Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il testo della bellissima omelia del card. Caffarra in occasione del V anniversario della elezione di Benedetto XVI - Testo del 19 aprile 2010 - V anniversario della elezione al Soglio Pontificio di Papa Benedetto XVI in Cattedrale – dal blog degli amici di Papa Ratzinger
2) PAPA/ Barcellona: da laico, la mia difesa della Chiesa più forte di qualsiasi tradimento - INT. Pietro Barcellona - martedì 20 aprile 2010 – ilsussidiario.net
3) LETTERA/ "Ho 4 figli in affido ma sono un vero padre. Non un parcheggiatore" – Redazione - martedì 20 aprile 2010 – ilsussidiario.net
4) Avvenire.it, 20 Aprile 2010 - Nel cuore del Pontefice - Dolore e speranza come di «naufragio» - Marina Corradi
Il testo della bellissima omelia del card. Caffarra in occasione del V anniversario della elezione di Benedetto XVI - Testo del 19 aprile 2010 - V anniversario della elezione al Soglio Pontificio di Papa Benedetto XVI in Cattedrale – dal blog degli amici di Papa Ratzinger
1. « In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati». È a persone che lo cercano [«voi mi cercate»], che Gesù si rivolge. Ma esse o limitano la misura del loro desiderio o non ne hanno la giusta comprensione: per loro il pane mangiato è solo pane, e non segno che rimanda ad un cibo «che dura per la vita eterna».
In questa pagina evangelica è posta chiaramente sia la domanda circa Gesù: chi è veramente Gesù di Nazareth?, sia la domanda circa la misura del desiderio dell’uomo: che cosa l’uomo ha il diritto di sperare, una vita eterna o solo «un cibo che perisce»?
Cari fratelli e sorelle, il dialogo evangelico fra Gesù e le folle ci fa capire profondamente il servizio petrino di Benedetto XVI.
Esso è interamente teso a proporre la verità salvifica di Gesù al cuore dell’uomo del nostro tempo, e pertanto la questione della verità della fede cristiana è al centro del suo insegnamento. Non a caso nel suo stemma episcopale aveva scritto cooperatores veritatis.
Che cosa significa più esplicitamente tutto questo? Ritorniamo al testo evangelico. Gesù, come avete sentito, parla di un cibo «che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre ha messo il suo sigillo».
Cari fratelli, queste parole ci parlano di Dio, ce ne svelano il mistero. Nel suo servizio alla verità, il S. Padre ha costantemente insegnato il primo luogo la verità su Dio. L’affermazione con cui inizia il quarto Vangelo «in principio era il Verbo», costituisce «la parola conclusiva del concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi» [Benedetto XVI, Discorso di Regensburg]. E pertanto la proposta cristiana interloquisce in primo luogo con la ragione dell’uomo, esibendosi come la religione vera.
Ma questo non è tutto. Il testo evangelico ci ha detto che Dio in Gesù dona all’uomo un pane «che dura per la vita eterna». Il Dio vero in cui crediamo, non è una realtà inaccessibile. È un Dio che ama l’uomo, fino a condividerne il destino mortale per poterlo nutrire con un pane «che dura per la vita eterna». La prima enciclica di Benedetto XVI, quella programmatica del suo pontificato, inizia così «Deus charitas est» [Dio è carità].
La verità circa Dio è di un Dio che è il Verbo - Logos e identicamente l’Amore - Agape. Egli è identicamente il Dio «che abita una luce inaccessibile» e il Dio che entra nella nostra storia tribolata e contraddittoria. L’impegno di rendere presente questo Dio nella vita degli uomini – lo ha detto il Santo Padre stesso – è l’impegno fondamentale di questo pontificato.
Ma un “tale Dio” può essere incontrato solo mediante un atto della persona che faccia uso e di una ragione che decida di andare oltre se stessa, e di una libertà che non si faccia imprigionare dalla ipnosi dei beni umbratili. In una parola: può essere incontrato dalla fede. «Gesù rispose: questa è l’opera di Dio: credere in colui che ha mandato». E qui troviamo l’altro grande centro del servizio petrino di Benedetto XVI: salvare la ragione e quindi la libertà dell’uomo. È un servizio che può esprimersi positivamente nella formula: allargare gli spazi della ragione; e negativamente: rifiutare la dittatura del relativismo. È su questo piano che lo scontro mite e coraggioso del S. Padre colla cultura egemone in Occidente è totale, ed ha assunto ormai un profilo drammatico.
Quando il S. Padre parla di “allargare gli spazi della ragione” intende dire che la nostra ragione non è capace di conoscere solo ciò che è scientificamente sperimentabile, e solo ciò che noi possiamo tecnicamente realizzare. È ciò che dice Gesù alle folle: non fermatevi al pane che ha soddisfatto la vostra fame; in questo pane vedete un “segno” di un cibo che è risposta ad un desiderio illimitato di vita. Trascendere il sensibile per salire fino a Dio è una capacità ed un atto ragionevole.
Può sembrare strano che un Papa si erga a difensore della ragione con tanta forza. Non è, il successore di Pietro, prima di tutto il testimone del Vangelo? Cari fratelli e sorelle: la separazione tra la fede e la ragione distrugge la fede cristiana perché finisce col ridurla ad un fatto emotivo e puramente soggettivo. Una “ragione debole” è incapace di una fede ragionevole.
2. Cari amici, la seconda lettura ci ha narrato lo scontro tra Stefano ed il potere religioso del suo tempo. È intrinseco alla testimonianza cristiana lo scontro coi poteri di questo mondo.
Quale è il “potere del mondo” con cui oggi si scontra la testimonianza che quotidianamente Benedetto XVI rende a Cristo? Prima ho parlato della “dittatura del relativismo”. Con questa espressione il S. Padre intende quel modo di pensare oggi così diffuso secondo il quale non esiste alcuna verità universalmente valida circa ciò che è bene o male; che «non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».
Una tale posizione, sul piano etico, ha una potenza devastante smisurata. Vengono censurate non solo le norme morali del cristianesimo; ma ogni tentativo di mostrare che esistono norme morali che difendono “beni umani non negoziabili”, è rigettato in partenza. Mai l’uomo è stato esposto ad un pericolo più grave, dal momento che è stato privato del potere di riconoscere le prevaricazioni contro se stesso. Il “sistema spirituale immunitario” che lo difende da ogni attacco alla sua dignità – la convinzione che esistano beni umani non negoziabili – è stato annullato.
È su questo livello che lo scontro fra il S. Padre e il potere culturale del mondo è totale.
«Siedono i potenti, mi calunniano, ma il tuo servo medita i tuoi decreti», abbiamo or ora pregato col Salmo. Ecco: questo sembra essere l’atteggiamento fondamentale del S. Padre.
Questo deve essere l’atteggiamento della Chiesa, anche della Chiesa di Dio in Bologna. La fede ha già vinto il mondo, poiché essa ci radica nella divina Verità e trova corrispondenza profonda nel cuore di ogni uomo, fatto per incontrarsi con Dio nel Cristo.
PAPA/ Barcellona: da laico, la mia difesa della Chiesa più forte di qualsiasi tradimento - INT. Pietro Barcellona - martedì 20 aprile 2010 – ilsussidiario.net
Domenica a Malta il papa ha espresso «dolore» e «vergogna», incontrando le vittime di abusi commessi da membri della Chiesa. E c’è chi dice di averlo visto piangere, Benedetto XVI. Un dolore che conferma, con la sofferenza, quel «niente sembra bastare», di fronte al male e al bisogno di giustizia, di cui ha scritto Julián Carrón il giorno di Pasqua. Ilsussidiario.net ne ha parlato con il filosofo laico Pietro Barcellona.
Nella sua lettera a Repubblica sulla vicenda della pedofilia, Julián Carrón dice che il male commesso è tale che di fronte ad esso «niente sembra bastare». L’esigenza di giustizia - nostra, delle vittime - è infinita.
È la parte della sua lettera che considero più bella, perché tocca di più la mia sensibilità. Mi è sembrata importante l’affermazione che non c’è una misura umana per colmare il dolore e l’enormità di questa ferita che viene inferta. Non c’è sete di giustizia che possa essere saziata rispetto ad un male che sembra infinito. E che colpisce così profondamente che non sembra eliminabile con le misure umane. Tutto ciò è profondamente vero.
Ecco perché - continua la lettera - la risposta all'esigenza di giustizia, essendo la nostra domanda infinita, ma infinita anche l’umiliazione subita, può essere solo la Croce di Cristo. È quello che ha detto il papa.
L’esigenza infinita e non soddisfatta porta a rimettere in campo Cristo come portatore di un messaggio in cui l’amore va oltre il male. E va oltre il male perché è oltre il mondo. Solo così salva, mi pare, la nostra dimensione umana. Personalmente avverto il comandamento di Cristo come un fatto nuovo e sconvolgente. Perché il non fare agli altri quello che non si vorrebbe fosse fatto a noi è ancora un comandamento utilitaristico, ma l’amore di Cristo è un fatto assolutamente inedito. Tuttavia le questioni che Carrón pone lasciano una domanda aperta. L’enormità del male che ci circonda non per questo soffoca in noi un grido di ragione, e di spiegazione sul perché c’è questo male. Occorre capire.
Lei che risposta si dà?
Si può spiegare con il termine religioso di peccato, ma la pedofilia è qualcosa di molto specifico, che richiede una diagnosi particolare. Me ne sono occupato fin dal caso di Marcinelle, in Belgio, che spalancò l’orrore su un male che da allora non ci ha più lasciato. La pedofilia può venire solo da una ferita che non è stata risanata. Lo diceva Alice Miller in un suo libro degli anni ’70, La persecuzione del bambino. Chi abusa dei bambini lo fa in nome di un odio che viene da un odio verso se stessi, da un rancore derivante da una ferita subìta e ancora sanguinante. Si abusa solo, o in gran parte, se si è stati abusati. Si odia il bambino che non si è riusciti ad essere quando si era in quell’età. Io vi vedo uno dei mali emblematici della nostra epoca storica.
Perché?
Nel niente spirituale in cui siamo immersi, i genitori non hanno più il piacere di vedere nei figli il prolungamento della loro stessa vita e della loro storia. Non c’è più la catena vivente tra le generazioni e i bambini diventano la testimonianza di una negatività. È un tradimento dell’essere padre e madre. Temo che nel futuro dovremo purtroppo aspettarci una aumento della violenza contro i bambini. Chi ne fa solo un problema della Chiesa, è in malafede. Il papa, però, ha chiesto perdono e vederlo è stato commovente. Era stanco e provato. Provato dallo scandalo di questi delitti orribili, e dalla strumentalizzazione che ne ha fatto, e che continuerà a farne, una certa stampa.
Carrón, citando il papa, dice che solo Cristo può colmare il nostro bisogno infinito di perdono e la nostra esigenza infinita di giustizia. Come interroga questo la sua coscienza laica?
Vede, l’appartenenza a un dogma di cui non si può discutere non fa per me. Ma comprendo che Cristo, figlio di Dio e figlio d’uomo, ha donato se stesso. Capisco che il suo amore è agli antipodi di un decalogo prescrittivo di leggi da osservare in modo scrupoloso e farisaico. Il rapporto vero con Cristo è rapporto con una persona, una faccia, e questo secondo me è una rottura storica con tutte le altre morali religiose. L’amore di Cristo per l’uomo è l’unico appiglio in grado di salvare l’amore umano, perché amare il prossimo come noi stessi non è più così facile. Non sappiamo quasi più chi siamo ed è difficilissimo avere stima di sé.
«Tutto questo - dice Carrón all’inizio della lettera - è servito per mettere davanti ai nostri occhi la natura della nostra esigenza di giustizia. È senza confini. Senza fondo. Tanto quanto la profondità della ferita».
È un monito alla nostra impotenza ed è importante perché in quest’epoca non solo abbiamo perso l’infinito, ma anche il finito. È il nostro essere mortali che interroga l’oltre e l’infinito: se non fossimo destinati a morire nessuna delle nostre esperienze avrebbe il senso che ha. Oggi, invece, viviamo nella fantasia dell’immortalità, che non è l’infinito ma l’illusione di un prolungamento indeterminato della vita. È una delle negazioni pratiche dell’infinito più radicali che si possa concepire, la pretesa onnipotente di un uomo moderno molto meschino.
«Il papa si appella a Cristo - scrive Carrón - evitando uno scontro realmente insidioso: quello di staccare Cristo dalla Chiesa perché troppo piena di sporcizia per poterlo portare».
Penso che la lotta tra il demonio e l’angelo si combatta dentro di noi, ma anche dentro la Chiesa. Essa è un’istituzione e come tutte le istituzioni ha dentro le componenti «luciferine» che sono in ogni essere umano. Non mi piace che si tenti di dipingere la Chiesa come un’istituzione perfetta. Non lo è. Le istituzioni servono a salvare la memoria, e questo fa la Chiesa. Ma l’attualità di Cristo non è legata alla bontà della Chiesa. Per conto mio, anche una chiesa fatta di anticristi conserva la funzione istituzionale di salvare la memoria. Ed è la memoria a farmi rileggere il Vangelo, perché è il Vangelo quello che conta. Senza l’istituzione non sarebbe arrivato fino a noi.
Ieri sono stati cinque anni di pontificato di Benedetto XVI. Cosa la colpisce di Joseph Ratzinger?
Il suo ritorno molto forte alla figura di Cristo. Per Vito Mancuso, ad esempio, la figura di Cristo è un ingombro per l’incontro con le altre religioni. Quel che a lui sembra un ingombro, e in questo sto con Ratzinger, è l’assoluta novità del cristianesimo. È il vero antidoto a tutte le visioni che vogliono trasformare la religione in un’ecumene indistinta.
Aldo Schiavone su Repubblica ha detto che l’attuale crisi della Chiesa assomiglia molto ad una grande occasione persa. «Invece di elaborare una teologia della liberazione dell’umano dalle sue schiavitù millenarie, (…) ha preferito riscoprire le sue antiche vocazioni antimoderne, determinando un penoso vuoto di senso»: quel vuoto nel quale può accadere di tutto, pedofilia compresa. Che ne pensa?
Guardi, a me Aldo Schiavone fa un po’ sorridere, perché io e lui eravamo amici negli anni in cui il comunismo ci appariva come una grande liberazione. Considero il progressismo e la modernità, come sono rappresentati adesso da Aldo Schiavone, un’illusione peggiore di quella che abbiamo vissuto quando eravamo giovani comunisti convinti che lo stato avrebbe risolto tutti i problemi dell’uomo. Il progressismo è un’altra delle mitologie con cui gli uomini hanno cercato di sfuggire alla vera domanda: chi sono io? Questa domanda non è né progressista né reazionaria, ma esistenziale, e non può essere catalogata con le categorie della modernità come se questa ci avesse portato più avanti o più indietro rispetto a quello che Socrate ci aveva chiesto.
Schiavone dice ancora che la Chiesa ha commesso un peccato di speranza: ha intravisto la novità che si palesava all’orizzonte, ma «anziché elaborare le regole di un nuovo patto tra l’umano e il divino», riconciliarsi con la modernità e con la scienza, si è fermata sulla soglia, mancando l’appuntamento con la grande riforma.
Questo linguaggio non mi affascina, è scontato. La Chiesa fa il suo mestiere, come istituzione e come popolo. È un popolo di persone che vanno interpellate personalmente. Perché sono io a voler realizzare me stesso, a voler capire quello che mi sta dentro le viscere. Non si può accusare la Chiesa di non darci una speranza concepita secondo le nostre misure. Se uno crede in Cristo, la speranza la trova in Lui: nella sua mediazione vivente, non nelle idee astratte o nei libri.
(Federico Ferraù)
LETTERA/ "Ho 4 figli in affido ma sono un vero padre. Non un parcheggiatore" – Redazione - martedì 20 aprile 2010 – ilsussidiario.net
Caro direttore,
aleggia un pesante, doppio equivoco nelle storie raccontate dal Corriere della Sera in un articolo intitolato “Bambini prima affidati e poi tolti, l'Italia dei genitori ‘usa e getta’”. La tesi di fondo, suffragata da episodi di mala-giustizia minorile, è la riduzione dei genitori affidatari a luogo di “parcheggio” temporaneo, scartati con cinica brutalità una volta rientrata l’emergenza e profilatasi all’orizzonte una coppia adottiva con requisiti apparentemente più idonei dei loro.
È pur vero che è lo stesso istituto dell’affidamento a prevedere, presto o tardi, il distacco del minore dal nucleo che fin lì ha fatto le veci di mamma e papà naturali. Ma qualora si presentasse la possibilità di adottare il minore, troppo spesso - denuncia il quotidiano di via Solferino - la scelta dei Tribunali tende a escludere la coppia affidataria, nonostante la disponibilità di questa all’adozione. Il tutto a grave danno del minore, cui si chiede un secondo distacco dopo aver subìto un primo abbandono, e di mamma e papà affidatari, che vedono reciso un rapporto costruito a prezzo di sacrificio.
Scelte ingiuste e di poco buon senso, osserva il Corsera. La soluzione proposta è tutta, ancora una volta, nelle mani del legislatore: modifica della normativa a favore dei genitori affidatari cui si concede una via preferenziale “qualora l’affidamento del minore si risolva in adozione”.
E l’equivoco dove sta? Non mi soffermo sull’ipotesi di un cambiamento legislativo, probabilmente sensato. Tantomeno nego che, in alcuni casi, le scelte dei Tribunali producano più danni che benefici. C’e una svista, però, che pesa tutta sulla natura stessa dell’affido, sulla sua “vocazione”. L’accoglienza temporanea di minori non è e non può diventare una scorciatoia per arrivare ad adottarli (equivoco di natura giuridica). Né, di conseguenza, si può pretendere che i sacrifici patiti per tirar grande il frugoletto accolto siano in qualche modo da “ripagare” per forza: gli ho voluto bene fin qua, lasciatemelo (equivoco di natura educativa e culturale). Il punto è la ragione dell’accoglienza.
In casa mia girano da sei-sette anni i miei quattro figli. Tutti accolti e tutti e quattro in affido. Con storie e famiglie di origine differenti. Con temperamento, indole, livello di attaccamento talvolta opposti. Persino nello stato di salute c’è un abisso (il più piccolo è cerebroleso grave). Non mi è ancora toccato assistere al loro rientro nel nucleo naturale; né mi è capitato di vederne adottato qualcuno.
Eppure non passa giorno in cui non tocchi con mano ciò a cui appartengono. La loro profondissima e inestirpabile origine: un altro padre, un’altra madre. Da cui hanno ricevuto quel particolare viso, quel timbro di voce, quella timidezza o quella sfrontatezza insopportabile che non hanno niente di mio. Portarseli in casa ha voluto dire accogliere tutto di loro, anche quelli a cui sono stati tolti: mamma-papà-nonni-zii-zie, che talvolta ci ritroviamo ospiti il sabato a pranzo o la domenica per una giornata intera.
ian piano scopri che la frase “accompagno mia figlia da suo padre” non è roba da schizofrenici. Perché la fanciulla è ugualmente “mia” nonostante l’abbia fatta un altro, ma non è “mia” fino in fondo perché di mezzo c’è sempre un altro (e da quell’altro è destinata a tornare). Si impara, pian piano, a rinunciare al possesso (qualche traccia ti rimane sempre addosso...) e a trattare i figli accolti come il tesoro più prezioso.
Impari a non pretenderne in cambio qualcosa, perché la caparra è già lì, nella grazia che ti è data di essere padre. Padre per un tempo breve e sconosciuto. Finito il quale ci si scopre un po’ come i servi del Vangelo: “Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili”.
Si impara tutto questo se lo si vive per primi sulla propria pelle. Se, cioè, nella vita di chi fa accoglienza, esiste qualcuno che li tratta con un amore incondizionato. L’improvvisazione non regge. I buoni propositi ancor meno.
Presto o tardi i miei figli se ne andranno. Chi in un modo, chi in un altro. Chi per una ragione (magari priva di senso), chi per un’altra (il mio piccolo ha una aspettativa di vita molto bassa). Non mi sarò sentito un “parcheggiatore”. Né usato e poi gettato. Vivrò l’orgoglio di dire che ne sono stato il padre. E se di loro perderò le tracce, saprò che ci rivedremo - se ce lo saremo guadagnati - in paradiso.
(Cristiano Guarneri)
Avvenire.it, 20 Aprile 2010 - Nel cuore del Pontefice - Dolore e speranza come di «naufragio» - Marina Corradi
Uno degli otto che a Malta hanno incon trato Benedetto XVI e faccia a faccia gli hanno raccontato la loro storia di bambini violati ha detto che il Papa ha pianto, nell’a scoltare. Segreto e riservatissimo l’incontro, nessuna telecamera si è allungata a cogliere l’istante in cui la compassione, il cum - pa tere, soffrire insieme, traboccava sul viso di Benedetto XVI. Lo ha testimoniato solo, me ravigliato, un visitatore: «ll Papa ha pianto con me». Piangere, e soprattutto davanti ad altri uo mini, non è abitudine dei grandi della Terra. Se mai succede, lo fanno da soli, perché nes suno veda ciò che comunemente è inteso co me stigma di confusione e debolezza. «Ver gogna », e senso di «tradimento» sono le espressioni che lo stesso Benedetto ha usato nella Lettera ai cattolici d’Irlanda.
Però non c’è, in quella sofferenza trapelata a Malta, so lo il dolore del male, né solo senso di sconfitta. In volo verso l’isola dove Pao lo fece naufragio, il Papa ha detto ai giornalisti: «Pen so che il motivo del naufragio parli per noi. Dal naufragio, per Malta è nata la fortuna di avere la fede. Così anche noi possiamo pen sare che i naufragi della vita possono fare il progetto di Dio e possono essere utili per nuovi inizi nella nostra vita». Singolare, straordinaria cristiana lettura di ciò che, normalmente, gli uomini chia mano semplicemente disgrazia, o colpa, ma in ogni caso identificano in un pu ro male, come il rivoltarsi di un avverso de stino. I marinai della nave di Paolo, in balia del Mediterraneo, alla deriva in un orizzonte sen za approdi, maledivano probabilmente il giorno in cui erano partiti – il giorno in cui un Caso maligno li aveva arruolati in quella im presa. Paolo invece, lo ha ricordato il Papa, e ra certo: «Ci dovremo imbattere in un’isola». Spezzata la rotta per Roma, pure non dubi tava che anche quel naufragio fosse disegno di Dio.
Il fondo della sventura, la nave sfa sciata dalle onda e l’equipaggio miserabil mente approdato sugli scogli: eppure Paolo era convinto che non fosse la fine, ma un al tro inizio. (Non è quasi mai così, fra gli uomi ni. Di fronte a una dura sconfitta molti si i steriliscono nella rabbia. I più si rassegnano, amari. Qualcuno si ribella fino a voler mori re. Non è cosa del mondo, questo modo di guardare a un naufragio: come al germoglia re di un seme selvatico, non seminato, e che tuttavia spunta in un giardino). Già almeno una volta Benedetto XVI ha usa to questa espressione, naufragio. «Senza un morire – ha scritto nel 'Gesù di Nazaret' – senza il naufragio di ciò che è solo nostro, non c’è comunione con Dio, non c’è redenzione». Dicendoci che il nostro progetto, anche il mi gliore, non è necessariamente quello di Dio, che strappò le vele alla nave di Paolo, a Mal ta. Dicendo che il fallimento accettato nella conversione può essere fertile di vita nuova. Che non ci salviamo da noi, ma veniamo sal vati da Cristo. Che sguardo 'altro', e che altra prospettiva, mentre ancora i titoli dei giornali stanano e inseguono accaniti vicende di preti colpevo li – quasi soddisfatti che anche gli uomini di Dio siano a volte miserabili come gli altri. «Il Papa ha pianto», ha detto un ex bambino vio lato a Malta. Lo ha detto meravigliato e commosso; perché ha visto in faccia al Papa vero dolore. Eppure, insieme, una assoluta, ferrea certezza di un bene, tuttavia, perfino di quel male più grande.
Marina Corradi