
Non c’è dubbio che nell’atto di amore entra in gioco la dimensione passionale della nostra persona. "Passione" ha qui il significato originario, correlativo e contrario ad "azione". La passione è l’essere mossi, l’essere attratti senza aver deciso di essere mossi, senza aver deciso di essere attratti. L’amore è anche normalmente passione. Tutti i grandi maestri parlano di "sensi spirituali", che sembra una contraddizione in termini, ma non lo è.
Agostino voleva parlare di questo quando scrisse profondamente che da Cristo "non solo siamo attratti con la volontà, ma anche con l’affetto".
Guardando però le cose più in profondità, vediamo che nel vissuto di un atto di amore si ha la più alta espressione della propria libertà. Tommaso insegna profondamente che la più alta espressione dell’amore, il suo atto peculiare è ciò che chiama la dilezione [dilectio]. Esso connota la decisione di affermare l’altro in se stesso e per se stesso. È la suprema forma di uscita da se stesso, che si compie solo mediante la propria libertà. È questo un punto essenziale per cogliere la verità dell’amore.
Ci sono forme di amore il cui atto consiste nel donare ciò che abbiamo: si pensi all’atto d’amore che è l’elemosina. E ci sono forme di amore il cui atto consiste nel donare se stessi: si pensi all’atto dell’amore coniugale, oppure al fatto che Gesù chiede ai pastori il dono della vita per il loro gregge. Ma non si può donare ciò che non si possiede. La più alta espressione dell’amore, l’atto di auto-donazione, implica un auto-possesso vero: un tenere a disposizione di se stessi, se stessi. Questa è la definizione di libertà. La persona prende in mano se stessa e ne fa dono all’altra. È la forma più alta di libertà. L’atto di amore è soprattutto un atto di libertà.
Ma c’è un'altra dimensione che possiamo considerare per cogliere questo rapporto fra amore e libertà. È la fedeltà. La fedeltà è profondamente connessa coll’amore: con ogni forma di amore, non solo quello coniugale. Fate bene attenzione: non è un dovere morale generale come quando diciamo "sii fedele ai comandamenti di Dio". È una fedeltà sui generis: è fedeltà ad un legame che abbiamo liberamente istituito mediante il dono di se stessi, e che potevamo anche non istituire. Nessuno ti obbliga a sposarti ed ancor meno con quella persona; o a consacrarti nella verginità.
Il dono di sé per sua natura stessa è senza termine. La libertà che istituisce un tale legame è giunta ad un tale grado di possesso della persona che questa semplicemente decide di se stessa interamente; cioè per sempre. Sto parlando soprattutto delle tre forme principali dell’amore: coniugale, verginale, pastorale. Il matrimonio, la professione religiosa, il sacerdozio presuppongono la capacità di dare alla propria vita, indipendentemente da ogni accadimento imprevedibile, una forma vivendi che decide una volta per sempre il modo di reagire a quanto accade ["nella buona e nella cattiva sorte"…], rendendosi così superiori alla casualità. La fedeltà è la rivelazione più chiara della libertà, perché è la modalità più alta con cui noi ci liberiamo dall’essere esposti alla casualità.
Raccogliamo per un momento le nostre idee. L’amore, l’atto dell’amore è la più alta realizzazione della propria persona perché in esso viene esercitata col grado più intenso la propria libertà.
Più precisamente. Nell’atto dell’amore si ha la convergenza dei tre fondamentali dinamismi della propria persona. L’intelligenza, la passione, la libertà.
L’intelligenza, perché non c’è amore senza accesso alla realtà dell’altro, ed è l’intelligenza che ci fa accedere alla realtà. La passione, perché "non possiamo darci l’amore, anche se lo vogliamo. Non sta in nostro potere porre liberamente una tale risposta del cuore, come una risposta della volontà, né comandarla come fosse un atto" [D. von Hildebrand]. La nostra libertà, poiché l’atto di amore è veramente della persona solo nel momento in cui il movimento del cuore è stato fatto proprio dalla libertà. L’atto d’amore è il punto in cui convergono tutti i dinamismi della persona: è la suprema e completa espressione e attuazione della persona.
Siamo dunque arrivati a due conclusioni. La prima: l’amore, l’atto di amore afferma-riconosce l’altro in se stesso e per se stesso, cioè come persona. La seconda: l’amore, l’atto d’amore afferma-realizza in grado eminente se stesso.
Proviamo ora a mettere insieme queste due conclusioni, ed entreremo nel "mistero dell’amore"; entreremo nel mistero dell’uomo e nella sua grandezza. La persona umana realizza se stessa nella relazione d’amore con l’altra persona: è se stessa nella relazione d’amore con l’altra. L’essenza dell’uomo ci è svelata dall’essenza dell’amore.
Le domande con cui concludevamo la riflessione del primo punto non sono allora domande rivolte solamente alla ragione. Sono provocazioni e sfide per la nostra libertà. Esse denotano due modi di vivere, e due modi di costruire la società umana. Esse infatti si appellano alla "divaricazione" suprema della libertà.
Ed a questo punto siamo già entrati nel terzo ed ultimo punto della nostra riflessione: la riflessione educativa.
3. Educare all’amore
È possibile educare all’amore? è possibile educare la persona alla "scelta dell’amore" come stile di vita? Oppure dobbiamo limitarci a trasmettere alcune istruzioni per l’uso della propria istintualità?
L’inizio della risposta a questa domanda era già stato posto dai greci quando Antigone afferma nell’omonima tragedia di Sofocle di essere fatta per l’amore e non per l’odio. Le fa eco un grande Padre della Chiesa, S. Basilio, che scrive: "abbiamo insita in noi, fin dal primo momento in cui siamo stati plasmati, la capacità di amare. E la prova di questo non viene dall’esterno, ciascuno può rendersene conto da sé e dentro di sé. Di ciò che è buono infatti, proviamo naturalmente desiderio" [Le regole, Ed. Qiqaion, Bose 1993, 79].
L’uomo non è originariamente neutrale di fronte all’amore, ma è naturalmente orientato ad amare piuttosto che ad odiare. Questa è la ragione più profonda per cui è possibile educare all’amore. Ma come? Ovviamene è impossibile rispondere a questa domanda in modo plausibilmente esaustivo in questo contesto. Mi limiterò dunque ad alcune osservazioni, premettendo ad esse una constatazione. La constatazione è la seguente.
Gli adolescenti, ed i giovani di oggi sono già nati dentro a quell’interruzione della "narrazione della vita" che aveva sempre costituito il tessuto connettivo primordiale fra le generazioni umane: sono nati e cresciuti dentro ad una spaventosa afasia narrativa intergenerazionale. È questa una constatazione che merita di essere attentamente esaminata.
"Una generazione narra all’altra le sue meraviglie, o Signore", dice il Salmo. La generazione dei padri "narra la vicenda umana" alla generazione dei figli: la introduce nella vita, nella realtà. Se questa narrazione cessa, i padri sono senza figli e i figli senza padre. L’afasia narrativa spegne la paternità e rende impossibile l’esperienza della filiazione. Il risultato è il totale sradicamento, uno spaesamento totale che genera un diffuso narcisismo: la progressiva perdita del senso della realtà [decisioni mai definitive; abbandono alle emozioni; dittatura dello spontaneismo].
La perdita del senso della realtà è esemplificata dall’universo virtuale creato dai videogiochi e da internet. La sfida lanciata dagli educatori oggi è questa esistenza virtuale in cui non raramente vivono le giovani generazioni
A me preme ora richiamare l’attenzione su alcune direzioni fondamentali che ogni proposta educativa all’amore deve seguire.
La prima. Nessuna educazione all’amore è possibile oggi, se non si libera la persona del giovane da quella dittatura del soggettivismo e dello spontaneismo che gli impedisce di entrare nella realtà, anche nella realtà dell’universo della fede. Ricordate il testo di D. Hume citato sopra.
Tenendo presente una delle grandi verità dell’antropologia biblica – l’uomo è ad immagine di Dio e quindi è inscritta nella natura della persona l’inclinazione al vero e al bene – la prima preoccupazione educativa deve essere quella di sviluppare la capacità di ascolto della voce di Dio quale risuona nella e dalla realtà stessa.
Il S. Padre, nell’incontro coi sacerdoti ad Auronzo di Cadore il 24 luglio u.s., ha indicato un itinerario pedagogico: "Io, vedendo la situazione nella quale ci troviamo, proporrei una combinazione tra una via laica e una via religiosa, la via della fede. Tutti vediamo oggi che l’uomo potrebbe distruggere il fondamento della sua esistenza, la sua terra, e quindi che non possiamo più semplicemente fare con questa nostra terra, con la realtà affidataci quanto vogliamo e quanto appare nel momento utile e promettente, ma dobbiamo rispettare le leggi interiori della creazione, di questa terra, imparare queste leggi e obbedire anche a queste leggi, se vogliamo sopravvivere. Quindi, questa obbedienza alla voce della terra, dell’essere, è più importante per la nostra felicità futura che le voci del momento, i desideri del momento. Insomma, questo è un primo criterio da imparare: che l’essere stesso, la nostra terra, parla con noi e noi dobbiamo ascoltare se vogliamo sopravvivere e decifrare questo messaggio della terra. E se dobbiamo essere obbedienti alla voce della terra, questo vale ancora di più per la voce della vita umana. Non solo dobbiamo curare la terra, ma dobbiamo rispettare l’altro, gli altri".
La necessità di risvegliare colui di cui abbiamo responsabilità educativa al primato dell’oggettivo è oggi di un’urgenza improrogabile.
La seconda. È uno sviluppo della precedente. Sono sempre più convinto che l’urto più forte colla realtà la persona lo vive quando si incontra-scontra colla sofferenza. La visita agli ammalati, a persone abbandonate, la vicinanza ai più poveri, seguita dall’educatore e riflettuta assieme è l’esperienza da un certo punto di vista più educativa.
Occorre fare attenzione che questa non sia pensata e vissuta come "volontariato" nel senso moralistico: ciò diseduca, non educa. È la porta attraverso cui si entra nel reale nel modo migliore.
La terza. Mentre le prime due direzioni vanno nel senso di far uscire l’adolescente dal suo narcisismo, questa terza direzione va nel senso del suo incontro con Cristo, come evento di amore che accade in questo mondo.
Poiché non esiste una risposta più insignificante che quella data ad una persona che non ha chiesto nulla, tutta la questione quindi di ogni itinerario educativo si riduce a questa semplice domanda: Cristo è la risposta vera alla domanda, dal bisogno di amore che urge nel cuore del giovane? Se così non fosse è inevitabile l’abbandono.
Il cammino dunque va fatto su … due gambe. Da una parte deve essere dato un insegnamento della dottrina della fede e della carità: non esiste il cristianesimo "fai da te". La completezza e la sistematicità della presentazione della dottrina è necessaria. Ma dall’altra parte è necessario stimolare continuamente il giovane all’ascolto del cuore, alle domande in esso inscritte.
Si potrebbe, per esempio, aiutarli attraverso percorsi artistici; attraverso la lettura di grandi autori; attraverso l’incontro con alcuni testimoni.
La quarta. È assai importante che il giovane acquisti la consapevolezza di appartenere ad un popolo, il popolo cristiano, ad una storia che lo precede e lo supporta.
La storia della Chiesa, visitata attraverso la visita ai luoghi più significativi, è altamente educativa.
La quinta. Il "punto" dell’itinerario che siamo delineando, è l’incontro con Cristo nella preghiera.
Il problema dell’educazione alla preghiera non è risolto solo colla preghiera fatta in comune. Bisogna indicare a ciascuno percorsi molto semplici di preghiera, aiutando ciascuno a pregare coi Salmi. Essi sono una grande liberazione dalla tirannia dello spontaneismo.
Conclusione
Mi piace concludere con un testo ancora di K. Woitila, tratto dalla sua opera Raggi di paternità.
"Ancora se guardo con ammirazione il Figlio non riesco a trasformarmi in Lui. Lo guardo davvero con ammirazione. In Lui quale immensa pienezza di umanità. È il vivente contrario d’ogni solitudine. Sapessi tuffarmi in Lui, sapessi innestarmi in Lui, potrei trarre da me l’amore di cui Egli ha la pienezza…: quanto si adopera per ogni uomo, come per il tesoro più grande, per un bene irripetibile, come un amante per l’amata" [K. Woitila, Tutte le opere letterarie, cit., pag. 961].
Alla fine la risposta intera alla questione dell’amore è questa: è Cristo la sua pienezza ed è in Lui che noi possiamo imparare l’amore. L’unica scienza assolutamente necessaria.


Come è possibile credere al giorno d’oggi?
Intervista al biografo del Cardinal Cottier
CAROUGE (Svizzera), giovedì, 22 novembre 2007 (ZENIT.org).- Perché il giovane Georges Cottier, che è stato in stretto contatto con i grandi pensatori del XX secolo, è diventato Teologo della Casa pontificia e non un marxista o un seguace di Sartre o Nietzsche?

Come può la Chiesa, nel XX secolo, continuare ad affermare che Dio esiste? E che il Cristianesimo è la via della felicità?

Sono queste le domande a cui Patrice Favre ha risposto nel conversare con l’uomo che Papa Giovanni Paolo II ha scelto come Teologo della Casa pontificia.

Il frutto dell’intervista è ora racchiuso nel libro intitolato “Georges Cottier. Itinéraire d’un Croyant” che, come spiega Favre, ripercorre i grandi eventi del XX secolo attraverso gli occhi di un cristiano.

Dopo aver presentato il suo libro, il mese scorso, alla parrocchia di appartenenza della famiglia Cottier, a Carouge (Svizzera), l’autore ha parlato con ZENIT del suo lavoro.

Cosa l’ha spinta a scrivere questo libro sul Cardinale Georges-Marie Cottier, domenicano e Teologo della Casa pontificia, dai giorni di Giovanni Paolo II fino allo scorso anno?

Favre: Questo libro nasce dall’esperienza e dall’emozione derivanti dalla morte di Giovanni Paolo II, questo Papa colossale che ci ha lasciato una testimonianza sconvolgente con la sua malattia e la sua morte. Rientrando a Roma, un mio amico, che mi aveva spronato a scrivere i miei libri precedenti sui monasteri della Svizzera romanda [francofona], mi ha detto: “devi scrivere un libro su Giovanni Paolo II”.

Rispondendo ho sottolineato che su Giovanni Paolo II erano già state scritte centinaia di pagine e che non vedevo quale contributo originale avrei potuto dare. Qualche mese dopo, in seguito a non so che tipo di eventi provvidenziali, mi ha detto: “devi scrivere un libro sul Cardinale Cottier!”. Ed io ho accettato la proposta.

Lei conosceva già il Cardinale Cottier, suo connazionale, prima di pensare al libro?

Favre: Certo. Ho accettato anche perché conoscevo padre Cottier da più di 20 anni. Avevo avuto a che fare con lui durante il mio lavoro di giornalista ed avevo sempre apprezzato la chiarezza del suo pensiero.

E' un uomo che va all’essenziale, è originale, come afferma nel libro: “Non seguo la moda dei tempi e spero di non farlo mai!”. Egli attribuisce il suo rifiuto delle mode teologiche o mediatiche alla sua infanzia ginevrina: essere una minoranza cattolica, dove un tempo esisteva un cantone fortemente protestante, forgia il carattere.

L’altro motivo che mi ha indotto a scrivere il libro è che padre Cottier mi aveva sempre accolto quando ero giornalista, tanto che era già nata un’amicizia fra noi.

Lei ha iniziato con l’idea di un libro su Giovanni Paolo II, ma la biografia del Cardinale Cottier l’ha portata oltre, nel pieno delle grandi sfide del XX secolo.

Favre: Sicuramente non avevo idea, a quel tempo, che questo libro sarebbe andato ben oltre gli “anni di Giovanni Paolo II”.

Quando padre Cottier è stato convocato a Roma, nel 1989, aveva 67 anni: l’età della pensione. E questi 67 anni si erano dimostrati incredibilmente fecondi. Basti ricordare che nel 1943 dava già voce alle sue opinioni contrarie alla Germania nazista, in lezioni affollate presso l’Università di Ginevra.

Poi è diventato amico e consigliere teologico di padre Jacques Loew, il primo prete-lavoratore in Francia, sui moli di Marsiglia. Un intero capitolo della storia preconciliare si stava aprendo dinanzi a me; un capitolo glorioso, come nel famoso romanzo di Gilbert Cesbron, “Les Saints Vont en Enfer” (I santi vanno all’inferno), ma anche doloroso, perché i preti-lavoratori furono banditi per ordine di Roma.

Poi ho scoperto che padre Cottier aveva preso parte al Concilio Vaticano Secondo in qualità di esperto, con un grande Vescovo francese, monsignor de Provenchères, e successivamente, sempre come esperto, con il Cardinale Journet. Ha quindi vissuto in prima linea questo grande evento della vita della Chiesa del XX secolo, che ha reso il suo giudizio sulle grandi crisi successive al Concilio ancora più interessante.

Se posso esprimermi in questo modo, il suo libro può essere considerato una sorta di “romanzo poliziesco” teologico, se si tiene conto per esempio dell’impegno del Cardinale Cottier nella promozione della libertà oltre la Cortina di Ferro, attraverso il dialogo con coloro che non condividono la fede cristiana. Come vorrebbe riassumere questo itinerario dalla Resistenza - “Sous les Géraniums” [Sotto i gerani] - del capitolo 4, a “Frigo Vide à Moscou” [Frigorifero vuoto a Mosca] del capitolo 7?
Favre: “L'athéisme du Jeune Marx” [L’ateismo del giovane Marx], era il titolo della tesi di padre Cottier su Karl Marx già nel 1959. Il braccio di ferro tra Cristianesimo e Marxismo è stato uno dei principali assi del secolo scorso, e padre Cottier si è trovato spesso in prima fila in questa ferrea lotta.

Vi era la tentazione, all’interno del Cattolicesimo, di andare verso il Marxismo, soprattutto tra gli intellettuali. Poiché padre Cottier era molto ben preparato, egli ha potuto svolgere un ruolo importante nella resistenza cattolica, come si vede nel libro.

Durante gli anni ’80 e ’90, troviamo padre Cottier in un castello a Lubiana, o in un albergo zeppo di insetti a Budapest, o negli edifici staliniani di Mosca. Spesso coinvolto in conversazioni di alto livello, in cui i delegati del Vaticano e i rappresentanti sovietici tentavano di instaurare un dialogo, sotto gli occhi del KGB.

Inoltre, in diverse occasioni si è recato in Sud America per partecipare alle discussioni sulla Teologia della liberazione. Esistono anche diversi libri e dozzine di articoli pubblicati su “Nova et Vetera”, la rivista che padre Cottier ha diretto dopo la morte del Cardinale Journet nel 1975.

Lei evidenzia anche un altro aspetto del “dialogo” nella vita del Cardinale Cottier: l’incontro con l’ebraismo - “L'ami des Juifs” [L’amico degli ebrei], nel capitolo 10 - e la lotta all’antisemitismo.

Favre: Sì, potremmo citare le sue amicizie con ebrei e la sua lotta all’antisemitismo, ma anche il maggio del ’68 che lui ha vissuto come professore e che l’ha portato a pubblicare alcune riflessioni illuminanti. Non voglio però raccontare l’intero libro.

Ciò che è interessante è che questa biografia del Cardinale Cottier ci consente di ripercorrere gli eventi decisivi del secolo scorso, sotto la luce e la valutazione di un cristiano. Questo è un libro che “mi ha rinfrescato la memoria” e che, a mio parere, ci consente di comprendere meglio i nostri tempi.

Lei termina il libro parlando del tema dell’amicizia. Che ruolo occupa l’amicizia nell’itinerario del Cardinale Cottier?

Favre: Nel corso di questo lavoro ho potuto scoprire i suoi amici, soprattutto quelli che egli definisce suoi “maestri”. Padre Cottier non sarebbe ciò che egli è se non avesse incontrato e seguito persone che hanno avuto un ruolo decisivo nella sua vita. Anzitutto Abbot Journet, un altro ginevrino il cui ruolo non è stato riconosciuto a sufficienza nella Svizzera romanda; Jacques Maritain; padre de Menasce; il già citato Jacques Loew; Cardinali come Lustiger, Etchegaray, Ratzinger, e, certamente, Giovanni Paolo II, di cui si parla molto nel libro. Come contraltari a queste grandi figure si trovano nel libro i maestri della cultura moderna come Rousseau, Marx, Sartre, Nietzsche, ed altri che padre Cottier ha molto frequentato - almeno a livello intellettuale - e che hanno reso la vita difficile alla Chiesa e alla fede cristiana.

Lei nega di aver scritto un “libro di storia” e in effetti il libro contiene molte riflessioni filosofiche. Qual è l’obiettivo fondamentale che si era prefissato?

Favre: Questo libro parla di storia, ma non è un libro di storia, perché invariabilmente ritorna su una questione attuale: come è possibile credere al giorno d’oggi? Come si può, ragionevolmente, essere cattolici nel XXI secolo?

Le interviste che trova nel libro, le discussioni sulla felicità, sulla sessualità, sull’ecologia, sulla sofferenza e persino sul diavolo - perché a suo avviso se ne dovrebbe parlare di più - sono basate su una questione essenziale: come può la Chiesa, quella di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e del Cardinale Cottier, affermare ai giorni nostri e nella nostra epoca che Dio esiste e che la fede cristiana costituisce la felicità dell’umanità?

Perché padre Cottier, che sin dalla sua giovinezza è stato in stretto contatto con grandi pensatori della modernità, non è mai diventato marxista, seguace di Sartre, Nietzsche, o semplicemente indifferente come tante persone?

Tuttavia, non essendo io un filosofo, non ho scritto un trattato filosofico; ne sarei del tutto incapace. Nelle mie parole, come giornalista, ho trascritto le risposte di padre Cottier. Fortunatamente egli ha accettato di ritornare sulle nostre conversazioni e di correggerle. Avendo lui, per 15 anni, rivisto gli scritti di Giovanni Paolo II, non potevo sperare in un miglior correttore!

Questi scambi mi hanno insegnato molto e, in un certo senso, mi hanno anche insegnato a pensare e a vivere. C’è una bellezza nella fede, una bellezza nella Chiesa, una bellezza in Cristo. Io l’ho percepita in più di un’occasione, durante i miei contatti con padre Cottier nell’arco dei due anni in cui abbiamo lavorato insieme. È stata per me una gioia, che spero di non aver tradito troppo nel cercare di condividerla in queste pagine.



Tre anni di carcere a sacerdote cinese: ha inaugurato una chiesa (col permesso dello stato)
Testimonianze false, giudici influenzati dal Partito: un schiaffo in faccia alla “società armoniosa” di Hu Jintao. É in atto la “normalizzazione” dei cattolici non ufficiali per farli sottostare all’Associazione Patriottica, il cui fine, secondo Benedetto XVI, è “inconciliabile con la dottrina cattolica”.


Roma (AsiaNews) – P. Wang Zhong, della diocesi di Xiwanzi (Hebei) è stato condannato a 3 anni di carcere per aver organizzato la festa della consacrazione di una chiesa a Guyuan. In un resoconto del processo giunto ad AsiaNews si sottolinea che la costruzione della chiesa era legale e il permesso per costruirla era stato dato dall’Ufficio affari religiosi. Ma il sacerdote è un sacerdote sotterraneo, non registrato nell’Associazione Patriottica (Ap) .
La diocesi di Xiwanzi (Hebei) è una diocesi della Chiesa sotterranea, con 15 mila fedeli, a circa 260 km a nord di Pechino, quasi al confine con la Mongolia Interna. In quest’area, da diversi mesi la polizia, aizzata dall’Ap, ha deciso una campagna contro sacerdoti e vescovi della Chiesa non ufficiale. Il vescovo ausiliare della diocesi, mons. Yao Liang è scomparso nelle mani della polizia dal 30 luglio 2006. In prigione vi sono anche 20 fedeli e 2 sacerdoti.
P. Wang era stato arrestato il 24 luglio del 2006. La polizia lo ha prelevato insieme ad altri due sacerdoti da una famiglia cattolica che li aveva nascosti a Xilinguole (Mongolia interna).
Dopo l’arresto, egli è rimasto in prigione e in totale isolamento, senza possibilità di ricevere visite. Il 29 ottobre 2007 si è tenuta la prima seduta del processo a Kangbao, nel distretto di Zhangjiakou (Hebei). I fedeli presenti nell’aula, dicono che p. Wang, 41 anni, era “in buone condizioni, con la barba lunga, e sembrava un po’ debole. Ma affrontava tutto con coraggio e col sorriso”.
Al processo sono finalmente emerse le accuse contro di lui: ha organizzato una riunione illegale [la festa per la consacrazione di una chiesa a Guyuan, dedicata al Sacro Cuore]; ha usato un sigillo ufficiale della parrocchia [che in Cina ha valore legale di firma –ndr] senza il permesso delle autorità statali.
La chiesa di Guyuan è stata costruita – col permesso benevolo delle autorità - con offerte degli stessi fedeli, che si sono auto-tassati per due anni. Chi non aveva disponibilità economica offriva delle ore di lavoro volontario. Alla cerimonia di consacrazione il 18 luglio 2006 hanno partecipato più di 7 mila persone, insieme a 21 sacerdoti e un vescovo della Chiesa non ufficiale.
Al processo, l’avvocato difensore di p. Wang fa notare che “la nuova chiesa e la sua consacrazione sono state approvate dal governo di Zhangjiakou. C’è perfino il certificato dell’approvazione. E l’Ufficio Affari Religiosi e il Fronte Unito, Dipartimento locale hanno anche dato il contributo di 1000 yuan [circa 100 euro] per la costruzione. Tutto questo si può trovare sul registro della parrocchia”. Secondo l’avvocato ciò è prova sufficiente a dimostrare che la “riunione non era illecita”.
Sull’uso del sigillo, il difensore ha fatto notare che “quel sigillo è un sigillo della parrocchia, con la dicitura ‘Commissione affari della chiesa parrocchiale’. In tal senso esso “riguarda le regole interne della chiesa e non è un sigillo ufficiale. Sul centro del sigillo c’è un segno di croce, e non una stella a cinque punte [simbolo del governo cinese - ndr]”. Un testimone ha perfino assicurato che “tale sigillo è stato fatto con il permesso del vicedirettore dell’Ufficio per gli Affari Civili, che è una diramazione dell’Ufficio Affari Religiosi e Nazionali e perciò p. Wang non è colpevole”.
Per aumentare il peso delle accuse, viene chiamato a testimoniare anche un poliziotto il quale afferma che la festa della consacrazione ha creato problemi al traffico stradale. “Tutti sanno – commenta il resoconto del processo – che la chiesa si trova in un luogo isolato, lontano dalla strada principale. Inoltre, la proprietà della parrocchia è ampia e vi è parcheggio per tutti”.
Alla difesa finale l’avvocato ha detto che le accuse sono ingiuste e inesistenti e basate su “false testimonianze”. Il giudice ha allora sospeso il processo rimandando la sentenza, promettendo che avrebbe parlato con le autorità. Dopo due giorni di discussione - a cui hanno partecipato il commissario politico [un membro influente del Partito comunista- ndr], insieme ai rappresentanti del Fronte Unito e dell’Ufficio affari religiosi – non vi è stato alcun pronunciamento e il giudice ha chiesto alle autorità superiori.
Il 14 novembre scorso vi è stata la seconda seduta del processo, a cui erano presenti più di 200 parrocchiani di Guyuan e i parenti di p. Wang. La seduta è durata solo 10 minuti: il tempo per il giudice di condannare p. Wang a 3 anni di prigione per aver organizzato un incontro illecito. L’avvocato di p. Wang ha protestato contro il tribunale e ha deciso di presentare ricorso. I fedeli hanno cercato di avvicinarsi al sacerdote, ma la polizia l’ha subito preso, messo in un’auto e portato via.
Il resoconto – stilato da alcuni fedeli presenti al processo – conclude con alcune considerazioni: “Questa condanna ingiusta mostra che in Cina non esiste giustizia. Da una parte si afferma che vi è libertà religiosa, dall’altra si arrestano e si sopprimono i membri della Chiesa”. E ancora: “Questa condanna illegale è uno schiaffo in pieno viso contro la tanto proclamata ‘costruzione della società armoniosa’ [lo slogan del presidente Hu Jintao – ndr]. P. Wang è un debole agnello e si può ammazzarlo con facilità. Invece i veri criminali sfuggono a qualunque condanna”.
Quanto avvenuto a p. Wang sembra confermare la presenza di una vera e propria campagna di “normalizzazione” delle Chiese non ufficiali da parte dell’Ufficio affari religiosi, che impone a tutti i sacerdoti di registrarsi all’Ap come unica via per ottenere il permesso di esercitare il ministero. Nella sua Lettera ai cattolici cinesi, Benedetto XVI ha definito l’Ap un organismo la cui finalità è “inconciliabile con la dottrina cattolica”.

AsiaNews 22/11/2007 12:16


Scienza & Vita
Comunicato n° 30 del 20 Novembre 2007
CON LE CELLULE RIPROGRAMMATE UNA SVOLTA CHE SPAZZA VIA LE MANIPOLAZIONI

“Dopo un lungo e sofferto cammino, che ha immolato sull’altare della ricerca tanti esseri umani in fase embrionale, la scoperta effettuata dai ricercatori giapponesi che avrebbero riprogrammato le cellule adulte, portandole ad uno stato di pluripotenza e non di totipotenza come le cellule embrionali, sembrerebbe un’autentica svolta”. E’ questo il giudizio espresso dall’Associazione Scienza & Vita sui risultati resi noti dal gruppo di ricerca nipponico sulle cosiddette cellule iPS (cellule pluripotenti indotte). Ma il condizionale è d’obbligo - prosegue l’Associazione - come mettono in evidenza gli stessi ricercatori, e la prudenza è sempre necessaria. Saranno infatti indispensabili adeguate sperimentazioni sull’animale per chiarire i tanti aspetti non ancora noti e la possibilità di una puntuale, efficace e sicura applicazione clinica. Per cui, prima di creare false aspettative, è opportuno cercare di disporre di tutti gli elementi concreti per poter dare risposte adeguate.
L’opinione pubblica - conclude Scienza & Vita - è stata già manipolata a sufficienza. Basti ricordare l’inopinato entusiasmo riservato alle tecniche della clonazione e alla ricerca sulle cellule staminali embrionali che avrebbe dovuto dare risposta immediata a tutte le malattie degenerative. Previsioni regolarmente smentite dalla dura realtà della ricerca. Scienza & Vita si augura, infine, che “la tappa odierna segni il ritorno alla compostezza e alla sobrietà e riporti al centro del dibattito la verità scientifica”.


Il Papa firmerà la sua Enciclica sulla speranza il 30 novembre

A confermarlo è il Cardinale Tarcisio Bertone
ROMA, venerdì, 23 novembre 2007 (ZENIT.org).- Benedetto XVI firmerà il 30 novembre la sua seconda Enciclica, dedicata alla speranza, secondo quanto ha reso noto questo giovedì il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato.
Il porporato ha reso pubblica la notizia nell'inaugurare a Roma il IV Congresso mondiale degli organismi ecclesiali dedicati alla giustizia e alla pace, in occasione del 40° anniversario dell’enciclica “Populorum Progressio” di Paolo VI.

“Il Papa firmerà la prossima Enciclica dedicata alla speranza il prossimo 30 novembre”, ha affermato il Cardinal Bertone.

Il 30 novembre è la festa di Sant’Andrea apostolo, patrono delle Chiese d'Oriente.
La seconda Enciclica del Papa, dopo la Deus caritas est (firmata il 25 dicembre 2005), si ispirerà alla Lettera di San Paolo ai Romani.
Il testo, dal titolo "Spe salvi", è in otto lingue: latino, italiano, francese, inglese, tedesco, spagnolo, portoghese e polacco.
L'Enciclica verrà presentata alle 11.30 del 30 novembre stesso nel corso di una conferenza stampa nell'Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede.
Interverranno per l'occasione il Cardinale Georges Marie Martin Cottier, O.P., pro-teologo emerito della Casa Pontificia, e il Cardinale Albert Vanhoye, S.I., professore emerito di Esegesi del Nuovo Testamento presso il Pontificio Istituto Biblico.
Il Cardinal Bertone aveva rivelato in estate che il Papa sta preparando anche un’Enciclica di “carattere sociale”, che verrà pubblicata in seguito.


«Strategia famiglia Sfida per l’Europa» Dai vescovi Ue una proposta per dare più forza a genitori e figli
Avvenire, 23.11.2007

DA BRUXELLES FRANCO SERRA
L a politica della famiglia come opportunità e sfida per l’Europa. In quest’ottica l’assemblea plenaria della Commissione degli episcopati della comunità europea (Comece) ha varato ieri u­na 'Proposta per una strategia dell’Ue per il soste­gno alle coppie e alla famiglia', in cui identifica i pro­blemi che le famiglie in Europa devono affrontare e le iniziative che le istituzioni comunitarie do­vrebbero prendere: partendo dalla premessa che coppie e famiglie stabili sono fonte di fiducia nella società e sviluppano senso di responsabilità e a­pertura verso il prossimo, fattori chiave nel capita­le sociale dell’Europa.
A causa della 'implosione demografica' e dell’au­mento dei divorzi – constata la Comece – la Ue do­vrebbe dare maggiore attenzione ai temi della fa­miglia, e intensificare il loro contributo alla stabi­lità delle coppie e della famiglia (ad esempio nei settori del diritto del lavoro, della politica fiscale, della politica di edilizia popolare), anche stabilen­do un livello minimo di protezione sociale in tutta l’Unione.
«Risponde all’interesse generale dell’Europa soste­nere e rafforzare tra uomo e donna una relazione stabile, la cui espressione ideale è il matrimonio», si legge nel documento che indica come obiettivi chiave di «impegno comune» nella Ue «aiutare le coppie sposate nelle loro relazioni» e «sostenere i genitori nei loro compiti educativi».
La 'Proposta' della Comece si concentra sulle tan­te difficoltà quotidiane delle famiglie e sulle condi­zioni nelle quali i genitori devono svolgere al me­glio il loro ruolo: condizioni che si riferiscono e di­pendono da una serie di politiche che compren­dono la protezione dell’infanzia e dei giovani, l’in­tegrazione di individui e famiglie di diversa origi­ne, la lotta alla povertà. La situazione impone ur­genza di iniziative e il documento ricorda che tra il 1980 e il 2005 in Europa «il numero dei divorzi è au- mentato di oltre il 50% e negli ultimi 15 anni oltre 21 milioni di bambini hanno subito le conseguen­ze di 13,5 milioni di divorzi». Serve quindi una «a­deguata formazione per le coppie che si avviano al matrimonio e programmi di comunicazione per fi­ne di migliorare il dialogo e la capacità di superare momenti di crisi». In quest’ottica, la Comece sot­tolinea che nel prossimo marzo la revisione della Strategia di Lisbona – varata nel 2000 per fare ri­lanciare la competitività dell’Ue – dovrebbe dare l’occasione di rafforzare la dimensione sociale an­che con «iniziative che meglio sappiano concilia­re la vita della famiglia e la vita professionale». In concreto, fra le misure concrete da prendere la Co­mece suggerisce che le politiche regionali di aiuto allo sviluppo comprendano «la possibilità di fondi per migliorare le condizioni abitative delle coppie a basso reddito». Il che potrebbe contribuire, insie­me ad altri fattori, a combattere la violenza nelle famiglie. «Contromisure a livello europeo» dovreb­bero poi essere individuate per prevenire la 'cri­minalità giovanile' che in tanti casi deriva da 'mo­delli familiari di comportamento'.
La 'Proposta', che rileva l’importanza delle «asso­ciazioni locali e di volontariato per assistere le fa­miglie », e l’acuirsi dei problemi legati alla mobilità del lavoro, insiste poi in modo particolare su ini­ziative a favore dei figli: dalla riduzione dell’Iva sui prodotti per bambini alla messa al bando di vidoe­giochi violenti, da una migliore alimentazioni an­ti- obesità a una sempre più rigorosa sorveglianza antidroga e antialcool, a una maggiore vigilanza su usi impropri di telefonini e Internet da parte dei giovanissimi.



UN DONO PER GLI ALTRI

Messaggio di Benedetto XVI: «La provvida iniziativa susciti sempre più generoso impegno al servizio dei fratelli in necessità»
Banco Alimentare: spesa di solidarietà
Domani giornata nazionale della colletta

Avvenire, 23.11.2007
DA MILANO GIUSEPPE MATARAZZO
«La tua spesa per chi ha bisogno». In questa fra­se lo spirito della undi­cesima giornata nazionale della colletta alimentare che si svolgerà domani in tutta Italia. In oltre 6800 supermercati, sarà possibile aiu­tare concretamente i più poveri, che nel nostro Paese, secondo le ultime rilevazioni Istat, sono qua­si il 13% della popolazione. Una i­niziativa organizzata dalla Fonda­zione Banco Alimentare Onlus e dalla Federazione dell’impresa so­ciale Compagnia delle Opere. Più di 100mila volontari in casacca gialla – con la partecipazione di personaggi dello sport e dello spet­tacolo, tra cui Marcello Lippi, Pao­lo Brosio e Giancarlo Fisichella – inviteranno le persone a donare a­limenti non deperibili (olio, omo­geneizzati, tonno e carne in scato­la, pelati e legumi in scatola). Quanto raccolto sarà distribuito a più di 1.360.000 indigenti attra­verso gli oltre 8.100 enti conven­zionati con la rete Banco Alimen­tare: mense per i poveri, comunità per minori, banchi di solidarietà, centri d’accoglienza. Un universo di realtà che aprono le porte a chi è in difficoltà, non ha una casa, non ha come nutrirsi.
Anche quest’anno, per introdurre al significato della colletta ali­mentare, viene proposta una frase che sottolinea il valore educativo dell’iniziativa: «Tu lo sai bene: non ti riesce qualcosa, sei stanco, non ce la fai più. E d’un tratto incontri nella folla lo sguardo di qualcuno – uno sguardo umano – ed è come se ti fossi accostato ad un divino nascosto. E tutto diventa improv­visamente più semplice» (Andrej Tarkovskij). Quindi l’invito della fondazione: «Partecipare a un ge­sto di carità cristiana come la col­letta, così semplice e concreto, ac­cessibile a tutti, svela la legge del­la vita che è amare, dono di sé. Se uno vede che quanto più ama tan­to più è se stesso, e che in questo darsi non si perde, ma si guada­gna, allora tutta la vita diventa de­siderio di condividere il bisogno degli altri per condividere il senso della vita». Attraverso un messag­gio inviato dal cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vati­cano, Benedetto XVI rivolge ai vo­lontari «un cordiale e beneaugu­rante saluto», auspicando che «la provvida iniziativa susciti sempre più generoso impegno al servizio dei fratelli in necessità».
In occasione della colletta alimen­tare del 2006, gli italiani hanno do­nato più di 8422 tonnellate di cibo per un valore economico superio­re a 26.200.000 euro. La rete del Banco alimentare in Italia nacque nel 1989, e prese il via dall’incon­tro a Milano, tra il fondatore della Star, Danilo Fossati, e il fondatore del movimento di Comunione e Li­berazione, don Luigi Giussani. A sostenere la giornata nazionale della colletta alimentare, sono an­che l’Associazione nazionale alpi­ni e la Società San Vincenzo De Paoli, con l’Alto patronato della presidenza della Repubblica e il patrocinio del segretariato sociale della Rai. Tante inoltre le aziende e le imprese che stanno contri­buendo all’iniziativa. Per informa­zioni sui punti vendita che aderi­scono è possibile chiamare lo 02.67.100.410 oppure visitare il si­to www.bancoalimentare.it.


intervista a Mons. Mauro Inzoli «È la carità che cambia la vita» Avvenire, 23.11.2007
DA MILANO
« L a carità è il cuore di ogni uomo, il suo es­sere, la sua anima. La carità gratuita: il dono di sé com­mosso ». È la carità come condi­visione dei bisogni, ma soprat­tutto come condivisione del vero senso della vita, quella che mon­signor Mauro Inzoli, presidente della Fondazione Banco alimen­tare Onlus mette al centro della giornata della colletta alimentare.
La carità, oggi: quale significato?
La società si evolve, cambia. Cam­biano le urgenze, i desideri, le mode. Ma il cuore rimane lo stes­so. Ricordo ancora un insegna­mento di mia nonna, frutto di un’educazione cristiana: quando c’è un povero che bussa, corri. Oggi come ieri, è la carità che cambia la vita. La propria e quel­la degli altri. La carità dello sguar­do con cui Gesù abbraccia gli ul­timi, offrendo in sacrificio sé stes­so. Quello sguardo che può donare la vi­ta, fa sentire l’altro a­mato. È l’infinita te­nerezza.
Una giornata non so­lo simbolica...
È un momento dal grande valore educativo, perché si pone l’attenzione su un proble­ma fondamentale. Partecipare è un gesto semplice, concreto, im­mediato. La colletta non risolve certo la situazione. Ma l’espe­rienza ci insegna che questa gior­nata è sempre l’inizio di un per­corso più importante, di impre­visti incontri e aiuti quotidiani. I banchi della solidarietà crescono in ogni realtà e sono diventati un permanente condivi­dere il bisogno del­l’altro.
Un episodio che l’ha colpito lo scorso an­no?
Una persona che ri­ceve regolarmente gli alimenti dal Banco alimentare è entrata nel supermercato e ha preso, con mia sorpresa, il sac­chetto per la colletta. È uscita con il suo sacchetto della spesa prati­camente vuoto e il sacchetto del Banco con un pacco di pasta den­tro. Me lo ha dato, dicendo: c’è si­curamente qualcuno che ha più bisogno di me.
La nostra è una società sempre più povera?
È sotto gli occhi di tutti. Cresce il numero di famiglie che si impo­veriscono, indebitandosi dietro una mentalità che fa temere di va­lere meno se si ha meno. Una condizione economica che peggiora purtroppo anche a causa dell’aumento delle separazioni familiari. Una famiglia che si rom­pe è una sofferenza dei senti­menti, ma anche una sofferenza della povertà.
Giuseppe Matarazzo




Malati di sclerosi, una casa per non restare soli
Presentato ieri a Milano un nuovo Centro residenziale per lungo­degenti e per il 'sollievo' delle famiglie Ha 45 posti letto, sorge a Inzago (Milano) ed è stato realizzato grazie all’impegno della Lism «Ogni anno 1.800 nuove diagnosi, le strutture non sono sufficienti» Il centro è unico nel suo genere in Italia: finora i pazienti più gravi, anche se giovani, venivano ricoverati nelle residenze per anziani o per la salute mentale La Fondazione Sacra Famiglia gestirà l’assistenza e la cura Diana: viviamo alla giornata, andiamo a letto non sapendo come ci risveglieremo, se cammineremo o muoveremo le braccia
Avvenire, 23.11.2007
C’è Elena seduta in prima fila sulla sedia a rotelle; è rimasta sola perché il marito non ha retto alla sua malattia e se n’è andato. C’è Anna che scuote la testa e ripete sottovoce: «È una malattia tremenda. Tremenda. Ti toglie tutto. Ero una persona capace di fare tante cose, adesso sono un’incapace.
Non posso rimanere nemmeno troppo tempo in piedi, perché mi cedono le ginocchia». C’è Diana che ha smesso di lavorare nel 2000 e che confida di soffrire «di mancanza di equilibrio e di mancanza di amicizia». C’è Massimo, giubbotto da motociclista e capelli sparati, che ha «imparato a conviverci ma è stata dura. Mi ha cambiato la vita, cerco di arrangiarmi perché non so stare fermo, ma chissà fino a quando potrà durare». C’è Pasqua, una delle poche che camminano sulle proprie gambe, alta e bella e piena di speranze perché, dice, «da quando mi curano con l’interferone sto molto meglio».
C’erano soprattutto loro, i malati di sclerosi multipla – un male infido, complesso, che coglie di sorpresa quando si è nel pieno delle forze e poi le toglie a poco a poco mentre lascia intatte le capacità intellettive, che alterna periodi di speranza a momenti terribili – ieri mattina a Milano, negli spazi della Camera di commercio svizzera (una delle poche sedi, spiegano gli organizzatori dell’incontro, che in centro città garantiscono l’accesso ai disabili...): si festeggiava la realizzazione di un sogno durato dieci anni, la costruzione a Inzago, fuori Milano, di un grande Centro residenziale di cura per malati di sclerosi multipla. I posti letto sono 45, di cui 40 in lungodegenza, destinati a chi è ormai divorato dalla malattia e non può più camminare, né nutrirsi né respirare in modo normale. Gli altri 5 posti letto sono in regime di 'sollievo': le famiglie potranno affidare i loro cari alla struttura per qualche giorno o settimana, giusto il tempo per tirare un po’ il fiato.
Sì, perché oggi sono le famiglie a portare il peso della malattia. «Finché la sclerosi è all’inizio il problema è affrontabile», commenta Maria Emanuele, fondatrice della Lism, la Lega italiana sclerosi multipla, che ieri festeggiava due traguardi importanti, i 25 anni di vita e l’inaugurazione del Centro residenziale di Inzago. «Poi però diventa difficilissimo, perché il malato non può fare nulla da solo, non riesce a stare in piedi, a muoversi, la sua mente è completamente attiva e assiste impotente all’abbandono del corpo... I malati avrebbero bisogno di fisioterapia tutti i giorni, altrimenti i muscoli si atrofizzano ma le Asl in genere autorizzano cicli limitati nel tempo.
Molte famiglie non reggono, si spezzano e il malato resta solo», continua Maria, una donna di mezza età piccolina e dolcissima, lei stessa per 14 anni, tra i 21 e i 35, malata di sclerosi e poi sorprendentemente guarita. «Era il 1964 ed è iniziato come accade a tutti, con un mal di testa fortissimo, un dolore continuo alla schiena. Tra un ricovero e un altro, solo dopo mesi ho avuto la diagnosi di sclerosi multipla. Ho trascorso 7 anni della mia vita in carrozzella. Poi un giorno, all’improvviso, sono guarita; ero completamente priva di muscoli ma in compenso in quegli anni di cure sperimentali e di permanenza nelle corsie degli ospedali mi sono innamorata dei malati, del loro disperato bisogno di aiuto e amicizia. Anche della loro solitudine».
La guarigione di Maria, caso pressoché unico in Italia, è considerata inspiegabile: frutto di una fede fortissima per molti, merito delle terapie sperimentali a cui la donna era stata sottoposta per altri. Quello che è certo è che dall’amore di Maria Emanuele per chi come lei, ma con meno fortuna, ha incrociato nella sua vita la malattia, è nata la Lism, che dal 1982 accoglie nella sua sede di Rogoredo, alla periferia di Milano, i malati e le loro storie. Ogni giovedì i pazienti trascorrono il pomeriggio in compagnia, ricevono ascolto e partecipano ad attività ricreative di vario tipo. Socializzano, si raccontano le loro sofferenze, stanno un po’ meglio perché come sempre l’unione fa la forza. Le famiglie, inoltre, possono usufruire di un servizio (gratuito) di accompagnamento, di assistenza e di attività di auto-aiuto.
Ma il progetto più impegnativo in tutti questi anni è stata la costruzione del Centro di Inzago, resa possibile grazie a un lascito di una giovane malata, Simona Sorge, morta in tragiche circostanze alla fine degli anni Novanta. «A fronte del numero elevato di diagnosi di sclerosi multipla effettuate ogni anno, circa 1.800, e ai 54 mila malati in Italia – ha detto ieri il marito di Simona, Mario Cremona, presidente della Fondazione Lism Simona Sorge che dà il nome al nuovo Centro residenziale – le strutture a disposizione risultano spesso inadeguate e sempre insufficienti ad accogliere persone che sono per lo più giovani e con facoltà intellettive integre». Al momento i malati di sclerosi multipla che non possono più essere curati in famiglia, anche se sono giovani, «vengono ricoverati in centri per anziani o per la salute mentale», aggiunge Maria Emanuele.
Diana, in prima fila, ascolta attenta, poi prende la parola a nome di tutti i malati presenti all’incontro: «Con la sclerosi multipla vai a dormire e non sai che cosa succederà durante le notte e come ti risveglierai il giorno dopo, che cosa si è bloccato, se puoi camminare o muovere le braccia. La sclerosi ti costringe a vivere 'alla giornata', con la speranza che i farmaci possano rallentare i processi degenerativi, con la speranza di non rimanere da solo, bloccato, impotente. Ecco come vive un malato di sclerosi multipla: tra barriere architettoniche e barriere affettive.
Praticamente in solitudine. Il Centro residenziale di Inzago è la dimostrazione che tutte queste difficoltà si possono superare. Perché, quando si vuole, si può fare quasi tutto».
Antonella Mariani



Mamma e papà? No, «genitore A e B»

Dal Canada alla Spagna, dalla Scozia alla California: giro del mondo nell’antilingua, quella che in nome dell’ideologica­mente corretto nega la realtà e obbliga a usare termini neutri come «spouse» o «partner» anziché marito e moglie
Rimodellare la realtà a proprio piacimento facendo leva sul linguaggio. La pressione anti-famiglia per il riconoscimento delle coppie omosessuali passa anche dal vocabolario: in giro per il globo vanno aumentando le campagne ideologiche per cui le parole che si riferiscono alla famiglia vengono stravolte in nome del 'politicamente corretto' che vede nella coppia di un uomo e di una donna una realtà passatista da superare.
E così il linguaggio che si riferisce al maschile e al femminile viene stravolto da terminologie neutre, indifferenziate, quali «partner», «sposi», «custodi», addirittura «genitori A e B». L’agenzia Lifesitenews ha tratteggiato un panorama internazionale a dir poco preoccupante su questa materia: vediamo alcuni esempi.
Il caso più recente è quello dello stato della California, dove a settembre il Senato (con 22 voti contro 15) ha approvato una legge che sostituisce l’indicazione «due persone» al classico «marito e moglie» in tutti i riferimenti pubblici sul matrimonio.
In Scozia il Servizio sanitario nazionale ha dato mandato al personale infermieristico di evitare di usare i termini «mamma» e «papà» perché potrebbero risultare offensivi delle coppie omosessuali che a Glasgow e dintorni possono legalmente adottare un bambino. Così, in una corsia di ospedale di Edimburgo non si deve parlare di «marito», «moglie» o «matrimonio» perché – afferma Fair For All, la pubblicazione del governo di Scozia – tutto ciò «non è accettabile perché esclude termini come lesbica, gay e bisessuale». Per questo motivo i nuovi appellativi ammessi sono solamente «partners» o «prossimo».
Pure in Spagna, dove il premier Zapatero ha approvato la legalizzazione dei 'matrimoni' tra persone dello stesso sesso, il linguaggio famigliare ha subito un restyling di matrice ideologica: il Libro de Familia, il documento civilistico di base nel Paese iberico, ora contempla una nuova indicazione per le famiglie gay con il genitore A (maschio) e il genitore B (femmina) che si possono combinare a seconda se la coppia è eterosessuale, omosessuale o lesbica.
Sbarcando in Canada, precisamente in Ontario, la legge 171 del 2005 ha rivoluzionato il concetto di matrimonio inserendo pure un lessico 'neutrale' rispetto al genere. Le abituali referenze di «moglie» e «marito» non possono più essere usate, così come quelle di «vedovo» o «vedova». Lo ha stabilito il procuratore generale Michael Bryant perché i 'vecchi' termini «offendono la Carta dei Diritti e delle Libertà». E così a Toronto e dintorni si è trovato nel termine «spouse» una soluzione neutra: «In questo modo si includono le coppie di sesso opposto e quelle dello stesso sesso che sono sposate o che vivono in relazioni coniugali fuori dal matrimonio» è stato il salto mortale linguistico di Bryant per specificare perché non si possa più usare il vecchio linguaggio di «marito e moglie».
Seguendo questo schema ben 73 normative dello stato dell’Ontario sono state modificate per aggiornarsi alla nuova visione 'progressista', secondo la quale «vedovo» o «vedova» devono diventare «spouse» (termine neutro) ancora vivente mentre l’espressione «persone che convivono come marito e moglie» deve trasformarsi in «conviventi come coppia sposata» e «partner dello stesso sesso» in un generico «spouses».
Insomma, anche le parole, in questo caso quelle della famiglia, servono per far vincere l’ideologia sulla realtà.
Lorenzo Fazzini



Una ricerca della Cattolica evidenzia limiti e forzature della rappresentazione
Così i mass media falsano l’immagine della famiglia

Aroldi, vicedirettore dell’Osserva­torio sulla comunicazione: nella televisione dominano i meccanismi della spettacolariz­zazione e della trasgressione La normalità non ha più posto, si dà spazio solo alle posizioni minoritarie
Avvenire, 23.11.2007
« I media, soprattutto la televisione, sono ormai diventati un luogo di conflitto, un moderno campo di battaglia in cui ci si contende l’affermazione di diverse immagini o idee di famiglia e di socialità. E la dialettica tra rappresentazione e rappresentanza può così talvolta tradursi in crisi di fiducia nei processi stessi di mediazione, generando per esempio sospetto nei confronti di parte dell’informazione».
Sono alcune sostanziali conclusioni a cui è giunta la ricerca Discorsi di famiglia, condotta dall’Osservatorio sulla comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che verrà presentata nel corso dell’incontro organizzato per oggi a Roma dal Forum delle Associazioni familiari (vedi box). Ad anticiparne i contenuti è il vicedirettore dell’Osservatorio e curatore della ricerca, Piermarco Aroldi.
Professore, la ricerca afferma in sostanza che l’immagine che la televisione dà della famiglia è spesso artefatta, falsa. Un prezzo da pagare alla inevitabi­le spettacolarizzazione insita nel piccolo schermo?
In parte sì, ma questo vale per tutti i media. Nel senso che, affermava anche Alessandro Manzoni alla fine dei «Promessi sposi» dicendo che la narrazione dei fatti si fermava lì perché Renzo e Lucia da quel momento avrebbero vissuto felici e contenti, è sempre oggetto di narrazione ciò che sconvolge la normale quotidianità. Il tran tran non può interessare narrativamente.
Ma un conto è raccontare una storia, come fa per esempio il cinema, altro conto è affermare di rappresentare la realtà. Come avviene in tivù in molti reality show e nel cosiddetto infotainment ovvero in quei contenitori pomeridiani in cui si mescolano confusamente attualità e intrattenimento.
A questo punto a che paradossi si può arrivare?
Il classico paradosso è che, riguardo all’immagine di famiglia, il massimo di visibilità sociale è spesso garantito a posizioni minoritarie. Mentre, viceversa, ciò che ha ampia corrispondenza nella effettiva realtà risulta mortificato. Come è successo con il Family day.
Com’è stata condotta la ricerca?
Attraverso una ricognizione sul web per analizzare la presenza di siti Internet direttamente gestiti da famiglie e mediante interviste a sceneggiatori e produttori di fiction, a pubblicitari, a giornalisti della carta stampata e a rappresentanti delle associazioni familiari aderenti al Forum.
Cosa è emerso nelle diverse realtà mediatiche e nelle 'cate­gorie' interpellate?
Anzitutto colpisce la scarsa presenza delle famiglie sulla Rete. Eppure Internet, per sua natura, è quanto di più omologo alla realtà familiare, perché non mediato da altri soggetti della comunicazione.
Non c’è alcun filtro.
Ciononostante le famiglie lo ignorano quasi completamente.
Forse perché è ancora una novità ed è percepito come difficile da gestire. Per le associazioni familiari sarebbe invece davvero una nuova frontiera da esplorare, vista la richiesta di maggiore rappresentanza e una certa diffidenza nei confronti di giornali e tivù.
Perché non ci si fida più dei tradizionali mass media?
Perché, soprattutto negli ultimi anni, si sono in gran parte giocati la credibilità di cui godevano.
Si punta unicamente sul sensazionalismo e su ciò che è trasgressivo?È il registro dominante. Come per la fiction, la cui regola è raccontare una storia con una struttura drammaturgica: stato di equilibrio di partenza, arrivo della crisi e suo superamento, in un modo o nell’altro. La famiglia, insomma, deve sempre andare in crisi.
Ed è qui che si vien meno a una più autentica rappresentazione delle realtà familiari?
Sì, perché la regola di fondo è diventata: va dove ti porta il cuore. Prevale un’etica debole dell’inclusione. Insomma, basta volersi bene. Domina un ideale individualista. Che è il contrario dell’essenza stessa della famiglia.
Ma al riguardo ci sono alcune differenze tra le varie reti televisive?
Semplificando molto, potremmo dire che le famiglie, per così dire tradizionali, raccontate dalle fiction di Raiuno e Canale5 si assomigliano tra loro. Ma sono molto diverse, per esempio, da quelle raccontate dalle fiction di Raidue e Italia1.
Ancora più diverse risultano poi le famiglie rappresentate su altre reti...
Certo, basti pensare a quale famiglia, gli Osbourne per esempio, ha spazio in un canale giovanile come Mtv per riconoscere il peso dell’emittente nel definire il sistema di valori che regge l’intera narrazione.
Ma è così vincolante la linea editoriale?
Non sempre. Si pensi, per quanto riguarda Raiuno, la cosiddetta 'rete delle famiglie', a due recenti fiction come Il padre delle spose e Mio figlio che hanno trattato il tema dell’omosessualità in contesti familiari. Se è per questo, ci sono regole più ferree per i pubblicitari che per i produttori di fiction.
In che senso?
Per la pubblicità la famiglia è fondamentalmente un pretesto di organizzazione di una situazione di consumo in funzione del prodotto e del target. Può sembrare paradossale, ma la famiglia della pubblicità è, come modello, fortemente conservatrice. La pubblicità, infatti, non può permettersi di rischiare. Così, se si vuole fare un spot un po’ trasgressivo, la famiglia viene solitamente sostituita da una coppia giovane.
Poche regole d’oro in un processo di mediazione sempre più complesso. Ma come si rapporta il pubblico con questa multiforme realtà?
I telespettatori hanno ormai sempre più un rapporto ludico con la televisione. E questo attenua i rischi di certe distorsioni. Resta il fatto che i mass media sono una risorsa fondamentale della società.
Perciò educare i giovani all’uso di questi beni è oggi ancor più essenziale.
Massimo Iondini


Obiettivo di giustizia
La lotta alla fame tra i principi non negoziabili
Avvenire, 23.11.2007
FULVIO SCAGLIONE
La lotta alla fame è stato il primo de­gli Obiettivi del millennio stabiliti dall’Onu. Il programma: dimezzarla entro il 2015. La realtà? Pur essendo di­minuito in percentuale sulla popola­zione mondiale, soprattutto grazie al miglioramento delle condizioni eco­nomiche in Cina, il numero assoluto delle persone che ne soffrono è anco­ra cresciuto: oggi si avvicina agli 860 milioni mentre nel 1996, dopo il pri­mo vertice sull’alimentazione che si svolse a Roma, era intorno agli 840 mi­lioni.
Speriamo dunque che i partecipanti alla trentaquattresima sessione della Conferenza generale della Fao ( Food and agriculture organization), ricevu­ti ieri da Benedetto XVI, facciano te­soro dell’osservazione loro rivolta dal Papa: «I dati raccolti dalla vostra ri­cerca e l’estensione dei vostri pro­grammi a sostegno degli sforzi globa­li per sviluppare le risorse naturali del pianeta testimoniamo con chiarezza uno dei più sconcertanti paradossi del nostro tempo: l’inesorabile diffusio­ne della povertà in un mondo che sta anche sperimentando una prosperità senza precedenti, non solo nella sfe­ra economica ma anche nei settori della scienza e di una tecnologia in ra­pido sviluppo». Possiamo discutere all’infinito sulle strategie da adottare, sull’ipocrisia dei governi che firmano certi 'manifesti' e poi non li finanziano o non li met­tono in pratica, sulla tendenza ovun­que vigorosa (e più che mai nei Paesi fortemente sviluppati) a costruire car­telli industriali o a erigere barriere commerciali che quasi sempre vanno a scapito dei Paesi che ancora cerca­no la strada dello sviluppo. Ma il pun­to cruciale è un altro ed è proprio quel­lo messo in luce da Benedetto XVI: a che cosa serve il progresso se non va a garantire i diritti fondamentali del­l’uomo? Se non salva quasi un miliar­do di esseri umani dallo spettro della morte per fame?
Il brano che abbiamo citato è certa­mente il cuore del discorso del Papa ai delegati Fao, e infatti è stato ripre­so da tutti le agenzie di stampa. Ma non dovrebbe essere trascurato un passo di poco successivo, laddove il Pontefice ha detto che «il contributo di ogni membro della società – indi­vidui, organizzazioni di volontariato, aziende, governi locali e nazionali» de­ve sempre tenere presenti «i principi etici e morali che sono il patrimonio comune di tutti i popoli e il fonda­mento della vita sociale».
Cresce infatti la sensazione che gran parte del nostro sviluppo, della nostra capacità scientifica e tecnologica, sia­no indirizzati verso una drastica ridu­zione del senso di responsabilità, in­dividuale e collettivo. Responsabilità verso la vita in ogni suo stadio. Verso l’ambiente e le sue risorse, che ap­partengono a ogni singolo essere u­mano. Responsabilità verso i più de­boli, secondo un principio che trova invece ripetuta affermazione in tutte le grandi religioni rivelate e che ieri Benedetto XVI ha richiamato ricor­dando la necessità, proprio nella lot­ta alla fame e alla povertà, «di uno spi­rito di cooperazione e della volontà di condividere le capacità professionali e tecniche». Sembriamo piuttosto in­tenti a consumare, e a consumarci, circondandoci di piccole e grandi in­venzioni a cui chiediamo non tanto di migliorare la vita di tutti ma di ren­derla soprattutto più comoda, più ra­pida, più facile a ognuno di noi sin­golarmente preso. Per questo faccia­mo così fatica a raggiungere gli obiet­tivi collettivi, come quelli appunto del­la Fao, che pure sentiamo necessari.
Stiamo trasformando il talento crea­tivo e produttivo del genere umano in un’immensa fabbrica dello svago. Un po’ poco, per una creatura che pure fu creata a Sua immagine e somiglianza.






Finalmente l'Ue riconosce la persecuzione dei cristiani
Giorgio Vittadini, Il Giornale 23.11.2007