sabato 17 novembre 2007

Estratto dal comunicato stampa del Banco Alimentare per la 11ª Giornata Nazionale
della Colletta Alimentare del 24.11.2007

Tu lo sai bene: non ti riesce qualcosa, sei stanco, non ce la fai più. E d’un tratto incontri nella folla
lo sguardo di qualcuno – uno sguardo umano – ed è come se ti fossi accostato ad un divino
nascosto. E tutto diventa improvvisamente più semplice. Andrej Tarkovskij
Partecipare a un gesto di carità cristiana come la colletta, così semplice e concreto, accessibile a tutti,
svela la legge della vita che è amare, dono di sé.
Se uno vede che quanto più ama, tanto più è se stesso e che in questo darsi non si perde, ma
guadagna, allora tutta la vita diventa desiderio di condividere il bisogno degli altri per condividere
senso della vita.


Che bel profitto ma c’è di più di Raffaello Vignali, ItaliaOggi




Violenza, quel nichilismo che addolora il Papa di Davide Rondoni, Il Tempo



JanSobieski Scrivere "
«Mio marito in cella nella Cuba di Castro perché cattolico»Yamilé Llanes Labrada, moglie di un medico, ospite ieri alla Fondazione Craxi
Fiamma Nirenstein - Il Giornale, venerdì 16 novembre 2007


Yamilé Llanes Labrada è una ancor giovane bellezza cubana e riesce a sorridere raccontando la sua tragica storia. Dal marzo 2003 suo marito è in un carcere speciale di Fidel Castro, accusato, secondo la cosiddetta «legge-museruola» varata in quell’anno a Cuba contro chi «danneggia l’economia e l’indipendenza del Paese», di essere un delinquente da rinchiudere e isolare. Il 18 di marzo lo arrestarono e insieme a lui nei due giorni successivi vennero trascinati in carcere altri 74 dissidenti o supposti tali.
Il mondo era tutto concentrato sulla guerra a Saddam Hussein. Così funzionano le dittature: navigano contando sul cinismo altrui e adoperando il sotterfugio. «Mio marito, José Luis García Paneque, era uno dei medici più amati dell’ospedale Ernesto Che Guevara. La gente si ribellò quando lo cacciarono dall’ospedale per poi farlo finire in una cella scura e umida, lunga due metri e larga un metro e mezzo. In quello stesso giorno una folla di vecchi del Comitato Rivoluzionario si allineò sotto la nostra casa dove eravamo rimasti io e i miei quattro figli da soli: ci assediarono, urlando insulti e minacce e cantando canzoni con le parole modificate, piene di insulti. Guantanamera diventò una canzone contro José Luis. Ogni settimana si rinnovavano queste operazioni di intimidazione, non potevamo uscire di casa né salire e scendere le scale, i vicini non ci parlavano più, a volte sotto casa si radunavano giovani che brandivano bastoni, a volte marciavano intorno alle nostre finestre bambini organizzati dai soliti comitati. I miei figli guardavano dalle finestre e spargevano lacrime col naso schiacciato contro il vetro. La più piccola, Maria, era la più spaventata di tutti. Il carcere era a 700 chilometri da casa, una distanza proibitiva per andare dal paese di Las Tunas a l’Havana per curare un uomo quando hai quattro figli. E sì che ne aveva bisogno: all’inizio pesava 80 chili, oggi ne pesa 42 ed è bisognoso di medicamenti speciali urgenti».
È una vicenda di ordinario orrore totalitario e Yamilé ce l’ha raccontata ieri durante la conferenza organizzata a Venezia dalla Fondazione Craxi nella ricorrenza della Biennale del dissenso: «Il dissenso continua». Così l’hanno chiamata Stefania Craxi e Carlo Ripa di Meana che fu, nel ’77, insieme a un coraggioso pugno di intellettuali (Galli della Loggia, Flores d’Arcais, Mughini e altri con l’attivo sostegno di Craxi) e ai nuovi filosofi francesi, l’animatore di quella che è rimasta la pietra miliare, l’unica forse posta dall’Italia, nella critica dura al totalitarismo comunista.
Yamilé è accompagnata da sua figlia più grande, la diciassettenne Shila; insieme a Sherine di 12 anni, a José di 10 e a Maria di 9 sono stati accolti a Dallas, in Texas, come rifugiati politici perché il marito l’ha supplicata di andarsene, dato che per lui sono previsti 24 anni di carcere e perché le persecuzioni alla famiglia si sono fatte più minacciose. Yamilé, allora studentessa di legge poco più che ventenne, incontrò il marito per la prima volta nell’ospedale in cui lavorava: lui spalancò per caso davanti a lei la porta da cui la giovane donna stava entrando per andare a trovare un’amica operata proprio da José. «Aveva la mascherina - racconta lei -, ma io vidi subito qualcosa nei suoi occhi, qualcosa di definitivo. E lui mi mandò presto a dire, attraverso un’infermiera, che accompagnassi io la mia amica a fare la visita di controllo. Era assolutamente indispensabile!».
Ride per un attimo, e poi torna l’incubo: «José, in quanto cattolico, era contrario all’eutanasia, o per lo meno a quella che negli ospedali cubani si fa per risparmiare l’uso di troppe medicine. Era molto critico sullo stato dell’igiene della società cubana, scriveva sul rischio di epidemie e sulla miseria dell’alimentazione, denunciava tutto ciò che gli sembrava ingiusto dal punto di vista sociale e sanitario in una società la cui economia e la cui alimentazione sono devastate». E così José, per essere stato un medico cristiano e per essere intervenuto criticamente sul presente e sul futuro di una società che non ha più neppure la canna da zucchero, è in un carcere. E con lui circa trecento altri prigionieri politici. Cuba, in più di 40 anni di dittatura, si è dimostrata irriformabile. E il geronte Fidel Castro si frappone ancora col suo malatissimo corpo alla libertà dei cubani.



Turchia: funzionari governativi devastano un monastero ortodosso
NEW YORK, venerdì, 16 novembre 2007 (ZENIT.org).- Il 13 novembre scorso, alcuni funzionari governativi turchi hanno devastato il Monastero ortodosso di Cristo Salvatore, a Princess Islands.

Un comunicato di questo giovedì dell’Ordine di Sant’Andrea - Arconti del Patriarcato Ecumenico, organizzazione con sede a New York, rivela che “in risposta all’illegale distruzione di una chiesa cristiana ortodossa storica in Turchia da parte di otto funzionari di un Ministero della Silvicoltura locale, Sua Santità il Patriarca Ecumenico Bartolomeo ha inviato una lettera a Mevlut Kurban, capo del distretto di Princess Islands, esprimendo la sua delusione e il suo turbamento” per l’accaduto.

“Il Patriarca Ecumenico ha sottolineato che il Monastero di Cristo Salvatore era sopravvissuto a numerosi incendi e terremoti nel corso di secoli – si legge nel testo ricevuto da ZENIT –. E’ incivile devastare un edificio sacro così importante a livello storico e culturale, e ingiusto distruggerlo, soprattutto quando Istanbul è stata scelta come capitale europea nel 2010”.

Il dottor Anthony J. Limberakis, Comandante Nazionale dell’Ordine di Sant’Andrea, ha condannato le azioni illegali dei funzionari turchi.

“A nome di tutti i popoli di fede che valorizzano la libertà religiosa, i diritti umani fondamentali e la dignità di ogni essere umano, esortiamo il Governo della Turchia a porre immediatamente fine alla distruzione di questo storico Monastero e a fermare l’incessante persecuzione degli umili custodi e lavoratori che vivono nelle proprietà del Monastero”.

Il dottor Limberakis ha sottolineato che gli Arconti negli Stati Uniti sono decisi sostenitori dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea e hanno chiesto che tutti gli amici della Turchia esortino il Governo a trattare tutti i cittadini turchi in modo equo e giusto, indipendentemente dalle loro convinzioni religiosi.

Il Monastero si trovava in fase di ristrutturazione. I funzionari hanno rimosso e gettato via le tegole del tetto e hanno rotto tutte le finestre, distruggendone i telai. Hanno inoltre minacciato i residenti ingiungendo loro di abbandonare le loro case perché sarebbero state distrutte.

“Preghiamo per una soluzione positive a questo tragico evento e aspettiamo con ansia la riparazione dei danni del nostro amato Monastero”, conclude il comunicato.

Il Patriarcato Ecumenico, fondato dall’Apostolo Andrea, è il punto di riferimento per 250 milioni di cristiani ortodossi nel mondo.


Assedio e distruzione di Gerusalemme





«Ripensato il valore della vita» Riccardi: battaglia solo agli inizi. Anche eutanasia e aborto sono culture di morte
DA MILANO PAOLO LAMBRUSCHI
Avvenire, 17.11.2007
U n voto importante per avviare un ripensamento globale sulla cultura della vita. Ma lo storico Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio non canta ancora vittoria per l’approva­zione della risoluzione Onu per una moratoria della pena di morte. Per lui si apre una nuova fase, la batta­glia è agli inizi.
«Nessuno Stato sarà obbligato a re­cepirla, ma certo la moralità mon­diale adesso cambierà. Stiamo at­traversando un periodo critico in questo pianeta spaventato e carico di vittimismo. In diverse culture si sta riabilitandola violenza di cui la pena di morte è un’antica consacra­zione. Perciò il voto di New York è e­stremamente positivo: induce a un ripensamento sul valore della vita u­mana ».
Professore, cosa significa il voto per chi, come i cattolici, difende inte­gralmente la vita dell’uomo?
Oggi questo valore è disprezzato non solo con la pena di morte, ma attraverso l’eutanasia, tema che riguarda soprattutto la nostra Europa, e la pratica dell’aborto. Teniamo allora desta l’attenzione perché sia l’inizio di un ripensamento a tutto campo di cui l’abolizione della pena di morte è solo un passaggio. Solo quando c’è la pietas una società può dirsi veramente umana. Serve una diversa cultura della vita anche nella politica.
Sant’Egidio ha deciso la raccolta delle firme per la moratoria ormai diversi anni fa. Come avete costruito questa vittoria?
Per noi è stato un successo di tutta la società civile transnazionale. È stata una battaglia silenziosa, con scarsi appoggi mediatici. Tuttavia c’è stato un grande impegno popolare. Cinque milioni di firme raccolte in diversi Paesi del mondo vogliono di­re un lavoro capillare fatto a mani nude. Spesso una firma è arrivata dopo una discussione di un’ora davan­ti a un banchetto in mezzo alla stra­da. Ha vinto quel popolo che tiene la corrispondenza coi detenuti con­dannati a morte negli Usa e in Afri­ca, i ragazzi che si sono entusiasma­ti per questa battaglia. Ha guada­gnato una stupefacente centralità un’Italia pacifica, desiderosa di im­pegnarsi su temi piccoli e grandi.
Anche l’Italia politica è stata all’altezza.
Indubbiamente è stata una vittoria anche della politica e della diplomazia italiana. Il nostro Paese si è impegnato in questa battaglia generosa da cui non aveva nulla da guadagnare. La dimostrazione che, nel­lo scacchiere internazionale possia­mo ben rappresentare le ragioni del buon senso e dell’umanità.
Quali sono le insidie sul cammino della moratoria?
I grandi Paesi restano fuori da questo processo. Ci sono resistenze politiche da parte soprattutto del governo di Pechino. Ma mi preoccupano di più le resistenze culturali legate ad alcuni ambienti musulmani. O le convinzioni profonde dell’opinione pubblica di certi Stati americani in cui la giustizia vera deve segnarsi col sangue. In questi casi serve una crescita culturale sul rispetto dell’altro e l’orientamento dell’Onu rappresenta un’occasione incredibile per i cristiani.
Come coglierla, allora?
Tenendo insieme in un nuovo discorso sociale, in una nuova antropologia, l’abolizione della pena di morte, il valore della vita dal concepimento alla morte con la lotta alla fame e alla sete. Sono contento che il voto sia avvenuto nel quarantesimo anniversario dell’enciclica 'Populorum progressio', nella quale Paolo VI parlò di un nuovo umanesimo che deve ripartire. Perciò non cantiamo vittoria, allarghiamo il discorso a tutto tondo come sappiamo fare noi cattolici. Non solo con le parole, ma anche con quel compromesso di vita essenziale perché la Parola si accompagni all’esperienza.


E SOFRI ECITATI « GUARDANO » AL VANGELO
DAVIDE RONDONI
Avvenire, 17.11.2007

Si torna a lui. Assetati, confusi. Come cervi che cercano l’acqua, direbbe il salmo.
Come animali, creature che bramano sollievo. Insomma, come coloro che non hanno perso la sete. Viene da pensare così, vedendo che in due giorni «La Repubblica» ospita gli interventi di due tra le firme più illustri, Pietro Citati e Adriano Sofri, che meditano intorno al vangelo. Con la loro sincerità, la loro diversità, le loro storie così lontane. E però ora si accostano al vangelo, mossi da inquietudini che ogni uomo desto in quest’epoca non può non avere. Non è la prima volta che lo fanno.
Ma in questi loro interventi c’è uno speciale accento personale. Citati riflette sulla figura del mendicante, e sul significato della pura gratuità dell’elemosina. Mette per così dire tutta la sua cultura, i mille e mille libri letti e quelli scritti, per arrivare a 'giustificare' il gesto di elemosina che compie. Senza voler niente in cambio e senza moralismi. Nella certezza di cui parla il vangelo: quel che vien fatto a un mendicante, viene fatto a Cristo. La stessa cosa che diceva e faceva Madre Teresa, e tutti quelli come lei. E Sofri, sul quotidiano (che anticipava un suo libro in uscita da Sellerio) e su «L’Espresso», in dialogo critico e rispettoso con il libro di Benedetto XVI su «Gesù di Nazareth», offre il suo commento alla parabola del buon samaritano. Lo fa per insistere sulla immedesimazione che Cristo fa con il viandante bastonato e abbandonato dai ladroni. E chiosa che da quell’immedesimazione sorge il valore del farsi prossimo. Al di là del rilievo che Sofri fa al commento del libro di Ratzinger, ponendo l’accento più su questo immedesimarsi con il bisognoso che con colui che si ferma a farsi prossimo lungo la via, resta il gesto compiuto dai due intellettuali. In un momento in cui infiniti mutamenti mettono in crisi sicurezze, assetti, consuetudini, essi tornano al vangelo. In un momento in cui roghi vicini e lontani mostrano che anche la miglior organizzazione sociale non preserva dal divampare del male, in questa guerra quotidiana, essi rimettono il viso su quelle pagine.
C’è un tono personale in queste letture. Sofri arriva a dire che lui, a causa della riflessione sulla parabola, ha capito di essere come Priebke, il decrepito nazista tenuto ancora agli arresti in Italia. Cioè ha imparato a mettersi in quei panni.
O arriva a dire che «l’altruismo si autogiustifica», in opposizione a coloro che vedono la bontà solo come egoismo mascherato. Il che, tradotto, significa intuire che l’Essere è bene, e nel fare il bene, nella iniziale esperienza di gratuità dell’aiuto all’altro – la carità –, l’uomo conosce qualcosa di assoluto. Insomma, è come se il vangelo riaprisse continuamente la partita. Portando dove non si pensava di dover arrivare. Sofri a sentirsi in qualche modo simile al soldato nazista, e il grande dotto Citati a «confessare di praticare l’elemosina» come uno dei miei bambini per la strada. Il vangelo è sempre stato per gli intellettuali un libro provocante. Naturalmente, c’è sempre un rischio intellettuale davanti al vangelo. Il rischio di trattare il vangelo come un libro, invece che un annuncio. Solo come un racconto morale di gran valore. E fermarsi a discettare sulle infinite suggestioni che provoca, senza fare il passo che la ragione urge: dare del tu a Cristo, o condannarlo come un pazzo.
Sarebbe come se uno trovasse in un libro o in un giornale il racconto che nella sua città è atterrata un astronave e non corresse poi a vedere se è vero. Il Dio che ha dato il massimo valore ai mendicanti, e che ha rivelato agli uomini che fare il bene li compie, ben più che la fama o il successo, è lì che vive, presente nella compagnia che inizia ad essere raccontata in quelle pagine. La nostalgia, la domanda di Lui sta riempiendo le pagine dei nostri giornali.