Nella rassegna stampa di oggi:
1) INSIEME AL PAPA - Il 16 maggio - in Piazza San Pietro per il Regina Coeli – il Volantino di invito di CL
2) L’Udienza Generale si è svolta in Piazza San Pietro dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e di fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo. - Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sul suo recente Viaggio Apostolico a Malta in occasione del 1950° anniversario del naufragio di San Paolo sull’isola.
3) L’esercito degli elefanti vendicatori che radono al suolo i villaggi indù - Nel luglio di due anni fa, nello stato indiano dell’Orissa, un pogrom di fondamentalisti indù contro i cristiani locali causò la morte di oltre cinquecento persone. Pare proprio che la difesa di questa gente abbandonata e perseguitata dagli uomini sia stata ora assunta direttamente dal Cielo, attraverso un mezzo inusuale… - di Rino Cammilleri
4) Ilaria D'Amico. Benvenuta nel club (mamme italiane che lavorano) - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 20 aprile 2010
5) La Sindone e la risposta cristiana al mistero del dolore - Non di fronte ma dentro la sofferenza - di Ferdinando Cancelli - L'Osservatore Romano - 22 aprile 2010
6) I primi cinque anni di un pontificato benedetto - di Gianteo Bordero - lunedì 19 aprile 2010
7) PAPA/ Così Benedetto difende la Chiesa da quei cattivi maestri che la odiano - Adrian Pabst - giovedì 22 aprile 2010 – ilsussidiario.net
8) La fede non è un numero - Davide Rondoni - giovedì 22 aprile 2010 – ilsussidiario.net
9) SINDONE/ Tornielli (Il Giornale): ecco perché credere che quel telo ha coperto Gesù è ragionevole - INT. Andrea Tornielli - giovedì 22 aprile 2010 – ilsussidiario.net
10) Sezionati, usati, scartati: chi difende gli embrioni? - di Lorenzo Schoepflin – Avvenire, 22 aprile 2010
INSIEME AL PAPA - Il 16 maggio - in Piazza San Pietro per il Regina Coeli – il Volantino di invito di CL
Domenica 16 maggio 2010 vogliamo stringerci visibilmente intorno a Benedetto XVI come figli col padre, desiderosi di portare un poco del peso che la situazione attuale carica sulle sue spalle. Vogliamo pregare con lui e pregare per lui. È il gesto più semplice e più vero che possiamo compiere per esprimere la vicinanza al Santo Padre, alla Chiesa, a chi ha sofferto per il male subito.
Vogliamo testimoniare, nella penitenza e nell’unità con il Papa, che l’esperienza cristiana è esperienza di bellezza, di pienezza, di misericordia capace di abbracciare tutti gli uomini.
Il desiderio della giustizia, ferita dal male dell’uomo, incontra Cristo crocifisso e risorto, speranza più forte della morte.
INVITIAMO TUTTI ad aderire alla proposta della Consulta Nazionale delle Aggregazioni Laicali, Partecipando in Piazza San Pietro, alle ore 12 del 16 maggio, alla preghiera di tutto il popolo cristiano
Comunione e Liberazione
L’Udienza Generale si è svolta in Piazza San Pietro dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e di fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo. - Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato sul suo recente Viaggio Apostolico a Malta in occasione del 1950° anniversario del naufragio di San Paolo sull’isola.
CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA
Il viaggio apostolico a Malta
Cari fratelli e sorelle!
Come sapete, sabato e domenica scorsi ho compiuto un viaggio apostolico a Malta, sul quale oggi vorrei brevemente soffermarmi.
Occasione della mia visita pastorale è stato il 1950° anniversario del naufragio dell’apostolo Paolo sulle coste dell’arcipelago maltese e della sua permanenza in quelle isole per circa tre mesi. E’ un avvenimento collocabile attorno all’anno 60 e raccontato con abbondanza di particolari nel libro degli Atti degli Apostoli (capp. 27-28).
Come accadde a san Paolo, anch’io ho sperimentato la calorosa accoglienza dei Maltesi – davvero straordinaria - e per questo esprimo nuovamente la mia più viva e cordiale riconoscenza al Presidente della Repubblica, al Governo e alle altre Autorità dello Stato, e ringrazio fraternamente i Vescovi del Paese, con tutti coloro che hanno collaborato a preparare questo festoso incontro tra il Successore di Pietro e la popolazione maltese.
La storia di questo popolo da quasi duemila anni è inseparabile dalla fede cattolica, che caratterizza la sua cultura e le sue tradizioni: si dice che a Malta vi siano ben 365 chiese, “una per ogni giorno dell’anno”, un segno visibile di questa profonda fede!
Tutto ebbe inizio con quel naufragio: dopo essere andata alla deriva per 14 giorni, spinta dai venti, la nave che trasportava a Roma l’apostolo Paolo e molte altre persone si incagliò in una secca dell’Isola di Malta.
Per questo, dopo l’incontro molto cordiale con il Presidente della Repubblica, nella capitale La Valletta - che ha avuto la bella cornice del gioioso saluto di tanti ragazzi e ragazze - mi sono recato subito in pellegrinaggio alla cosiddetta “Grotta di San Paolo”, presso Rabat, per un momento intenso di preghiera. Lì ho potuto salutare anche un folto gruppo di missionari maltesi. Pensare a quel piccolo arcipelago al centro del Mediterraneo, e a come vi giunse il seme del Vangelo, suscita un senso di grande stupore per i misteriosi disegni della Provvidenza divina: viene spontaneo ringraziare il Signore e anche san Paolo, che, in mezzo a quella violenta tempesta, mantenne la fiducia e la speranza e le trasmise anche ai compagni di viaggio. Da quel naufragio, o, meglio, dalla successiva permanenza di Paolo a Malta, nacque una comunità cristiana fervente e solida, che dopo duemila anni è ancora fedele al Vangelo e si sforza di coniugarlo con le complesse questioni dell’epoca contemporanea.
Questo naturalmente non è sempre facile, né scontato, ma la gente maltese sa trovare nella visione cristiana della vita le risposte alle nuove sfide. Ne è un segno, ad esempio, il fatto di aver mantenuto saldo il profondo rispetto per la vita non ancora nata e per la sacralità del matrimonio, scegliendo di non introdurre l’aborto e il divorzio nell’ordinamento giuridico del Paese.
Pertanto, il mio viaggio aveva lo scopo di confermare nella fede la Chiesa che è in Malta, una realtà molto vivace, ben compaginata e presente sul territorio di Malta e Gozo. Tutta questa comunità si era data appuntamento a Floriana, nel Piazzale dei Granai, davanti alla Chiesa di San Publio, dove ho celebrato la Santa Messa partecipata con grande fervore.
E’ stato per me motivo di gioia, ed anche di consolazione sentire il particolare calore di quel popolo che dà il senso di una grande famiglia, accomunata dalla fede e dalla visione cristiana della vita.
Dopo la Celebrazione, ho voluto incontrare alcune persone vittime di abusi da parte di esponenti del Clero. Ho condiviso con loro la sofferenza e, con commozione, ho pregato con loro, assicurando l’azione della Chiesa.
Se Malta dà il senso di una grande famiglia, non bisogna pensare che, a causa della sua conformazione geografica, sia una società “isolata” dal mondo. Non è così, e lo si vede, ad esempio, dai contatti che Malta intrattiene con vari Paesi e dal fatto che in molte Nazioni si trovano sacerdoti maltesi. Infatti, le famiglie e le parrocchie di Malta hanno saputo educare tanti giovani al senso di Dio e della Chiesa, così che molti di loro hanno risposto generosamente alla chiamata di Gesù e sono diventati presbiteri. Tra questi, numerosi hanno abbracciato l’impegno missionario ad gentes, in terre lontane, ereditando lo spirito apostolico che spingeva san Paolo a portare il Vangelo là dove ancora non era arrivato. E’ questo un aspetto che volentieri ho ribadito, che cioè “la fede si rafforza quando viene offerta agli altri” (Enc. Redemptoris missio, 2). Sul ceppo di questa fede, Malta si è sviluppata ed ora si apre a varie realtà economiche, sociali e culturali, alle quali offre un apporto prezioso.
E’ chiaro che Malta ha dovuto spesso difendersi nel corso dei secoli – e lo si vede dalle sue fortificazioni. La posizione strategica del piccolo arcipelago attirava ovviamente l’attenzione delle diverse potenze politiche e militari. E tuttavia, la vocazione più profonda di Malta è quella cristiana, vale a dire la vocazione universale della pace! La celebre croce di Malta, che tutti associano a quella Nazione, ha sventolato tante volte in mezzo a conflitti e contese; ma, grazie a Dio, non ha mai perso il suo significato autentico e perenne: è il segno dell’amore e della riconciliazione, e questa è la vera vocazione dei popoli che accolgono e abbracciano il messaggio cristiano!
Crocevia naturale, Malta è al centro di rotte di migrazione: uomini e donne, come un tempo san Paolo, approdano sulle coste maltesi, talvolta spinti da condizioni di vita assai ardue, da violenze e persecuzioni, e ciò comporta, naturalmente, problemi complessi sul piano umanitario, politico e giuridico, problemi che hanno soluzioni non facili, ma da ricercare con perseveranza e tenacia, concertando gli interventi a livello internazionale. Così è bene che si faccia in tutte le Nazioni che hanno i valori cristiani nelle radici delle loro Carte Costituzionali e delle loro culture.
La sfida di coniugare nella complessità dell’oggi la perenne validità del Vangelo è affascinante per tutti, ma specialmente per i giovani. Le nuove generazioni infatti la avvertono in modo più forte, e per questo ho voluto che anche a Malta, malgrado la brevità della mia visita, non mancasse l’incontro con i giovani. E’ stato un momento di profondo e intenso dialogo, reso ancora più bello dall’ambiente in cui si è svolto – il porto di Valletta – e dall’entusiasmo dei giovani. A loro non potevo non ricordare l’esperienza giovanile di san Paolo: un’esperienza straordinaria, unica, eppure capace di parlare alle nuove generazioni di ogni epoca, per quella radicale trasformazione seguita all’incontro con Cristo Risorto.
Ho guardato dunque ai giovani di Malta come a dei potenziali eredi dell’avventura spirituale di san Paolo, chiamati come lui a scoprire la bellezza dell’amore di Dio donatoci in Gesù Cristo; ad abbracciare il mistero della sua Croce; ad essere vincitori proprio nelle prove e nelle tribolazioni, a non avere paura delle “tempeste” della vita, e nemmeno dei naufragi, perché il disegno d’amore di Dio è più grande anche delle tempeste e dei naufragi.
Cari amici, questo, in sintesi, è stato il messaggio che ho portato a Malta. Ma, come accennavo, è stato tanto ciò che io stesso ho ricevuto da quella Chiesa, da quel popolo benedetto da Dio, che ha saputo collaborare validamente con la sua grazia. Per intercessione dell’apostolo Paolo, di san Giorgio Preca, sacerdote, primo santo maltese, e della Vergine Maria, che i fedeli di Malta e Gozo venerano con tanta devozione, possa sempre progredire nella pace e nella prosperità.
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L’esercito degli elefanti vendicatori che radono al suolo i villaggi indù - Nel luglio di due anni fa, nello stato indiano dell’Orissa, un pogrom di fondamentalisti indù contro i cristiani locali causò la morte di oltre cinquecento persone. Pare proprio che la difesa di questa gente abbandonata e perseguitata dagli uomini sia stata ora assunta direttamente dal Cielo, attraverso un mezzo inusuale… - di Rino Cammilleri
Sul sito dell'Arcidiocesi di Colombo (Sri Lanka) è comparsa una curiosa notizia (ringrazio la rivista «Il Cedro» per avermela segnalata) riguardante lo stato indiano dell'Orissa. Ricordate? Nel luglio di due anni fa un pogrom di fondamentalisti indù contro i cristiani locali causò la morte di oltre cinquecento persone. In quell'occasione una giovane suora venne bruciata viva, un'altra fu violentata, mentre le chiese e le case dei cristiani venivano distrutte. I fanatici se la presero anche con l'orfanotrofio di Khuntpali, cui fu appiccato il fuoco. Anche le bombe vennero usate: un centro pastorale fu raso al suolo così. Oltre ai morti, il risultato furono migliaia di feriti e un numero impressionante di gente rimasta senza casa.
Ma la furia anticristiana in quei luoghi non si è mai fermata del tutto. Anzi, sono più di dieci anni che va avanti; quello del luglio 2008 è stato solo il massacro più cospicuo. Le autorità hanno deprecato, sì, gli episodi ma in pratica sono state a guardare, anche perché il partito dei nazionalisti indù ha un ruolo non indifferente nella politica indiana. Il cristianesimo è molto diffuso specialmente nella casta più bassa, quella dei dalit, e nelle popolazioni tribali che in Orissa sono numerose. Tra costoro le riconversioni forzate all'induismo sono ormai all'ordine del giorno, anche perché il cristianesimo, con le sue scuole e la sua dottrina della dignità umana, ha insegnato, a gente abituata da sempre a subire e ubbidire, a reagire ai soprusi e a difendersi nei tribunali.
Ed ecco la notizia: pare proprio che la difesa di questa gente abbandonata e perseguitata dagli uomini sia stata assunta direttamente dal Cielo. Sì, perché in India l'elefante gode della stessa sacralità delle vacche. Ebbene, branchi di elefanti selvaggi hanno preso ad attaccare i villaggi dove risiedono i responsabili dei pogrom del 2008, distruggendo ogni cosa. Direte che, in India, non c'è niente di particolarmente strano in ciò: può essere che un elefante selvatico perda la testa. Il fatto è che il primo attacco (già, perché sono stati più d'uno) si è verificato nel luglio 2009, nello stesso giorno e nella stessa ora in cui l'anno prima era partito il pogrom. Uno dei caporioni della pulizia etnica a danno dei cristiani ha visto la sua azienda rasa al suolo, poi è toccato alla sua casa e alle sue fattorie, con un'operazione mirata che ha colpito solo lui. Da quel momento, i villaggi degli induisti non hanno avuto più pace. Quando meno se l'aspettano, ecco spuntare dalla foresta un branco di elefanti imbizzarriti che calpestano ogni cosa. Nell'Orissa sono ormai migliaia le persone che hanno dovuto darsi alla fuga nei campi (ora tocca a loro). Nel distretto di Kandhamal (dove una suora ha subìto uno stupro di gruppo) in sette sono stati uccisi e moltissimi sono rimasti feriti dagli elefanti.
A tutt'oggi sono quarantacinque i villaggi che hanno dovuto sopportare la furia degli elefanti. L'inglese Bbc, nel commentare questi fatti, ha chiarito che in India non è affatto raro che bestie selvatiche entrino nei centri abitati e facciano danni o vittime. Ma gli elefanti distruttori del Kandhamal si sono fatti ben trecento chilometri dalla loro riserva di Lakheri per andare a distruggere le case degli induisti, lasciando in pace quelle dei cristiani. Gli abitanti di quei luoghi sono unanimi nel dire che non hanno mai visto niente di simile. Adesso vivono nella paura di quelli che ormai tutti chiamano gli "elefanti cristiani", mandati dal Cielo a vendicare il sangue dei martiri. In parecchi villaggi sono state edificate barriere anti-elefanti, con blocchi stradali e vedette. Ma gli elefanti continuano con i loro attacchi a sorpresa e mirati. Sono ormai più di settecento le case abbattute da questi bestioni, e innumerevoli le coltivazioni devastate. Nessuno sa spiegare razionalmente perché quei bestioni scelgano accuratamente le loro prede tra quelli che hanno preso parte alla grande mattanza di cristiani. Gli animali vengono dalle riserve del Bihar, di Chattisgarh, di Jharkland, lasciano il loro habitat naturale per andare a compiere la vendetta nell'Orissa. E con una tattica precisa: mandano in avanscoperta i piccoli, poi si radunano e attaccano. I funzionari governativi incaricati della fauna selvatica allargano le braccia. L'unica cosa che si sa per certo è che gli elefanti hanno la memoria lunga.
Il Giornale venerdì 16 aprile 2010
Ilaria D'Amico. Benvenuta nel club (mamme italiane che lavorano) - Autore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 20 aprile 2010
Ilaria D’amico ha ripreso a lavorare solo un mese dopo aver partorito suo figlio Pietro.
Benvenuta nel club delle mamme Italiane che lavorano.
Ilaria D’amico conduttrice di Exit su Sky, ha ripreso a lavorare solo un mese dopo aver partorito suo figlio Pietro.
Sky ha allestito una nursery per permetterle di lavorare con più tranquillità, e le permettono anche di lavorare da casa mentre Pietro dorme.
Bravi, ottima attenzione alla maternità, alla professionalità delle donne, ottimo investimento sul futuro, ma non ci incantate.
Le centraliniste che lavorano a Sky han fatto subito sapere che per loro questa attenzione alla maternità non s’è vista.
Già, ma che volete. Via una centralinista se ne trova un’altra.
Brave e belle come la D’Amico no. Del resto è il mondo bellezza.
Passano gli anni, passano i Governi, ma alla famiglia solo contentini, nessuno davvero capace di dimostrare con i fatti che è la famiglia è la vera garanzia per il futuro di un paese.
Ci sono posti di lavoro dove quando torni dopo una maternità non trovi più nemmeno la scrivania, il tuo lavoro lo sta facendo una collega, e tu finisci al centralino – così sei più libera – o vai a fare il jolli in sostituzione di colleghi in malattia.
La D’amico in un’intervista ha detto: “In Italia se fai un bambino quasi devi scusarti” – ma va?
Io di figli ne ho fatti tre in quattro anni o poco più e sono stata davvero un peso, un costo per l’azienda, ricordo che mi sentivo in colpa quando dovevo entrare nell’ufficio del capo a confessare il misfatto. - Le donne sono più precise, più attente, ma fanno figli è uno scotto che si paga, ma vedrà dopo tre figli su una donna si può iniziare a contare -
Di fare il part-time non se ne parlava.
Risposi ad un’inserzione sul giornale dove cercavano una segretaria part time, giovane, diplomata, con qualche anno d’esperienza.
Perfetto pensai, cercano me.
Mi recai al colloquio, abitavo vicino all’ufficio, ero diplomata, avevo una certa esperienza, non mi chiesero perché volevo fare part time, mi diedero un foglio da compilare, nome, cognome, esperienze precedenti, nubile, coniugata, numero dei figli e loro età
Quando la persona che mi stava davanti mi vide scrivere nome ed età dei figli, sulla prima, sulla seconda e sulla terza riga, mi disse: "scusi sa, ma noi cercavamo una ragazza giovane – ma io sono giovane, ho ventisette anni" replicai.
“Si, ma sa, a dire il vero, più giovane” e accartocciò il mio foglio, mi strinse la mano e non disse nemmeno - le faremo sapere.
Uscii, ricordo che era primavera, le siepi che costeggiavano la strada erano fiorite, il sole era tiepido e io andando verso la mia auto piangevo di rabbia.
Anni dopo mi ero messa in proprio, e un giorno capitò in ufficio un tizio a propormi i suoi depuratori per l’acqua, lo lasciai parlare, ma un vecchio rancore che sembrava sopito riaffiorava come olio sull’acqua, gli dissi: “la conosco, non avrei potuto dimenticarla per nulla al mondo” il tipo piuttosto imbarazzato mi guardò “si” continuai “Lei è il signore che una decina d’anni fa mi ha accartocciato il foglio che avevo compilato nella speranza d’essere assunta presso di voi, l’avevo spaventata con il numero dei miei figli”
L’uomo, in evidente imbarazzo smise di decantare il suo depuratore per le acque, posò il depliant sulla scrivania, mi disse che sperava che questa coincidenza portasse ad una collaborazione e guadagnò l'uscita.
Inutile dire che io il depuratore dell’acqua non ce l’ho ancora, e che non lo acquisterei da lui. Anche se capisco che una piccola azienda fosse spaventata da una giovane donna che aveva fatto tre figli uno dietro l’altro, dimostrando grande insensatezza, ostilità verso i moderni mezzi anticoncezionali e quindi scarso attaccamento al lavoro.
Ah, poi visto che l’azienda che si era sobbarcata le mie tre maternità, non concedeva part time, mi sono licenziata e ho lavorato in nero, si in nero, ma part time, in modo da potermi trovare fuori dal portone di scuola dei miei figli quando uscivano.
Parlo di vent’anni fa, ma le cose non sono cambiate se n’è accorta anche la D’Amico che in Italia quando fai un figlio devi quasi scusarti.
Di chi è la colpa, della politica, delle aziende, dell’educazione?
I colpevoli sono molteplici, e le donne oltre ad essere vittime, un po’ sono anche corresponsabili, perché hanno pensato e lottato per una libertà e per una parità che non rispettasse l’essere donna, quasi a scusarsi dei figli messi al mondo, dei fastidi procurati al datore di lavoro, a scusarsi di non essere wonder woman, di non riuscire sempre ad essere in carriera, in maternità, in casa, a letto sempre in perfetta efficienza.
Ora non dico che ce la siamo cercata, sia chiaro, dico che la strada è ancora lunga, che una 10 100 D’Amico possono fare del bene, se la loro consapevolezza diventa la consapevolezza di tutti, altrimenti rimangono delle privilegiate, ci sono loro e poi - le altre - quelle se il bambino ha la febbre non devono farlo sapere, altrimenti gli altri pensano che non sei in grado di pensare al lavoro con professionalità.
La Sindone e la risposta cristiana al mistero del dolore - Non di fronte ma dentro la sofferenza - di Ferdinando Cancelli - L'Osservatore Romano - 22 aprile 2010
"Accanto al malato la speranza ha il volto della cura" affermava - a conclusione della sua relazione - il cardinale Angelo Bagnasco e, citando Cicely Saunders, fondatrice del primo hospice inglese, "la risposta cristiana al mistero della sofferenza non è una spiegazione ma una presenza". La presenza dei curanti, chiamati ad assicurare al malato quel "grembo vivo di relazioni" all'interno del quale egli possa continuare a vivere, ma anche e soprattutto "la presenza del grande Paziente, Cristo crocifisso, che abita e colma la solitudine del corpo e dello spirito in quelle fragilità così personali e profonde dove nessuna umana presenza può abitare pienamente".
Il convegno "L'uomo di fronte al mistero della sofferenza", svoltosi a Torino a margine dell'ostensione della Santa Sindone, è stato l'occasione per una riflessione profonda sul mistero della sofferenza e sui sentieri percorsi per intravedere la speranza racchiusa nel senso di questa ineludibile esperienza umana.
Sebbene pronunciate a distanza di un giorno l'una dall'altra, le relazioni dell'arcivescovo di Genova e quella di Francesco Botturi - ordinario di filosofia morale all'Università Cattolica del Sacro Cuore - si sono intrecciate e ritrovate quasi per dialogare in più punti.
Soffermandosi in apertura sull'uomo di fronte alla sofferenza nella cultura contemporanea, il cardinale Bagnasco ha sottolineato come la società oscilli "tra rimozione e spettacolarizzazione": attraverso la "mediazione protettiva dello schermo televisivo" è possibile assistere alla "morte esibita" e al "particolare macabro" come in un rito di "esorcizzazione collettiva della sofferenza stessa", quasi fosse possibile poi allontanare il tutto semplicemente "cambiando canale", senza quel pudore che, "quasi riflesso istintivo di fronte al dolore e alla morte", pare ormai assente.
Ma vi sono casi in cui prendere le distanze dal contenuto di un'esperienza ne provoca invariabilmente la dissoluzione: questo è - secondo Botturi - il caso della sofferenza: non ci si può "porre di fronte a essa" perché la si ridurrebbe a un sintomo, a un qualcosa di soggettivo ed esterno all'osservatore mentre, ha continuato il filosofo, "la sofferenza esiste solo se vissuta in prima persona". Il tentativo di rimuoverla tenendola a distanza porta solamente - afferma Botturi - all'"insofferenza per la sofferenza" e al "risentimento per la sofferenza": diviene insopportabile ciò che non si riesce a vivere, diviene insopportabile chi, con la propria immagine, ricorda ai sani che la sofferenza è parte della vita umana.
Di fronte alla non accettazione del soffrire - prosegue il cardinale Bagnasco - l'uomo moderno tenta di rifugiarsi, quando non nella "fuga dalla realtà che va dall'irresponsabilità fino alla deconnessione psichica", ottenuta mediante il ricorso a sostanze stupefacenti o all'alcol, almeno nella convinzione, "quanto meno ingenua", di poter "essere padrone pieno ed assoluto della salute e della vita". Si vorrebbe, per dirla con le parole di Botturi, che la tecnicizzazione della medicina fosse esauriente e che l'universo della sofferenza potesse essere ridotto al capitolo della terapia del dolore; ma l'atto curativo ha una portata ben maggiore rispetto alla tecnica: è uno spazio nel quale riprende senso il termine "compassione" sulla base di qualcosa che, avendo una radice comune, può essere patito insieme in quel "grembo di relazioni" citato dal cardinale Bagnasco che rappresenta l'alveo naturale dove scorre la vera relazione terapeutica.
Come uscire quindi da questo vicolo cieco di fuga e stordimento che sembra sfociare unicamente nell'angoscia e nella disperazione? "In ultima analisi - afferma il cardinal Bagnasco - la delusione per il fallimento di ogni rimedio e la mancanza di un contesto culturale e relazionale capace di confrontarsi con la sofferenza hanno l'effetto di rendere questa esperienza umana ancora più dolorosa, perché vissuta come qualcosa di assurdo e di inutile". "L'uomo che considera la propria vita priva di senso non è solo infelice ma è anche incapace di vivere" scriveva a questo proposito Albert Einstein, ma l'esperienza ci dice che, essendo la sofferenza parte integrante della vita umana, l'espressione potrebbe essere parafrasata affermando che è incapace di vivere colui che considera la propria e l'altrui sofferenza priva di senso. I due relatori concordano nell'affermare che l'umanità più vera fiorisce nella misura in cui esce da sé per farsi dono. E, direbbe Viktor Frankl, i momenti nei quali l'uomo può "essere, diventare o restare se stesso" sono proprio quelli nei quali tende a "uscire da sé" e a vivere per un altro: amare, pregare e morire.
La sofferenza, che "si riassume nel vertice della morte fisica - sottolinea il cardinale Bagnasco - sembra appartenere alla trascendenza dell'uomo e (...) la misteriosa possibilità offerta all'uomo di trascendersi mediante la sofferenza apre la prospettiva di un senso e di un compimento".
La credibilità che l'esistenza acquista quando attraversa il patire e l'autorevolezza che promana da chi ha sofferto o soffre per testimoniare un valore sono evidenze, quasi parole, del misterioso linguaggio con il quale la sofferenza ci parla di un qualcosa che ci sorpassa, di un Qualcuno in grado di colmare la nostra inquietudine esistenziale e quel "desiderio contraddetto" di pienezza e di pace nel quale è da ricercare, secondo Botturi, la radice di ogni umano patire, la spinta che fa perennemente oscillare l'uomo tra disperazione e affidamento.
L'origine del termine "sofferenza" rimanda in effetti a qualcosa da portare - dice Botturi - a un peso da caricarsi, distinguendosi in questo nettamente dal termine "dolore" che invece rimanda più direttamente a una disfunzione, a un deficit: una cultura che accetti la sofferenza, dice lo studioso, ha bisogno di conservare tale distinzione per interpretare correttamente la compassione.
Ma a questo punto già lo sguardo è portato a levarsi verso la Sindone, verso l'Uomo umiliato e offeso, verso le ferite che come una scrittura incisa nel suo corpo ci svelano un senso che ci sorpassa e ci parla di eternità, un senso che ci aiuta a vivere davvero da uomini.
(©L'Osservatore Romano - 22 aprile 2010)
I primi cinque anni di un pontificato benedetto - di Gianteo Bordero - lunedì 19 aprile 2010
Nomen omen. Oggi, a cinque anni di distanza dall'inizio del pontificato di Papa Ratzinger, possiamo affermare con certezza che l'elezione al soglio di Pietro dell'ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ha rappresentato, per la Chiesa, per i cattolici e per coloro che guardano al cristianesimo senza pregiudizi di sorta, un'autentica benedizione.
Non soltanto a motivo dei gesti compiuti, delle parole pronunciate, delle importanti decisioni assunte in questo lustro, ma anche e soprattutto perché Benedetto XVI ha saputo - e sa - guidare con sapienza, fermezza ed umiltà la barca di Pietro in anni burrascosi, in un tempo difficile per la Chiesa, per la fede e per il mondo: come ha osservato Gian Guido Vecchi in un bell'articolo apparso domenica sul Corriere della Sera, Ratzinger è stato «come il kybernetes di Aristotele, il timoniere che governa la nave e sa mantenere il "giusto mezzo". Che non è una mediocre e facile equidistanza, ma all'opposto la cosa più difficile: seguire la rotta mentre la barca è sballottata dalla tempesta».
Tutto ciò è stato evidente sin dagli albori dell'attuale pontificato: mentre un certo trionfalismo venato di sentimentalismo accompagnava la fine del lungo regno di Giovanni Paolo II, e mentre molte analisi parziali e superficiali, nei giorni della sede vacante e del pre-conclave, terminavano con l'auspicio di una replica pedissequa del papato wojtyliano, Ratzinger fu l'unico che seppe rompere questo clima di ingenuo ottimismo, ricordando a tutti, con la sua omelia durante la messa pro eligendo pontifice, che quello che stavano attraversando la Chiesa e i credenti era un tempo confuso e tormentato: il futuro Papa affermò infatti che negli ultimi decenni «la piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata» e «gettata da un estremo all'altro dalle correnti ideologiche, dalle mode del pensiero». E aggiunse: «Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo.
Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare "qua e là da qualsiasi vento di dottrina", appare come l'unico atteggiamento all'altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».
Un monito duro, che faceva il paio, per quanto riguarda l'aspetto interno alla Chiesa, con le clamorose espressioni contenute nelle meditazioni per la Via Crucis del 2005: «Quanta sporcizia c'è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! Quanto poco rispettiamo il sacramento della riconciliazione, nel quale egli ci aspetta, per rialzarci dalle nostre cadute!».
Se i media, una certa opinione pubblica e alcuni settori del cosiddetto «mondo cattolico» avessero preso sul serio da sùbito queste parole di Ratzinger, avrebbero evitato, nel corso degli ultimi cinque anni, di trasmettere un'immagine falsata del suo pontificato: l'immagine cioè di Benedetto XVI rigido conservatore, uomo del passato, nostalgico del bel tempo che fu, intento solamente a riportare indietro di quarant'anni, se non di secoli, le lancette della storia della Chiesa. Avrebbero compreso che quello del teologo tedesco è un papato che si muove sostanzialmente lungo le coordinate della riforma, ossia della sempre urgente presa di coscienza del fatto che la fede cristiana, fondata sull'incarnazione, passione, morte e risurrezione del Dio fattosi uomo in Gesù di Nazareth, richiede, in ogni tempo e in ogni luogo, la conversione del cuore della persona in carne ed ossa, quindi dentro le circostanze storiche che essa si trova a vivere.
Come già Joseph Ratzinger scriveva nelle sue opere giovanili, la rivelazione della verità eterna implica sempre un soggetto a cui essa è rivolta: e questo soggetto, l'uomo, non vive al di fuori del tempo e dello spazio, ma si colloca all'interno di una storia, dentro la quale egli è chiamato a testimoniare la novità e la sempiterna freschezza dell'avvenimento cristiano, a diventare «creatura nuova», ad essere infine «segno di contraddizione». In questo senso vale la tradizionale espressione latina secondo cui «Ecclesia semper reformanda»: la Chiesa - come il cristiano - ha bisogno ogni giorno di dire il suo «sì» alla chiamata di Dio, di rinnovare la sua fedeltà e la sua gratitudine al suo Fondatore, di affidare a Lui le fatiche, le angosce e le difficoltà del cammino, di chiedere perdono per i peccati commessi, di essere purificata grazie alla potenza redentrice del Padre.
Tutto il pontificato di Benedetto XVI si è mosso e si muove lungo questa direttrice. E ciò è ancor più evidente oggi, nella risposta che il Papa ha saputo fornire di fronte allo scandalo dei preti coinvolti in casi di pedofilia, da ultimo con la decisione di incontrare, durante il suo viaggio apostolico a Malta, alcune vittime di abusi. La scelta della cosiddetta «linea dura» e della trasparenza, lungi dal rappresentare un cedimento o una tacita resa di fronte alla deformante campagna d'odio che punta a delegittimare la Chiesa intera raffigurandola come una congrega di pedofili, nasce dalla profonda consapevolezza che «la penitenza è grazia; è una grazia che noi riconosciamo il nostro peccato, è una grazia che conosciamo di aver bisogno di rinnovamento, di cambiamento, di una trasformazione del nostro essere... Noi cristiani, anche negli ultimi tempi, abbiamo spesso evitato la parola penitenza, ci appariva troppo dura. Adesso, sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter fare penitenza è grazia. E vediamo che è necessario far penitenza, cioè riconoscere quanto è sbagliato nella nostra vita, aprirsi al perdono, prepararsi al perdono, lasciarsi trasformare» (Omelia tenuta da Benedetto XVI il 15 aprile 2010 di fronte ai membri della Pontificia Commissione Biblica).
La vera riforma, dunque, è proprio questa: è Dio che ri-forma ogni giorno, con la Sua grazia, la Chiesa e il cuore dei fedeli; ed è la disponibilità della Chiesa e dei fedeli a riconoscere il proprio peccato e a lasciarsi abbracciare dalla misericordia divina, che «fa nuove tutte le cose». Prima ancora che aggiornamento delle istituzioni e delle strutture ecclesiastiche, insomma, l'autentica riforma è la capacità di inginocchiarsi di fronte all'Onnipotente chiedendo a Lui il miracolo del cambiamento e la forza per una testimonianza coraggiosa in mezzo ai marosi della storia. Non a caso, durante la messa domenicale celebrata a Malta, Benedetto XVI ha rievocato la figura di San Pietro, che «durante la passione del Signore, lo ha rinnegato tre volte. Ora, dopo la resurrezione, Gesù lo invita tre volte a dichiarare il suo amore, offrendo in tal modo salvezza e perdono, e allo stesso tempo affidandogli la sua missione». Tutti i primi cinque anni di pontificato di Papa Ratzinger sono stati - e sono - un incessante richiamo a questa verità della fede, a questa quotidiana possibilità di salvezza per ogni uomo. Se la Chiesa seguirà il vicario di Cristo nella strada che egli sta coraggiosamente percorrendo, uscirà dalla tempesta di questi tempi ancora più forte e con una coscienza ancora più chiara della sua vocazione e della sua missione nella storia.
http://www.ragionpolitica.it/cms/index.php/201004192755/cristianesimo/i-primi-cinque-anni-di-un-pontificato-benedetto.html
PAPA/ Così Benedetto difende la Chiesa da quei cattivi maestri che la odiano - Adrian Pabst - giovedì 22 aprile 2010 – ilsussidiario.net
A cinque anni dalla successione di Papa Giovanni Paolo II, avvenuta il 19 aprile 2005, Benedetto XVI si trova ad affrontare la crisi più grave del suo papato. Lo scandalo della pedofilia, attualmente in corso, continua a indebolire la credibilità della Chiesa e rafforza gli stereotipi tradizionali che vedono il Vaticano, sotto la sua guida, come una teocrazia medioevale governata da un autocrate assoluto, di temperamento reazionario e intollerante.
Tale opinione non è diffusa soltanto da atei come Richard Dawkins o Christopher Hitchens. Accanto a questi accusatori abituali, si ritrovano numerosi cattolici di spicco che stanno sfruttando lo scandalo degli abusi sessuali come pretesto per attaccare il pontefice. In una lettera aperta indirizzata ai vescovi cattolici pubblicata sabato scorso, il teologo svizzero Hans Küng ha incolpato Ratzinger della “più profonda crisi di credibilità per la Chiesa dai tempi della riforma protestante”. In sostanza, Küng accusa il Papa di avere restaurato una visione reazionaria del cattolicesimo, che rinnega le riforme progressiste del Concilio Vaticano II (1962-65), a cui entrambi presero parte in qualità di periti (giovani consiglieri teologici al servizio dei cardinali).
Come gran parte dell’ateismo contemporaneo, la filippica di Küng è dovuta più all’ideologia che alla ragione. La sua suddivisione del cattolicesimo (e di altre tradizioni religiose) in un’ala liberale e progressista e un’altra conservatrice e reazionaria è una distinzione tipica della laicità moderna, che snatura l’unicità di ogni e di tutte le religioni. Ecco perché il principale interesse di Küng, la costruzione di un’“etica mondiale”, è un’astrazione dal carattere unico delle diverse tradizioni di fede, una strumentalizzazione della religione al servizio di una dubbia moralità che è nient’altro che un semplice “comportarsi bene nei confronti altrui”.
È una notevole differenza rispetto all’etica universale e le altre verità che tutte le religioni difendono, ma su cui sono in disaccordo fra di loro, come ad esempio il ruolo dell’amore e della legge nel Giudaismo e nel Cristianesimo. Negando un reale universalismo, l’”etica mondiale” di Küng è perfettamente compatibile con il laicismo moderno e quella “dittatura del relativismo” che Papa Benedetto XVI ha ripetutamente denunciato. Non c’è da stupirsi che Küng preferisca un cattolicesimo liberale che emula la cultura laica, perdendo in questo processo la propria unica visione integrale.
Quel che è peggio, Küng non comprende la lunga tradizione intellettuale che il Papa tenta di preservare ed estendere, una sorta di ortodossia romantica che rifugge gran parte della moderna riforma e controriforma a favore del retaggio della patristica e del medioevo condivisa da cristiani sia all’est che all’ovest. Tale retaggio culturale deriva dagli insegnamenti dei dottori e dei padri della Chiesa, quali Sant’Agostino, Dionigi o San Tommaso d’Aquino, sul tema dell’unità della natura e del soprannaturale, in contrapposizione alla separazione moderna fra l’universo naturale e la grazia e creatività divina. In breve, Benedetto XVI rifiuta il dualismo moderno fra natura e grazia, o fede e ragione, come esposto nel suo controverso discorso di Ratisbona nel 2006.
L’argomentazione del Papa è che tali dualismi moderni abbiano spianato la strada alla disastrosa separazione della ragione dalla fede, un’opposizione che è alla base del conflitto sempre più accanito fra la ragione assoluta del laicismo (e ateismo) estremo e la fede cieca dei fondamentalismi religiosi. In questo senso, l’appello di Benedetto XVI per un ritorno alla “grandezza della ragione”, per cui ragione e fede necessitano l’una dell’altra e si incrementano a vicenda, è ben più radicale e progressista delle pretese di Küng per un dialogo più liberale.
Effettivamente, l’intervento del Papa ha già portato ad un dibattito più intenso e di maggiore vigore intellettuale fra cristiani e musulmani, come dimostrato dal forum permanente per il dialogo cattolico-musulmano. Esso fu stabilito in risposta alle critiche mosse al discorso papale di Ratisbona, nel quale collegò la violenza nell’islam alla maggiore importanza data al potere e alla volontà di Dio rispetto alla ragione e all’intelletto divino. Küng accusa Benedetto XVI di aver causato una crisi di fiducia fra cristiani e mussulmani, ma il Papa ha ragione ad insistere che tale fiducia è veramente autentica soltanto se è basata su una reciproca comprensione delle reali differenze tra Cristianesimo ed Islam: l’incarnazione di Dio, la divina natura di Cristo e la Santissima Trinità.
Non è neppure vero che Benedetto XVI ha nostalgia della dottrina e dei concili della Chiesa delle origini. Al contrario, egli ricongiunge il retaggio culturale della patristica e del medioevo al Romanticismo moderno, con la loro comune enfasi sulle dichiarazioni naturali del divino e sull’umana attività artistica. È questa tradizione romantica che ha contribuito a creare e a mantenere la cultura elevata per cui si batte il Papa. Ciò è alla base della sua difesa della liturgia tradizionale (compresa la Messa tridentina) contro l’avvento del “sacro-pop”: “liturgie da festicciole parrocchiali e banali canzoni del tipo ‘abbracciami Gesù’”, come scrive in modo quanto mai appropriato Tracey Rowland nel suo libro “La fede di Ratzinger”.
Oltre alla liturgia, il Romanticismo è anche la chiave per difendere la cultura laica da se stessa. Rifiutando sia la ragione assoluta e strumentale che la fede cieca ed emotiva, la tradizione romantica mette alle corde la convergenza contemporanea tra un progresso tecnologico senz’anima e una cultura impoverita dominata da sessualità e violenza. Cosa ancora più importante, essa si oppone alla collusione complice di una sconfinata liberalizzazione economica e sociale che ha prodotto la morale sessuale del “laissez-faire”, con l’ossessione del libero arbitrio individuale a scapito di parametri obiettivi (pur contestati) di verità, bellezza e rettitudine, una preoccupazione condivisa dall’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams nel suo autorevole libro “Le icone perdute”.
Rimangono aperte numerose domande su come sia possibile tradurre la visione di Benedetto XVI in una radicale revisione della Curia e delle relazioni tra Roma e i vescovi cattolici. Ma ben lungi da essere nostalgico o reazionario, il Papa di oggi è un ostinato romantico che sta realizzando un Rinascimento intellettuale e culturale del cattolicesimo.
La fede non è un numero - Davide Rondoni - giovedì 22 aprile 2010 – ilsussidiario.net
Se va avanti così, tra una trentina d’anni non ci sarà neanche più un giovane cattolico in Italia. Uno sfascio. Verrebbe da pensare così leggendo i dati di una ricerca statistica presentata in questi giorni. In 6 anni diminuiscono di più del 14% i giovani che si dicono cristiani cattolici. Erano il 66,9% nel 2004 e sono ora il 52,8%.
La ricerca (Iard per conto di “Nuove Regaldi” di Novara) ha testato un campione di mille ragazzi tra i 18 e i 29 anni. Ci sono poi una serie di “sottogruppi” identificati dalla ricerca, che indaga i diversi volti del rapporto tra giovani e religiosità. Ma restiamo al dato gigantesco.
È vero che una realtà come la vita di fede non può essere descritta con la statistica, però qualcosa ci viene detto. Da un lato, che più della metà dei giovani italiani si dicono cristiani cattolici. E il dato può stupire, pensando all’immagine di giovane che più spesso ci viene ammannita dai media come “dominante” nella nostra società. Dall’altro (e i due fenomeni sono in relazione) si assiste a un calo fortissimo nel giro di poco tempo.
Evidentemente si tratta di una “autodefinizione” di sé che poggiando su inerzia tradizionale o su una leggera patina di convinzioni viene spazzata rapidamente via dal continuo infuriare di altre proposte e di altre immagini di se stessi. La fede non resiste se non come esperienza che tocca le radici della personalità. Non resiste come cultura, come convenzione, come morale. La fede cattolica “paga” in un certo senso nel nostro paese l’essersi troppo a lungo appoggiata a una proposta convenzionale. Si dava per scontata la forza, l’avventura radicale della fede. Essere cattolico per la maggior parte degli italiani ha significato non uscire dai binari di una tradizione consolidata.
Ma questo, specie con i giovani, non tiene. L’eccesso di clericalizzazione, di “istituzionalizzazione” sono fenomeni che non portano nessuno più vicino alla scoperta della fede. Una Chiesa che a lungo, come ha detto l’allora card. Ratzinger al Meeting di Rimini, ha pensato ad auto-occuparsi in attività di vario genere (dall’organizzativismo pastorale alla politica) ha finito per smettere di incontrare uomini e donne, e giovani, nel cuore della vita, e negli ambienti in cui la vita accade normalmente.
A una struttura enorme ha corrisposto un calo di vita. Di cultura e di comunità. Diceva don Giussani: le parrocchie han costruito sale biliardo e sale cinematografiche per provare a “trattenere” i giovani, però i film li facevano gli altri.
SINDONE/ Tornielli (Il Giornale): ecco perché credere che quel telo ha coperto Gesù è ragionevole - INT. Andrea Tornielli - giovedì 22 aprile 2010 – ilsussidiario.net
Nella confusione del dibattito scientifico sull'autenticità o meno della Sindone interviene Andrea Tornielli, vaticanista del Giornale. «In ogni caso è necessario un approccio multidisciplinare. Altrimenti si finisce per affermare che la scienza ha dimostrato che la Sindone è un falso medievale a partire dal risultato del radiocarbonio». L’uomo della Sindone, dice Tornielli, è realmente Gesù di Nazareth.
Tornielli, quando comincia l’interesse scientifico attorno alla Sindone?
Sul finire del 1800, quando un fotografo dilettante, che di mestiere faceva l’avvocato, fotografa la reliquia che fino a quel momento era esclusivamente un oggetto di culto venerato dai cristiani. L’improvvisato fotografo si accorge che sopra la lastra negativa c’è l’immagine in positivo. Tanto è vero che sono quelle nere le raffigurazioni in cui si vede il volto bianco. Da questo momento si avvia l’interesse, cui seguono le ricerche negli anni ’70. È il periodo in cui si crea un pool di scienziati. Scattano i prelevamenti dei campioni e le analisi. La Sindone viene addirittura lasciata due giorni nelle loro mani affinché possano esaminarla.
Da questi esami emergono dubbi e scetticismi sull’autenticità del lenzuolo. Si parla addirittura di falso medievale.
Il discrimine della grande polemica è la datazione a radiocarbonio del 1988. Commissionata a tre differenti laboratori: Oxford, Zurigo e Tucson in Arizona. Secondo i loro risultati si stabilisce un’età compresa tra il 1260 e il 1390, dunque una datazione medievale. Giusto per chiarezza ricordo l’ultima pubblicazione del Sis Magazine (rivista scientifica di statistica, ndr), dove quattro docenti universitari, tre italiani e un inglese, dimostrano la non-attendibilità del risultato del 1988. Individuano un trend lineare secondo il quale trasferendo questi dati (la datazione emersa da quei 4 cm di lenzuolo) a tutto il lenzuolo ne risulta una variazione di data che va dall’anno 33 d.C. al 20000 d.C. Evidentemente il risultato del 1988 è sballato.
Si tratta di un errore?
I laboratori hanno operato abbastanza bene, almeno nella fase di campionatura vera e propria. Mentre nella fase di rielaborazione dei dati qualcosa è successo di certo.
In che senso?
Fu prelevato un pezzo dall’angolo superiore a sinistra in prossimità dell’impronta frontale dei piedi di Gesù. E venne sezionato in almeno 6 pezzi, a ciascuno dei laboratori ne venne consegnato uno. Al termine della prima fase di esami i tre laboratori, causa problemi matematici nei risultati, si consultarono fra loro. Sta di fatto che il risultato, ormai inquinato, venne alterato. La cosa interessante, però, è che non sono stati presi tre campioni da punti diversi del lenzuolo, ma da un unico angolo. Ricerche del chimico americano Raymond Rogers (quello che aveva bombardato la Sindone con gli ultravioletti) dimostrano come proprio quell’angolo lì sia uno dei più contaminati.
Per quale motivo quello è l’angolo più contaminato?
Siamo nel campo delle spiegazioni possibili. Willard Frank Libby, premio Nobel 1960 per la chimica grazie all’invenzione del carbonio 14, diceva che era impossibile datare qualcosa di cui
non si poteva ricostruire la storia delle contaminazioni. In più per il telo di lino è particolarmente difficile: se poi è stato esposto a ostensioni, al fuoco delle candele, se è stato toccato dai fedeli e sottoposto a un incendio (nel 1532 a Chambéry) la situazione si complica. Non possiamo sapere a che livello è arrivata la contaminazione.
Il chimico Raymond Rogers ha scoperto le zone di rammendo invisibile…
Ha individuato proprio nella zona del campione prelevata per il radiocarbonio del 1988 delle inserzioni di rammendo invisibile con filo di cotone. I medievali erano in grado di fare rammendi e cucire un buco che si fosse aperto senza lasciarne traccia. Il cosiddetto rammendo invisibile, che si otteneva attorcigliando parte del filo della stoffa preesistente con quello che veniva aggiunto per creare la toppa o il rammendo. Rogers ha dimostrato che esistono tracce di filo di cotone sulla Sindone (tessuta con filo di lino), quindi il rammendo è datato molto dopo. Al tempo in cui le suore clarisse del monastero di Chambéry, in seguito all’incendio del 1532, mettono le toppe a tutti i buchi. Toppe che oggi non ci sono più, perché tolte nel corso della restauro del 2002. L’ effetto (hanno messo un telo bianco come fondo) l’ha resa più chiara e meno visibile.
Si parla molto di manipolazioni ad opera di lobby sul sacro lenzuolo. Cosa c’è di vero?
Sulle lobby non dico niente. Certo è che ci sono forti dubbi su come sono stati lavorati quei dati. Perché, comunque, c’è un problema dimostrato dagli statistici del Sis Magazine e da altri professori della “Sapienza” di Roma un paio di anni fa. Che hanno dimostrato che è stato cambiato un numero per fare arrivare la soglia di attendibilità di tutto il ragionamento dall’1 al 5%, vale a dire la soglia minima per poter presentare l’esame scientificamente.
Tirando le somme, come bisogna lavorare su questa reliquia?
In ogni caso è necessario un approccio multidisciplinare. Altrimenti si finisce per affermare che la scienza ha dimostrato che la Sindone è un falso medievale a partire dal risultato del radiocarbonio. E poi non si riesce a spiegare come si sia prodotta l’immagine, come questo falsario avrebbe riprodotto nell’immagine, non si sa come, le caratteristiche storico-archeologiche della crocifissione non di un uomo qualsiasi ma di Gesù con delle modalità diverse da quelle conosciute nel Medioevo e dall’iconografia classica.
Ovvero?
Parlo di chiodi sui polsi, invece che sul palmo. Della corona di spine, un casco completo, invece di un “serto” che è una striscia.
In uno dei suoi articoli sul Giornale lei paragona questo pseudo-falsario medievale a Superman...
Sì. Perché il falsario medievale avrebbe dovuto cospargere la Sindone di pollini che per tre quarti appartengono all’area mediorientale e in alcuni casi reperibili solo nella zona di Gerusalemme. E poi il falsario medievale avrebbe dovuto saper distinguere tre tipi di sangue: venoso, arterioso e post-mortem, che sono quelli individuati sul lenzuolo. A parte gli scherzi, checché ne dicano Garlaschelli e il Cicap (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale) la scienza non è mai riuscita a riprodurne una copia. Quelle di Garlaschelli non sono solo brutte, sono pessime. Non reggono il confronto a occhio nudo, figurarsi al microscopio. Garlaschelli ha ottenuto la sua copia, usando un modello e strofinando poi dall’esterno con dell’ocra. L’immagine che si è formata è stata costruita dall’esterno.
Mentre l’immagine della Sindone…
…è formata da dentro, quasi fosse un’impronta o un’irradiazione al lenzuolo. In più, secondo la copia di Garlaschelli, il volto restituito dal color ocra è deforme. Ed è inevitabile, dato che si è avvolto un volto con un lenzuolo e dopo averlo disteso il risultato era un’oscenità. Al contrario nella Sindone il volto ha caratteristiche tridimensionali al pari di una proiezione sul lenzuolo. Non contento Garlaschelli ha tentato anche di rifare le macchie di sangue mettendole al posto giusto. Peccato che nel sacro lenzuolo, ed è provato scientificamente, le macchie si sono trasferite prima dell’immagine.
Può spiegarsi?
I decalchi di sangue sono trasferiti prima sul lenzuolo. E lo sappiamo perché sotto le macchie non c’è immagine. Il sangue ha fatto da schermo. Dunque prima si è trasferito il sangue che si è mescolato al lino e ha incollato i fili, poi c’è stata l’immagine, non con una pittura, bensì un’ossidazione, una disidratazione in ogni singola fibra di lino ma a un livello totalmente superficiale, nell’ordine dei millimetri). Per darne un’idea fisica: se lo spessore del lino fosse il mio braccio l’immagine interessa solo i peli. I fisici dell’Enea di Frascati hanno ottenuto qualcosa di simile, bombardando con un laser a eccimeri, per cui con raggi di luce potentissimi e velocissimi, del tessuto. Solo così sono riusciti a ottenere una colorazione simile a quella dell’immagine della Sindone.
Un’«esplosione di luce» all’origine dell’immagine, giusto?
È un’ipotesi, quella che si avvicina di più alla verità. Gli scienziati fanno le loro prove. Nessuno, comunque, è riuscito a ottenere una copia della Sindone. Che la scienza non sia ancora in grado di spiegare come si sia formata l’immagine, pone un problema alla stessa radiazione del radiocarbonio. Perché si data un fenomeno che ancora non si è riusciti a riprodurre in laboratorio? Torno a ripetere che l’approccio necessario è quello multidisciplinare. E, anche solo per un calcolo di probabilità, la Sindone è al 99,9% autentica. Quello è il lenzuolo che nel primo secolo d.C. ha avvolto il corpo di Gesù Cristo.
Come spiega le posizioni del Cicap, oltre a tutte le altre riserve che fanno leva sulla discordanza dei dati, o si appoggiano alla parzialità di alcuni dati scientifici - come Wikipedia quando cita le analisi al Carbonio 14 - per negare l’autenticità del lenzuolo?
Strumentalizzazioni. Avevo molta stima del Cicap per la loro attività nello smascherare il paranormale. Ma vedendo come hanno lavorato sulla Sindone, con quel trionfalismo tronfio e scientista con cui sbandierano risultati che sono ridicoli, quando ho visto questo ho messo in dubbio tutto il loro lavoro. Finiranno per farmi credere anche nei fantasmi e negli astrologi se vanno avanti così. Quelli che si battono contro l’autenticità della Sindone sono un gruppo di persone finanziate dall’Unione Atei e razionalisti italiani. Il problema è che non svolgono questi studi con l’ipotesi di un aiuto alla ricerca. Li sbandierano come risultati. Che in realtà non dimostrano niente. Perché, riproducendo la Sindone, che cosa si dimostra? Solo che l’hai riprodotta, non che è falsa.
Lei ha scritto Inchiesta sul Mistero. Come nasce il suo libro?
Parto dalla Sindone. Un telo di lino, un tessuto a spina di pesce con un filo a torcitura “Z” da un telaio antico rudimentale. Un tipo di tessitura pregiato, ricercato, quasi regale. Che studi su tessuti hanno affermato che si suppone sia la stoffa usata per le vesti del sommo sacerdote. Fatto sta che Giuseppe d’Arimatea porta non un lenzuolo funebre ma una stoffa pregiata e Gesù ha una sepoltura regale. Altra caratteristica: sempre in queste tessiture manuali la successiva tessitura contiene, tra la trama e l’ordito della nuova, tracce e microtracce della precedente. Se hai tessuto una tunica di lana, poi tessi la Sindone di lino, sicuramente nel lino rimane una microtraccia di lana. La curiosità è che il lino della Sindone presenta microtracce di cotone (che risale alla Palestina del I sec d.C.), ma non ha neanche un micron di lana, e questa è una stranezza perché la lana era il tessuto più usato all’epoca. Una stranezza, se non ipotizziamo che la Sindone sia stata tessuta in area mediorientale, di preciso in area ebraica. Come dice il Deuteronomio (22,11) “non porterai una veste tessuta di lana e lino insieme”. Perché la lana proviene da un animale mentre il lino è un vegetale. Ed è per questo che gli ebrei usavano telai diversi, in uno potevano tessere il lino e il cotone, nell’altro la lana. Poi le grandi striature, le bruciature, i fori dovuti all’incendio di Chambéry e anche a danneggiamenti precedenti. Tre forellini che si ripetono simmetrici, che noi ritroviamo nel Pray, il manoscritto del 1191 conservato a Budapest, dove c’è una miniatura della resurrezione di Gesù e si vede la Sindone con tessuto a spina di pesce e questi forellini. Significa che era un danneggiamento avvenuto prima di quelle date con cui si vorrebbe provare la non autenticità.
Dove vediamo le macchie di sangue? A quali ferite corrispondono?
C’è un “tre” rovesciato che corrisponde esattamente alla vena frontale con una colatura di sangue abbondante ma che scende lentamente; c’è una macchia sui capelli, uno schizzo sottile (di sangue arterioso). Infine c’è la ferita sul costato destro, abbondantissima fuoriuscita di sangue già coagulato e separato dal siero (sangue post-mortem). La ferita è stata procurata da un oggetto appuntito: un’asta (ellisse maggiore di 4 cm e minore di 3 cm). Una ferita i cui lembi sono rimasti aperti. Sangue e siero,come dice il vangelo di Giovanni: “Ne uscì sangue e acqua”. Inoltre l’uomo della Sindone ha circa 30 fori dovuti alle spine e ha i segni di almeno 120 colpi di flagello (composto da un pezzo di bastone e cuoio da cui si dipartivano due o tre strisce di cuoio all’estremità delle quali c’erano una coppia di sfere di metallo oppure una punta di osso. Uno strumento dolorosissimo. I colpi sono stati dati da due direzioni diverse con Gesù al centro).
Come si è visto nel film The Passion…
…esatto. Il minimo è 120 colpi, almeno quelli che riusciamo a contare davanti e sul retro. Ma dell’impronta della Sindone ci manca la parte laterale. Quindi ne dobbiamo ipotizzare di più. Inoltre nell’impronta dell’uomo della Sindone ci sono tracce anche di terriccio nella zona dei piedi, delle ginocchia e sulla punta del naso (analisi di un cristallografo americano) e questo terriccio contiene una quantità di aragonite che ha le stesse caratteristiche di impurità, in percentuale identica, di quella contenuta nel terriccio delle grotte di Gerusalemme. Il fatto che ci sia del terriccio sul naso fa capire che Gesù, l’uomo della Sindone, è caduto durante il percorso che portava al patibolo.
(Stefano Regondi)
Sezionati, usati, scartati: chi difende gli embrioni? - di Lorenzo Schoepflin – Avvenire, 22 aprile 2010
Nel numero del 15 aprile la rivista Nature ha celebrato il ventesimo compleanno della diagnosi genetica preimpainto con un articolo di Alan Handyside, uno dei pionieri della tecnica che consente di individuare anomalie genetiche presenti negli embrioni, al fine di consentire ai genitori di scegliere il figlio 'desiderato'. Perché in questo consiste la diagnosi preimpianto: si strappa via una cellula dell’embrione quando ne conta appena otto, se ne analizza il patrimonio genetico e, nel caso si riscontri la presenza di geni a cui è associata la possibilità dell’insorgere di una malattia, l’essere umano nelle sue prime fasi di sviluppo viene eliminato. Ma il campo di applicazione della diagnosi preimpianto non si limita solo alle malattie genetiche: negli anni c’è stata una escalation che ha portato alla possibilità di procedere al cosiddetto 'bilanciamento familiare', ovvero alla selezione degli embrioni in base al sesso, o alla creazione di fratelli geneticamente compatibili per bambini malati che necessitano di donatori di sangue e tessuti.
Segno che, quando si apre uno spiraglio alla selezione degli embrioni, il passo verso il progressivo ammorbidimento delle regole è davvero breve.
«L
e regole per i bimbi su misura si allentano» titolava la Bbc sul proprio sito nel 2004, quando fu consentita la selezione degli embrioni in base alle necessità di famiglie con figli malati. Come nel caso di un bimbo di due anni – affetto da una particolare forma di anemia – per il quale né i genitori né il fratello rispondevano ai requisiti necessari per la donazione di cellule staminali. «I genitori hanno il diritto di scegliere la tecnologia che li possa aiutare», dichiarò Simon Fishel, direttore dei Centri per la riproduzione assistita.
Come detto, la selezione di fratelli geneticamente compatibili è solo uno degli aspetti della diagnosi preimpianto.
Ovunque le legislazioni locali lo permettono, vengono finanziate con soldi pubblici molte ricerche e pullulano cliniche che promettono figli sani. Negli Stati Uniti sono attualmente in corso test clinici che prevedono l’applicazione della diagnosi preimpianto per donne portatrici di geni legati all’insorgere di tumori al seno e alle ovaie. Quello che si propone questo tipo di studio è l’avanzamento della tecnologia che consente di individuare e scartare gli embrioni portatori degli stessi geni. Del tutto analogamente, la diagnosi preimpianto viene usata per aumentare il tasso di successo per i cicli di fecondazione assistita a cui si sottopongono donne di età più matura e con storie di gravidanze fallite alle spalle: si effettua il test genetico, e se l’embrione si dimostra 'inadatto' all’impianto viene eliminato.
Sempre negli Stati Uniti l’Istituto di sanità nazionale nella propria sezione dedicata alle malattie rare indica la diagnosi preimpianto come uno dei rimedi per i genitori che temono di trasmettere la malattia
Uai propri figli, e fornisce un database delle cliniche a cui rivolgersi. Sono poi tantissimi i siti e le associazioni di liberi cittadini, accomunati da storie familiari di malattie ereditarie, che forniscono assistenza per accedere alla fecondazione assistita con diagnosi preimpianto. Come la «Hd free with pgd», che propone aiuto per «pianificare una famiglia libera dalla malattia di Huntington». O la «Huntington Desease Drug Works», che oltre a promuovere studi per la ricerca sulle cure dei sintomi, suggerisce alle coppie portatrici dei geni responsabili della trasmissione della malattia di valutare l’opzione della diagnosi preimpianto.
no degli aspetti più controversi legati alla diagnosi preimpianto resta comunque quello del 'bilanciamento familiare'. In alcuni Paesi, come in Inghilterra e Australia, questo tipo di applicazione è vietata.
Negli Stati Uniti, invece, non mancano le cliniche che propongono la selezione embrionale per quei genitori che desiderano un figlio di sesso prestabilito. Il Genetics & Ivf Institute, ad esempio, illustra molteplici tecniche per procedere alla selezione, specificando che il destino degli embrioni del sesso indesiderato «sarà deciso assieme ai genitori». I medesimi servizi sono forniti dal Fertility Institute, il cui direttore, Jeffrey Steinberg, è più volte finito al centro di polemiche per aver dichiarato di poter garantire ai genitori figli con occhi e capelli del colore richiesto.