domenica 25 novembre 2007

Nella rassegna stampa di oggi:

1) Benedetto XVI e la speranza – lettera sulla grande dimenticata
2) Gesù Cristo, sfida e segno di contraddizione per la cultura laica Dialogo tra l'Arcivescovo Gianfranco Ravasi e Giuliano Ferrara
3) Le staminali etiche viste dall’Italia. Alla festa per la«nuova era della scienza»i laicisti si irritano
4) Non farò notizia ma oggi sfamo un affamato di Antonio Socci
5) Al supermercato con il cuore sopraffatti dalla logica del dono
6) Lo chiamavano Rinascimento. Ecco cos'è rimasto nell'Eden di Napoli
7) Consumare: la condanna del futuro?
8) Quelle vite, trionfo di una logica capovolta
9) Un caduto per la pace È questa la missione



BENEDETTO XVI E LA SPERANZA
LETTERA SULLA GRANDE DIMENTICATA

DAVIDE RONDONI
Avvenire, 24.11.2007
Venerdì verrà pubblicata la «Spe salvi»

Ora prende questo coraggio, e questa umiltà. Insomma, prendendo la parola ancora per un documento importante, il Papa non si concentra su questioni secondarie. Si espone invece su una questione cardinale, centrale. Dopo quella sull’amore, arriverà l’enciclica sulla speranza. E se quella sull’amore – su eros, agape e caritas – aveva colpito per larghezza e profondità, per libertà e serietà, ora si attende con tremore cosa potrà dire sulla speranza il Papa che non censura nulla, che non evita il confronto con il pensiero moderno e, se così si può dire, con la disperazione dei contemporanei. Si attende cosa potrà venire di antico e di nuovo su un tema segreto e portante.
Perché, se è lecito dirlo, che cosa vuol dire amare è il problema immediato, il problema evidente in ogni angolo della nostra società e della nostra vita personale. Tutti parlano e straparlano d’amore – dalle pubblicità ai programmi per ragazzi, dai rotocalchi alle canzoni – e così il Papa ha preso sul serio la questione dell’amore. Che infatti è sulla bocca di tutti, è così evidente. Di più, è così urgente, nella vita e nella cronaca. Anche nella cronaca nera, oltre che nella cronaca rosa. Dunque, è entrato con grande rispetto e con grande stima sulla questione dell’amore. E se il suo intervento magistrale sull’amore è stato il segno della grande attenzione della Chiesa al tema che evidentemente appassiona gli uomini e le donne, ora arriverà la sua parola su un argomento che invece passa quasi sempre sotto silenzio.
Chi parla di speranza? È un termine che sembra caduto in disgrazia. Lo si sostituisce con altre parole come se ne fossero dei sinonimi: fiducia, ottimismo… Ma di lei, della speranza, chi ne parla davvero, chi la considera? Eppure non è una questione secondaria. Ogni persona, e ogni popolo, a seconda della situazione in cui si trova, affronta il problema della speranza. Che un uomo si trovi nel Bangladesh martoriato dai tifoni, o nell’Iraq colpito dalla guerra, o nel silenzio della sua casa dove i rapporti sono divenuti tesi, o nelle difficoltà del lavoro, la speranza è la virtù del costruire ancora, del non lasciare che vada tutto a male. La speranza, come diceva il poeta Péguy, è la virtù più strana, senza la quale le altre virtù non camminerebbero. È lei, dice, che le tira avanti, come una ragazzina tira avanti per strada le sorelle maggiori. Senza di lei, infatti, niente procederebbe. Tutto decadrebbe, e ogni cosa – un amore o una nazione – sarebbe condannata a una lenta o rapida rovina. Anche quando un uomo non ci pensa, tutto dipende dal fatto se ha speranza o no. Nella vita privata, nella vita pubblica.
Allora si attende questo intervento magistrale di Benedetto. Perché confusamente tutti sappiamo cosa è sperare. Avere un motivo per dire: domani sarà meglio. Lo sappiamo confusamente. E vorremmo che ci aiutasse a capire meglio, ad avere più chiaro il motivo stesso. Poiché vediamo anche quanto spesso la speranza svanisca, cacciata via in tante case, in tanti uffici, in tanti luoghi colpiti da una prova. Vediamo e sentiamo intorno a noi tanta disperazione. Che è quell’atteggiamento per cui non ti aspetti più nulla. Ci può essere anche una disperazione per così dire allegra. O meglio che ostenta un sorriso sulle labbra, ma dietro c’è la rassegnazione, la mancanza di aspettativa. Per questo attendiamo. E così, come l’altra volta ha illustrato cosa è l’amore, traendo il senso di una grande virtù cristiana dalle esperienze di amore che gli uomini d’amore vivono, anche stavolta attendiamo curiosi che ci illustri una grande virtù cristiana traendone il senso dalla trama dei giorni. Di questi nostri, dove conosciamo il movimento della speranza o la sua livida assenza.




Gesù Cristo, sfida e segno di contraddizione per la cultura laica

Dialogo tra l'Arcivescovo Gianfranco Ravasi e Giuliano Ferrara
Di Mirko Testa
ROMA, venerdì, 23 novembre 2007 (ZENIT.org).- La figura di Gesù Cristo, seppure spesso offuscata e confinata nella sfera privata sulla base di una preconcetta chiusura della ragione, continua al giorno d'oggi a far discutere e a sfidare la mentalità laica moderna.
E' quanto è emerso il 13 novembre scorso dal dialogo tra l’Arcivescovo Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, e il Direttore de “Il Foglio”, Giuliano Ferrara, sul libro “Gesù di Nazaret” di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, tenutosi in una Basilica di San Giovanni in Laterano affollata da oltre cinquemila persone.

Con questo appuntamento hanno ripreso il via, dopo quasi tre anni di interruzione, i “Dialoghi in Cattedrale”, promossi dalla Diocesi di Roma. Si tratta di una iniziativa, sbocciata subito dopo la missione cittadina avviata da Giovanni Paolo II nel 1996, che vede personalità ecclesiastiche e reppresentanti della cultura confrontarsi sul mondo odierno.

A introdurre il dibattito è stato il Cardinale Vicario Camillo Ruini, che ha indicato l’intenzione fondamentale di Benedetto XVI nel “mostrare l’identità tra il Gesù della storia e il Cristo della fede della Chiesa”, che rappresenta “la pietra angolare del cattolicesimo e di ogni cristianesimo che intenda essere 'cristianesimo credente'”.

Nel suo discorso Ferrara ha affermato che quello di Ratzinger è “un libro che rappresenta un avvenimento nella storia del mondo moderno”, ma che “non è solo un libro ecclesiale, un manifesto di carità e di amore, una nuova testimonianza di fede”.

Infatti, ha continuato, “è un libro che propone un metodo per leggere la Scrittura, nella fiducia che l’inafferrabilità del divino, la sua alterità e lontananza, possano essere, se non conosciute, almeno dette, scrutate, indagate, trasmesse”.

“Nello scrivere questo libro – ha continuato Ferrara – il Papa ha dovuto smantellare alcuni dogmi laici: per esempio, quello che porta ad accettare Gesù come uomo e negare la possibilità messianica dell’Incarnazione. Oppure, accettare il carisma morale dei Vangeli e negare il loro mistero, la Risurrezione”.

“Oppure, ancora, accettare la storia cristiana come passato e negare la memoria cristiana, la testimonianza – parola chiave di tutto il cristianesimo – che si perpetua come eterno presente”.

“Joseph Ratzinger – ha precisato Ferrara – non si limita a credere nel Gesù dei Vangeli, aggiunge qualcosa alla sua fede, aggiunge che la figura di Gesù Cristo è logica, è storicamente sensata e convincente, solo se esaminata e per così dire argomentata alla luce dei Vangeli”.

“Il Papa – ha continuato – non gioca con le parole e sa che nel mondo moderno la ragione e la fede vivono vite separate. Sa che la ragione sperimentale è ancora la regina della vita pubblica e sa che la fede è ancora largamente considerata sottomissione al mistero, buio che viene dal buio, resa a quell'oscurità da cui la ragione scientifica ci libera e ci emancipa”.

Tuttavia, ha aggiunto, “il Papa sa anche che questo mondo adulto, troppo adulto, sta invecchiando a vista d'occhio” e “sa che gli uomini e le donne della nostra epoca vivono nel crepuscolo del razionalismo e nella notte del relativismo e che a questa mancanza di luce si ribellano”.

“Ed è per questo – ha sottolineato Ferrara – che il suo Gesù incarnato diventa un significato anche per chi non crede”; e allo stesso tempo una sfida alla mentalità moderna, un ragionamento che sfata i “dogmi” della cultura laica.

Giuliano Ferrara, un tempo dirigente comunista e ora esponente di quell'area laica che alcuni definiscono “teocon” perché favorevole agli insegnamenti della Chiesa in materia di morale e bioetica, ha detto di guardare alla fede con “inquietudine” e “curiosità”.

“La mia ragione mi dice il suo limite – ha spiegato –. Se non lo riconoscessi sarei padrone della mia vita e della mia morte, sarei un nichilista. La mia ragione mi dice che sono un credente, sebbene non disponga di una fede personale e confessionale praticamente vissuta”.

La sua, ha continuato, è una fede “nel concetto matematico e fisico di infinito, che segna il mio limite e lo descrive. Credo che mio padre e mia madre non siano l'origine biologica del mio DNA ma un semplice e irrisolto mistero di amore”.
Infine, Ferrara ha concluso con il suo “credo” di “laico” rispettoso della fede altrui: “Credo che l’altro o la persona umana, o anche il suo progetto o ricordo sia titolare di diritti che sono al tempo stesso i doveri”.

Soprattutto, ha aggiunto, “credo che non tutto sia negoziabile e relativo. Ed è già un bel credere ve lo assicuro”.

Successivamente l'Arcivescovo Ravasi ha detto che “l'elemento più sorprendente del Gesù di Nazaret è la distinzione che sottilmente attraversa molte pagine tra la realtà storica e la realtà in senso stretto, che non corrisponde completamente al concetto di storia”.

Quindi “l'impegno fondamentale per conoscere autenticamente il volto di Cristo è, non soltanto di riuscire a definirne il profilo storico, documentario, che è anch'esso oggetto di ricerca e ha una sua fondatezza, ma è anche il tentativo di scoprire il senso segreto e profondo della storia stessa”, attraverso “un altro canale di conoscenza, che è quello della teologia, della ricerca spirituale, della ricerca religiosa”.

Ravasi ha quindi tracciato un breve excursus sui vari metodi storico-critici di conoscenza della Scrittura, proponendo una ricostruzione del volto “reale” di Gesù attraverso due coordinate: il “luogo” e il “tempo”.

Come “luogo” l'Arcivescovo ha indicato non solo “il concreto orizzonte giudaico, con fondale greco-romano”, ma l'“orizzonte indispensabile” rappresentato dalla “relazione unica di Cristo con il Padre”: “Il luogo è il mistero di comunione con il Padre. La condizione di figlio è il cuore della coscienza di Cristo”.

E poi c'è il “tempo” che “non è solo quello storico”: “C’è in lui un’altra unità di misura che va oltre la cronologia. Eterno e storia si uniscono in Lui. Proprio perché ha di fronte a sé il tempo dell’eterno, Gesù può essere nostro contemporaneo”.

Questo “intreccio” in Gesù rappresenta un elemento di “scandalo” che suscita in alcuni l'adesione filiale e in altri il “fastidio”, ha detto.

“C’è chi lo sente contemporaneo tanto da amarlo da sempre, condividendone la croce nella vita di ogni giorno”, “ma la sua figura parla anche a coloro che sono seriamente in ricerca”, ha detto.

“Aveva ragione Simeone – ha concluso monsignor Ravasi – quando prese in braccio questa creatura e ne vide un 'segno di contraddizione' che avrebbe accompagnato e attraversato la storia”.




Le staminali etiche viste dall’Italia. Alla festa per la«nuova era della scienza»i laicisti si irritano



Non farò notizia ma oggi sfamo un affamato
di Antonio Socci
Libero, 24.11.2007




LA GIORNATA DELLA COLLETTA ALIMENTARE: EDUCAZIONE ALLA CARITÀ
Al supermercato con il cuore sopraffatti dalla logica del dono

Avvenire, 24.11.2007
GIORGIO PAOLUCCI
O ggi centomila volontari davanti a 6800 supermercati di tutta Italia ci ricordano che è la Giornata nazionale della Colletta alimentare. Invitano a fare la spesa per chi non ce la fa, raccolgono olio, tonno e carne in scatola, omogeneizzati e alimenti per l’infanzia per i poveri che, secondo l’Istat, sono il 13 per cento della popolazione. Quei centomila non hanno la pretesa di eliminare la povertà, sanno che il mare non si svuota con un secchiello. Ma con questo gesto semplice danno una mano a tanti che non riescono ad arrivare a fine mese: anziani soli, senzatetto, immigrati e, ci dicono i sociologi, un numero crescente di giovani famiglie. Un po’ sbrigativamente si potrebbe tradurre così: fatti, non parole. E già questo non è poco.
Ma dentro quel gesto c’è molto di più: c’è il bisogno di donare che abita nel cuore degli umani. Sì, è giusto parlare di «bisogno».
Perché ognuno di noi è fatto per il bene, anche se è capace di male. Scrive Claudel nell’Annuncio a Maria: «A che vale la vita se non per essere data?». È per questo che oggi, fuori dai supermercati, ci sono cattolici e laici, ai quali da qualche anno si sono aggiunti anche immigrati musulmani, tutti accomunati dalla necessità di sentirsi utili, di portare il loro piccolo mattone alla costruzione di una casa che sia per tutti più dignitosa.
La carità – una parola che per molti sa di muffa, evoca qualcosa di peloso o di superfluo – è la benzina capace di mettere in moto il cuore di ogni uomo. Appartiene alla struttura naturale dell’essere, da cui niente e nessuno la potrà sradicare. Per questo, come scrive Benedetto XVI nella sua enciclica, «l’amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore.
Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo».
Un gesto semplice, come quello di prelevare dallo scaffale del supermercato una scatola di legumi o una confezione di omogeneizzati e di infilarlo nel sacchetto che i volontari della Colletta consegnano all’ingresso, cambia chi lo fa mentre lo fa. Non solo perché costringe a pensare a chi è meno fortunato, ma perché fa riscoprire chi siamo: persone capaci di donare senza condizioni, senza nulla pretendere in cambio. Persone che vivono, anche solo per un gesto, la gratuità, valore sempre meno praticato e proprio per questo sempre più prezioso.
In questa prospettiva la Colletta promossa dalla Fondazione Banco alimentare è anche un grande momento di educazione popolare, del quale c’è più che mai bisogno in un’Italia che rischia d’incanaglirsi, di rinchiudersi nelle paure quotidiane, di pensare che «è sempre colpa degli altri», di ridurre tutto alla ricerca dei colpevoli. L’emergenza educativa, sulla gravità della quale da tempo tutti convengono, non abita soltanto nelle aule delle scuole, non riguarda solo i giovani e le famiglie. Penetra nelle fibre del Paese, diventa una grande domanda di senso per una società spaesata e sempre più inaridita, a cui gesti come questo danno una piccola­grande risposta perché educano alla carità come dimensione fondamentale della vita. Insegnano che la legge suprema della vita è l’amore. E che chi non è bene amato non sa cosa vuol dire amare.


Lo chiamavano Rinascimento
Per quattordici anni la Campania ha creduto all'età dell'oro promessa da Bassolino. Spazzatura e malavita, netturbini inermi e spacciatori dodicenni. Ecco cos'è rimasto nell'Eden di Napoli…


«Napoli cambierà, è normale. L'unica cosa che non cambia mai è che si parla sempre di come cambierà la città». Massimo Troisi.

Antonio Bassolino ha sempre sognato di far diventare Napoli la Parigi del sud. Qualche anno fa lanciò l'idea di far partire una nave da New York per farla approdare in città. Chissà lo sbalordimento dei figli degli emigrati nel conoscere la città del cielo azzurro e dell'anima nera, fino ad allora immaginata solo per i racconti dei padri; poterla finalmente respirare nuova e luccicante dopo due lustri di gestione bassoliniana. Nell'estate 2001 il settimanale Newsweek dedicò all'iniziativa un articolo. Il titolo era: "Non ridete". Sei anni dopo l'America è tornata a parlare di Napoli per sconsigliare ai propri connazionali le ferie in città: troppo alto il rischio di malattie, causa spazzatura ansimante ai bordi dei vicoli. Non è stato un buon anno per il turismo, non è stato un buon anno per Napoli per tanti motivi. Gli ultimi numeri del Viminale dicono che la provincia napoletana ha il record di omicidi (97 nel 2006, aumento del 10,2 per cento) e delle rapine (14.045 sulle circa 50 mila che avvengono in tutta Italia. Milano, seconda in classifica, ne conta 5.491). I furti in casa sono aumentati del 10,7 per cento, le aggressioni armate del 12,6. Su scippi e borseggi città come Milano, Roma, Torino e Genova vanno peggio, ma questo solo perché - ha dichiarato Sergio Fedele, dell'associazione Napoli punto a capo - non li denuncia più nessuno». Così come nessuno sembra più badare al "mercatino della spazzatura" di corso Garibaldi. Ogni giorno rom, extracomunitari e qualche napoletano vendono ciarpame trafugato dai cestini dell'immondizia. Chi solo prendesse l'autobus per girare tra le vie di Scampia, periferia nord della città, potrebbe trovare in bella mostra sopra le uscite del suddetto mezzo di locomozione il cartello «'O motto 'e l'autista è chistu ccà: 'nu viaggio è meglio a s'io fa' ca a s''o aizà!». Lo stesso cartello riporta, a caratteri più minuti, la traduzione: "è meglio viaggiare che alzare pesi" e, per dare un tocco di internazionalità, casomai passasse per il quartiere malfamato un giapponese fotocameramunito, anche la versione in inglese: "Is better one travel than one work". Per il resto Scampia è l'inferno della Gomorra di Roberto Saviano, il quartiere dell'attività, cioè lo spaccio di droga, e dell'altra attività, cioè la compravendita di pistole e fucili. Ai limiti di questa terra di confine esistono due campi rom, uno dei quali, quello abusivo, è abusivo da vent'anni. Ma qui gli zingari non creano problemi: ben si guardano dal fare scippi per le strade, ché sono in terra di lupi, e i lupi conoscono i simili all'olfatto. Vanno in centro a fare i furtarelli, ma qui non s'azzardano, pena finire in qualche campo con la testa maciullata da un colpo alla nuca. A Scampia la media degli omicidi ha raggiunto la media annuale di 108, i ragazzini iniziano a spacciare a 12 anni, l'ultima moda si chiama Cobrette, il "morso del cobra", scarti di eroina da sniffare su carta d'alluminio. Qui il 16 settembre 2005 è stato preso Paolo Di Lauro, Ciruzzo 'o milionario, il boss dello spaccio di Scampia e Secondigliano, «uno dei trenta malviventi più pericolosi d'Italia», ha detto la polizia.
Mesi prima, per le strade del quartiere, i compaesani avevano raccolto i cadaveri di una settantina di diavoli, vittime della faida tra il clan Di Lauro e gli Scissionisti. In questa caienna di cinquantamila abitanti sta il simbolo della Napoli che non può cambiare, quelle Vele che nelle intenzioni avrebbero dovuto essere le abitazioni del riscatto, della "nuova maniera di pensare" la casa e la vita, simbolo della redenzione dal degrado, dall'eroina, dal male di vivere. Invece le Vele sono ancora lì, come un marchio di disperazione sulla carne viva dei napoletani. Alle Vele si fa l'attività, e anche l'altra. Ci si mette pazientemente in coda davanti alla porta aspettando il turno come al supermercato. Si ordina e si paga, come al supermercato.
«Scampia, parola di un dialetto napoletano scomparso, definiva la terra aperta, zona d'erbacce, su cui poi a metà degli anni 60 hanno tirato su il quartiere e le famose Vele. Nel 1989 l'Osservatorio sulla Camorra scriveva che nell'area nord di Napoli si registrava uno dei rapporti spacciatori-numero di abitanti più alti d'Italia. Quindici anni dopo questo rapporto è divenuto il più alto d'Europa e tra i primi cinque al mondo». Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori, 2006.
Girato l'angolo si entra in un altro mondo. è quello che circonda il quartiere don Guanella, che prende il nome dalla chiesa dedicata al sacerdote che aveva nel suo motto "in omnibus charitas" il senso della sua missione. Qui opera don Aniello Manganiello, prete tosto che, solo qualche settimana fa, il sindaco Rosa Russo Jervolino ha minacciato di querela perché ha osato dire quel che anche i muri sospirano: c'è collusione tra politica e camorra. Don Aniello è riuscito nell'impresa di costruire un piccolo paradiso all'inferno, un paradiso dove «si può uscire alla una di notte». In effetti, il rione don Guanella non è Scampia. La Messa domenicale è affollata, l'oratorio brulica di bambini, mamme e papà che corrono dietro un pallone, fanno catechismo, danno linfa a un convitto che ospita 300 minori a rischio. «E intendo figli di malavitosi, camorristi, ladri, drogati, ragazze madri. Il segreto è l'accoglienza, prendo tutti, anche quelli che vengono qui solo per fottermi i soldi». A proposito: il Comune è da un anno e mezzo che non dà più un euro dei fondi previsti. «E la Regione ci ha inviato, con un anno di ritardo, i soldi promessi. Sto parlando di 1.500 euro. Briciole che gli rimanderò indietro».
«La sinistra napoletana che ha amministrato dal '75 all'83 e dal '93 a oggi, e cioè per oltre un ventennio, era convinta di possedere questo di più. Credeva di custodirlo nella diversità berlingueriana, nell'organizzazione di partito, nel senso dello Stato, nei rapporti di massa, nell'egemonia culturale, nell'esperienza della propria classe dirigente. E tuttavia era una convinzione infondata. La sinistra napoletana ha un passato nobile, ma è stata settaria, moralista, arrogante e, negli ultimi tempi, tanto autoreferenziale da credere che per cambiare il Mezzogiorno fosse sufficiente la sua sola esistenza». Marco Demarco, L'altra metà della storia, Guida prima pagina, 2007.
Un compaesano di Bassolino, il grande attore Toni Servillo, nato come lui ad Afragola, recitò nel 1997 in un episodio del film I vesuviani. Servillo, novello Sisifo, s'affaticava trasportando sulla cima di un monte non un masso, ma una fascia tricolore. Ai più apparve splendente metafora dell'eroismo del primo cittadino, indefesso titano ligio al suo dovere. Poi il regista Mario Martone spiegò: «Era un apologo malinconico che anticipava la parabola successiva del sindaco; l'approdo era un Vesuvio deserto, proprio come il deserto che oggi sentiamo dentro di noi quando vediamo in che condizioni è ridotta Napoli». Di recente, lo scrittore napoletano Ermanno Rea, il nostalgico cantore dell'operaismo meridionale, quello che immaginava i suoi protagonisti che facevano l'amore in barca con un occhio all'amata e l'altro al profilo dell'ex Italsider, ha detto a Repubblica: «Il cosiddetto Rinascimento napoletano è stato una fonte di equivoci a non finire. Sarebbe stato necessario orientare la città verso un impegno collettivo nel senso della legalità. Ma invece di rivoltarla come un calzino, Napoli è stata oggetto di rassicurazione».
La fine dell'illusione ha così la sua certificazione. «Il Rinascimento bassolinano è finito perché non è mai cominciato», dice a Tempi Alessandro Sansoni, ipercinetico presidente dell'Azione Giovani locale. Un miraggio, una spruzzata di vernice fresca su una parete scrostata. Da questo punto di vista, a firmare feroci e documentate analisi ci hanno pensato Giorgio Bocca col suo Napoli siamo noi, Saviano col suo Gomorra, le due copertine dell'Espresso, ma soprattutto Marco Demarco, direttore del Corriere del Mezzogiorno, ex vicedirettore dell'Unità, autore de L'altra metà della storia. Spunti e riflessioni da Lauro a Bassolino. Quando l'ha presentato, a maggio, il ministro ds Luigi Nicolais ha dichiarato: «Io al posto di Bassolino mi sarei dimesso». «Bassolino ha sempre un passato per giustificarsi e un futuro per illudere». Marco Demarco, L'altra metà della storia.
Il saggio di Demarco è impietoso nello snocciolare dati e aneddoti sulla miserevole politica di Bassolino, l'uomo che ha guidato Napoli dal 1993 al 2000, che oggi è governatore della Regione, ma che forse presto lascerà perché, come rammenta a Tempi il deputato di An Enzo Nespoli, «il 26 novembre deve presentarsi davanti al gup per l'udienza preliminare. è facile che non termini il mandato. Sta cercando una via di fuga». Bassolino è rinviato a giudizio per truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato, frode in pubbliche forniture e violazioni ambientali. Dall'inchiesta emerge che, come lui stesso ha ammesso in un'intervista, non ha mai letto i contratti che ha stipulato. Fine amara per l'uomo a lungo emblema della sinistra vincente. Addirittura nel film Ferie d'agosto di Paolo Virzì (1995) il marito Silvio Orlando rimbeccava alla moglie Laura Morante che le sue prestazioni amorose erano state tre e non due quell'anno, «perché l'abbiamo fatto anche quando è stato eletto Bassolino».
L'uomo che poteva permettersi di grugnire a Giuseppe D'Avanzo di Repubblica che «a Gava posso dire soltanto di andare a fare in culo», senza che alcuno si scandalizzasse, che aveva promesso, varcando per la prima volta il portone del municipio a Palazzo San Giacomo, che «con me i napoletani impareranno a fermarsi al semaforo rosso», oggi deve subire i dardi di Demarco senza scudi d'argomenti per ripararsi. L'uomo che governa da oltre 14 anni - molto più di Lauro, Gava, Valenzi e Pomicino - deve trovare oggi risposte alle scomode domande di un ex dell'Unità: «Alle amministrative del giugno '92, proprio quando stava per esplodere la questione morale, a Napoli la Dc di Gava, Scotti e Pomicino raccoglie il 30 per cento, il Psi di Di Donato il 20, i Ds l'11. Scarsa legittimazione morale e ampio consenso: questo il dilemma di allora. E quello di oggi?».
Oggi, anche la sinistra napoletana (soprattutto quella aristocratica del presidente Giorgio Napolitano) ride di gusto delle sue disavventure. L'ultimo a metterlo alla berlina è stata Italia Oggi che ha raccontato che a Napoli è nata la prima scuola per dj, in collaborazione con la Cgil. E questa volta non si sono trovati i cantori dell'idea come nel 2003, quando Bassolino prelevò dai fondi europei un milione e 280 mila euro per organizzare un corso per diventare veline. In dieci mesi: 600 ore di lezione per le 97 aspiranti showgirl che ricevettero la promessa di partecipare a un programma tv. Finì con un attestato di figurante, una stretta di mano e un contratto part time di 10 ore per uno stipendio di 250 euro lorde al mese.
Le frecce gli giungono su tutti i lati. Nel 2004 in spese di rappresentanza 'o governatore ha usato qualcosa come 962.506 euro, dodici volte quello che è bastato al presidente della Germania, Horst Köhler, tre volte in più di Roberto Formigoni. A inizio anno, l'Università Bocconi ha certificato che un milanese paga il doppio dei contributi rispetto a un napoletano, ma riceve dallo Stato meno di un quarto. Esemplifica Demarco: «Per ogni 811 euro di tasse del signor Brambilla, Roma rimanda in Lombardia 150 euro; mentre per ogni 452 euro versati dal signor Esposito, Roma rimette a Napoli 602 euro. Nonostante questo, Milano spende una media di 193 euro a residente per ogni bambino, Napoli solo 106». Tuttavia, tra le grandi città, «Napoli è la più ricca: ha un patrimonio pari a 5.321 euro a cittadino, quasi il doppio rispetto a Roma, tre volte quello di Torino». Il tasso di di-soccupazione è al 31 per cento, tre volte quello di Roma, quattro volte quello di Torino. Case abusive: 9.292 censite nel 2004 (è prima in Italia); in Lombardia, per fare un raffronto con una regione più popolosa, sono 1.510. Sebbene anni fa la camorra fosse stata derubricata da Bassolino a «fenomeno di piccola criminalità diffusa» (La Repubblica delle città, 1996), oggi i dati dicono che 'o sistema conta un centinaio di clan, più che nel '93. Ogni anno taglieggia più di 50 mila aziende. La camorra ai tempi di Bassolino fattura qualcosa come 18 miliardi di euro.
«Fuitevenne». Eduardo De Filippo, trent'anni fa, ai giovani napoletani.
Ce n'è da riempire un libro, appunto come ha fatto Demarco. Ma il fatto politicamente più rilevante è il disincanto con cui, dopo tre lustri di sogni leggiadri, oggi a raccontare quel che tutti vedono non sono solo esponenti e giornali di centrodestra (qui, per la verità, poco carismatici), ma la sinistra disillusa. Altro esempio: l'ex area Italsider, la famigerata Bagnoli. Per rimetterla in moto nel 1984 Napoli ricevette un finanziamento di mille miliardi di lire. Bassolino, allora parlamentare comunista, dopo l'ennesimo fallimento, scese in piazza per non far chiudere l'industria e licenziare 25 mila persone. Da sindaco, poi, lanciò l'idea di farci un parco. Ad oggi, la bonifica è ancora da finire. I soldi ci sono: tra Finanziaria e fondi europei sono stati raccolti circa 175 milioni di euro, più altre forme di finanziamento attraverso operazioni bancarie. Risultato? Tutto fermo.
Un giovane politico locale, Pietro Foderini, racconta a Tempi la storia infinita di quella che ai napoletani è stata spacciata come la "Copacabana del futuro". «La spiaggia è inquinata, l'amianto è a cielo aperto, sotto la famosa colmata c'è di tutto. La gente è arrabbiata. E pensare che questa è la zona della sinistra operaia, da cui ormai scappano tutti», stanchi delle promesse di riqualificazione, delle Coppe Americhe dei sogni, dei parchi disneyani. «Adesso hanno portato qui cumuli di sabbia per ricoprire la spiaggia. Le montagnette sono ancora lì. Forse sperano che nevichi per rilanciare il turismo invernale». Tipico umorismo napoletano. Ma non era da ridere la risposta che le autorità hanno dato ai cittadini per rassicurarli sulla non nocività del luogo: «Se non mangiano la sabbia, i bambini non corrono pericoli».
Lo scandalo, secondo Demarco, è il caso dei lavoratori socialmente utili: «In un sol colpo, durante la gestione Bassolino, ne vengono assunti 2.316. Dovrebbero occuparsi della raccolta differenziata, ma in realtà, per loro stessa ammissione, non fanno nulla». Il risultato è che per ogni netturbino lombardo ce ne sono 25 campani. L'aspetto tragico è che godono di un contratto a tempo indeterminato da 1.200 euro al mese. Allo scadere della gestione straordinaria guidata da Bassolino (2000-04) secondo la "Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse" sono stati spesi 897.012.010,44 euro che, per Guido Bertolaso, sono in gran parte finiti «nelle casse della camorra».
«È in vendita il "Tom Tom Munnezza". è il classico Tom Tom con l'aggiunta di un nuovo "punto d'interesse", i Cdi, i Cumuli di immondizia». eBay, 14 novembre 2007.
La spazzatura intanto c'è ancora. L'hanno solo spostata nei paesi limitrofi. «Napoli è una fogna a cielo aperto», dice Nespoli, «e la camorra la fa da padrona». Ogni giorno la città produce circa 2 tonnellate di rifiuti che, secondo un esperto come Antonio Cavaliere, equivale a dire che ogni giorno viene innalzata «una palazzina di immondizia di due appartamentini su due piani. Nell'arco di un anno si occupa lo spazio di un quartierino di 365 villette a schiera». Altri calcoli dicono che sono state prodotte in Campania circa 5 milioni di ecoballe. Messe in fila, con partenza da Napoli, raggiungerebbero Londra e tornerebbero indietro.
Le ecoballe sono ora a Taverna del Re a Giugliano, in una zona ampia come 700 campi di calcio. Spiega a Tempi un anonimo dirigente del ministero dell'Ambiente che le ecoballe sono poco eco e molto balle: «L'emergenza è continua. Le ecoballe non possono essere smaltite perché sono state trattate male all'origine, per cui non possono in futuro nemmeno essere riciclate. Da questa situazione non se ne uscirà finché non partirà una seria raccolta differenziata su tutto il territorio (ma in Campania si aggira intorno al 10 per cento, ndr) e finché non andrà a regime il termovalorizzatore di Acerra, la cui apertura è prevista per l'anno prossimo, forse». Così la gente si arrangia come può e getta la spazzatura dove trova. Non senza conseguenze, però. In Campania è concentrato il 43 per cento dei siti inquinati italiani. Nel triangolo Nola, Acerra e Marigliano il cancro al fegato raggiunge un indice di mortalità di tre volte superiore alla media nazionale (che è del 14.0 ogni centomila abitanti). La situazione è così paradossale che davanti ad alcune discariche illegali le autorità hanno piantato grotteschi cartelli con scritto: «è vietato gettare immondizia nelle discariche abusive». Pasquale Losa, presidente dell'Asìa (Azienda speciale igiene ambientale di Napoli), confida a Tempi che «è prevista per il 20 dicembre la chiusura di Taverna del Re. A fine anno scade il mandato del prefetto Alessandro Pansa da commissario straordinario. E dopo? Non so. Certo non festeggeremo il capodanno». Lo sa bene Losa, a capo della struttura che dovrebbe rimuovere l'immondizia dalle strade. Se guarda fuori dalla finestra la vede accumulata sulla strada. L'Asìa è esattamente sul confine tra Napoli e Pozzuoli. Napoli ha spostato la sua monnezza a Pozzuoli e Pozzuoli gliel'ha rimessa sotto il naso.

di Boffi Emanuele
Tempi num.47 del 22/11/2007 0.00.00


CONSUMARE: LA «CONDANNA » DEL FUTURO?
UMBERTO FOLENA
Avvenire, 24.11.2007
Consumare senza limiti.
Cibo, vestiti, televisori e telefonini e frullini e ogni sorta di diavoleria elettronica, vacanze ovunque ti conduca la fantasia, automobili, mobili, case: case in città e in campagna, al mare e in montagna… Sembra il Paradiso. Poi leggi quel geniale rompiscatole di Fredrik Pohl e sprofondi nell’Inferno. «Il morbo di Mida» (Delosbooks, 138 pagine, 10 euro) sarebbe certo apprezzato da Zygmunt Bauman, che sulla «consumerist society» ha scritto pagine illuminanti, forse – lavoriamo di fantasia – ispirandosi proprio a Pohl, considerato che il romanzo sulla società degli iperconsumatori esce su «Galaxy» nel 1954, più di mezzo secolo fa. Pohl descrive un mondo del futuro remoto. L’umanità ha portato l’acqua nei deserti e spianato le montagne e, avendo conquistato tutto quel che c’era da conquistare su questa terra, è andata alla conquista dello spazio. La svolta è però l’automazione. Le fabbriche e i campi funzionano da soli.
Sono i robot, sempre più perfezionati, a svolgere il lavoro degli uomini. I quali, non dovendo più lavorare, hanno un sacco di tempo libero. E che cosa si fa nel tempo libero? Bisogna consumare quello che i robot producono. E di merci, loro, ne producono un sacco.
Tantissime. A tal punto che consumare diventa un lavoro che occupa sei giorni su sette la vita dei «poveri», circondati da ogni genere di lusso ma costretti, per un rigido razionamento, a dover consumare una mole indicibile di beni. I «ricchi», invece, possono serenamente lavorare cinque o perfino sei giorni alla settimana, vivere in modeste dimore, guidare utilitarie senza stress alcuno.
L’abbiamo capito. «Il morbo di Mida», l’antiutopia della perfetta abbondanza, è un romanzo di fantascienza sociologica che si diverte a ribaltare canoni e ruoli. Il povero è costretto a consumare fino al parossismo, il ricco può farne a meno destinandosi alla più deliziosa sobrietà di costumi.
Le tessere di razionamento, che invano tutti cercano di scaricare e sbolognare, non distribuiscono parche razioni, ma generosissime vagonate di delizie. Delizie per noi. Per loro, i nostri pronipoti, un incubo. E la storia?
Secondaria rispetto allo scenario, ma fino a un certo punto. Il povero Morey, oppresso da dosi letali di consumo, trova il modo di consumare senza fatica: affida alla sua ricca dotazione di robot (essendo povero, ne possiede a iosa) il compito di consumare, letteralmente, cibo e vestiario. Eletto consumatore dell’anno, promosso a «quasi ricco», è convinto di essere un criminale. Roso dai sensi di colpa, confessa e… diventa l’economista dell’anno, avendo risolto il problema epocale della sovrapproduzione. I robot consumano quel che producono, facendo tirare il fiato all’umanità. Quei robot inebetiti, impegnati a cucinare manicaretti ipercalorici e a strofinare calzoni e scarpe, guardando ossessivamente la tv solo perché qualcuno glielo ordina, vi ricordano qualcuno? Magari noi stessi?
Pohl sogghignerebbe, come chiunque sia convinto che il vero indice di benessere, o di malessere, non sia il Pil ma il Cil (Consumo interno lordo).



QUELLE VITE, TRIONFO DI UNA LOGICA CAPOVOLTA
MARINA CORRADI
Avvenire, 25.11.2007
L’immensità della Basilica splende come nelle più solenni occasioni. Il rosso del­la porpora dei cardinali e il vio­la delle vesti dei vescovi sotto l’oro degli affreschi è un quadro superbo, davanti all’altare cen­trale. In alto, sopra le teste, la vertigine della verticale della Cupola. Magnifico come una riunione di principi il Conci­storo in San Pietro. E davvero 23 nuovi principi nella Chiesa ha nominato il Papa. Ma nell’inve­stitura solenne, nella maestà della Basilica, è risuonato un passo del Vangelo di Marco. 'Quando sarai un re glorioso, facci stare accanto a te, seduti u­no alla tua destra e uno alla tua sinistra', dissero Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, a Cri­sto. E si sentirono rispondere: se uno tra voi vuole essere gran­de, si faccia servo di tutti - la scandalosa gloria dei cristiani.
Il Papa stesso torna su quelle parole, come meditate e volute nel giorno dell’investitura dei nuovi cardinali: nel giorno in cui San Pietro poteva quasi sembrare una reggia, uno sfar­zoso centro di potere, nel sen­so in cui lo intendono gli uomi­ni. Benedetto XVI insiste su quello scambio lungo una pol­verosa strada della Palestina, duemila anni fa, ci indugia co­me fosse cosa d’oggi, come fos­se stato appena ieri. La pretesa di quei due che volevano assi­curarsi un 'posto' di prestigio, e tanto erano presi dai loro so­gni di gloria, che non avevano nemmeno capito quale destino Cristo stava andando a abbrac­ciare, fra le mura di Gerusa­lemme. Tanto avvinti nelle loro fantasie, che non lo avevano nemmeno ascoltato.
Uomini, i figli di Zebedeo, e uo­mini anche gli altri dieci, 'vir­tuosamente indignati', ha det­to il Papa con una sfumatura di sorriso, delle pretese dei due compagni. Giacomo, Giovanni e gli altri, e anche Pietro, natu­ralmente inclinati a amare il po­tere e la gloria, a farne il loro dio - quello vero. Uomini cui quel singolare maestro spiegò, sen­za smettere di camminare, la sua rivoluzione, e come i cano­ni del merito, e dell’onore, do­vessero capovolgersi, per chi voleva seguirlo. (E chissà che sbigottito silenzio, fra i dodici, quella sera, in cammino).
Duemila anni dopo, il succes­sore di Pietro ricorda, nel con­sesso dei suoi principi, la via maestra. La logica cristiana, co­sì radicalmente opposta al mondo. Ben conoscendo gli uo­mini, quelli di oggi come i loro padri lontani. Come quei dodi­ci un giorno così simili a noi, ambiziosi e vanesi. Di cui Cristo non si sorprende né si scanda­lizza. Mostra con la sua stessa vita, e morte, un’altra strada. Gli apostoli, infantilmente intenti fino a poco prima a discutere su chi fosse, fra loro, il più grande, semplicemente lo seguono. Co­sì, non da uomini più virtuosi degli altri, nasce la Chiesa.
E ancora, passati tanti secoli che la nostra memoria vacilla nell’immaginare quei giorni, sul luogo della sepoltura di Pietro c’è una chiesa, e sulla verticale di quella sepoltura un altare. Il Papa pone sul capo di ventitrè dei suoi la porpora, segno scar­latto di una dedizione promes­sa 'usque ad effusionem san­guinis'. Quelli inchinano le te­ste grigie nel riceverla. Vengo­no dall’Italia e dall’America, dalla Polonia e dall’Iraq. Torne­ranno nelle loro città lontane con quelle insegne da principi: ma in una logica capovolta, as­surda per gli uomini, soprattut­to per quelli che più amano il potere. Come eco e segno di u­na radicale contraddizione.'Su­per hanc petram aedificabo Ec­clesiam meam', sta scritto nel­l’anello della cupola michelan­giolesca, su in alto, proprio so­pra l’altare centrale. Duemila anni dopo la pietra è lì. La Chie­sa continua. Con le stesse pa­role rivolte a quei dodici in cam­mino per Gerusalemme, in un mattino dell’anno 2007 il Papa ha mandato 23 dei suoi nel mondo - a servire.



L’ATTENTATO IN AFGHANISTAN
Un caduto per la pace È questa la missione

VITTORIO E. PARSI
Avvenire, 25.11.2007
I l modo in cui è morto il maresciallo capo Daniele Paladini e altri suoi tre commilitoni sono rimasti feriti è una testimonianza insieme drammatica ed esemplare del significato della nostra missione in Afghanistan e, più in generale, del ruolo delle Forze Armate negli Stati democratici: proteggere la comunità, difendere, se necessario con le armi e con il sacrificio della propria vita, coloro che altrimenti sarebbero indifesi. Chi in queste ore si chiede «che cosa ci stiamo a fare in Afghanistan?» fornisce l’ennesima prova di un cinismo e di un opportunismo politico incapace di arrestarsi persino di fronte al dolore e al lutto. Nuovamente ci inchiniamo di fronte a chi, lontano da riflettori e telecamere, paga con la vita la fedeltà alla bandiera e al proprio giuramento, a chi fa fino in fondo il proprio dovere, un dovere liberamente scelto e, proprio per questo, ancora più impegnativo. Il maresciallo capo Paladini era in Afghanistan per difendere quella comunità dalla violenza cieca di chi è pronto a seminare morte e distruzione, di chi non esita a scegliere deliberatamente di colpire donne e bambini, pur di tornare al potere. Non bastassero i rivoltanti contenuti ideologici del programma talebano, che abbiamo visto messi in pratica per anni in tutto l’Afghanistan, sono le modalità della loro lotta e il disprezzo assoluto per la vita umana a mostrare il vero volto degli 'studenti di teologia'.
Una festa per l’inaugurazione di un nuovo ponte – sul quale sarebbero finalmente potute transitare le popolazioni locali e le loro povere mercanzie – è stata trasformata nell’occasione per l’ennesimo massacro. Un simbolo di speranza e ricostruzione rovesciato nel suo significato opposto. L’attentatore e i suoi mandanti cercavano la strage di civili, volevano la carneficina degli inermi. Ma sulla loro strada hanno trovato dei soldati che hanno capito cosa stava succedendo e sono intervenuti, con la massima tempestività e professionalità, per contrastare l’azione terroristica. Hanno scelto la difficile via del dovere e, allo scopo (riuscito) di limitare il più possibile il danno, uno di loro è morto. Da soldato: cioè offrendo la sua vita per proteggere quelle della comunità alla cui protezione era stato assegnato. È un compito difficile e rischioso: proprio per questo le Nazioni Unite hanno chiesto ai governi degli Stati membri di inviare le proprie truppe per assolverlo. Quelle ragioni restano tutte. E, come abbiamo tante volte ripetuto, nessun avallo internazionale è in grado, per sé solo, di abbattere la pericolosità delle missioni di peace-keeping e peace­enforcing. Perché una prospettiva di pace e sicurezza per il popolo afghano è esattamente ciò che taleban e qaedisti temono più di ogni altra cosa. Ma davvero appare persino riduttivo pensare di doverlo spiegarle nuovamente, dopo che proprio la triste vicenda di ieri mattina ha già offerto una lezione di tragica e straordinaria chiarezza. Non c’è dubbio che occorra tentare di percorrere tutte le strade possibili per trovare una soluzione politica alla vicenda afghana. Ma ciò non significa abbandonare il popolo di quel martoriato Paese al suo destino, né tantomeno lasciarlo senza protezione, proprio mentre essa è più necessaria. Si ripete da più parti che i nostri soldati sono impegnati in Afghanistan in una missione di pace. È vero. Ma per poco che si rifletta, ci si renderà conto che il fine ultimo delle nostre Forze Armate è, per definizione, quello di proteggere la pace (quando c’è) e di ricreare le condizioni necessarie per il suo ristabilimento (quando non ci sono). Questo, ci pare, è l’ultimo doloroso legato che lascia a noi tutti il maresciallo capo Daniele Paladini: che ha raggiunto i suoi fratelli, caduti con onore per difendere la pace, ovunque la Repubblica avesse chiesto loro di servire.