Nella rassegna stampa di oggi:
1) «Ci ha ascoltati uno per uno, e ha pregato e pianto con noi», ha raccontato una delle persone che hanno subito abusi - La commozione del Papa a Malta - Benedetto XVI, in lacrime, incontra le vittime dei preti pedofili a La Valletta - di Luigi Accattoli
2) E' VERO CHE UNA CULTURA VALE L'ALTRA? - di padre Piero Gheddo*
3) In breve... la Sindone - Autore: Parravicini, Jacopo Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 20 aprile 2010
4) Il contestatore filo-americano - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 20 aprile 2010
5) Ferruccio de Bortoli e il cardinale Tucci sul pontificato di Benedetto XVI - Un'identità forte per parlare con tutti - L'Osservatore Romano - 21 aprile 2010
6) Intervista a Mona Siddiqui, musulmana, docente di studi islamici all'università di Glasgow - Dio è misericordioso Per tutti - di Tania Mann - L'Osservatore Romano - 21 aprile 2010
7) Migliaia di persone hanno manifestato per le strade - La marcia per i diritti dei cristiani di Bhopal - L'Osservatore Romano - 21 aprile 2010
8) Ricomincio da capo - Lorenzo Albacete - mercoledì 21 aprile 2010 – ilsussidiario.net
9) IL CASO/ Una donna: vi racconto lo strazio infinito del mio aborto facile con la Ru486 - Gianfranco Amato - mercoledì 21 aprile 2010 – ilsussidiario.net
10) 20/04/2010 – INDIA - L’assassino pentito di suor Rani: “I cristiani, speranza per l’India” - di Nirmala Carvalho - Samandar Singh si è pentito dopo aver ucciso la religiosa nel 1995. Oggi è un uomo diverso, che aiuta i tribali e considera la famiglia di suor Rani “la sua famiglia”. Ma conferma il clima di odio anti-cristiano che attraversa l’India e invita i suoi connazionali a vedere la verità sulla presenza dei missionari nel Paese.
11) LA LEZIONE DEGLI STATI VEGETATIVI - QUANDO LA MEDICINA ABBRACCIA IL MISTERO DELLA PERSONA - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 21 aprile 2010
12) LE ACCUSE (AMPLIFICATE) ALLA CHIESA E LA SUA VOCAZIONE - Il «costoso» servizio alla verità di chi non cerca il consenso - GIACOMO SAMEK LODOVICI – Avvenire, 21 aprile 2010
«Ci ha ascoltati uno per uno, e ha pregato e pianto con noi», ha raccontato una delle persone che hanno subito abusi - La commozione del Papa a Malta - Benedetto XVI, in lacrime, incontra le vittime dei preti pedofili a La Valletta - di Luigi Accattoli
Malta è piccola, poco più di quatttrocentomila abitanti e dunque dal punto di vista della Chiesa va guardata come una nostra diocesi media: tipo Bolzano, Reggio Emilia o Salerno.
E allora uno dice – sperando di respirare un momento – «almeno lì non ci saranno abusi di preti su minori»: io me lo sono detto, da vaticanista, qualche settimana addietro quando sentivo che il Papa stava preparando una visita nel 1.950° del naufragio di Paolo, che dovrebbe essere avvenuto nell’anno 60 dopo Cristo.
Invece no, i preti pedofili – o efebofili: cioè amanti degli adolescenti – ci sono anche a Malta e dunque anche in questa occasione il povero Papa ha dovuto fare penitenza, come bene ha detto all’antivigilia e come ha fatto sul posto a nome di tutti.
Quella “sporcizia” c’è dappertutto, ma proprio dappertutto ed è perciò una fortuna – in un certo senso – che il chiasso dei media abbia aperto gli occhi ai responsabili e a tutti noi.
«Adesso, sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter far penitenza è grazia e vediamo come sia necessario fare penitenza» aveva confidato con linguaggio evangelico Benedetto giovedì scorso.
Ed evangelicamente per la quarta volta, alla Valletta, ha incontrato le “vittime” degli abusi. L’incontro con «coloro che hanno sofferto» è la più coraggiosa e la più personale tra le risposte del Papa al terribile scandalo.
Al primo dei maltesi che ha denunciato il prete che fu suo molestatore, il Papa ha detto l’altro ieri che è «orgoglioso» di lui, come hanno riferito le cronache: «Mi ha detto che non era facile fare quello che ho fatto».
E lui, l’uomo che subì l’oltraggio da ragazzo – si chiama Lawrence Grech – ora piange e dice: «Finalmente posso andare dalle mie figlie e dire che ho ritrovato la fede».
Basterebbero queste battute per dire la fecondità della via imboccata da Papa Ratzinger.
Sappiamo bene come egli abbia richiamato agli episcopati – e ultimamente a quello irlandese, con la lettera del 20 marzo – varie priorità: di collaborare con i tribunali civili per rendere giustizia alle “vittime”, di non coprire i fatti e di promuovere un cammino di penitenza comunitaria. Ma tra tutti il suggerimento di incontrare le vittime è il più personale, delicato e coinvolgente che egli abbia rivolto ai “fratelli”vescovi.
Non l’ha mai formulato in parole, ma l’ha dettato con l’esempio dei quattro incontri che ha realizzato lungo gli ultimi due anni.
Il primo si ebbe negli Usa, a Washington, il 17 aprile 2008. Il 21 luglio di quello stesso anno ce ne fu un altro a Sydney, mentre il Papa era là per Giornata mondiale della gioventù.
Il terzo ebbe luogo in Vaticano, il 29 aprile 2009, quando parlò e pregò con un gruppo di aborigeni del Canada che da bambini avevano subito maltrattamenti nei collegi cattolici gestiti da personale religioso.
«Ho incontrato vittime di abusi sessuali, così come sono disponibile a farlo in futuro», ha scritto nella lettera agli irlandesi.
In essa così ha narrato il contenuto di quegli incontri: «Mi sono soffermato con loro, ho ascoltato le loro vicende, ho preso atto della loro sofferenza, ho pregato con e per loro».
Le finalità che egli attribuisce al contatto personale con le vittime sono ricavabili
dalle espressioni con cui ne ha parlato – o fatto parlare – nelle diverse occasioni: riconciliazione, compassione, cura, guarigione, pace. Ancora più chiaramente l’obiettivo di quel gesto è detto in una frase del portavoce Federico Lombardi contenuta in una “nota” del 9 aprile: «Molte vittime non cercano compensi economici, ma un aiuto interiore, un giudizio nella loro dolorosa vicenda».
Intuiamo di che “giudizio” si tratti quando ascoltiamo uno degli uomini incontrati ieri da Benedetto raccontarci d’aver visto il Papa «piangere per l’emozione». Quegli “ospiti” straordinari di Benedetto XVI nella Cappella della Nunziatura, alla Valletta, gli chiedevano: «Perché è potuto avvenire quello che è avvenuto?» Il Papa non aveva risposte e ha detto loro: «Non lo so il perché.
Possiamo solo pregare». «Tutti abbiamo pianto» ha detto un altro degli otto che erano in quella Cappella. In quel pianto è il “giudizio”di cui aveva parlato il padre Lombardi. Che a proposito dell’incontro della Valletta ha narrato che esso si è svolto «in un clima intenso ma sereno, senza tensione» e con evidente «familiarità».
Il Papa «era profondamente commosso dai loro racconti ed ha espresso la sua vergogna e il suo dolore per ciò che hanno sofferto».
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E' VERO CHE UNA CULTURA VALE L'ALTRA? - di padre Piero Gheddo*
ROMA, martedì, 20 aprile 2010 (ZENIT.org).- E’ proprio vero che una cultura vale l’altra? Parecchi lo credono, ma avendo visitato molti popoli interessandomi delle loro credenze religiose e culturali so che non è vero. Un esempio concreto.
Nel 1980 sono stato in Papua Nuova Guinea (Oceania) e anche nelle Isole Trobriand, paradisi terrestri per bellezze e vita naturali degli indigeni. Una rapida visita però dice poco, ma in questi giorni ho ritrovato due ritagli di “Venga il Tuo Regno”, rivista del Pime di Napoli (maggio 1991 e febbraio 1994), nei quali padre Giuseppe Filandia scrive sul tema “Tradizioni ed evangelizzazione” e parla del matrimonio tradizionale proprio nelle meravigliose Isole Trobriand. Ecco cosa scrive dopo anni di esperienza sul posto:
“Un giovane e una ragazza si sposano non per attrazione reciproca ma per interesse. Nella loro cultura non esiste un’educazione che li prepari al vero significato della vita a due. Le pratiche sessuali sono un gioco che praticano, anzi devono praticare, fin dall’età di sette-otto anni….
Spetta agli zii materni trovare la ragazzina (scherzando la chiamano 'la futura sposa') con cui il nipotino possa passare la notte insieme. Così si svuota il senso dell’affetto, della donazione reciproca completa, della bellezza stessa della vita matrimoniale, quando giunge il momento di costituire una famiglia…L’uomo non coopera affatto alla nascita dei figli, sono degli spiriti speciali a dare i bambini alle donne, attraverso la testa. Quindi l’uomo non ha nessuna responsabilità e partecipazione nella procreazione.
Il matrimonio è un problema di interesse materiale: sposare una donna per l’uomo significa garantirsi una sicurezza economica…. Per la donna i motivi per contrarre matrimonio si riducono al bisogno concreto di avere accanto qualcuno, per sentirsi protetta, avere una casetta propria e un focolare da custodire….
L’educazione dei figli non esiste. Il padre ne lascia l’incarico ai cognati, secondo la tradizione, e questi, regolarmente, non se ne interessano. Per cui i bambini crescono senza principi morali, senza freni, si permettono di fare tutto quel che vogliono e non sono rimproverati né corretti, perché la loro tradizione è molto permissiva in ciò che noi consideriamo il male: come la vendetta, la prepotenza, il furto, l’inganno, la pigrizia e qualsiasi altra immoralità...
L’adulterio, molto comune, sembra accettato, a meno che ci sia una pubblica accusa, allora si deve fare un po’ di scena per salvare la faccia. Il colpevole paga le sue ventimila lire di multa e tutto finisce lì. I mariti che stanno lontani dalle mogli per anni non si meravigliano se al loro ritorno trovano uno o due figli in più. Tanto, non è l’uomo ma sono gli spiriti che danno i bambini alle donne…
Accenno a queste miserie per ricordare ai lettori, se ce ne fosse bisogno, quando meravigliosa è la nostra morale cattolica, che è sicura difesa della vita, della persona e salva amore e unità delle famiglie…. Fa pena vedere i nostri ragazzi e le nostre ragazze che seguono ciecamente certe tradizioni senza mai capire cosa sia il vero amore, il senso della vita, del 'diventare due in una sola carne'. Il valore del matrimonio monogamico mentre qui c’è la poligamia (almeno per i capi). Voi che avete la gioia di vivere in una famiglia cristiana, abbiate un pensiero e una preghiera per questo nostro popolo della Papua Nuova Guinea”.
Cari amici lettori, questa è una cultura non cristiana non nelle cartoline turistiche, nei romanzi e documentari televisivi, ma nella concretezza della vita quotidiana di un popolo che ancora non conosce il Vangelo. E il nostro popolo italiano, che ha ricevuto il Vangelo da duemila anni, quanto è lontano da queste miserie “pagane”?
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*Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1973) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l'Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano
In breve... la Sindone - Autore: Parravicini, Jacopo Curatore: Buggio, Nerella - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 20 aprile 2010
“LA SINDONE È UN OGGETTO CHE NON DOVREBBE ESISTERE”. Epppure essa c’è e continua a interrogarci.
Io sono laureato in fisica, mi occupo di ricerca, e mio padre è professore di fisica. Durante la mia infanzia egli conobbe bene il professor Luigi Gonella.
Luigi Gonella, professore di fisica al Politecnico di Torino, scomparso da pochi anni, è stato l’incaricato del Cardinal Saldarini a sovraintendere agli esami scientifici condotti sulla Sindone a fine anni ’80. Per questa vicinanza con Gonella, e per la passione scientifica della mia famiglia, posso dire che sento parlare della “questione sindone” fin dalle elementari. Naturalmente non sono un esperto, non sono un professore, non l’ho studiata di persona, non mi sono riletto tutti gli studi, ma mi preme ricordare qui gli aspetti principali, a livello scientifico, di tutta la vicenda.
Vicenda che, dal mio punto di vista è innanzitutto un problema di scienza, e solo successivamente un problema di Fede. Già, perché la Fede di ciascun cristiano poggia sul riconoscimento di un evento storico: Passione, Morte, Resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo. Certo la Sindone parla di questo, ma non sarà mai in grado di dare delle prove di tale evento, essa potrà fornire al massimo degli indizi, degli indizi forti, magari, ma pur sempre indizi. Per questo, ritengo, la Sindone è innanzitutto una questione di sapere, una questione di scienza, perché nessuna Fede di nessun cristiano si basa su di essa.
In questo articolo voglio ricordare molto brevemente, come in un “bigino”, i termini fondamentali della questione, dal punto di vista scientifico. Per brevità non fornisco le fonti: in questo periodo potete trovare numerosi libri sull’argomento, con poderose bibliografie annesse. Se volete farvi un’idea di massima, consiglio il recente, e assai agile, libro di Tornielli.
1. Che cos’è la Sindone? La Sindone è un telo di lino certamente molto antico su cui è impressa l’immagine dell’intero corpo, davanti e di spalle, di un uomo morto per crocifissione, in una maniera assolutamente identica a quella descritta dai Vangeli. Oltre all’immagine essa porta su di sé macchie di sangue, di terra, segni di bruciature, aloni di acqua, zone dannneggiate o mancanti che testimoniano la sua antichità e la sua travagliata storia.
2. Che genere di telo è? Il telo è di lino, tessuto su un telaio su cui non erano stati tessuti altri filati (in particolare mancano tracce di lana, che era il filato più usato il Palestina all’epoca di Gesù), come del resto prescriveva la Legge Mosaica. La tessitura è, per un’epoca pre-industriale, molto accurata, nobile. La foggia di tale tessitura è compatibile con l’epoca di Gesù, anche se è differente da altri (frammenti di) sudari rinvenuti, in genere molto meno curati.
3. Come si è formata l’immagine? Questa è la domanda veramente interessante. L’immagine NON È UN DIPINTO, non c’è traccia alcuna di pigmento. Essa è impressa nelle fibre del lino, che per uno spessore di meno di 2 decimi di millimetro risulta disidratato, assumendo una colorazione più scura del resto del tessuto. Per rendere l’idea.... una sorta di “bruciatura” estrememente sottile.
a. La prima caratteristica dell’immagine, ben nota dal 1898, anno in cui furono fatte alla Sindone le prime fotografie, è che essa è un NEGATIVO FOTOGRAFICO. Se si fotografa la Sindone e se ne guarda il negativo, l’immagine dell’ “uomo della Sindone” appare in positivo, estremamente più chiara ed evidente.
b. L’immagine contiene delle INFORMAZIONI TRIDIMENSIONALI... Che cosa vuol dire? Se si applicano delle ben note leggi fisiche alla distribuzione di intensità dell’immagine della Sindone, è possibile ricostruire perfettamente un corpo tridimensionale. Se si applicasse lo stesso processo a una fotografia o a un dipinto, non si otterrebbe niente di simile. Questo dimostra che la Sindone è stata fatta seguendo delle leggi naturali (come una fotografia), ma, d’altra parte, NON è certamente una fotografia!
c. Sotto le macchie di sangue, l’immagine NON è presente, segno che essa si è formata DOPO che il sangue si è depositato sul telo.
4. Il sangue presente sulla Sindone è VERAMENTE SANGUE, gruppo AB, di tipo maschile. Tuttavia vi sono TRE TIPI diversi di sangue: del sangue venoso, del sangue arterioso e del sangue in cui ha avuto inizio la separazione della parte sierosa, ossia sangue fuoriuscito da un uomo già morto. Quest’ultimo è il sangue presente in corrispondenza della ferita al costato dell’uomo sindonico. Si fa notare come le differenze tra circolazione venosa e arteriosa sia stata individuata verso la fine del XVI, per cui questo elemento rende assai improbabile l’ipotesi di un falsario medioevale.
5. I segni che presenta l’uomo della Sindone sono compatibili con le testimonianze archeologiche che sono in nostro possesso riguardo le tecniche di supplizio e crocifissione dei romani nel I secolo. In particolare i segni della flagellazione mostrano di esser stati prodotti da uno strumento compatibile con tipi di flagelli romani a noi noti. Dal punto di vista archeologico, inoltre, alcuni studiosi hanno affermato di avere individuato l’impronta di due monete del I secolo sulle palpebre dell’uomo della Sindone, tuttavia tali risultati sono ancora dibattuti.
6. Molto più evidente, e molto interessante, è il particolare dei POLSI: l’uomo della Sindone porta i segni dei chiodi nei polsi, contrariamente a tutte le iconografie tradizionali di Gesù, che lo raffigurano crocifisso nel cavo delle mani. In effetti è stato dimostrato che, crocifiggendo ponendo chiodi nel cavo delle mani, queste non sarebbero in grado di sostenere il peso di un corpo, per cui risulta necessario l’inchiodamento per i polsi.
7. Sulla Sindone sono presenti tracce di POLLINI di svariate specie, le quali forniscono importanti elementi per ricostruirne la storia. In particolare è possibile riscontrare pollini di specie che crescono solo in Palestina, e in Anatolia. Inoltre, in corrispondenza dei piedi, sono state trovate tracce di terriccio, terriccio avente una composizione compatibile con quella della terra di Gerusalemme.
8. È certo che l’uomo della Sindone è rimasto nel telo per non più di 30-36 ore: non vi sono infatti segni di putrefazione. Inoltre non si ha alcuna idea di come il cadavere abbia potuto essere stato estratto dal telo senza lasciare tracce quali striature, quasi che esso fosse PASSATO ATTRAVERSO DI ESSO.
9. Tutti questi elementi porterebbero a propendere per un’ipotesi di autenticità della Sindone. Malgrado ciò, l’esame del carbonio 14 (tecnica che fornisce la datazione di un reperto di natura organica), ha fornito una DATAZIONE MEDIOEVALE del telo. Tale esame, che appare in contraddizione con gli altri elementi, è stato tuttavia da più parti contestato. Si parla di imprecisioni nelle misure e di inaffidabilità della Sindone come oggetto analisi. La Sindone, infatti, ha avuto certamente un storia molto travagliata, ed è scampata a diversi incendi (di uno in particolare ne porta evidentissimi i segni), eventi che possono averne alterato la composizione chimico-fisica. Inoltre i campioni da analizzare sono stati prelevati, per ovvie ragioni, dalle zone periferiche del telo, che tuttavia sono certamente le più contaminate, toccate nel corso dei secoli da migliaia di mani. Ci sono stati anche autorevoli studiosi che hanno avanzato l’ipotesi che in quelle zone vi siano toppe e rammendi. Tutt’ora la questione è dibattuta, ed è comunque evidente che i vari esami sulla Sindone forniscono risultati contraddittori.
10. Al di là In tutto questo, è certo che a tutt’oggi, malgrado svariati tentativi, non sappiamo come la Sindone si sia formata e NON SIAMO IN GRADO DI RIPRODURRE UN’IMMAGINE CHE ABBIA (TUTTE) LE PROPRIETÀ DELLA SINDONE.
Il professor Gonella, che pure rieneva corretto l’esame del carbonio 14, poco prima di morire affermò che, stando alle nostre conoscenze, “LA SINDONE È UN OGGETTO CHE NON DOVREBBE ESISTERE”. Epppure essa c’è e continua a interrogarci.
Il Cardinal Martini al termine del suo recente libro “Sindone. Il Dio nascosto” fa una considerazione molto acuta (cito parafrasando): “A mio parere, proprio in questo suo darci una enorme quantità di indizi sulla sua autenticità ma non una prova definitiva, la Sindone porta la firma del Dio Cristiano, del tipico Metodo seguito dal Dio Cristiano. Ecco, forse proprio questa è la prova della sua autenticità”.
Il contestatore filo-americano - Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 20 aprile 2010
Il Papa deve chiedere perdono e cambiare tutto. Quando l'ideologia fa schierare a fianco del «capitalismo mondiale»
Mentre nel mondo si moltiplicano le iniziative di sostegno al Santo Padre, con inviti a giornate di preghiera, leggo oggi sul sito di Tiscali.it, uno di quelli ideologicamente più impostati:
«Preti pedofili? Ma quale complotto: la Chiesa faccia il mea culpa e affronti il capitolo della sessualità.» Intervista a Don Andrea Gallo uno dei sacerdoti italiani, genovesi, severo fustigatore dei costumi della Chiesa
“La Chiesa sui preti pedofili? Confusionaria, insicura”. Don Andrea Gallo, prete di trincea, definito a più riprese “amico dei tossici, delle trans, delle prostitute”, “protettore dei migranti” per finire su un facilissimo - di questi tempi - “chierico rosso” e “prete comunista”, è senz’altro una delle voci critiche della Chiesa di Roma. E ben vengano tali epiteti se il riferimento è ai suoi cinquant’anni di sacerdozio dalla parte dei diseredati e degli emarginati. Forte della sua missione di “prete degli ultimi”, lungo le “calate dei vecchi moli” della sua Genova - per dirla con l’amico De Andrè -, don Gallo non usa mezze parole per censurare la risposta al “grido” dei cattolici. “E’ un momento nel quale i nostri fedeli ci chiedono di fare, a tempo e a parola, penitenza dei nostri peccati”.
Don Andrea Gallo, che ha le idee più chiare di tutti noi, e non solo di noi fedeli, forse non ha ben compreso il nesso inscindibile tra severità e perdono, prevenzione e salvaguardia dei minori e misericordia: se così non fosse quali speranze di salvezza avremmo.
Non mi arrogo il diritto di giudicare in alcun modo don Andrea, grazie al cielo non compete a me, però non posso esimermi di fare qualche confronto con qualche altro prete di trincea, definito a più riprese “amico dei tossici, delle trans, delle prostitute”, “protettore dei migranti. Come ad esempio San Giovanni Bosco. In piazza San Carlo, Don Bosco poteva conversare con i piccoli spazzacamini, di circa sette o otto anni, che gli raccontavano il loro mestiere e i problemi da esso generato. Insieme a Don Cafasso cominciò a visitare anche le carceri e inorridì di fronte al degrado nel quale vivevano giovani dai 12 ai 18 anni, rosicchiati dagli insetti e desiderosi di mangiare anche un misero tozzo di pane. Dopo diversi giorni di antagonismo, i carcerati decisero di avvicinarsi al sacerdote, raccontandogli le loro vite e i loro tormenti. Don Bosco sapeva che quei ragazzi sarebbero andati alla rovina senza una guida e quindi si fece promettere che, non appena essi fossero usciti di galera, lo avrebbero raggiunto alla chiesa di San Francesco.
Oppure don Benzi, che diceva: “Mossi dallo Spirito Santo a seguire Gesù povero, servo e sofferente, i membri della Comunità per vocazione specifica s’impegnano a condividere direttamente la vita degli ultimi; cioè mettendo la propria vita con la loro vita, facendosi carico della loro situazione...”
Oppure ancora San Filippo Neri, Fiorentino d’origine, si trasferì ancora molto giovane a Roma dove decise di dedicarsi, per la propria missione evangelica, in una città corrotta e pericolosa, tanto da ricevere l’appellativo di “secondo apostolo di Roma”. Radunava attorno a sé un nutrito gruppo di ragazzi di strada,
A fronte di questi esempi di amore vissuto agli ultimi, di amore alla Chiesa ed al Papa, Don Andrea è invece in grado di spiegare gli errori della dottrina cristiana e dei Sommi Pontefici da Giovanni XXIII a Paolo VI, a Giovanni Paolo II, e, non parliamone, di Benedetto XVI? Infatti, a proposito di ciò che dovrebbe cambiare nella Chiesa, dichiara: “Tanto per cominciare l’intero capitolo della sessualità, perché poi è qui il punto, va affrontato. Lei pensi alla contraccezione, l’atteggiamento nei confronti di gay, lesbiche e transgender, il ruolo ancora così subordinato della donna nella Chiesa, le coppie di fatto, i rapporti prematrimoniali, la contraccezione, il vero significato della procreazione, cioè la maternità e la paternità responsabile, il tema del celibato obbligatorio e la bioetica. Tutti temi che vanno affrontati con i laici. Cioè la Chiesa non può imporre la sua visione della bioetica e della sessualità, deve lavorare con gli altri nel rispetto del gioco democratico, nel rispetto della scienza e dico, ad un certo momento, della laicità”.
Fermo restando il principio di combattere il peccato e non il peccatore, mi permetto di rilevare che tutta la morale cattolica andrebbe rivista come piace a lui, a don Andrea ad iniziare da ciò che il Papa ha detto ripetutamente a proposito dei “principi non negoziabili”; non parliamo poi della Humanae Vitae! Ma come si fa ad arrivare a questi gradi di presunzione? Di indifferenza alla Dottrina, pensando che tre o quattro Pontefici, o forse più, l’hanno tradita?
Per concludere, non capisco proprio cosa intenda don Andrea affermando: «nel rispetto del gioco democratico, nel rispetto della scienza e dico, ad un certo momento, della laicità.» Cosa vuol dire? Che si deve cercare il compromesso con gli scienziati che per avvalorare le loro tesi catastrofiste sul clima hanno clamorosamente barato su dati, come ormai è dimostrato; si deve cercare il compromesso con una scienza che pretende di aver scoperto la verità e che domani ne scoprirà un’altra; oppure si deve ricercare il compromesso con il relativismo ed il nichilismo imperanti; o ancora cosa si intende con il rispetto della laicità? Eliminare i simboli religiosi dai luoghi pubblici, specialmente quelli cristiani che sono i più invasivi? Ma in questo momento di crisi, mentre tutti chiedono di aumentare i finanziamenti agli ammortizzatori sociali, dove suggerisce di ricercare gli stanziamenti necessari per demolire tutte le Cattedrali e tutte le Chiese che sorgono in luoghi pubblici?
Caro don Andrea Lei certamente è molto più Santo di me, ma eviti di dire con tanta sicurezza tante assurdità tutte insieme. Non occorre il Suo livello di preparazione teologica per capire che sono proprio assurdità. Anche volendo comprendere le sue posizioni l’approccio dovrebbe essere ben diverso. Ma le sue posizioni non le comprendo.
Lei ha iniziato dicendo: «Ma quale complotto: la Chiesa faccia il mea culpa.» Scusi don Andrea che mea culpa doveva fare, quando, appena eletto Benedetto XVI, gli organi d’informazione uscivano con le vignette sul tedesco divenuto pastore, cioè sul pastore tedesco, o si tratta di .... “normale” satira?
Lei non lo vedrà, può essere, anche se io credo che non lo voglia vedere per avvalorare le sue tesi, ma il complotto c’è eccome se c’è. Come chiama Lei il fatto che l’Associated Press, ed il New York Times hanno dedicato almeno 10 giornalisti a tempo pieno per oltre sei mesi per “questa inchiesta” estesa a molti Paesi, come ha spiegato l’inviato speciale della Rai, la Signora Rosanna Cancellieri in alcuni reportages televisivi dagli Stati Uniti. Il complotto c’è, eccome se c’è ! E poiché c’è, secondo Lei perché c’è? Provi ragionarci.
Ferruccio de Bortoli e il cardinale Tucci sul pontificato di Benedetto XVI - Un'identità forte per parlare con tutti - L'Osservatore Romano - 21 aprile 2010
Milano, 20. "Con Benedetto XVI l'identità cristiana dialoga e rispetta le altre identità, dalle quali chiede a sua volta di essere rispettata. L'essere cristiani non vuole dire essere depositari di una serie di colpe storiche, cosa che qualche volta mi sembra di notare anche nella pubblicistica italiana, ma è qualcosa che incarica di una serie di responsabilità, nel rispetto e nella solidarietà degli altri. E che contempla non soltanto l'affermazione dei valori non negoziabili ma anche di una serie di valori sociali e morali, altrettanto necessari in un mondo sempre più distante, egoista e materialista". È uno dei passaggi dell'intervista rilasciata ieri dal direttore del "Corriere della Sera", Ferruccio de Bortoli, a "Il Sussidiario.net", in occasione del quinto anniversario dell'elezione di Benedetto XVI, un Papa "visto come conservatore" ma che "in realtà ha avviato un confronto a tutto campo molto forte". Egli - spiega de Bortoli - "non chiude il dialogo, lo apre in forme diverse: con la scienza, con gli Stati, con il mondo laico. La Chiesa di papa Ratzinger, forte della propria identità, dialoga senza alcun complesso di inferiorità e senza rinunciare a nessuna parte di se stessa. C'è che Benedetto XVI soffre l'handicap della percezione di un Papa tedesco nelle opinioni pubbliche occidentali, soprattutto nel mondo anglosassone. Proprio per questo sarà interessante il viaggio in Inghilterra".
Sulle sfide che il pontificato di Benedetto pone alla società, il direttore del "Corriere della Sera" osserva come al Papa interessi "un dialogo costruttivo sul versante della morale, dei valori etici non negoziabili. Ma anche sul terreno della presenza sociale della Chiesa. E questo aspetto, a differenza del primo, è rimasto secondo me un po' in subordine. È un difetto che ho riscontrato nel dibattito sulla presenza cattolica nella nostra società". C'è oggi - ha osservato ancora de Bortoli - "un nichilismo imperante che spesso e volentieri dà contro il cristianesimo. Anche nella polemica sul tema, purtroppo triste, della pedofilia c'è una parte della società italiana che assiste da spettatrice non interessata, qualche volta annoiata e qualche volta compiaciuta, a questa disputa che vede il Papa e la Chiesa accerchiati, per molti motivi. Naturalmente, anche per errori commessi". Tuttavia, "La Lettera pastorale ai cattolici d'Irlanda ha un peso rivoluzionario. La Chiesa è chiamata al risarcimento e sta facendo la sua parte, ma sono convinto che sia ancora oggi oggetto di una crociata", che è "dettata da pregiudizi e interessi. Penso con sofferenza alla quasi totalità dei preti che fanno il proprio mestiere ma che probabilmente, oggi, escono di casa con un timore in più. Non è giusto, perché la pedofilia riguarda tutta la società".
Proprio sulle colonne del "Corriere della Sera", domenica scorsa, anche il cardinale Roberto Tucci ha scritto dei primi cinque anni di pontificato di Benedetto XVI: "Quando anni fa - scrive nel suo articolo intitolato "Una lingua nuova capace di parlare ai fedeli e agli atei" - si parlava della sua speranza di essere messo a riposo, di ritornare ai suoi studi, ho sempre pensato che il desiderio più grande del cardinale Joseph Ratzinger fosse di potersi dedicare alla ricerca di un linguaggio nuovo, ciò che già aveva cominciato a fare con le lezioni raccolte in quel libro magnifico che è Introduzione al cristianesimo: proseguire su quella linea, trovare un linguaggio alto che tuttavia sia comprensibile a tutti, ai semplici fedeli come alla gente in ricerca, a chi non crede o a chi crede di non credere. Avevo già più di ottant'anni e non ero un cardinale elettore ma nel 2005, se avessi partecipato al conclave avrei votato sicuramente per lui. Mi sembrava la persona più degna: un grande teologo che è, soprattutto un uomo di grande spiritualità. E quando venne eletto pensai subito che sarebbe stato un grande pontificato, un pontificato che avrebbe fatto la storia. Questi cinque anni me lo hanno più che mai confermato".
Benedetto XVI - ha scritto il cardinale Tucci - "è un Papa che ha cercato e trovato un linguaggio nuovo: nelle omelie, nelle udienze del mercoledì, nelle encicliche. È importante l'immagine biblica del "cortile dei gentili", l'atrio esterno del Tempio di Gerusalemme, che ha evocato di recente parlando del dialogo con i credenti". Il Pontefice "è convinto che tanta gente sia in ricerca ma non trovi una persona che li aiuti a mostrare ciò che c'è già dentro di loro: quasi un metodo maieutico, socratico. Sbaglia chi ritiene che il Papa sia in una posizione di conflitto con la cultura del nostro tempo. Se c'è uno che conosce bene il pensiero laico contemporaneo è Benedetto XVI, come si è visto ad esempio nel confronto con Jürgen Habermas. La sua cultura è vastissima, anche se non la fa mai pesare. E quando discute, certo, non molla. Ma una cosa è sicura: colui che discute con il Papa si rende conto che il Papa lo capisce, lo ascolta e lo capisce. Anche se non è d'accordo con la sostanza, si sente che ti ha ascoltato e ne tiene conto".
Anche sulla questione degli abusi - ha sottolineato il cardinale Tucci - Joseph Ratzinger "sin da quando era cardinale ha mostrato una capacità d'intervento tempestivo, chiaro, anche compromettente". Da buon intellettuale "Benedetto XVI ci pensa a fondo e, una volta deciso, affronta i problemi senza paura: come ci ha mostrato nella lettera ai cattolici irlandesi". Secondo il cardinale "ci vorrà tempo per giudicare" il pontificato di Benedetto XVI "e per vedere, dagli effetti delle sue decisioni, che aveva visto giusto".
(©L'Osservatore Romano - 21 aprile 2010)
Intervista a Mona Siddiqui, musulmana, docente di studi islamici all'università di Glasgow - Dio è misericordioso Per tutti - di Tania Mann - L'Osservatore Romano - 21 aprile 2010
"Il Corano non afferma mai che le scritture di altre religioni debbano essere abrogate, anzi indica che il nucleo essenziale comune a tutti gli uomini è costituito da due elementi: la fede in Dio e la sua misericordia": Mona Siddiqui, pakistana, insegna Studi islamici all'università di Glasgow, dove ha fondato il Centro per gli studi sull'islam, di cui è direttrice. Impegnata nel dialogo con le altre religioni, ha teorizzato una teologia islamica innovativa, che apre alle altre fedi, soprattutto quelle monoteiste. Il 5 maggio prossimo è attesa a Roma, dove terrà una relazione nel corso di un convegno presso la Pontificia Università di san Tommaso d'Aquino dedicato al dialogo interreligioso. In questo colloquio con "L'Osservatore Romano", la studiosa spiega i punti principali della sua prospettiva sul rapporto fra islam, ebraismo e cristianità.
Lei è di origini pakistane. In Pakistan i cristiani accusano le leggi sulla blasfemia, che secondo loro vengono usate per giustificare vere e proprie persecuzioni. Ciò contribuisce a trasmette in Occidente un'immagine particolare dell'islam. Cosa fare di fronte a questo tipo di problemi?
Ciò che la fede rappresenta per una persona può essere molto di verso da quello che rappresenta per un'altra. Così, per alcune persone, le leggi sulla blasfemia in molti Paesi islamici, sono la verità, ossia proprio quello che Dio desidera nel contesto dell'islam. Altre torneranno alle scritture e alla teologia e all'antropologia islamiche. Guarderanno alle questioni interreligiose, al percorso dei diritti umani, della democrazia e diranno che la scrittura è fluida ed elastica abbastanza da darci una varietà di interpretazioni che sono parallele al progresso umano. Secondo me, è veramente importante che persone di diversa formazione, non solo accademica, interessate a come la società civile può essere proiettata verso il futuro invece che reazionaria, si impegnino in questi dibattiti e capiscano che l'oppressione nel nome della fede non può mai essere positiva. Il dibattito deve soprattutto coinvolgere persone di ogni formazione, affinché capiscano che ciò che viene fatto in nome della fede spesso purtroppo si colloca fra l'intolleranza e l'oppresione. E questo non può essere un bene né per le loro fede e la loro comunità né per le altre fedi e le loro rispettive comunità.
Lei ha evidenziato la necessità di una teologia islamica centrata in maniera più spiccata sulla compassione più che sul concetto di salvezza e che quindi sia anche più inclusiva. Come si dovrebbe caratterizzare tale teologia?
Ora le cose stanno cambiando perché molti, anche a livello accademico, stanno operando affinché le persone capiscano che, in molti circoli non possiamo più essere rappresentati dalla fede in maniera esclusiva. Quindi, se una persona rappresenta l'islam e lo fa barricandosi dietro al concetto di essere salvata per la sua fede, e convinta che la sua via di salvezza, per dirla semplicemente, sia l'unica, ciò non le permette di interagire con molte persone. Personalmente non so se la mia verità è l'unica. Non ho modo di saperlo. Non posso ridurre la scrittura e Dio a una sola verità. In particolare, penso al Corano, che ritrae le altre fedi in modo molto vario ma insiste sull'invito fondamentale a credere in Dio. Se credere in Dio è il nucleo essenziale della salvezza, allora certamente i modi espressivi di tale credo devono essere aperti a modalità di pensiero più nuove e che considerino il modo in cui crediamo in Dio e quale bene apportiamo alla società umana con il nostro credo. L'unica cosa che posso fare è prendere in considerazione le altre persone, credenti e non, basandomi su compassione e misericordia. Se non altro, il messaggio coerente del Corano, anche se si toglie tutto il resto, è che Dio è misericordioso. Ora, se Dio è misericordioso, come posso esprimere tale misericordia nella mia vita reale? Di certo, non lo posso fare con la convizione di possedere tutta la verità e avviando un dialogo partendo da questa premessa. Secondo me non è questo il modo per dialogare.
Con la sua opera teologica ha tentato di dimostrare che la prospettiva musulmana tradizionale, secondo la quale le scritture ebraiche e cristiane sono considerate "corrotte", può essere reinterpretata. In che modo?
Una delle cose interessanti riguardo alla teoria dell'abrogazione, che è stata in definitiva sviluppata dall'islam, è l'interrogativo in virtù del quale ci si chiede - oltre se alcuni i versi del Corano si abroghino gli uni con gli altri - anche se il Corano abroghi le scritture predecenti. Questo si basava sul concetto che, forse, le altre scritture erano giuste al tempo della rivelazione, ma poi sono state corrotte dai loro credenti. Tuttavia, in realtà, la cosa veramente interessante è che il Corano non afferma da nessuna parte che le precedenti scritture sono corrotte o devono essere abrogate. Parla di persone che seguono credi errati. Il principale esempio di questi errori è, secondo i musulmani, che i cristiani hanno diviso Dio. Ora, parlando forse crudamente, io credo ci siano più sfumature nel modo in cui il Corano guarda alla Trinità, ma esso non afferma che queste religioni debbano essere abrogate. Secondo me, semplificando si potrebbe dire così: analizzando i pensieri ebraico e cristiano, ci accorgiamo che anch'essi si sottomettono a Dio a loro modo, e se questo è il nucleo essenziale che ci unisce, allora è un nucleo molto importante. Non è qualcosa che possiamo mettere da parte. Non possiamo dire che, pur credendo in Dio, quello che però conta in realtà è tutto il resto.
Allora in quali termini si deve porre il dialogo fra le tre religioni monoteiste?
In termini di opera umanitaria accadono alcune cose. So per esempio che organizzazioni cristiane e musulmane si sono riunite per alcune iniziative. Esistono anche gruppi che cooperano indipendentemente dalla fede e dalla formazione dei loro membri. Penso che esistano reali progressi perché le persone sanno che con gli effetti della globalizzazione, le culture, le civiltà si scontrano e lo spazio diviene sempre più piccolo. In particolare negli ultimi 50 anni, con le migrazioni, è molto difficile individuare un'area che sia in predominanza cristiana o musulmana o ebrea. Così le persone stanno già vivendo in queste società miste ed è inevitabile trovarsi insieme allo stesso livello. Che questo livello sia personale, professionale o sociale è comunque fonte di arricchimento. Non penso che dovremmo sottovalutare il livello sociale perché è qui che si verificano veramente cambiamenti nella mente umana.
E a livello spirituale?
È di certo importante considerare e ascoltare che cosa dicono i responsabili religiosi. La guida religiosa seguita dai membri di una comunità è riconosciuta anche da quelli di altre. Quando i responsabili di due fedi dicono qualcosa, indipendentemente da ciò in cui crediamo, sappiamo che questo avrà una portata planetaria. Così, penso che sia molto importante che le persone capiscano che essere religiosi oggi significa essere interreligiosi. Non si può più parlare per una sola comunità. Bisogna riconoscere che anche altre comunità vengono influenzate da ciò che si dice. A volte le persone si sentono distanti, ma altre volte reagiscono.
Che cosa può dire riguardo ai temi etici, per esempio a proposito della morale sessuale?
Per me la questione del genere sessuale ha attinenza con il modo in cui la società opera, con il rapporto fra uomo e donna. La questione del modo in cui le donne hanno voce nella vita privata, pubblica e, fino a un certo punto, religiosa è ovviamente molto importante nelle tradizioni di fede. Tuttavia, credo che nell'islam guardiamo a come le donne, in particolare le musulmane in Occidente, cercano di trovare spazi alternativi per discorsi religiosi in cui la loro voce abbia un peso e sia considerata pari a quella degli uomini, perché la società è fatta da entrambi i sessi. Privarle della libertà di espressione in questioni di religione o di sensibilità religiosa non è un modo per far prosperare la società.
Qual è la cosa che l'Occidente deve soprattutto tenere a mente per non avere una visione distorta dell'islam?
A vari livelli, l'islam è stato al centro dell'attenzione negli ultimi anni, in parte per l'11 settembre, in parte per la tendenza a far coincidere l'islam se non con il fondamentalismo, almeno con una fondalismo militante che ha oscurato molto del pensiero tradizionale sull'islam. Dall'essere la religione degli altri, che non riguardava l'Occidente, l'islam è diventato improvvisamente l'interesse dominante di circoli politici e civili. Le persone hanno dovuto ripensare il significato di democrazia e dei diritti a essa collegati. Penso che i musulmani, per lo più, vivano bene in Occidente e non si sognerebbero mai di di ritornare da alcuna altra parte. Penso inoltre che molti musulmani si mettano in posizioni difensive perché appurano che qualsiasi discorso sull'islam militante o sul fondamentalismo ha delle ripercussioni su di loro. D'altra parte ci sono musulmani che pensano: "Non possiamo veramente parlare dell'islam in modo negativo perché questo potrebbe urtare la suscettibilità della gente". Quindi, c'è una sorta di polarizzazione nel dialogo fra le persone. Come ho detto anche in passato, il modo in cui i media parlano delle religioni monoteiste si riduce al fatto per esempio che la Chiesa cattolica ha a che fare con gli abusi sessuali, l'islam con il terrorismo e la Chiesa anglicana con l'omosessualità e la crisi che ne consegue. Ogni argomento affrontato diventa così materiale inffiammabile. Non voglio dire che non siano argomenti da affrontare, ma penso che siano stati così amplificati che non si può parlare d'altro. Non mi riferisco necessariamente ad altro di buono. Mi riferisco al pensiero critico, che deve proseguire, sulla nostra convivenza, sul modo di parlare dell'etica sociale ed economica, sull'educazione. Per alcuni versi, il dibattito religioso va mantenuto vivo nella psiche collettiva, ma con più sfumature, in modo da non ridurre la religione a qualcosa di negativo per la società globale.
Il suo impegno con i mezzi di comunicazione sociale ha influenzato la sua opera accademica?
In un certo qual modo il mio impegno con i mezzi di comunicazione sociale è stato un modo per ampliare il mio modo di pensare. Perché pongono domande così dirette che non si può rispondere in maniera sfumata, lunga o sconclusionata. Quindi sei costretto a pensare: "Che sto dicendo?". I mezzi di comunicazione sociale per molte persone sono l'unico canale per imparare qualcosa nella vita. Quando pronuncio lezioni pubbliche, sento che le persone sono affamate di una teologia accessibile, che vogliono andare oltre le modalità di comunicazione dei media e che proprio a causa di queste modalità sono interessate a sapere quali sono gli altri pensieri sulla religione. Anche se le persone pensano che la religione sia completamente sulla rotta sbagliata, che non esista un posto per la religione o per Dio nella vita, sanno anche che gli uomini sono naturalmente attratti da ciò che è oltre loro stessi.
(©L'Osservatore Romano - 21 aprile 2010)
Migliaia di persone hanno manifestato per le strade - La marcia per i diritti dei cristiani di Bhopal - L'Osservatore Romano - 21 aprile 2010
Bhopal, 20. Circa cinquemila cristiani hanno manifestato domenica scorsa pacificamente per le vie di Bhopal, nel Madhya Pradesh, per chiedere il rispetto dei loro diritti di cittadini e maggiore tutela. Al corteo, organizzato dall'arcidiocesi di Bhopal, hanno preso parte anche diversi politici e rappresentanti di altre confessioni religiose.
I manifestanti, insieme all'arcivescovo Leo Cornelio, hanno marciato con striscioni e bandiere chiedendo alle autorità locali più rispetto e maggiore sicurezza per la comunità cristiana, troppo spesso nel mirino di attacchi e di soprusi da parte di gruppi organizzati. L'arcivescovo Cornelio e altri leader cristiani hanno affermato che il partito di ispirazione indù Bharatiya janata party (Bjp) che governa lo Stato dal dicembre del 2003 ha costretto i cristiani a mettersi da parte e a vivere in una condizione di estremo disagio.
"Siamo stati messi all'angolo senza alcuna possibilità di movimento - ha sottolineato l'arcivescovo Cornelio - non abbiamo libertà di esprimere le nostre opinioni e ci viene impedito di professare la nostra fede. Il Governo, purtroppo, non sta facendo nulla per impedire le violenze nei nostri confronti, questo facilita sempre più la reazione dei gruppi estremisti. Nel Madhya Pradesh i cristiani sono meno dell'uno per cento su una popolazione di circa cinquantacinque milioni di persone, mentre gli indù rappresentano il novantuno per cento, il restante otto per cento è costituito da buddhisti, giainisti, musulmani, sikh e zoroastriani. Le minoranze religiose, soprattutto i cristiani - ha aggiunto monsignor Cornelio - sono diventate bersaglio di una campagna ostile che le costringe a vivere sotto costante minaccia e violenza. Negli ultimi sette anni - ha ricordato l'arcivescovo - si sono verificati numerosi attentati nei confronti della comunità cristiana. L'ultimo episodio risale allo scorso 17 aprile, quando un gruppo armato ha attaccato alcuni fedeli riuniti in preghiera. Quel giorno un uomo è morto e altri tre sono rimasti feriti. Molto spesso - ha aggiunto - la polizia, nel corso delle indagini, non è imparziale e dalla ragione si passa subito al torto con conseguenze drammatiche. Anche noi cristiani siamo cittadini di questo Paese e chiediamo di poter condurre una vita dignitosa e pacifica al pari di altre comunità religiose".
La manifestazione organizzata dall'arcidiocesi di Bhopal ha ricevuto il sostegno di eminenti leader musulmani e di numerosi esponenti politici del Madhya Pradesh, i quali hanno elogiato il contributo dei cristiani all'edificazione del Paese. "I cristiani - hanno detto gli esponenti delle altre comunità religiose - non si dedicano alla violenza, ma lavorano per il miglioramento sociale e per la pace, nonostante ciò vengono perseguitati e minacciati per la loro disponibilità e propensione nell'aiutare gli altri".
(©L'Osservatore Romano - 21 aprile 2010)
Ricomincio da capo - Lorenzo Albacete - mercoledì 21 aprile 2010 – ilsussidiario.net
La sera di venerdì scorso la rete televisiva via cavo “The Weather Channel” ha mandato in onda il film del 1993 Groundhog Day ( “Ricomincio da capo”, nella versione italiana.) Il film racconta la storia di un egocentrico e acido meteorologo della Tv, Phil Connors (Bill Murray), della sua nuova producer Rita (Andie MacDowell) e del cameraman Larry (Chris Elliott), il team di una stazione televisiva di Pittsburgh.
I tre si recano a Punxsutawney, Pennsylvania, per coprire l’annuale celebrazione del Groundhog Day, cioe il Giorno della Marmotta, che viene festeggiato il 2 febbraio. Secondo una tradizione vecchia più di un secolo, in questo giorno di mezzo inverno una marmotta viene fatta uscire dalla gabbia in cui è stata tenuta. Se l’animale torna nella sua gabbia, questo significa che l’inverno durerà ancora sei settimane.
Phil, che si è stufato del suo incarico, della piccola città e dei suoi compagni, finisce di malavoglia il servizio e cerca di tornare a Pittsburgh, ma una tormenta (che lui aveva previsto non avrebbe toccato l’area) blocca tutte le strade e obbliga i tre a restare ancora un giorno nella cittadina.
La mattina seguente, Phil si sveglia e scopre di essere ancora nel giorno prima, il 2 febbraio. Il giorno trascorre esattamente come il precedente, ma solo Phil è cosciente del circolo temporale e conosce quindi gli avvenimenti passati. All’inizio è confuso ma, visto che il fenomeno continua a ripetersi, decide di trarre vantaggio dalla situazione, tanto non deve temere conseguenze nel lungo termine. Per esempio, viene a conoscenza dei segreti degli abitanti, seduce donne, ruba denaro e guida ubriaco. I suoi tentativi con Rita, però, falliscono.
Alla fine, Phil va in depressione e tenta in tutti i modi di interrompere il circolo temporale: redige rapporti ridicoli od offensivi della festa, maltratta gli abitanti e, alla fine, rapisce la marmotta. Inseguito dalla polizia, finisce in una cava uccidendo apparentemente se stesso e la marmotta. Invece, Phil si risveglia e niente è cambiato. Anche i tentativi successivi di suicidarsi rimangono senza risultato e continua a svegliarsi la mattina del 2 di febbraio.
Quando Phil spiega la situazione a Rita, lei gli suggerisce di tentare di sfruttarla per migliorare se stesso. Phil si impegna a cercare di imparare di più su Rita e sul resto della città, acquisendo giorno dopo giorno una cospicua conoscenza che utilizza per aiutare la popolazione della città. Impara, tra le altre cose, a suonare il piano, a scolpire il ghiaccio e a parlare francese. Soprattutto, Phil impara a essere amichevole con chiunque incontri, usa le sue conoscenze per salvare vite e aiutare gli abitanti della cittadina e si avvicina sempre più a Rita. La sua relazione sul Giorno della Marmotta è talmente ben fatta che anche le altre stazioni televisive ora si rivolgono a lui.
Finalmente, un giorno Phil si sveglia e si accorge che il circolo temporale si è rotto: è il 3 febbraio e Rita è con lui. Ora Phil è una persona completamente diversa e il film termina su di lui e Rita che stanno pensando di fermarsi a Punxsutawney per vivere insieme.
Non ho potuto fare a meno di pensare a questo film mentre, questa settimana, guardavo le notizie alla televisione o leggevo i principali giornali. Mi sono sentito come Phil, preso in una specie di circolo temporale con sempre le stesse notizie e, soprattutto, con le stesse soluzioni ideologiche proposte giorno dopo giorno, sera dopo sera. Possono cambiare i particolari, i nomi dei personaggi coinvolti, possono essere offerti programmi speciali con titoli diversi, ma gli argomenti e le soluzioni suggerite per i problemi concreti sono sempre le stesse.
Io posso essere solidale con i tentativi di Phil di uscire da quella situazione e posso anche capire il suo comportamento criminale e violento. Capisco anche perché il suo amore crescente per Rita lo abbia cambiato: anch’io ho la mia “Rita”. La mia Rita è una Presenza riconosciuta attraverso la fede che ci insegna come trasformare l’attuale circolo temporale in una sorgente di carità per gli altri, ed è la Presenza del Cristo Risorto. Egli è capace di fare di ogni giorno un nuovo giorno, permettendo di svegliarci ogni mattina a un 3 febbraio completamente nuovo.
IL CASO/ Una donna: vi racconto lo strazio infinito del mio aborto facile con la Ru486 - Gianfranco Amato - mercoledì 21 aprile 2010 – ilsussidiario.net
Non fatevi ingannare. La pillola abortiva RU486 non è affatto un’alternativa dolce all’intervento chirurgico. Le pillole da prendere, in realtà, sono due: con la prima si uccide il feto, con la seconda, da assumere due giorni dopo, si causano le contrazioni necessarie per la sua espulsione.
Questo sistema per procurare l’aborto chimico viene spacciato come un metodo più semplice e psicologicamente accettabile di quello chirurgico. Un metodo più moderno, più rispettoso dell’integrità fisica e psichica della donna, meno invasivo e meno rischioso. In realtà, l’esperienza di molte donne che sono ricorse alla RU486 racconta un’altra storia.
Dopo che hai ingoiato la prima pillola, sai che quel giorno stesso tuo figlio morirà, e resterà attaccato lì, morto, dentro il tuo ventre. Il suo cuoricino, che il giorno prima hai ascoltato durante l’ecografia, smetterà di battere. Per sempre. È l’effetto della prima pasticca, che tu devi mettere in bocca da sola, perché da sola sei lasciata a sopprimere quella vita che tu stessa hai deciso di eliminare.
Lo capisci subito la sera stessa che quel figlio è morto, perché senti improvvisamente sparire tutti quei segni di gravidanza che le donne ben conoscono, primo fra tutti il seno più turgido, e quella piccola tensione del basso ventre tipica dei primi mesi di gravidanza.
Poi viene il momento peggiore: quello dell’attesa. Devi aspettare tre lunghi giorni, nei quali continui a fare quello che hai sempre fatto, lavorare, camminare, mangiare, dormire, andare al cinema. Cerchi di distrarti, ma sai che hai quel “coso” morto lì dentro che deve essere eliminato, espulso, cioè abortito.
In quei tre giorni, poi, hai tutto il tempo per pensare e riflettere su quello che ti è accaduto e che ti accadrà, hai il tempo per pregare e per piangere. Ti senti una specie di assassina in libertà e ti chiedi perché mai hai accettato questo maledetto metodo. Arrivi persino a pensare che forse sarebbe davvero stato meglio far fare tutto al medico. In anestesia, in sala operatoria, non avresti sentito né provato nulla, ti saresti risvegliata pulita e liberata dal tuo problema. Tutto sarebbe durato meno di un’ora.
Invece, dopo quei tre lunghissimi giorni di attesa, devi ripresentarti in ospedale per la seconda pillola, nella speranza che tutto finisca più in fretta possibile. Anche quella pasticca ti viene messa in mano e sei tu che la devi mandare giù. Sei tu l’unica e sola mandante e autrice di un piccolo omicidio, quello del tuo figlio mai nato, e senti che una parte di te sta per sparire per sempre, che non tornerà mai più ed è una sensazione solo tua, di solitudine, che non condividi nemmeno con l’anonima infermiera che ti consegna la pillola nella garza sterile. A quel punto però la ingoi subito perché speri che tutto finisca più in fretta possibile.
Non sai ancora che, da quel momento, ti prepari ad assistere, a partecipare e a effettuare il tuo “avveniristico” aborto terapeutico. Intanto, oltre alla situazione dolorosa, vieni pervasa dall’ansia dell’arrivo dei dolori fisici. I medici ti spiegano che si tratterà di una sorta di minitravaglio, con qualche contrazione uterina, lievemente dolorosa, ma essenziale per provocare il distacco del feto, ormai morto, dalla parete uterina e per la sua espulsione, e che comunque sarebbe stato eliminato facilmente, misto con del sangue. I medici ti spiegano che sarà come avere delle mestruazioni più dolorose del solito.
Invece il dolore è molto più forte, le contrazioni molto più lunghe e la consapevolezza di quello che sta avvenendo rende tutto più nauseante, orribile e terribile insieme. E assistere a tutto questo diventa insopportabile. Piangi per il dolore fisico, ma soprattutto per il dolore dell’anima, per la partecipazione attiva a un evento che mai avresti voluto vivere e osservare da così vicino.
Poi, quando tutto è finito, quando tutto è compiuto, la procedura ti obbliga anche a verificare di persona che effettivamente l’aborto farmacologico sia ben riuscito, per cui ti viene effettuata l’ecografia di controllo, che trasmette dallo schermo l’immagine pulita del tuo utero non più “abitato”, ma vuoto e libero dal corpo estraneo che si è voluto medicalmente eliminare. Non si sente più nessun battito galoppante, nessun segno di vita, ma solo silenzio di morte. E un infinito, straziante senso di colpa.
La descrizione che ho fatto non è frutto di creatività letteraria ma corrisponde, purtroppo, alla drammatica testimonianza resa da una mia collega, un’avvocatessa di trentaquattro anni, che ha avuto la disavventura di ricorrere all’aborto chimico cinque anni fa, quando la Regione Toscana ha deciso di attuare la somministrazione della RU486 in via sperimentale. La testimonianza rende drammaticamente l’idea di quanto poco di “dolce” ci sia nella tanto decantata pillola abortiva RU486.
Se non si ha il coraggio di osservare la realtà per quello che essa è, si rischia sempre di restare prigionieri dei luoghi comuni dell’ideologia. E facili prede degli ingannevoli messaggi subliminali del Potere.
20/04/2010 – INDIA - L’assassino pentito di suor Rani: “I cristiani, speranza per l’India” - di Nirmala Carvalho - Samandar Singh si è pentito dopo aver ucciso la religiosa nel 1995. Oggi è un uomo diverso, che aiuta i tribali e considera la famiglia di suor Rani “la sua famiglia”. Ma conferma il clima di odio anti-cristiano che attraversa l’India e invita i suoi connazionali a vedere la verità sulla presenza dei missionari nel Paese.
Udaya Nagar (AsiaNews) – “Sono pienamente responsabile dell’omicidio di un’innocente, una religiosa che voleva soltanto aiutare i più poveri. Mi pentirò di quanto ho fatto per il resto della mia vita. Non voglio neanche dire di essere stato istigato: sono state le mie mani a colpire”. Lo dice ad AsiaNews Samandar Singh, l’uomo che il 25 febbraio del 1995 uccise con diverse coltellate suor Rani Maria. La diocesi di Indore, dove operava la suora, ha concluso l’inchiesta diocesana sul suo conto: ora è il Vaticano a dover decidere se il suo è stato o meno martirio per la fede.
In ogni caso, un primo miracolo suor Rani Maria sembra averlo fatto: il suo assassino si è pentito ed è entrato nella famiglia della religiosa. Ora, dice, “cerco nel mio piccolo di seguire il suo esempio, aiutando chi è meno fortunato di me: i tribali cristiani e tutti coloro che vengono emarginati”. Arrestato subito dopo l’omicidio, l’uomo ha trascorso undici anni in galera. In questo periodo la moglie ha divorziato da lui e si è risposata: inoltre, il suo primo figlio è morto.
Mentre meditava vendetta contro l’uomo che lo aveva spinto a uccidere la suora, ha ricevuto la visita di suor Selmi Paul, sorella di suor Rani. Questa lo ha abbracciato e lo ha chiamato fratello; lo stesso hanno fatto la madre e il fratello della religiosa assassinata. Il gesto ha profondamente colpito Samandar, che ha iniziato il proprio cambiamento arrivando ad abbandonare ogni proposito di vendetta e vivere il dolore per l’omicidio.
L’uomo è uscito di prigione grazie a una petizione in suo favore firmata dalla famiglia di suor Rani, dalla responsabile delle suore Clarisse e dal vescovo di Indore. Visto però che la scarcerazione tardava, la delegazione si è recata dal governatore della zona che gli ha detto: “Soltanto voi cristiani siete in grado di perdonare veramente. Siete un esempio per tutti: andate, e io farò tutto il possibile per esaudire le vostre richieste”.
Samandar, uscito di galera, ha iniziato a considerare la famiglia di suor Rani come la propria: “Visito con regolarità la tomba della religiosa: è un santuario di pace e forza. Voglio dire a tutti che i cristiani lavorano per fare grande l’India. I missionari ci danno speranza con il loro servizio, teso a rendere indipendente e più forte il nostro popolo”.
Tuttavia, egli conferma l’animosità e l’odio animato dalla destra nazionale contro i cristiani: “Prima di spingermi a uccidere, ho sentito tante falsità intrise d’odio conto i missionari e i fedeli cristiani. Mi dicevano che convertivano le persone con l’inganno, e che il loro lavoro fra i poveri era soltanto una copertura. Ma ora posso dire senza alcun dubbio che i missionari non fanno altro che lavorare e aiutare i poveri e gli emarginati. Non hanno alcuno scopo segreto, se non quello di servire Dio”.
LA LEZIONE DEGLI STATI VEGETATIVI - QUANDO LA MEDICINA ABBRACCIA IL MISTERO DELLA PERSONA - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 21 aprile 2010
È accaduto a tre famiglie di persone in stato vegetativo: un team medico che lavora in un centro di avanguardia per gli studi sul coma, in Belgio, è venuto in Italia, e per di più completamente a titolo gratuito, su richiesta dei familiari di persone per le quali le diagnosi erano ' senza speranza', per esaminarne le condizioni. Risultati? Qualcuno sorprendente, complessivamente un’esperienza preziosa. Dovrebbe sempre funzionare così, il rapporto medico-paziente, nel ventunesimo secolo, quel lo del poderoso progresso medico-scientifico: una corretta informazione sui media, il contatto dei familiari con gli specialisti, l’arrivo degli studiosi, l’applicazione di protocolli medici innovativi, e qualche volta anche una diagnosi più adeguata. Sempre, comunque, uno scambio proficuo di conoscenze fra gli addetti ai lavori, dagli studiosi del settore a chi si occupa dell’assisten za quotidiana. Nessuna guarigione improvvisa, intendiamoci, ma nuove diagnosi e soprattutto un approccio diverso nei confronti di persone che, nella mi gliore delle ipotesi, sono ben curate ed assistite nel quotidiano ma ' abbandonate' scientifica mente. D’altra parte, per quale motivo un giovane studioso di medicina dovrebbe impegnarsi a osservare e capire le condizioni di una persona che da quattordici anni (come uno dei tre pazienti visitati) non dà segni di consapevolezza di sé? Persone con cui non si riesce a comunicare, a stabilire un contatto? Che illustri scienziati non esitano a definire «vegetali», «né morti né vivi » , con una « vita artificiale » , e potremmo con tinuare nell’elenco, tanto lungo quanto offensivo di e spressioni ed epiteti buoni solo a descrivere una vita non più degna di essere vissuta, e quindi an cor meno di essere compresa, studiata e accompagnata?
Il motivo è semplice, e lo hanno ben capito co loro che hanno incontrato medici e studiosi ( co me quelli venuti dal Belgio, ma non solo) che di questo si occupano: quelle in stato vegetativo so no innanzitutto persone, pienamente persone. E come tali vanno trattate.
Esseri umani in uno stato ancora poco cono sciuto, dei quali sappiamo solo che con loro non riusciamo a stabilire un contatto come si fa abitualmente: con la parola, lo sguardo, i gesti. Non siamo in grado di escludere ma neppure di ipo tizzare, e tanto meno di immaginarne le sensa zioni, i sentimenti, i pensieri, il grado di coscienza e di consapevolezza di sé.
Vegliano e dormono, respirano come noi, e il resto è mistero. Un mistero che nuove conoscenze stanno cercando di sondare, e i primissimi risultati sono promettenti. Lo sviluppo delle neuroscienze – di queste stiamo parlando – inizia ad aprire una finestra affacciata su un mondo finora buio e inaccessibile, quello delle persone con gravi disturbi della coscienza, coloro che si trovano in stato vegetativo: la tecnologia e le conoscenze necessarie per i nuovi percorsi di diagnosi sono a portata di chiunque intenda servirsene, non ci sono ostacoli insormontabili. Non si tratta di alimentare illusioni, ma di incoraggiare fortemente gli studi nel settore, perché solo da que sti potranno venire – forse, un giorno – percorsi riabilitativi o modalità impreviste per relazionarsi e comunicare con persone colpite da disabilità profonde ed estreme. Risultati che arriveranno solamente a condizione che ci si ricordi sempre di avere di fronte uomini e donne come noi, vivi, con la nostra stessa dignità, tutta intera. Misteriosamente, in comprensibilmente, ma pienamente persone.
LE ACCUSE (AMPLIFICATE) ALLA CHIESA E LA SUA VOCAZIONE - Il «costoso» servizio alla verità di chi non cerca il consenso - GIACOMO SAMEK LODOVICI – Avvenire, 21 aprile 2010
P erché la Chiesa è quasi quotidianamente sotto attacco e lo sarà sempre fino alla fine della storia? Certo, gli uomini che la compongono non sono e non saranno mai tutti irreprensibili, ma l’impeccabilità non appartiene all’uomo; dunque, quantunque auspicabile, non si può esigerla neanche dagli ecclesiastici. Certo, gli uomini di Chiesa a volte (ma decisamente meno di quanto dicano le accuse di ieri e di oggi) si macchiano di colpe gravi, che vanno sanzionate, e fa molto più rumore un albero che cade, per esempio un sacerdote che traligna, di una foresta che cresce, cioè la moltitudine di uomini di Chiesa retti e finanche santi che spendono la loro vita nell’amore di Dio e del prossimo, nel silenzio e nell’anonimato.
Ma perché il mondo amplifica il rumore quando un sacerdote commette il male? E perché, spesso, inventa in malafede accuse inconsistenti? Il Papa, in un’omelia tenuta giovedì della settimana scorsa, ha detto che anche oggi, anche in Occidente, esistono forme sottili di dittatura: «Un conformismo, per cui diventa obbligatorio pensare come pensano tutti, agire come agiscono tutti, e la sottile aggressione contro la Chiesa, o anche meno sottile, dimostrano come questo conformismo può realmente essere una vera dittatura». In effetti, la Chiesa dà molto fastidio perché proclama quelle verità che Dio le ha affidato da annunziare in un mondo che, non di rado, non solo nega (giustamente) che la verità sia totalmente accessibile all’uomo, ma ritiene (erroneamente) che sia del tutto inconoscibile.
Soprattutto, la Chiesa ha innumerevoli nemici perché parla di etica, cioè del bene e del male, perché difende il vero amore, l’essere umano nascente e quello non cosciente, ecc.
Insomma, la Chiesa fa l’opposto di chi vuole cercare il consenso, perché piuttosto serve la Verità: esprime valutazioni morali, dice cose controcorrente, e ciò la rende molto sgradevole, le costa persecuzioni morali (quando l’opinione pubblica la biasima, quando si scatenano le campagne di stampa, ecc.) o materiali (leggi anticlericali, espropri, arresti, uccisioni). Per la Chiesa sarebbe molto vantaggioso evitare i discorsi etici: che cosa guadagna pronunziandoli? Critiche, insulti, disprezzo, accuse e, talvolta, persecuzioni.
Sarebbe molto più comodo, ma la Chiesa non deve cercare il consenso. Come diceva il grande poeta Eliot, essa deve ricordarci che la nostra condizione è malata. Eliot usa per la Chiesa l’immagine di un’infermiera morente (perché tante volte è stata sul punto di soccombere durante la storia) che aiuta Cristo, un chirurgo ferito (perché crocifisso), che, con un bisturi, interviene su un corpo malato, cioè redime l’uomo dal male. Quest’infermiera collabora con lui a compiere l’intervento chirurgico, che per il malato (l’uomo in preda al male) è ovviamente doloroso. Meriterebbe dunque di essere reiteratamente ringraziata, non messa sotto accusa.
Si dice che la Chiesa dovrebbe parlare solo di Dio e della vita eterna, non di etica. In realtà deve fare tutte e due le cose, e l’etica deriva (anche) proprio dal discorso sulla vita eterna, come ha ricordato sempre il Papa: «Noi oggi abbiamo spesso un po’ paura di parlare della vita eterna […] ma che la sua [dell’uomo] meta sia la vita eterna e che dalla meta vengano poi i criteri della vita, non osiamo dirlo».
Del resto, il mandato del Vangelo è chiaro: «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio».