Nella rassegna stampa di oggi:
1) PASQUA/ Julian Carron (su Repubblica): Feriti, torniamo a Cristo - Julián Carrón - domenica 4 aprile 2010 – ilsussidiario.net
2) PAPA/ Contro gli scandali Benedetto prepara la "rivoluzione" dei maestri e dei santi - Massimo Introvigne - lunedì 12 aprile 2010 – ilsussidiario.net
3) IL CASO/ L’ultima follia della Corte europea: "abolire" la paternità e la maternità – Redazione - lunedì 12 aprile 2010 – ilsussidiario.net
PASQUA/ Julian Carron (su Repubblica): Feriti, torniamo a Cristo - Julián Carrón - domenica 4 aprile 2010 – ilsussidiario.net
Caro direttore,
mai come davanti alla dolorosissima vicenda della pedofilia tutti abbiamo sentito tanto sgomento.
Sgomento dovuto alla nostra incapacità di rispondere all’esigenza di giustizia che veniva fuori dal profondo del cuore.
La richiesta di responsabilità, il riconoscimento del male fatto, il rimprovero degli errori commessi nella conduzione della vicenda, tutto ci sembra totalmente insufficiente di fronte a questo mare di male. Niente sembra bastare. Si capiscono, così, le reazioni irritate che abbiamo potuto vedere in questi giorni.
Tutto questo è servito per mettere davanti ai nostri occhi la natura della nostra esigenza di giustizia. È senza confini. Senza fondo. Tanto quanto la profondità della ferita. Incapace di essere esaurita, tanto è infinita. Per questo è comprensibile l’insofferenza, perfino la delusione delle vittime, anche dopo il riconoscimento degli errori: nulla basta per soddisfare la loro sete di giustizia. È come se toccassimo un dramma senza fondo.
Da questo punto di vista, gli autori degli abusi si trovano paradossalmente davanti a una sfida simile a quella delle vittime: niente è sufficiente per riparare il male fatto. Questo non vuol dire scaricarli della responsabilità, tanto meno della condanna che la giustizia potrà imporre loro. Non basterà neanche scontare tutta la pena.
Se questa è la situazione, la questione più bruciante - che nessuno può evitare - è così semplice quanto inesorabile: «Quid animo satis?». Che cosa può saziare la nostra sete di giustizia? Qui arriviamo a toccare con mano tutta la nostra incapacità, genialmente espressa nel Brand di Ibsen: «Rispondimi, o Dio, nell’ora in cui la morte m’inghiotte: non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire una sola parte di salvezza?». O, detto con altre parole: può tutta la volontà dell’uomo riuscire a realizzare la giustizia a cui tanto aneliamo?
Per questo anche quelli più esigenti, più accaniti nel pretendere giustizia, non saranno leali fino al fondo di se stessi con la loro esigenza di giustizia, se non affrontano questa loro incapacità, che è quella di tutti. Se questo non accadesse, soccomberemmo a una ingiustizia ancora più grave, a un vero “assassinio” dell’umano, perché per poter continuare a gridare giustizia secondo la nostra misura dovremmo far tacere la voce del nostro cuore. Dimenticando le vittime e abbandonandole nel loro dramma.
Nella sua audacia disarmante è stato il Papa, paradossalmente, a non soccombere a questa riduzione della giustizia a una misura qualunque. Da una parte, ha riconosciuto senza tentennamenti la gravità del male commesso da preti e religiosi, li ha esortati ad assumersi le loro responsabilità, ha condannato il modo sbagliato con cui è stata gestita la vicenda per paura dello scandalo da parte di alcuni vescovi, esprimendo tutto lo sgomento che provava per i fatti accaduti e prendendo dei provvedimenti per evitare che si ripetano.
Ma, dall’altra parte, Benedetto XVI è ben consapevole che questo non è sufficiente per rispondere alle esigenze di giustizia per il danno inferto: «So che nulla può cancellare il male che avete sopportato. È stata tradita la vostra fiducia, e la vostra dignità è stata violata». Così come il fatto di scontare le condanne, o il pentimento e la penitenza dei fautori degli abusi, non sarà mai sufficiente a riparare il danno arrecato alle vittime e a loro stessi.
È proprio il suo riconoscimento della vera natura del nostro bisogno, del nostro dramma, l’unico modo per salvare - per prendere sul serio e per considerare - tutta quanta l’esigenza di giustizia. «L’esigenza di giustizia è una domanda che si identifica con l’uomo, con la persona. Senza la prospettiva di un oltre, di una risposta che sta al di là delle modalità esistenziali sperimentabili, la giustizia è impossibile… Se venisse eliminata l’ipotesi di un “oltre”, quella esigenza sarebbe innaturalmente soffocata» (don Giussani). E come il Papa l’ha salvata? Appellandosi all’unico che può salvarla. Qualcuno che rende presente l’aldilà nell’aldiqua: Cristo, il Mistero fatto carne.
«Egli stesso vittima di ingiustizia e di peccato. Come voi, egli porta ancora le ferite del suo ingiusto patire. Egli comprende la profondità della vostra pena e il persistere del suo effetto nelle vostre vite e nei vostri rapporti con altri, compresi i vostri rapporti con la Chiesa».
Fare appello a Cristo, dunque, non è cercare un sotterfugio per scappare davanti all’esigenza della giustizia, ma è l’unico modo di realizzarla.
Il Papa si appella a Cristo, evitando un scoglio veramente insidioso: quello di staccare Cristo dalla Chiesa perché troppo piena di sporcizia per poterlo portare. La tentazione protestante sempre è in agguato. Sarebbe stato molto facile, ma a un prezzo troppo alto: perdere Cristo. Perché, ricorda il Papa, «è nella comunione della Chiesa che incontriamo la persona di Gesù Cristo». E per questo, consapevole della difficoltà di vittime e colpevoli a «perdonare o essere riconciliati con la Chiesa», osa pregare perché, avvicinandosi a Cristo e partecipando alla vita della Chiesa, possano «arrivare a riscoprire l’infinito amore di Cristo per ciascuno di voi», l’unico in grado di sanare le loro ferite e ricostruire la loro vita.
Questa è la sfida davanti alla quale siamo tutti, incapaci di trovare una risposta per i nostri peccati e per quelli degli altri: accettare di partecipare alla Pasqua che celebriamo in questi giorni, l’unico cammino per veder rifiorire la speranza.
(Tratto da La Repubblica del 04/04/2010)
PAPA/ Contro gli scandali Benedetto prepara la "rivoluzione" dei maestri e dei santi - Massimo Introvigne - lunedì 12 aprile 2010 – ilsussidiario.net
La lettera di Carrón ci ricorda che i preti pedofili esistono. A molti di noi piacerebbe che si trattasse solo di un brutto sogno, o di calunnie della stampa laicista. Non è quello che scrive Carrón, e non è quello che c’insegna il papa. Nella magnifica Lettera ai cattolici dell’Irlanda del 19 marzo 2010 Benedetto XVI denuncia con voce fortissima i «crimini abnormi», «la vergogna e disonore», la violazione della dignità delle vittime, il colpo inferto alla Chiesa «a un punto tale cui non erano giunti neppure secoli di persecuzione». A nome della Chiesa «esprime apertamente la vergogna e il rimorso».
Certo, il papa affronta il problema dal punto di vista del diritto canonico ribadendo con forza che è stata la sua «mancata applicazione», da parte talora anche di vescovi, non le sue norme come una certa stampa laicista pretenderebbe, a causare la «vergogna». Certo, il papa fa cenno al fatto che il problema della pedofilia non tocca soltanto - e neppure principalmente - i sacerdoti, così che non è senza malizia che certi media concentrano il loro fuoco sulla Chiesa e sul pontefice. Ma il papa, come Carrón, si pone ultimamente su un piano diverso. Parla della vita spirituale dei sacerdoti, la cui trascuratezza è alle radici del problema e cui chiede di ritornare attraverso l’adorazione eucaristica, le missioni, la pratica frequente della confessione. E il ritorno a Cristo non è solo per i preti: è per tutti noi.
Com’è potuta accadere, infatti, una tragedia così immane? Quelli che gli inglesi e gli americani chiamano the Sixties («gli anni ’60») e noi, concentrandoci sull’anno emblematico, «il Sessantotto» appaiono sempre di più come gli anni o il tempo di un profondo sconvolgimento dei costumi, con effetti cruciali e duraturi sulla religione. C’è stato del resto un Sessantotto nella società e anche un Sessantotto nella Chiesa: proprio il 1968 è l’anno del dissenso pubblico contro l’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI.
Con molto acume un pensatore cattolico brasiliano, Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), parlò a suo tempo di una “IV Rivoluzione” - successiva alla Riforma, alla Rivoluzione francese e a quella sovietica - più radicale delle precedenti perché capace di sconvolgere non solo il corpo sociale, ma il corpo umano. Nella Chiesa Cattolica della portata di questa rivoluzione non ci fu subito sufficiente consapevolezza. Anzi, essa contagiò - spiega nella sua lettera Benedetto XVI - «anche sacerdoti e religiosi», determinò «fraintendimenti» nell’interpretazione del Concilio, causò «insufficiente formazione, umana, morale e spirituale nei seminari e nei noviziati». In questo clima certamente non tutti i sacerdoti insufficientemente formati o contagiati dal clima successivo agli anni ’60, e nemmeno una loro percentuale significativa, divennero pedofili. E tuttavia questo numero non è uguale - come tutti vorremmo - a zero, e giustifica le severissime parole del papa.
Lo studio della “IV Rivoluzione” degli anni ’60, e del 1968, è cruciale per capire quanto è successo dopo, pedofilia compresa. E per trovare rimedi reali, che la Chiesa ha cominciato a porre in essere. Se questa rivoluzione, a differenza delle precedenti, è morale e spirituale e tocca l’interiorità dell’uomo, solo dalla restaurazione della moralità, della vita spirituale e di una verità integrale sulla persona umana potranno ultimamente venire i rimedi. Ma per questo i sociologi, come sempre, non bastano: occorrono i padri e i maestri, gli educatori e i santi.
IL CASO/ L’ultima follia della Corte europea: "abolire" la paternità e la maternità – Redazione - lunedì 12 aprile 2010 – ilsussidiario.net
Le sentenze vanno lette e capite, anche se in realtà non serve grande acume giuridico per intendere subito quanto contenuto nelle 22 pagine della recentissima sentenza della Corte europea sui diritti dell’uomo di Strasburgo n. 57813/00.
Il caso è quello di due coppie austriache affette, in modo diverso, da infertilità: nella prima la moglie ha una patologia alle tube (sebbene in grado di produrre ovociti) e il marito sterile, nella seconda la donna non produce ovociti, pur avendo l'utero funzionante. Entrambe le coppie hanno il forte desiderio di avere bambini che tuttavia non potranno mai nascere. Devono così devono ricorrere ad una fecondazione eterologa in vitro. Infatti per la prima coppia sarà necessario prelevare un ovocita della moglie, fecondarlo in vitro con lo sperma di un donatore estraneo alla coppia e, una volta ottenuto l’embrione, trasferirlo nell’utero della donna. Per la seconda, sempre ricorrendo alla fecondazione extracorporea, sarà necessaria una donatrice di ovocita e quindi la fecondazione dell’ovulo con il seme del marito della coppia, poi, ottenuto l’embrione, bisognerà procedere con l’impianto nell’utero.
Tecnica, questa, che però in Austria non è possibile secondo la Austrian Artificial Procreation Act, la legge che regola la materia. Una normativa che cioè prevede la possibilità di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita omologa (all’interno della coppia) sia in vivo che in vitro - ovvero la fecondazione può avvenire sia all’interno che all’esterno del corpo della donna - ed anche, in via del tutto eccezionale, la fecondazione eterologa in vivo, con la sola ed esclusiva possibilità, dunque, di donatore maschile. In altre parole in Austria è possibile ricorrere alla fecondazione eterologa solamente a condizione che sia il solo sperma ad essere donato e che la fecondazione stessa avvenga all’interno del corpo della donna.
Le coppie ricorrenti a Strasburgo contro lo Stato austriaco, hanno ritenuto l’Austrian Artificial Procreation Actdiscriminatoria poiché permette la fecondazione extracorporea solo all’interno della coppia, IVF omologa, e prevede la possibilità di una fecondazione eterologa in vivo, dunque esclude il ricorso all’eterologa con donatore di sesso femminile, pur considerando lecito e legittimo, sebbene eccezionale, il ricorso ad un donatore maschile.
La Corte analizza separatamente i due casi, ritenendoli non sovrapponibili, dapprima affronta la donazione di ovociti, poi la questione della fecondazione eterologa in vitro. E la soluzione, che appare accettabile nelle conclusioni (allorché parla di violazione della legge austriaca degli articoli 8 e 14 della Convenzione europea ovvero il diritto al rispetto della vita privata familiare e divieto di discriminazione), lascia insoddisfatti nelle motivazioni.
Per la Corte infatti è apparso discriminatorio che la normativa austriaca autorizzasse la donazione di sperma, sebbene in casi eccezionali, ma vietasse categoricamente quella di ovociti. Sebbene questo possa essere condiviso giuridicamente in uno Stato dove l’eterologa è già ammessa, appare del tutto priva di argomentazione giuridica sostenibile la motivazione della Corte europea. Poiché le motivazioni sostenute dallo Stato austriaco, che insieme a quello tedesco vieta la donazione di ovociti, sono condivisibili ed hanno un preciso fondamento giuridico, sociale, etico e antropologico, che andava confutato o quantomeno affrontato in maniera esaustiva.
Il divieto austriaco e tedesco, tenendo conto del principio mater semper certa est, pater est quem nuptiae demonstrant, - base del diritto di famiglia per tutti gli ordinamenti di derivazione romanistica - ha come fondamento l’interesse del bambino che non deve mai trovarsi nell’ambigua condizione di non conoscere precisamente l’identità della madre. Con la donazione di ovociti, a differenza della donazione di sperma, nella collaborazione alla “creazione” di un bambino vengono al contrario coinvolte due donne: la donatrice, madre genetica, e la gestante, madre biologica. E sarebbe una novità assoluta in natura e nella storia dell'umanità. L'univocità della maternità è sempre stata la base fondamentale del consenso sociale sotto un profilo morale storico e giuridico, per il diritto tedesco e austriaco. Dividere pertanto il concetto di maternità potrebbe compromettere lo sviluppo della personalità del bambino e determinare seri problemi alla sua identità.
Un altro pericolo considerato dal legislatore tedesco e austriaco consiste nel fatto che la madre biologica potrebbe ritenere, in caso di malattie genetiche o handicap del bambino, responsabile la madre genetica e dunque rifiutare il bambino tanto desiderato.
La Corte di Strasburgo però, sbrigativamente, ha considerato queste argomentazioni “non ragionevoli e obiettive a giustificare la differenza di trattamento”, spingendosi però molto oltre e in maniera pericolosa. E infatti, all’ulteriore obiezione da parte dello Stato austriaco e tedesco relativa al diritto del bambino di essere informato sulla patrimonialità genetica, risponde che questo non va considerato come un diritto assoluto. Così che secondo la Corte esiste il diritto ad essere genitori ad ogni costo, ma non quello di sapere chi siamo.
Più semplice è la soluzione relativa alla questione della fecondazione eterologa con donazione di sperma in vitro. Infatti è condivisibile accettare la conclusione della Corte e le motivazioni sostenute. Non è giustificabile il divieto per la fecondazione eterologa in vitro, quando è ammessa, seppur eccezionalmente, quella in vivo.
Questa sentenza, in realtà non impone nulla a nessuno Stato membro, ovvero non costituisce un precedente o una “speranza” per gli Stati dove l’eterologa è vietata, ma si limita semplicemente a rilevare delle contraddizioni esistenti in un Paese dove l’eterologa di per sé era già ammessa, sebbene il divieto esistente in Austria e in Germania di donazione di ovociti trova un forte fondamento etico, antropologico e giuridico che la Corte non è stata in grado di scalfire.