venerdì 30 aprile 2010

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Intervento del segretario generale della Conferenza episcopale italiana - Sugli abusi sessuali ogni generalizzazione è indebita - Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento del segretario generale della Conferenza episcopale italiana, vescovo Mariano Crociata, alla riunione della Commissione presbiterale italiana, che si conclude oggi a Roma. - di Mariano Crociata - L'Osservatore Romano - 30 aprile 2010
2) “SPERO CHE I MIEI LETTORI SENTANO IL BISOGNO DI LEGGERE NEWMAN” - Pubblicato un libro di monsignor De Berranger - di Anita S. Bourdin
3) INDIA: ASSASSINATO UN SACERDOTE A MUMBAI - Padre Peter Bombacha gestiva una casa per il recupero degli alcolisti - NUOVA DELHI, giovedì, 29 aprile 2010 (ZENIT.org).- Padre Peter Bombacha, che avrebbe presto compiuto 74 anni, è stato assassinato questa notte a Baboola, a un chilometro dalla casa del Vescovo di Vasai, un'antica città situata nel nord-ovest dell'India.
4) "NELLA SCUOLA CATTOLICA NON ABBIAMO SAPUTO PRESENTARE UN'ALTERNATIVA" - Il Cardinal Cañizares inaugura un congresso sull'educazione cattolica a Valencia
5) PAPA/ Tornielli (Il Giornale): l'abbraccio di Benedetto riscatta gli errori della Chiesa - INT. Andrea Tornielli - venerdì 30 aprile 2010 – ilsussidiario.net
6) Il Consiglio d’Europa ha votato la risoluzione contro la discriminazione sessuale.Volonté e Farina: impostazione sbagliata, ma con i nostri emendamenti ci sono miglioramenti significativi - DA ROMA - PIER LUIGI FORNARI – Avvenire, 30 aprile 2010

Intervento del segretario generale della Conferenza episcopale italiana - Sugli abusi sessuali ogni generalizzazione è indebita - Pubblichiamo ampi stralci dell'intervento del segretario generale della Conferenza episcopale italiana, vescovo Mariano Crociata, alla riunione della Commissione presbiterale italiana, che si conclude oggi a Roma. - di Mariano Crociata - L'Osservatore Romano - 30 aprile 2010
L'educazione umana e quella cristiana sono tra loro in un rapporto molto stretto, anche se non vanno confuse, così che un percorso educativo esemplare dà forma indivisibilmente ad un buon cittadino e ad un vero cristiano. Come presbiteri, dunque, abbiamo la responsabilità di avvertire l'intreccio di motivi apparentemente distanti in un servizio ministeriale che edifica la comunità ecclesiale facendo crescere mature persone credenti.
La composizione dei diversi apporti così segnalati dentro un unitario e convergente progetto educativo ecclesiale lascia intravedere un cammino fecondo per i prossimi anni, affidato alla nostra responsabilità e al nostro impegno. Una prospettiva non difforme disegnano altri momenti e temi significativi della vita della Chiesa in Italia. Un primo evento è costituito dal procedere coinvolgente e sistematico della preparazione della prossima Settimana Sociale, in programma dal 14 al 17 ottobre a Reggio Calabria, di cui è imminente la divulgazione del documento preparatorio. Un secondo momento riguarda la pubblicazione del "Vademecum per la pastorale delle parrocchie cattoliche verso gli orientali non cattolici" (23 febbraio 2010).
Mi sembra importante accennare anche ad una questione che travaglia ormai da decenni la nostra società e che tocca mentalità e cultura diffuse nel nostro Paese: mi riferisco al tema dell'aborto, nel quadro vasto e complesso dell'accoglienza della vita e dei problemi di tipo bioetico ad essa connessi, a cui non ha mancato di fare ripetuti riferimenti Benedetto XVI nel suo magistero anche recente. Ho voluto richiamare questo punto perché proprio nell'ultimo periodo è stato autorizzato l'uso della pillola ru486, seppure solo in regime ospedaliero. Inoltre è nota la produzione di farmaci il cui effetto consiste nel cancellare preventivamente ogni traccia di eventuale concepimento, con il risultato che la donna che ha assunto tali sostanze non saprà se sia avvenuta una fecondazione.
La questione educativa è a suo modo interpellata dai gravi e tristi episodi di pedofilia che hanno coinvolto alcuni ecclesiastici e hanno suscitato una vasta eco mediatica. Probabilmente siamo ancora condizionati dalla impressione suscitata dal flusso continuo di notizie e commenti. Tuttavia, sia pure consapevoli della delicatezza e della complessità del tema, dobbiamo cercare di condurre una riflessione pacata e il più possibile oggettiva. Il rischio è quello delle estremizzazioni e degli unilateralismi: da una difesa per partito preso e dalla giustificazione assolutoria al colpevolismo e al giustizialismo. Bisogna anzitutto correggere, tra i tanti, un luogo comune ricorrente, che vorrebbe il magistero ecclesiastico fino all'altro ieri tollerante verso certe pratiche, quando invece la condanna esplicita della pedofilia non è cosa di oggi, ma va ricondotta almeno a documenti del 1922 e del 1962, che ne stigmatizzavano in maniera inequivocabile la natura criminosa e aberrante. Chi ha favorito atteggiamenti di indulgenza o pratiche di rimozione non ha mai applicato direttive di Chiesa, ma semmai le ha tradite, stravolgendo la doverosa riservatezza in complice copertura.
Senza dubbio c'è stata una evoluzione nella sensibilità sociale, che ha portato da un lato ad una più netta e condivisa percezione della inaudita gravità della pedofilia e dall'altro all'esigenza di una totale trasparenza nella individuazione e nel contrasto di comportamenti e responsabilità. Si tratta di una evoluzione positiva, che ha trovato una risposta adeguata e pronta nei documenti emanati sotto il pontificato di Giovanni Paolo ii, e, più recentemente, nella "Lettera pastorale ai cattolici d'Irlanda" (19 marzo 2010) di Benedetto XVI e nella "Guida alla comprensione delle procedure di base della Congregazione per la Dottrina della Fede riguardo alle accuse di abusi sessuali" (12 aprile 2010).
Bisogna dire però che l'evoluzione della sensibilità comune si muove, purtroppo, dentro una interna contraddizione etica e culturale che non può essere occultata. Infatti, pur senza evocare le posizioni estreme di chi vorrebbe legittimare dal punto di vista culturale la pratica della pedofilia e avendo presente la diffusione incontrollata di pratiche e di immagini connesse con la pedofilia, non è improprio osservare che la cultura pansessualistica ed edonistica tanto diffusa non aiuta certo a sviluppare il senso del rispetto delle persone, specialmente delle più fragili e indifese, ridotte a oggetto di desiderio e di piacere.
Posto che un solo caso di pedofilia è già di troppo, in qualsiasi ambiente, un tale comportamento è doppiamente condannabile quando a metterlo in atto è un uomo di Chiesa, un prete, una persona consacrata. Per questo non basta dire che, in proporzione numerica, i casi di pedofilia tra il clero sono uguali o addirittura inferiori a quelli che si verificano in altre categorie di persone. Non possiamo infatti sorprenderci se la reazione di fronte ad abusi commessi da ecclesiastici è stata così forte. Noi stessi siamo cultori della grandezza e della elevatezza del ministero che ci è stato affidato, e desideriamo diffondere questo senso di sacralità nei fedeli e attorno a noi: è comprensibile che chi ci incontra si aspetti dal sacerdote un comportamento corrispondente. La rabbia e l'amarezza hanno un significativo rapporto con la consapevolezza dell'alta qualità morale e umana del clero, nonché con l'affidabilità maggiore da noi offerta e attesa dagli altri, particolarmente in rapporto ai minori consegnati alla nostra guida e alla nostra responsabilità educativa. Le aspettative più alte alimentate dal nostro ministero rendono smisuratamente più intollerabile e condannabile un tradimento così grave e devastante.
Detto questo, è doveroso aggiungere che ogni generalizzazione è indebita, e precisamente nelle due direzioni: nel far credere che in ogni prete si celi un potenziale pedofilo o, all'opposto, nel supporre che le accuse di pedofilia siano soltanto il frutto di un complotto architettato contro la Chiesa. Il fatto che qualche giornale o gruppo di pressione abbia intentato una campagna denigratoria, prendendo spunto da alcune notizie, non può far concludere che si tratti soltanto di una montatura mediatica. D'altra parte, l'emergere di casi puntuali non può dare adito a giudizi sommari, di per sé sempre superficiali. È necessario, invece, attenersi il più possibile ai fatti, senza lasciarsi sopraffare dal clamore delle notizie ad effetto né da un acritico garantismo, profondamente ingiusto rispetto alle vittime, che sono - non dimentichiamolo - nostri fratelli e sorelle nella fede e nella Chiesa.
Ci troviamo di fronte a persone da tutelare e da accompagnare: qui sta la sfida e la difficoltà di una condizione umana che interpella la responsabilità di tutti. Le vittime hanno bisogno di giustizia e di solidarietà; necessitano di essere protette e difese e poi accompagnate in un lungo cammino di recupero e di riconciliazione anzitutto con la loro storia. Dall'altra parte, anche gli autori degli abusi vanno accompagnati, senza falsa pietà, in un percorso di correzione e di contenimento che impedisca la reiterazione del male e ne favorisca il processo di redenzione.
La comunità cristiana, in tutto questo, si trova in una posizione peculiare, poiché è doppiamente colpita e danneggiata nei suoi membri, sia offensori che vittime; ma è ferita anche nella sua immagine pubblica in ordine all'esercizio della sua missione pastorale. A tutto ciò essa deve rispondere secondo lo stile di verità che le è proprio, ovvero secondo giustizia e misericordia. Ciò esige solidarietà e sostegno alle vittime, rigore e accompagnamento - nel rispetto delle leggi della Chiesa e dello Stato - verso chi si è reso responsabile di abusi, purificazione e penitenza al proprio interno, coraggio e rinnovato slancio nel condurre la propria missione.
Sempre, nel corso della storia, la Chiesa scopre nella prova di essere depositaria di una grazia, di una forza, di una integrità che non vengono dai suoi membri, ma dall'alto, cioè dal Signore. Perciò questo momento deve essere affrontato con coraggio e secondo verità. Non si deve aver paura di evidenziare e togliere il male di mezzo a noi, ma nello stesso tempo non si deve aver paura di annunciare il Vangelo. Si può aver vergogna di se stessi, ma non del Vangelo. E naturalmente, per non vergognarci del Vangelo, dobbiamo adoperarci per aderirvi con il cuore e con la vita, con tutto di noi stessi.
In conclusione, ritengo che si debbano avere due tipi di attenzioni. La prima riguarda la necessaria interazione e distinzione fra tre ambiti: lo spazio della giustizia umana, la competenza delle scienze, il regime della grazia e il suo ordinamento ecclesiale; in altre parole, il delitto, la malattia, il peccato. Di una persona che si macchia di abusi su minori può essere detto - ma va distintamente verificato - che ha compiuto un delitto, che è malata, che ha peccato. Una tale persona ha bisogno di sottoporsi alla giustizia, alla cura, alla grazia. Tutte e tre sono necessarie, ma non possono surrogarsi, sostituirsi, compensarsi: la pena per il delitto non guarisce né dà il perdono, ma anche, all'inverso, il perdono del peccato non guarisce la malattia né adempie le esigenze della giustizia, così come la cura non può sostituire la pena né tanto meno rimettere il peccato. Le indicazioni che vengono dalla Chiesa vanno proprio nella direzione della armoniosa interazione fra i tre livelli. C'è da sperare che, al di là delle polemiche mediatiche, si sia capaci di suscitare la cooperazione necessaria a lenire, se non a guarire, ferite così profonde.
Quanto alla seconda attenzione, la vicenda della pedofilia, come indicato da Papa Benedetto XVI, deve costituire l'avvio di un percorso di purificazione e di rinnovamento profondo all'interno della Chiesa. Questo rinnovamento richiederà alcune condizioni. La prima è una particolare diligenza nel discernimento vocazionale dei ministri e delle persone consacrate e nella loro preparazione e formazione al ministero e alla consacrazione. Una seconda condizione è che l'esercizio dell'autorità nella Chiesa assicuri permanentemente una elevata qualità umana, spirituale, intellettuale e pastorale in chi esercita un ministero e, nello stesso tempo, vigili con senso di carità e di responsabilità. Una terza condizione tocca ciascuno di noi, chiamato a fuggire dalla tentazione dell'individualismo e della chiusura nel privato, per vivere la fraternità ministeriale, religiosa ed ecclesiale, in modo da sviluppare l'evangelica correzione fraterna: essa ci sostiene potentemente in quel cammino di santità, che è il senso dell'esistenza cristiana in ogni stato di vita.
(©L'Osservatore Romano - 30 aprile 2010)


“SPERO CHE I MIEI LETTORI SENTANO IL BISOGNO DI LEGGERE NEWMAN” - Pubblicato un libro di monsignor De Berranger - di Anita S. Bourdin

LIONE, mercoledì, 28 aprile 2010 (ZENIT.org).- “Mi auguro che, leggendo il mio libro, i lettori sentano il bisogno di leggere gli scritti dello stesso Newman”, dichiara il Vescovo emerito della diocesi francese di Saint Denis, monsignor Olivier de Berranger, in questa intervista rilasciata a ZENIT.

Il presule sottolinea il carattere “mariano” del “processo” di Newman: Maria “è per noi simbolo, non solo della fede dei più semplici, ma anche di quella dei dottori della Chiesa”.

Buckingham Palace ha annunciato che Benedetto XVI si recherà in visita nel Regno Unito dal 16 al 19 settembre 2010 e che presiederà, a Coventry, la Messa di beatificazione del cardinale John Henry Newman.

In vista di questa beatificazione, la casa editrice Ad Solem ha recentemente pubblicato un libro atipico: “Par l'amour de l'invisible, itinéraires croisés de John Henry Newman et Henri de Lubac” [Per amore all’invisibile, itinerari incrociati di John Henry Newman e Henri de Lubac, n.d.r.].

In questa opera, monsignor De Berranger propone un approccio originale al pensiero del cardinale Newman e alla sua attualità.

Come ha pensato all’idea di abbinare le figure di Newman e di de Lubac?

Monsignor De Berranger: È l’editore che avvicina le figure di questi teologi nella copertina del libro, attraverso due foto che li ritraggono intorno ai loro 70 anni di età.

Newman (1801-1890) e de Lubac (1896-1991) non appartengono allo stesso secolo, né allo stesso Paese. Uno è oratoriano, l’altro è gesuita.

Ma il pensiero del primo ha esercitato un’influenza che anticipa il Concilio Vaticano II (1961-1965).

Il secondo, che ha partecipato al Concilio come esperto, non ha esitato ad apportarvi ciò che è stato “l’evento spirituale” del Movimento di Oxford, del quale Newman è stato uno dei principali esponenti, nella speranza di rinnovare la Chiesa in Inghilterra tra il 1833 e il 1843, quando vedeva in essa una “via mediana” tra il Protestantesimo e ciò che egli considerava una tendenza alle esagerazioni superstiziose del “romanismo”.

Approfondendo, a partire dallo studio dei Padri della Chiesa, la questione dello “sviluppo della dottrina cristiana”, si è reso conto che la verità nella sua pienezza si trovava nella Chiesa cattolica e ha deciso di “arrendersi” e di aderire alla Chiesa romana il 9 ottobre 1845.

Perché padre de Lubac aveva letto l’opera del cardinale Newman con tanta attenzione?

Monsignor De Berranger: Perché vedeva in lui un teologo, il cui pensiero – al pari dei tedeschi Johannes Adam Möhler (1796-1838) e Matthias Joseph Scheeben (1835-1888) – avrebbe potuto contribuire a rinnovare la vita della Chiesa.

E ciò attraverso influenze contrarie al modernismo, condannato da San Pio X nel 1910 e attraverso il neotomismo, che troppo spesso gli sembrava una cattiva risposta alle domande rivolte alla fede cristiana dai nostri contemporanei, perché prigioniero di formulazioni astratte e lontane dalla tradizione patristica ... e dallo stesso San Tommaso d’Aquino.

Ciò che de Lubac apprezzava in Newman era la purezza della fede, unita a un’acuta comprensione delle esigenze della cultura scientifica.

Inoltre, esisteva tra Newman e de Lubac un’altra affinità, oltre al fatto di essere stati nominati cardinali verso la fine della loro vita, il primo da Leone XIII, l’altro da Giovanni Paolo II (come Journet, Daniélou, Congar, Grillmeier,...): un’affinità di tipo spirituale.

Entrambi hanno cercato di essere umili interpreti della fede più radicata nella Tradizione.

Lei parla della loro “passione volta a far amare la Rivelazione cristiana ai suoi contemporanei”. Cosa hanno, in definitiva, in comune?

Monsignor De Berranger: Appunto, la stessa sensibilità verso la Rivelazione, quella che la costituzione conciliare Dei Verbum metterà in rilievo, completando in qualche modo la costituzione Dei Filius del Concilio Vaticano I (1870).

Entrambi hanno una conoscenza molto profonda della Scrittura nella storia, in cui il Verbo incarnato costituisce la chiave interpretativa.

Ma non si tratta di una pura dichiarazione di principi. È, sia per l’uno che per l’altro, una fonte di santità, perché secondo il motto del cardinale Newman, “cor ad cor loquitur” (il cuore parla al cuore).

Questo è il vero rapporto tra il credente e Cristo, che deve diventare il rapporto del credente con tutti, con il proprio fratello, che egli desidera portare all’amore verso Colui che si rivela per mezzo della Chiesa.

Come sottolineato da Newman, senza certezza non esiste possibilità di santità. Ciò non vuol dire che la fede non venga mai messa alla prova dal dubbio, come un cammino spirituale attraverso l’aridità, ma che l’intelligenza deve potersi fondare su un assenso molto fermo a Cristo, secondo la confessione di Pietro, roccia della Chiesa.

Perché Benedetto XVI ha tanto interesse a far conoscere Newman a tutta la Chiesa? Il Papa non solo ne promuove la beatificazione, ma presiederà egli steso la cerimonia, che non si svolgerà a Roma!

Monsignor De Berranger: Tutti sono d’accordo nel riconoscere in Benedetto XVI un grande teologo.

Non so quante volte egli abbia citato Newman nelle sue numerose opere. Ma poiché egli si è abbeverato alle stesse fonti della grande Tradizione e poiché come de Lubac, suo contemporaneo, ha letto l’opera di Newman, ha riconosciuto la sua santità nella ricerca della verità a qualunque costo.

Penso di poter dire che Newman rappresenti per Benedetto XVI una testimonianza della stessa levatura di una Edith Stein (Santa Teresa Benedetta della Croce) per Giovanni Paolo II.

E, insieme a molti altri, spero che l’uno e l’altra siano dichiarati dottori della Chiesa.

A lei, personalmente, cosa le piace di più di Newman? Cosa ha voluto comunicare ai suoi lettori?

Monsignor De Berranger: Mi piace l’uomo e l’opera nella sua integrità. Mi consenta di citare un passaggio celebre del suo quindicesimo sermone universitario pronunciato a St. Mary di Oxford, quando era ancora un chierico anglicano.

Meditando sul versetto di Luca 2,19 (Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore), dice: “Maria è il nostro modello nella Fede, non solo nella ricezione, ma anche nello studio della Verità divina. Ella non si accontenta di accettarla, vive in essa; non le basta possederla, si serve di essa; sottomette la propria ragione, ma ragiona sulla fede, certamente non razionalizza prima, per poi credere, come Zaccaria, ma prima crede senza ragione e poi, con amore e rispetto, ragiona su ciò che crede. Pertanto, ella è per noi simbolo, non solo della fede dei più semplici, ma anche di quella dei dottori della Chiesa, che devono cercare, soppesare, definire, oltre che professare il Vangelo; per tracciare una linea tra la verità e l’eresia; per anticipare o rimediare alle aberrazioni di una falsa ragione, per combattere con le armi giuste (quelle della fede) l’orgoglio e la temerarietà e per trionfare sul sofista e l’innovatore” (2 febbraio 1843).

Mi auguro che, leggendo il mio libro, i lettori sentano il bisogno di leggere gli scritti dello stesso Newman, per rafforzarsi in questo processo “mariano”, ecclesiale, perché radicato nelle origini del Cristianesimo.

Sarà presente alla beatificazione?

Monsignor de Berranger: Rispondo come i romani: “Se Dio vuole, certo”.

I suoi studi sul cardinale Newman e sul cardinale de Lubac l’hanno aiutata nel suo ministero?

Monsignor De Berranger: Vorrei citare in particolare due opere che mi hanno particolarmente ispirato. Una mentre ero in Corea, l’altra mentre ero Vescovo di Saint-Denis in Francia.

In Corea, è stata la “Grammatica dell’assenso” che mi ha aiutato a inculturarmi in un’area così diversa dall’Europa.

Newman non si mostra solo preoccupato per “la fede dei più semplici”, per dimostrare coerenza profonda, ma dispiega una straordinaria sensibilità per l’influenza delle culture nell’espressione di una medesima fede.

E proprio nel momento in cui monsignor Tagliaferri, allora nunzio in quel Paese, mi ha detto che ero stato nominato alla sede di Saint-Denis, dovevo preparare una conferenza su un’opera apparentemente minore, del padre de Lubac: “Il fondamento teologico delle missioni”.

Ha dimostrato l’unità del genere umano di fronte alla sua fonte originale, creatrice, e si è opposto con vigore, nel gennaio del 1941, alle tesi razziste divulgate dal nazismo.

Questa coincidenza mi ha confortato in un ministero planetario.


INDIA: ASSASSINATO UN SACERDOTE A MUMBAI - Padre Peter Bombacha gestiva una casa per il recupero degli alcolisti - NUOVA DELHI, giovedì, 29 aprile 2010 (ZENIT.org).- Padre Peter Bombacha, che avrebbe presto compiuto 74 anni, è stato assassinato questa notte a Baboola, a un chilometro dalla casa del Vescovo di Vasai, un'antica città situata nel nord-ovest dell'India.
Le cause dell'omicidio sono ancora ignote. Il Vescovo di Vasai, monsignor Felix Machado, ha detto all'agenzia AsiaNews che il sacerdote era un uomo "pieno di fede, che serviva la Chiesa e la popolazione senza discriminazione di caste o di credo; si dimenticava di sé per servire i più poveri e gli abbandonati".
"Noi sacerdoti abbiamo già offerto la nostra vita nel giorno dell'ordinazione", ha detto il presule a Fides. "La nostra vita non ci appartiene, ma è di Dio. Padre Peter oggi è stato accolto dal Signore e dalla Madonna degli Abbandonati (Our Lady of Forsaken), cui era tanto devoto".
"La comunità è sotto shock", ha aggiunto monsignor Machado. Padre Peter attualmente gestiva una casa di recupero per alcolisti che egli stesso aveva creato. Contava sulla collaborazione di molti laici e sulla stima dei fedeli.
Il Vescovo ha detto di non credere che gli autori materiali di questo omicidio siano gruppi fondamentalisti indù: "Prima di tutto perché in questa zona non ve ne sono. Anzi, le relazioni con la comunità indù sul territorio sono ottime".
Molti fedeli si sono recati sul luogo per manifestare indignazione e solidarietà. Le esequie si svolgeranno questo giovedì. Si pensa che vi prenderanno parte circa 10.000 persone.


"NELLA SCUOLA CATTOLICA NON ABBIAMO SAPUTO PRESENTARE UN'ALTERNATIVA" - Il Cardinal Cañizares inaugura un congresso sull'educazione cattolica a Valencia
VALENCIA, giovedì, 29 aprile 2010 (ZENIT.org).- Il prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, il Cardinale Antonio Cañizares, ha riconosciuto che la scuola cattolica non ha saputo presentare un'alternativa e ha sottolineato la necessità che mostri una nuova visione dell'uomo e della donna.
Lo ha fatto questo lunedì inaugurando il III Congresso Internazionale Educazione Cattolica per il XXI secolo dell'Università Cattolica di Valencia San Vicente Mártir, ha reso noto l'ateneo.
"Dobbiamo riconoscere che nella scuola cattolica non abbiamo saputo presentare un'alternativa ed è necessario farlo, perché la scuola cattolica ha una visione dell'uomo e della donna nuova, nella quale ci sono il futuro e la speranza", ha dichiarato.
A questo proposito, il porporato ha invitato a fare un "esame di coscienza" di fronte al fatto che il 30% della società spagnola è stato educato nella scuola cattolica e "non ha un'incidenza di fronte a tutto ciò che sta accadendo nella nostra società".
Questa percentuale "dovrebbe contribuire a far sì che la nostra cultura non sia la cultura della morte e la cultura relativista, ma la cultura dell'amore e della verità che ci rende liberi".
In "tempi di indigenza" e di "crisi di senso e di verità", la scuola cattolica "non può essere neutrale, deve andare controcorrente", ha osservato.
Per il prefetto della Congregazione vaticana, la scuola cattolica deve essere una "scuola rivoluzionaria e libera, perché il mondo ha bisogno di un cambiamento decisivo, senza il quale non ha futuro", di fronte alla "crisi morale e alla perdita dell'orizzonte umano, del senso della vita".
Secondo il Cardinal Cañizares, il male peggiore della società attuale è "non sapere più che cos'è moralmente buono e moralmente valido".
Difficoltà
Analizzando l'attuale momento educativo, il Cardinale ha sottolineato la difficoltà di "educare in una società che ammette l'aborto", con "leggi contro la famiglia" e "una televisione come quella che abbiamo attualmente, in cui si diffonde una visione dell'uomo del tutto contraria alla persona umana".
Si è anche riferito all'"ingiusto" sistema sociale, "con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri".
I sistemi educativi attuali, ha aggiunto, hanno fallito perché "non hanno risposto a sufficienza alla domanda o alle esigenze dell'educazione".
Quanto alla Spagna, il Cardinale Cañizares si è riferito alla legge sull'educazione definendola "uno dei fallimenti maggiori che ha avuto la società spagnola, per il predominio della ragione strumentale, perché non favorisce l'esercizio della ragione per cercare la verità e insabbia le domande fondamentali dell'essere umano".
In questo modo, ha lamentato, "si genera una società come quella che abbiamo, accompagnata da una cultura avvolgente che sta spezzando la nostra umanità".
Gesù Cristo al centro

La scuola cattolica "deve contribuire a una nuova umanità nella sintesi tra fede e ragione", ha proseguito, sottolineando che "al centro della concezione cristiana della scuola cattolica c'è Gesù Cristo, il suo messaggio di salvezza".
Secondo il porporato, nelle scuole cattoliche non deve impartirsi solo un "insegnamento di valori", ma anche l'"arte di vivere" che è alla base dell'evangelizzazione.
"Non bisogna aver paura di essere liberi, perché la scuola cattolica ha la vocazione di trasformare la società", ha detto.
Nel suo intervento, intitolato "L'educazione cattolica: futuro e speranza", il Cardinale ha poi rimarcato l'importanza della "coerenza" dei docenti.
"Non solo insegnanti, ma anche testimoni di ciò che vogliamo offrire, l'arte di vivere, l'umanità nuova", ha indicato.
In questo senso, ha ricordato l'importanza che "Gesù Cristo e la fede non siano un qualcosa di aggiunto, di complementare alla nostra esistenza professionale, ma il nostro essere sostantivo di maestri che sono nella scuola per evangelizzare, il che richiede una formazione molto concreta degli insegnanti".
Il Congresso, in svolgimento a Valencia dal 26 al 28 aprile, tratta l'infanzia come tappa particolarmente significativa del ciclo vitale e base della costruzione della persona, e allo stesso tempo come oggetto prioritario dell'attuale emergenza educativa.


PAPA/ Tornielli (Il Giornale): l'abbraccio di Benedetto riscatta gli errori della Chiesa - INT. Andrea Tornielli - venerdì 30 aprile 2010 – ilsussidiario.net
Un dramma, lo scandalo pedofilia, che segnerà profondamente la Chiesa per gli anni a venire. Se prima l’errore è stato quello di tacere - dice a ilsussidiario.net Andrea Tornielli, vaticanista de Il Giornale - temendo la divisione e le ripercussioni sociali dello scandalo, ora il rischio potrebbe essere quello di farsi dettare l’immagine da una realtà secolare malata di giustizialismo. Ma Benedetto XVI è andato oltre: ha abbracciato le vittime.
Che idea si è fatto delle possibili conseguenze dello scandalo pedofilia per la Chiesa?
Lo scandalo alimenterà, in Europa, l’opinione pubblica negativa verso la Chiesa. La cosa di cui ci si rende forse poco conto è che queste campagne mediatiche vengono ricordate solo, o quasi, per i titoli dei giornali. Si ha un bel dire di essere equilibrati: purtroppo il messaggio, preconcetto e ingiustamente sommario, che è passato in questo periodo è «preti uguale pedofili» ed è un’opinione che rimarrà ancora a lungo.
Fin da quando è scoppiato lo scandalo, il celibato e finito subito sotto accusa.
Credo che la questione del celibato sia di minore importanza dal punto di vista mediatico, perché interessa solo i preti. Non ne parlo evidentemente dal punto di vista teologico e pastorale. C’è chi vuole mettere in discussione il celibato e coglie ogni occasione per farlo. Mi pare però che i commentatori laici più avveduti si siano guardati bene dal cavalcare la tesi di un presunto rapporto - inesistente nei fatti - tra pedofilia e celibato. Non era scontato.
C’è però una certa componente culturale di tipo «progressista», interna alla stessa Chiesa - alla Hans Küng per intenderci - che non perde occasione per tornare sulla questione del celibato e non rinuncia a proporre una sua concezione, tipicamente mondana, di riforma della Chiesa. È destinata a non fare opinione?
Di questo non sono così convinto. Certo, sono posizioni ben note, vecchie, ma che intercettano ancora un dissenso che esiste e che emerge. E soprattutto non intendono concedere nulla al pontificato di Ratzinger. A mio avviso però celibato e sacerdozio alle donne sono temi che interessano assai più il clero dell’opinione pubblica.
Negli Usa lo scandalo pedofilia del 2002 ha messo in crisi l’educazione dei giovani, distrutto dalla «sindrome del sospetto» verso gli adulti, preti o laici. Nel nostro paese c’è questo rischio?

Da noi la percezione della Chiesa è ancora buona e l’istituzione gode di fiducia. Però è indubbio, ed è un discorso che prescinde dagli scandali della pedofilia, che esiste un problema di comunicazione Chiesa-giovani: è un tema che riguarda il metodo della proposta cristiana prima ancora che aspetti pastorali o morali. A questo si aggiunge la difficoltà da parte dei giovani a riconoscere nella Chiesa un soggetto con cui confrontarsi. La situazione non è tragica come quella degli Usa, eppure ho l’impressione che la realtà italiana sia dipinta come troppo rosea rispetto alla realtà vera della nostra società.
Molti commentatori sottolineano che Benedetto XVI è stato inflessibile con la pedofilia. Le chiedo, provocatoriamente: Giovanni Paolo II no?
Si è passati da un estremo all’altro. Per decenni i casi di pedofilia dentro la Chiesa sono stati affrontati in modo inadeguato, avendo a cuore soltanto di evitare lo scandalo e finendo per insabbiare, senza avere la percezione che la prima missione cristiana era quella di essere vicini alle vittime, e di mettere i preti colpevoli in condizione di non nuocere. Ora, invece, la Chiesa deve guardarsi dal toccare l’altro estremo, quello tipicamente anglosassone della «tolleranza zero», che di cristiano ha ben poco. Al minimo sintomo del problema, ancora prima di accertare le reali responsabilità, la pretesa è di cacciare il colpevole, di ridurlo subito allo stato laicale. Cos’altro?
Ma quali sono secondo lei le reali responsabilità della Chiesa?
Ci troviamo di fronte ad una grave carenza di capacità di governo da parte dei vescovi, che prima non sono stati in grado di abbracciare le vittime e affrontare il problema, e che oggi corrono il rischio di eluderlo: quasi che un prete che ha commesso atti di pedofilia non riguardasse loro, le loro diocesi, il modo in cui questo prete è stato formato, il tipo di paternità che esercitano (o non esercitano) nei confronti dei preti. Perché mi sembra questo il nocciolo della questione: certi vescovi si sono mostrati incapaci di governare perché incapaci di essere veri padri per i loro preti. In questo quadro vanno visti a mio avviso i due pontificati.
E sul piano dei provvedimenti?
È fuor di dubbio che dal 2001, col motu proprio Sacrametorum dignitatis tutela e con i documenti di applicazione successivi, e dopo lo scoppio dello scandalo negli Usa la Chiesa ha preso una posizione decisa e precisa. Bisogna sempre ricordare che durante il pontificato di Giovanni Paolo II l’artefice era Ratzinger. Stanno emergendo in certi casi sottovalutazioni da parte dell’apparato di Curia, ma la linea di Ratzinger è sempre stata quella dell’inflessibilità, e anche talvolta di un minore garantismo. Detto questo, si fa fatica a capire, anche e soprattutto negli Stati Uniti, che la Chiesa non è una Procura della repubblica.
Si proietta sulla Chiesa, insomma, un’attitudine «giustizialista» che è tipicamente secolare e politica.
Sì. Una cosa è il sacrosanto diritto delle vittime di rivolgersi alla magistratura per ottenere giustizia, perché si tratta di reati penali, altra cosa è capire che la Chiesa ha un suo sistema di giustizia e un suo codice di diritto canonico. Oggi si pretende troppo che la Chiesa agisca come una procura, dimenticandosi che la Chiesa è soprattutto qualcos’altro.
Galli della Loggia, sul Corriere, ha scritto che l’«autoriforma» della Chiesa oggi sta nel fatto che essa «si è spogliata di ogni forma di intermediazione verso i suoi membri»: se il peccato non è più coperto è perché la Chiesa ha assunto il punto di vista dell’attuale società su un fatto grave come la pedofilia. Lei che ne pensa?
Ci andrei piano. Innanzitutto non sono pienamente d’accordo nel dare ora una versione di Ratzinger come se il suo ruolo fosse essenzialmente quello del nuovo fustigatore della pedofilia. La Chiesa, pur condannando la pedofilia, non si lascerà irretire da una società ipocrita che la condanna ma che poi accoglie senza batter ciglio discorsi aberranti sulla pedofilia fatti da intellettuali omosessuali che sui giornali vengono recensiti entusiasticamente. A parte questo, per la Chiesa esiste il peccato ed esiste la grazia: anche il peccatore che ha commesso questo peccato terribile può redimersi.
C’è stato allora secondo lei un progresso della Chiesa?

Assolutamente sì. Se negli anni in cui sono stati commessi la maggior parte di abusi la vittima rischiava di essere vista con sospetto, perché poteva apparire come un grimaldello che scardina la compattezza della Chiesa, grazie all’opera di Joseph Ratzinger prima e poi di Benedetto XVI non è più così. È come se finora la Chiesa avesse fatto fatica a capire che il segno che il colpevole lascia nella vittima, rimane. Ed è con quello che bisogna fare i conti. Il dramma non è tanto l’enormità del reato per la società, o per quello che la società pensa della Chiesa, ma la conseguenza di quel reato per la vita di persone che credevano di trovare nella Chiesa accoglienza, misericordia, educazione e hanno invece trovato qualcosa di tremendo.
Il papa a Malta ha incontrato le vittime. E ha pianto.
Il grande insegnamento di Benedetto XVI, con il cuore prima ancora che con la parola, è esattamente questo: il fatto che abbia incontrato le vittime, che abbia pianto con loro. Era la cosa che mancava, e lui l’ha fatta. Solo nell’abbraccio c’è una vicinanza vera con chi porta i segni dell’abuso. Con il suo pianto ha detto che al centro della Chiesa c’è la vittima. E pensare che in Curia alcuni si chiedevano perché mai a Malta il papa dovesse incontrare le vittime.
Julián Carrón ha scritto una lettera a Repubblica, in cui dice che la nostra esigenza di giustizia, essendo infinita, non può essere colmata da alcuna misura terrena. Per questo il papa, nota Carrón, ha detto che solo in Cristo questa sete di giustizia può venire soddisfatta.
Condivido in pieno. Non solo la Chiesa non è un tribunale, ma c’è un male che non potrà mai essere giustificato e ricompensato pienamente dal punto di vista umano. Occorre innanzitutto andare al fondo del problema umano per capire un dramma come questo. Benedetto XVI, con un atteggiamento di profonda umiltà, sta mostrando direi quasi «fisicamente» che noi siamo bisognosi della misericordia di Dio: abbiamo bisogno di un Altro senza il quale non siamo giustificati, non siamo salvati, non siamo redenti. Ma ci sarà sempre qualcuno convinto che la Chiesa trasmette innanzitutto una morale o una filosofia: ecco perché ci sarà sempre qualcuno a dire che la Chiesa non ha fatto abbastanza.


«Riconoscere le coppie gay non è obbligo»

Il Consiglio d’Europa ha votato la risoluzione contro la discriminazione sessuale.Volonté e Farina: impostazione sbagliata, ma con i nostri emendamenti ci sono miglioramenti significativi - DA ROMA - PIER LUIGI FORNARI – Avvenire, 30 aprile 2010
M iglioramenti signi ficativi sono stati apportati ieri dal l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa alla riso luzione presentata dal socia lista svizzero Andreas Gross contro la 'Discriminazione basata sull’orientamento ses suale e l’identità di genere'. Nonostante l’impianto an tropologico di fondo resti as sai criticabile, nel documen to approvato con 51 voti a fa vore, 25 contrari e cinque a stensioni, scompaiono le rac­comandazioni ai 47 stati membri sia in favore della a dozione dei single gay, sia del riconoscimento delle coppie omosessuali in quei Paesi nei quali ciò contrasti con la le gislazione nazionale. Un ul teriore emendamento ap provato esenta dalle politiche di cosiddetta inclusione dei gay le istituzioni religiose, nel rispetto dell’autonomia di ta li istituzioni e del loro credo morale.
Le modifiche sono state ot tenute grazie ad una conver genza tra il gruppo del Ppe (i taliani in prima fila) ed i par lamentari ortodossi (a parti re dai russi). Un ruolo signi ficativo è stato esercitato an che dal lituano di religione e braica, Egidjus Vareikis. Tra i più decisi sostenitori degli e­mendamenti anche l’irlan dese Ronan Mullen e il mol davo Valeriu Ghiletchi.
«Il problema dell’imposta zione culturale di fondo del documento rimane – ha commentato il capogruppo del Ppe, Luca Volontè –, ma con i nostri emendamenti, che hanno incontrato ampia considerazione nell’assem­blea, abbiamo potuto inseri re miglioramenti significati vi ». Sempre in tema di ado zioni, il Ppe ha ottenuto, nel punto in cui si invita ad e stendere al partner la re sponsabilità parentale di u no dei membri della coppia gay, la specificazione che de vono essere tutelati priorita riamente gli interessi dei bambini. Gli emendamenti del Ppe hanno anche ribadi to la libertà di insegnamento religioso e hanno definito con chiarezza la necessità che siano rispettate le speci ficità nazionali, in termini di tradizioni, di cultura e di re ligione.
Sottolinea il «netto migliora mento » della risoluzione rag giunto nel voto di ieri, Rena to Farina che nel suo inter vento ha sollecitato con for za l’approvazione degli e mendamenti, senza i quali quel documento sarebbe sta to soltanto «l’affermazione tendenzialmente totalitaria di un pensiero unico, di una sola antropologia, di una so la religione dopo le religioni». A sostegno degli emenda menti si sono schierati tra gli altri: gli italiani Deborah Ber gamini, Gennaro Malgieri, Paquale Nessa, Giacomo Santini, Oreste Tofani. Vio lenti attacchi alla Chiesa so no stati pronunciati negli in­terventi di alcuni parlamen tari socialisti e liberali. La ri soluzione Gross avrebbe già dovuto essere votato nella sessione di fine gennaio, ma l’alto numero di emenda menti ha indotto il parla mentare svizzero a ritirare il testo per ripresentarlo nella tornata attuale. Le racco mandazioni approvate dalla assemblea del Consiglio d’Europa, comunque, non sono vincolanti per i Paesi membri.


Avvenire.it, umanesimo e scienza - 29 aprile 2010, 2 - Il matematico Israel - Vuoi far lo scienziato? Studia storia e latino
«Non c’è dubbio: è in corso una pressione per ridurre progressivamente lo spazio delle discipline umanistiche nella scuola». Lo afferma paradossalmente uno scienziato, storico della matematica e della scienza di rilievo internazionale: il professor Giorgio Israel, ordinario alla Sapienza di Roma. La materia più colpita, osserva, è il latino «e ciò avviene in un momento in cui curiosamente è alla moda in un Paese non latino come gli Stati Uniti. Ma la pressione – aggiunge Israel – si esercita anche nei confronti della storia, sempre più ridotta a brandelli privi di organicità. E verso la filosofia: il fatto è molto grave in un continente a vocazione filosofica come l’Europa. Parlo di Europa perché le cose vanno ancora peggio che da noi in Paesi come l’Inghilterra, dove l’insegnamento della storia è visto sempre più come un orpello».

Professore, come si manifesta la strategia per soffocare queste materie?
«Predicando l’inutilità delle discipline umanistiche sul mercato del lavoro, o con argomenti demagogici come quello secondo cui il latino agli studenti non piace: con questo argomento si potrebbe proscrivere a maggior ragione l’insegnamento della matematica. Anzi, la soluzione ideale sarebbe chiudere addirittura la scuola…».

Quali conseguenze si producono negli studenti, soprattutto in quelli che progettano di lavorare un giorno nel mondo della ricerca scientifica e tecnologica?
«Le conseguenze? Gli studenti si formano una visione riduttiva della scienza, come se il suo fine fosse esclusivamente la manipolazione e non la conoscenza della natura».

Che tipo di scienza emergerà da studi specialistici e puramente tecnici che sono necessari, ma non si accompagnano ad adeguate conoscenze e riflessioni nel campo della filosofia, dell’etica, degli «studia humanitatis»?
«Un insieme di ricette pratiche alla lunga sterili e ripetitive, incapaci di generare vera "innovazione": ci si riempie la bocca di questa parola, ma a vanvera. La scienza occidentale – quella che ha rivoluzionato in tre secoli il mondo ed è "la" scienza "globalizzata" – è basata su una coesistenza di conoscenze di base e di tecnologia, in cui le prime hanno un ruolo motore. E le conoscenze di base sono, a loro volta, fondate su concezioni del mondo che storicamente si sono intrecciate in modo stretto con il pensiero filosofico e anche religioso. Alla base dello straordinario successo della scienza occidentale è stato proprio il suo rapporto con queste visioni e quelle che vengono chiamate "metafisiche influenti"».

Un esempio?
Tempo fa mi è stato richiesto una consulenza di gruppo da parte di un ingegnere di una nota casa automobilistica che desiderava un aggiornamento di storia della matematica e della scienza. Bizzarria? Perdita di tempo? Nient’affatto. Quella persona era mossa dalla corretta esigenza di un ritorno periodico ai fondamenti concettuali senza i quali anche la tecnologia deperisce. Sono state due giornate di grandissimo interesse. Ho trovato nelle discussioni la conferma di quanto ho sempre pensato: l’innovazione è impossibile senza la scienza di base. Oggi costruiamo automobili la cui concezione risale a un secolo fa (e lo stesso dicasi per i computer, concepiti 70 anni fa). Una vera rivoluzione tecnologica non può che ripartire da idee teoriche completamente nuove. Senza la scienza di base ciò è impossibile. E la scienza di base, senza un rapporto profondo con le scienze umane, non può che deperire. Uno dei nostri più famosi matematici, Federigo Enriques, diceva di essersi iscritto alla facoltà di matematica "per un’infezione filosofica liceale"».

L’umanesimo è un concetto affascinante e ampio. Il movimento si propone come l’erede del pensiero greco-latino e della tradizione giudaico-cristiana. Quali rapporti ha con l’umanesimo che si studiava a scuola, affermatosi nel XIV e XV secolo, quando avviene la scoperta dei classici antichi?
«Quei rapporti sono legati all’idea della dignità dell’uomo, la quale a sua volta dipende dal principio che l’uomo è libero. Pico della Mirandola – esponente di una visione che mirava a riconciliare il razionalismo greco con lo spiritualismo ebraico e cristiano – ammonisce: "Potrai degenerare in forme inferiori come quelle delle bestie o, rigenerato, avvicinarti alle forme superiori, che sono divine". Perciò la libertà non implica di per sé un esito benefico: dipende da come si decide di usarla. L’umanesimo rigetta radicalmente il naturalismo, l’idea che tutto si riduce a natura, che altro non è che una forma di materialismo. È un ammonimento di estrema attualità contro le pretese di certa tecnoscienza di voler rifare l’uomo sulla base di manipolazioni genetiche».

Perché Galileo, Pascal e Cartesio non si chiedevano a quale delle «due culture» (scientifica o umanistica) appartenessero? Quale idea della conoscenza li ispirava?
«Pur secondo punti di vista assai diversi, perseguivano una visione complessiva del processo conoscitivo di cui la scienza della natura era soltanto un aspetto e non la totalità. Perché erano tanto "scienziati" quanto "filosofi". Alcuni germi della divaricazione successiva tra scienze naturali e scienze umane sono già presenti, soprattutto in Galileo, ma la corrente dominante della scienza – almeno fino al prevalere del positivismo – s’ispira a una visione "integrale" della conoscenza».

E come riscoprire il valore «umano» della ricerca scientifica?
«Facendo ricerca e insegnamento in storia della matematica e della scienza, mi trovo in una posizione privilegiata (o, piuttosto, sfortunata…) per assistere al disprezzo con cui troppi colleghi guardano alle discipline di frontiera e le penalizzano in ogni modo, mostrando una rozzezza che avrebbe fatto inorridire qualsiasi scienziato di appena qualche decennio fa. Talvolta vengo assalito dalla tentazione di andare in pensione… Tuttavia, bisogna essere ottimisti. L’atteggiamento degli studenti mostra che, in fin dei conti, soltanto la prospettiva umanistica (storica, filosofica) permette di dare una ragione e una motivazione per fare scienza; e che le mere motivazioni tecniche, professionali o economiche lasciano con un drammatico vuoto interiore. Perciò, anche se attraversiamo un periodo alquanto buio – in cui impazza la dittatura degli "esperti" – i semi della cultura prima o poi germoglieranno, come è avvenuto in altre fasi storiche regressive. La dittatura degli "esperti" è destinata a perdere perché ha una profonda debolezza: non crede negli uomini, ma soltanto nelle proprie tecniche».
Luigi Dell’Aglio