Nella rassegna stampa di oggi:
1) BENEDETTO XVI: LA DOMENICA DELLA MISERICORDIA DI DIO - Recita il "Regina Caeli" con fedeli e pellegrini - CASTEL GANDOLFO, domenica, 11 aprile 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI durante la recita del Regina Caeli insieme ai pellegrini riuniti nel cortile del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo e, via televisione, ai presenti in Piazza San Pietro in Vaticano.
2) PASQUA: L'AUTOGOL DELL'AUTORE DELLA MORTE - II Domenica di Pasqua, 11 aprile 2010 - di padre Angelo del Favero*
3) Avanti un'altra (bufala) sui preti pedofili. La lettera del 1985 del cardinale Ratzinger - Massimo Introvigne
4) La passione di papa Benedetto. Sei accuse, una domanda - La pedofilia è solo l'ultima delle armi puntate contro Joseph Ratzinger. E ogni volta egli è attaccato dove più esercita il suo ruolo di guida. Uno ad uno, i punti critici di questo pontificato - di Sandro Magister
5) LA RISPOSTA AI CASI DI ABUSI SESSUALI - Analisi di padre Federico Lombardi S.I. - CITTA' DEL VATICANO, domenica, 11 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l'analisi di padre Federico Lombardi, S.I., direttore della Sala Stampa vaticana, dal titolo "Dopo la Settimana Santa, tenere la rotta", diffusa dalla "Radio Vaticana".
6) LA SINDONE, "RIMANDO ALL'AMORE INFINITO DI GESÙ" - Intervista al presidente della Commissione diocesana - di Chiara Santomiero - ROMA, domenica, 11 aprile 2010 (ZENIT.org).- In occasione dell'inizio della Solenne Ostensione 2010 della Sacra Sindone, ZENIT ha chiesto a monsignor Giuseppe Ghiberti, presidente della Commissione diocesana della Sindone, di spiegare il valore religioso per il credente del telo che secondo la tradizione avrebbe avvolto il corpo di Gesù prima della Resurrezione.
7) OMELIA DI BENEDETTO XVI PER LA VEGLIA DI PASQUA - ROMA, domenica, 4 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere questo sabato, nella Basilica Vaticana, la solenne Veglia nella Notte Santa di Pasqua.
8) Il drammatico racconto di una donna: "I medici dicevano che non avrei avuto fastidi, invece è terribile. E devi fare tutto da sola". - di Melania Rizzoli, il Giornale, 3 aprile 2010
9) Avvenire.it, 10 Aprile 2010 - Il caso Andalusia - Nel suk dell'umano arriva anche l'aborto in saldo - Assuntina Morresi
10) 12 Aprile. Giuseppe Moscati: un santo scomodo per la vulgata televisiva - Autore: Restelli, Silvio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 10 aprile 2010
11) La Passione della Chiesa - 2 APRILE 2010 / IN NEWS - La Passione della Chiesa, che è in corso, è stata profetizzata per filo e per segno. Qualunque cosa si pensi delle moderne apparizioni della Madonna, i documenti parlano chiaro. - Antonio Socci - Da “Libero”, 2 aprile 2010
12) Avvenire.it, 10 Aprile 2010 - TRA FEDE E DEVOZIONE - «Davanti alla Sindone con la nostalgia di Dio» - Marina Corradi
13) Avvenire.it, 9 Aprile 2010 - FEDE E RAGIONE - Sindone, sfida alla scienza - Bruno Barberis, direttore del Centro internazionale di sindonologia
14) IL CICLO DI TV2000 SULLA VITA CLAUSTRALE - Il silenzio che offre forza vero «spettacolo clamoroso» - ANNA MARIA CÀNOPI* - Avvenire, 11 aprile 2010
15) Eterologa per sentenza: è la «nuova» Corte europea - Prima il verdetto sul crocifisso, poi quello contro il divieto in Austria di ricorrere a gameti altrui nella Pma Sulle «stranezze» della Corte di Strasburgo il commento di un suo ex giudice, Javier Borrego
BENEDETTO XVI: LA DOMENICA DELLA MISERICORDIA DI DIO - Recita il "Regina Caeli" con fedeli e pellegrini - CASTEL GANDOLFO, domenica, 11 aprile 2010 (ZENIT.org).- Riportiamo le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI durante la recita del Regina Caeli insieme ai pellegrini riuniti nel cortile del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo e, via televisione, ai presenti in Piazza San Pietro in Vaticano.
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Cari fratelli e sorelle!
L'odierna domenica conclude l'Ottava di Pasqua, come un unico giorno "fatto dal Signore", contrassegnato con il distintivo della Risurrezione e della gioia dei discepoli nel vedere Gesù. Fin dall'antichità questa domenica è detta "in albis", dal nome latino "alba", dato alla veste bianca che i neofiti indossavano nel Battesimo la notte di Pasqua e deponevano dopo otto giorni. Il Venerabile Giovanni Paolo II ha intitolato questa stessa domenica alla Divina Misericordia, in occasione della canonizzazione di Suor Maria Faustina Kowalska, il 30 aprile del 2000.
Di misericordia e di bontà divina è ricca la pagina del Vangelo di san Giovanni (20,19-31) di questa Domenica. Vi si narra che Gesù, dopo la Risurrezione, visitò i suoi discepoli, varcando le porte chiuse del Cenacolo. Sant'Agostino spiega che "le porte chiuse non hanno impedito l'entrata di quel corpo in cui abitava la divinità. Colui che nascendo aveva lasciata intatta la verginità della madre poté entrare nel cenacolo a porte chiuse" (In Ioh. 121,4: CCL 36/7, 667); e san Gregorio Magno aggiunge che il nostro Redentore si è presentato, dopo la sua Risurrezione, con un corpo di natura incorruttibile e palpabile, ma in uno stato di gloria (cfr Hom. in Evag., 21,1: CCL 141, 219). Gesù mostra i segni della passione, fino a concedere all'incredulo Tommaso di toccarli. Come è possibile, però, che un discepolo possa dubitare? In realtà, la condiscendenza divina ci permette di trarre profitto anche dall'incredulità di Tommaso oltre che dai discepoli credenti. Infatti, toccando le ferite del Signore, il discepolo esitante guarisce non solo la propria, ma anche la nostra diffidenza.
La visita del Risorto non si limita allo spazio del Cenacolo, ma va oltre, affinché tutti possano ricevere il dono della pace e della vita con il "Soffio creatore". Infatti, per due volte Gesù disse ai discepoli: "Pace a voi!", e aggiunse: "Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi". Detto questo, soffiò su di loro, dicendo: "Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati". È questa la missione della Chiesa perennemente assistita dal Paraclito: portare a tutti il lieto annuncio, la gioiosa realtà dell'Amore misericordioso di Dio, "perché - come dice san Giovanni - crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome" (20,31).
Alla luce di questa parola, incoraggio, in particolare, tutti i Pastori a seguire l'esempio del santo Curato d'Ars, che, "nel suo tempo, ha saputo trasformare il cuore e la vita di tante persone, perché è riuscito a far loro percepire l'amore misericordioso del Signore. Urge anche nel nostro tempo un simile annuncio e una simile testimonianza della verità dell'Amore" (Lettera di indizione dell'Anno Sacerdotale). In questo modo renderemo sempre più familiare e vicino Colui che i nostri occhi non hanno visto, ma della cui infinita Misericordia abbiamo assoluta certezza. Alla Vergine Maria, Regina degli Apostoli, chiediamo di sostenere la missione della Chiesa, e La invochiamo esultanti di gioia: Regina Caeli...
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Come tutti sappiamo, ieri si è verificato il tragico incidente aereo a Smolensk in cui sono periti il Presidente della Polonia, Signor Lech Kaczynski, la moglie, diverse alte Autorità dello Stato polacco e tutto il seguito, compreso l'Arcivescovo Ordinario Militare. Nell'esprimere il mio profondo cordoglio, assicuro di cuore la preghiera di suffragio per le vittime e di sostegno per l'amata Nazione polacca.
Ieri ha avuto inizio a Torino la solenne ostensione della sacra Sindone. Anch'io, a Dio piacendo, mi recherò a venerarla il prossimo 2 maggio. Mi rallegro per questo evento, che ancora una volta sta suscitando un vasto movimento di pellegrini, ma anche studi, riflessioni e soprattutto uno straordinario richiamo verso il mistero della sofferenza di Cristo. Auspico che questo atto di venerazione aiuti tutti a cercare il Volto di Dio, che fu l'intima aspirazione degli Apostoli, come anche la nostra.
Rivolgo uno speciale saluto ai pellegrini convenuti a Roma in occasione dell'odierna Domenica della Divina Misericordia. Benedico tutti di cuore, in particolare gli animatori del Centro di Spiritualità di Santo Spirito in Sassia: che l'immagine di Gesù Misericordioso, cari amici, risplenda in voi, nella vostra vita!
Saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, presenti sia qui, sia in Piazza San Pietro: i numerosi giovani dell'UNITALSI, che incoraggio nella loro opera di volontariato; l'Unione dell'Apostolato Cattolico, fondata da un grande prete romano, san Vincenzo Pallotti; il Movimento dell'Amore Familiare, i cui membri questa notte hanno vegliato in preghiera per il Papa e per la Chiesa - grazie! -; le Misericordie d'Italia, che traducono la misericordia evangelica in servizio sociale; e infine i cresimandi di Statte e i fedeli di Pordenone. A tutti, e in modo particolare agli abitanti di Castel Gandolfo, auguro una buona domenica.
[© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana]
PASQUA: L'AUTOGOL DELL'AUTORE DELLA MORTE - II Domenica di Pasqua, 11 aprile 2010 - di padre Angelo del Favero*
ROMA, domenica, 11 aprile 2010 (ZENIT.org).- "La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: "Pace a voi!". Detto questo mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, così anch'io mando voi". Detto questo soffiò e disse loro: "Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati".
Tommaso, uno dei dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù.
Gli dicevano gli altri discepoli: "Abbiamo visto il Signore!". Ma egli disse loro: "Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo".
Otto giorni dopo i discepoli erano ancora in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: "Pace a voi!". Poi disse a Tommaso: "Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!". Gli rispose Tommaso: "Mio Signore e mio Dio!". Gesù gli disse: "Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!".(Gv 20,19-29).
"Rendete grazie al Signore perché è buono: eterna è la sua misericordia. Lo dica Israele: "Eterna è la sua misericordia". Lo dica la casa di Aronne: "Eterna è la sua misericordia". Lo dica chi teme il Signore: "Eterna è la sua misericordia"" (Salmo 118/117, 1-4).
Oggi, II Domenica di Pasqua, la Chiesa desidera esaltare la smisurata Misericordia di Dio verso tutti gli uomini, manifestata nel mistero pasquale.
E' questa la volontà stessa del Fondatore e Capo della Chiesa, confidata nel 1931 ad un'umile suora polacca ed attuata da Giovanni Paolo II il 5 maggio 2000, mediante il Decreto che questa Domenica sia chiamata: "Domenica della Divina Misericordia".
In vero, ogni Domenica dell'anno merita questo titolo, poiché il mirabile sacramento dell'Eucaristia è memoriale perenne di quell'eterna Misericordia che è la Pasqua del Signore: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui" (Gv 3,16-17).
Ecco dunque la situazione dell'umanità: il malato terminale (il mondo intero) ha ora a sua inesauribile disposizione il farmaco salva-vita...eppure, mentre sprofonda nel baratro della morte, rifiuta assurdamente l'elisir dell'immortalità, scaturito dal cuore aperto del Signore crocifisso e risorto.
Lo sguardo della fede, tuttavia, è in grado di vedere quello che Benedetto XVI ha annunciato "Urbi et orbi" nel giorno di Pasqua: "la Risurrezione di Cristo è un avvenimento che ha modificato l'orientamento profondo della storia, sbilanciandola una volta per tutte dalla parte del bene, della vita, del perdono" (Messaggio di Pasqua 2010).
In una parola ed oltre le apparenze: tale sguardo illuminato riesce a vedere come attraverso uno spiraglio, la Misericordia di Dio che ovunque opera nel mondo.
In certo qual modo, la vede come la videro gli occhi di suor Faustina Kowalska, a Wilno, il 10.10.1934. Ecco il suo racconto: "Quel venerdì, dieci minuti prima delle sei, rientravo dal giardino con le alunne per la cena. Ed ecco Gesù, al di sopra della nostra cappella, in quel medesimo aspetto con cui è dipinto sull'immagine. I due raggi che gli uscivano dal petto coprivano la nostra cappella con l'adiacente infermeria. Poco dopo li vidi cingere la città intera, lentamente diffondendosi sempre più lontano, su tutto il mondo. La visione durò quattro minuti circa, poi scomparve" (Carlo Vivaldelli, "Scoprire la Misericordia", p. 98).
E' significativo che la santa polacca "abbia visto questo Figlio come Dio misericordioso, contemplandolo però non tanto sulla croce, quanto piuttosto nella successiva condizione di Risorto nella gloria. Ella ha perciò collegato la sua mistica della Misericordia con il mistero della Pasqua, in cui Cristo si presenta vittorioso sul peccato e sulla morte (cfr Gv 20,19-23)" (G.P.II, "Memoria e identità", p. 70).
Un collegamento che l'immagine di "Gesù-confido-in-te", diffusa in tutto il mondo, consente di fare ad ognuno che si inginocchi a contemplarla con la fede dei piccoli.
Approfondiamo allora la conoscenza di questa Divina Misericordia.
La sua essenza può essere definita come "Amore materno e fedele", unificando così i due significati biblici di hesed (fedeltà) e rahamin (grembo materno gravido), tradotti con "amore, misericordia".
Scrive Giovanni Paolo II: "Di questo amore si può dire che è totalmente gratuito, non frutto di merito, è un'esigenza del cuore...genera una gamma di sentimenti, tra i quali la bontà e la tenerezza, la pazienza e la compassione, cioè la prontezza a perdonare. L'A.T. attribuisce al Signore, appunto, tali caratteri, quando parla di lui servendosi del termine rahamin.
Leggiamo in Isaia: "Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi del frutto del suo seno? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io non ti dimenticherò mai" (Is 49,15)" (cfr Enciclica "Dives in Misericordia", n.4, nota 52).
Gesù è l'incarnazione della divina Misericordia, il Frutto del seno di Maria disceso in lei dal Seno del Padre (Gv 1,18).
Scrive suor Faustina: "L'amore è il fiore e la Misericordia il frutto...dall'Amore nasce la Misericordia. Dio è Amore e la sua azione è Misericordia. Dovunque io guardi, tutto mi parla di Misericordia e l'ultima ora della nostra vita ne trabocca. La Misericordia è più forte d'ogni possibile miseria. Basta che il peccato apra al raggio divino uno spiraglio, Dio poi fa il resto." (C.V., op. cit., p.42-43).
Un semplice spiraglio di umiltà per non soffocare!
"Quanto bisogno della Misericordia di Dio ha il mondo di oggi! In tutti i continenti, dal profondo della sofferenza umana, sembra alzarsi l'invocazione della Misericordia. Dove dominano l'odio e la sete di vendetta, dove la guerra porta il dolore e la morte degli innocenti occorre la grazia della Misericordia a placare le menti e i cuori, e a far scaturire la pace. Dove viene meno il rispetto per la vita e la dignità dell'uomo, occorre l'amore misericordioso di Dio, alla cui luce si manifesta l'inesprimibile valore di ogni essere umano. Occorre la Misericordia per far sì che ogni ingiustizia nel mondo trovi il suo termine nello splendore della verità" (Giovanni Paolo II, Omelia a Lagiewniki, nella dedicazione del Santuario della Divina Misericordia, 17 agosto 2002).
Perciò non facciamoci ingannare né scoraggiare dalle apparenze, e volgiamo piuttosto lo sguardo a "Colui che hanno trafitto" (Gv 19,37), vivo in mezzo a noi. Ecco infatti rivelata ed operante in Lui l'inconcepibile Misericordia di Dio: per assicurare al mondo lo spiraglio necessario al raggio divino per compiere la sua opera di salvezza, uno spiraglio che mai possa essere obliterato dal peccato, l'innocente Figlio di Dio, ha voluto farsi squarciare il cuore dal peccato, in modo da riversare per sempre sull'intera umanità un'onda di Misericordia travolgente.
Ascoltiamo ancora Giovanni Paolo II, sul Vangelo di oggi:
"La nostra attenzione si sofferma sul gesto del Maestro, che trasmette ai discepoli timorosi e stupefatti la missione di essere ministri della divina Misericordia. Gesù affida ad essi il dono di "rimettere i peccati", dono che scaturisce dalle ferite delle sue mani, dei suoi piedi, e soprattutto del suo costato trafitto. Di là un'onda di Misericordia si riversa sull'intera umanità.
Anche a noi quest'oggi il Signore mostra le sue piaghe gloriose e il suo cuore, fontana inesausta di luce e di verità, di amore e di perdono. Attraverso il mistero di questo cuore ferito, non cessa di spandersi anche sugli uomini e sulle donne della nostra epoca, il flusso ristoratore dell'amore misericordioso di Dio. "Gesù, confido in Te". Un semplice atto d'abbandono basta ad infrangere le barriere del buio e della tristezza, del dubbio e della disperazione. I raggi della tua divina misericordia ridanno speranza, in modo speciale, a chi si sente schiacciato dal peso del peccato". (G.P.II, Omelia nella II Domenica di Pasqua, 22/4/2001).
Il primo di costoro è stato l'apostolo Pietro, il quale, dopo aver rinnegato tre volte il maestro amato, non ha rifiutato il suo sguardo misericordioso.
Senza mezzi termini, a Pasqua Pietro accusa gli Israeliti nel tempio: "Avete ucciso l'autore della vita.." (At 3,15); tuttavia, con la stessa misericordia che Gesù ha avuto per lui li chiama "fratelli", e prosegue con bontà: "io so che avete agito per ignoranza.." (v.17).
Riconosciamo con l'apostolo che il peccato contro la Vita è al centro del mistero dell'iniquità, e perciò stesso anche del mistero della Redenzione.
Gesù è "la vita" ed è "l'autore" della vita; è Colui che la concepisce nel grembo come per un tocco di Sé, e la fa "aumentare", crescere e sviluppare verso un sempre-di-più che è ancora Lui: "Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza" (Gv 10,10).
Egli ha il potere di sconfiggere l'autore della morte, il diavolo, le cui opere è venuto a distruggere.
Così "nella fede in Gesù, la vita che giace abbandonata e implorante ritrova consapevolezza di sé e dignità piena" (Evangelium vitae, n.32).
Mentre lo uccidevano, Gesù implorava: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23,34), e il Padre lo ha esaudito appena morto, quando satana stesso, dopo aver indotto il soldato all'estremo oltraggio del colpo di lancia, ha permesso che ne scaturissero subito "sangue e acqua" (Gv 19,34), come ondata di Misericordia perenne che ridona la vita al mondo intero.
* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.
Avanti un'altra (bufala) sui preti pedofili. La lettera del 1985 del cardinale Ratzinger - Massimo Introvigne
È durata ventiquattr’ore la nuova bufala americana lanciata dall’Associated Press contro il Papa. Anche i media più ostili, incalzati dagli esperti di diritto canonico, hanno fatto marcia indietro. Ma all’insegna del “calunniate, calunniate, qualche cosa resterà” agli utenti più distratti dei media rimarranno in testa solo i titoli secondo cui l’attuale Pontefice nel 1985 “protesse un prete pedofilo”.
Per capire il significato della lettera del 6 novembre 1985 del cardinale Ratzinger a mons. John Stephen Cummins (e non “Cummings”), vescovo di Oakland (California) occorre qualche semplice nozione di diritto canonico. La perdita dello stato clericale può avvenire (a) come pena comminata dal diritto canonico per delitti particolarmente gravi; oppure (b) su richiesta dello stesso sacerdote. Un sacerdote accusato o anche condannato per pedofilia può dunque perdere lo stato clericale (a) come pena per il suo delitto oppure (b) su sua richiesta, che il prete pedofilo può avere interesse ad avanzare per diversi motivi, per esempio per sfuggire alla sorveglianza della Chiesa (quello dello Stato talora è più blanda, come molte vicende provano) o anche perché vuole sposarsi. Nel primo caso si punisce il prete pedofilo. Nel secondo caso gli si fa un favore.
La pena per il delitto di pedofilia – la punizione – fino al 2001 era comminata dalle singole diocesi; la competenza è passata alla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 2001. L’esame delle richieste di dispensa dallo stato clericale – il favore – invece già nel 1985 era di competenza della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Nel 1985 Stephen Miller Kiesle, sacerdote accusato di abusi su minori, è parte di due diversi procedimenti. Il primo riguarda l’indagine canonica suscettibile di portare alla dimissione dallo stato clericale di don Kiesle come pena per gli abusi compiuti. Questa indagine è di stretta competenza della diocesi di Oakland. La Congregazione per la Dottrina della Fede non c’entra, né se ne occupa.
Il secondo e diverso procedimento riguarda la richiesta dello stesso don Kiesle di una dispensa dallo stato clericale. Questa richiesta giunge sul tavolo della Congregazione per la Dottrina della Fede la quale, per una prassi che ha valore di regolamento, di fatto non concede la dispensa a chi non abbia compiuto i quarant’anni. Don Kiesle ne ha trentotto e il vescovo Cummins chiede alla Congregazione di fare un’eccezione perché, accogliendo la richiesta di Kiesle di essere ridotto allo stato laicale su sua domanda, Roma toglierebbe la diocesi di Oakland dall’imbarazzo di proseguire nell’indagine penale per gli abusi (indagine che, appunto, nel 1985 – prima delle modifiche procedurali del 2001 – era di stretta competenza della diocesi e su cui la Congregazione diretta dal cardinale Ratzinger non poteva intervenire). Se la Congregazione avesse accolto la domanda di Kiesle non avrebbe “punito” il sacerdote, ma gli avrebbe fatto un favore: infatti Kiesle voleva lasciare il sacerdozio in quanto intendeva sposarsi. È molto importante distinguere accoglimento di una domanda di dispensa dallo stato clericale, un beneficio accordato al sacerdote, di competenza della Congregazione, e dimissione dallo stato clericale come punizione, di competenza (fino al 2001) della diocesi e non di Roma.
Il cardinale Ratzinger, come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, risponde esprimendo simpatia per la delicata posizione del vescovo – cioè, in termini meno curiali, gli dice che capisce bene che al vescovo piacerebbe che fosse Roma a togliergli le castagne dal fuoco – ma ritiene che per il bene della Chiesa si debba rispettare rigorosamente la prassi, e cioè considerare che l’età del richiedente non permette di accogliere la sua richiesta di dispensa dallo stato clericale. “Considerando il bene universale della Chiesa” – il che evidentemente non significa “per evitare scandali” (del caso di abusi sessuali attribuiti a Kiesle si era parlato ampiamente in California, e lo scandalo c’era già stato) ma “per non creare un precedente che aprirebbe la porta a molte altre richieste di dispensa di sacerdoti di meno di quarant’anni” – il cardinale Ratzinger spiega al vescovo che si dovrà prudentemente attendere, come sempre avviene nel caso di richieste di sacerdoti che non hanno compiuto il quarantesimo anno di età.
Nel frattempo la diocesi di Oakland potrà naturalmente proseguire la diversa indagine penale suscettibile di portare Kiesle alla dimissione dallo stato clericale non su sua richiesta ma come pena per gli abusi compiuti. Mentre la diocesi di Oakland continua a indagare su Kiesle – e lo esclude da attività di ministero – nel 1987 il sacerdote compie quarant’anni. A questo punto, come da prassi, la Congregazione accoglie la sua richiesta di riduzione allo stato laicale. Kiesle lascia l’esercizio del ministero sacerdotale e si sposa. È ben noto alle autorità di polizia come personalità disturbata e sospetto di abusi su minori. Le vicende di Kiesle successive al 1987 evidentemente non coinvolgono nessuna responsabilità della Chiesa, ma solo dei tribunali civili e della polizia. Se ha compiuto nuovi abusi la colpa non è della Chiesa – che Kiesle aveva abbandonato e che non aveva più nessun titolo per sorvegliarlo – ma delle autorità civili.
Come aver rifiutato una richiesta che un prete sospettato di pedofilia, il quale intendeva sposarsi, avanzava chiedendo un favore nel suo stesso interesse equivalesse a “proteggere il prete pedofilo è qualcosa che forse dovrebbe spiegarci l’Associated Press.
La passione di papa Benedetto. Sei accuse, una domanda - La pedofilia è solo l'ultima delle armi puntate contro Joseph Ratzinger. E ogni volta egli è attaccato dove più esercita il suo ruolo di guida. Uno ad uno, i punti critici di questo pontificato - di Sandro Magister
ROMA, 7 aprile 2010 – L'attacco che colpisce papa Joseph Ratzinger con l'arma dello scandalo dato da preti della sua Chiesa è una costante di questo pontificato.
È una costante perché ogni volta, su un terreno diverso, è colpito in Benedetto XVI proprio l'uomo che ha operato e opera, su quello stesso terreno, con più lungimiranza, con più risolutezza e con più frutto.
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La tempesta seguita alla sua lezione di Ratisbona del 12 settembre 2006 è stata la prima della serie. Si accusò Benedetto XVI di essere un nemico dell'islam e un fautore incendiario dello scontro tra le civiltà. Proprio lui che con una lucidità e un coraggio unici aveva svelato dove affonda la radice ultima della violenza, in un'idea di Dio mutilata dalla razionalità, e quindi aveva detto anche come vincerla.
Le aggressioni e persino le uccisioni che seguirono alle sue parole ne confermarono dolorosamente la giustezza. Ma che egli avesse colto nel segno è stato confermato soprattutto dai passi di dialogo tra la Chiesa cattolica e l'islam che si sono registrati in seguito – non contro ma grazie alla lezione di Ratisbona – e di cui la lettera al papa dei 138 saggi musulmani e la visita alla Moschea Blu di Istanbul sono stati i segni più evidenti e promettenti.
Con Benedetto XVI, il dialogo tra il cristianesimo e l'islam, come pure con le altre religioni, procede oggi con una più nitida consapevolezza su ciò che distingue, in forza della fede, e su ciò che può unire, la legge naturale scritta da Dio nel cuore di ogni uomo.
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Una seconda ondata di accuse contro papa Benedetto lo dipinge come un nemico della ragione moderna e in particolare della sua suprema espressione, la scienza. L'acme di questa campagna ostile fu toccato nel gennaio del 2008, quando dei professori costrinsero il papa a cancellare una visita nella principale università della sua diocesi, l'Università di Roma "La Sapienza".
Eppure – come già a Ratisbona e poi a Parigi al Collège des Bernardins il 12 settembre 2008 – il discorso che il papa intendeva rivolgere all'Università di Roma era una formidabile difesa del nesso indissolubile tra fede e ragione, tra verità e libertà: "Non vengo a imporre la fede ma a sollecitare il coraggio per la verità".
Il paradosso è che Benedetto XVI è un grande "illuminista" in un'epoca in cui la verità ha così pochi estimatori e il dubbio la fa da padrone, fino a volergli togliere la parola.
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Una terza accusa scagliata sistematicamente contro Benedetto XVI è di essere un tradizionalista ripiegato sul passato, nemico delle novità portate dal Concilio Vaticano II.
Il suo discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005 sull'interpretazione del Concilio e poi, nel 2007, la liberalizzazione del rito antico della messa sarebbero le prove nelle mani dei suoi accusatori.
In realtà, la Tradizione alla quale Benedetto XVI è fedele è quella della grande storia della Chiesa, dalle origini a oggi, che non ha nulla a che vedere con un formalistico attaccamento al passato. Nel citato discorso alla curia, per esemplificare la "riforma nella continuità" rappresentata dal Vaticano II, il papa ha richiamato la questione della libertà di religione. Per affermarla in modo pieno – ha spiegato – il Concilio ha dovuto riandare alle origini della Chiesa, ai primi martiri, a quel "patrimonio profondo" della Tradizione cristiana che nei secoli più recenti era andato smarrito, ed è stato ritrovato anche grazie alla critica della ragione illuminista.
Quanto alla liturgia, se c'è un autentico continuatore del grande movimento liturgico che è fiorito nella Chiesa tra Ottocento e Novecento, da Prosper Guéranger a Romano Guardini, questi è proprio Ratzinger.
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Un quarto terreno d'attacco è contiguo al precedente. Si accusa Benedetto XVI di aver affossato l'ecumenismo, di anteporre l'abbraccio con i lefebvriani al dialogo con le altre confessioni cristiane.
Ma i fatti dicono l'opposto. Da quando Ratzinger è papa, il cammino di riconciliazione con le Chiese d'Oriente ha fatto straordinari passi avanti. Sia con le Chiese bizantine che fanno capo al patriarcato ecumenico di Costantinopoli, sia – ed è la novità più sorprendente – con il patriarcato di Mosca.
E se ciò è avvenuto, è proprio per la ravvivata fedeltà alla grande Tradizione – a cominciare da quella del primo millennio – che è un distintivo di questo papa, oltre che l'anima delle Chiese d'Oriente.
Sul versante dell'Occidente, è ancora l'amore della Tradizione ciò che spinge persone e gruppi della Comunione Anglicana a chiedere di entrare nella Chiesa di Roma.
Mentre con i lefebvriani ciò che ostacola un loro reintegro è proprio il loro essere attaccati a forme passate di Chiesa e di dottrina erroneamente identificate con la Tradizione perenne. La revoca della scomunica ai loro quattro vescovi, nel gennaio del 2009, nulla ha tolto allo stato di scisma in cui essi permangono, così come nel 1964 la revoca delle scomuniche tra Roma e Costantinopoli non ha sanato lo scisma tra Oriente e Occidente ma ha reso possibile un dialogo finalizzato all'unità.
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Tra i quattro vescovi lefebvriani ai quali Benedetto XVI ha revocato la scomunica c'era l'inglese Richard Williamson, antisemita e negatore della Shoah. Nel rito antico liberalizzato c'è una preghiera affinché gli ebrei "riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini".
Questi e altri fatti hanno contribuito ad alimentare una ricorrente protesta del mondo ebraico contro l'attuale papa, con punte notevoli di asprezza. Ed è un quinto terreno d'accusa.
L'ultima arma di questa protesta è stato un passaggio del sermone tenuto nella basilica di San Pietro, il Venerdì Santo alla presenza del papa, dal predicatore della casa pontificia, padre Raniero Cantalamessa. Il passaggio incriminato era una citazione di una lettera scritta da un ebreo, ma nonostante ciò la polemica si è appuntata esclusivamente contro il papa.
Eppure, nulla è più contraddittorio che accusare Benedetto XVI d'inimicizia con gli ebrei.
Perché nessun altro papa, prima di lui, si è spinto tanto avanti nel definire una visione positiva del rapporto tra cristianesimo ed ebraismo, ferma restando la divisione capitale sul riconoscimento o no di Gesù come Figlio di Dio. Nel primo tomo del suo "Gesù di Nazaret" pubblicato nel 2007 – e vicino ad essere completato dal secondo tomo – Benedetto XVI ha scritto in proposito pagine luminose, in dialogo con un rabbino americano vivente.
E numerosi ebrei vedono effettivamente in Ratzinger un amico. Ma sui media internazionali è altra cosa. Lì è quasi soltanto il "fuoco amico" che tambureggia. Di ebrei che colpiscono il papa che più li capisce e li ama.
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Infine, un sesto capo d'accusa – attualissimo – contro Ratzinger è d'aver "coperto" lo scandalo dei preti che hanno abusato sessualmente di bambini.
Anche qui, l'accusa investe proprio l'uomo che ha fatto più di tutti, nella gerarchia della Chiesa, per sanare questo scandalo.
Con effetti positivi che qua e là già si misurano. In particolare negli Stati Uniti, dove l'incidenza del fenomeno tra il clero cattolico è nettamente diminuita negli ultimi anni.
Là dove invece, come in Irlanda, la piaga è tuttora aperta, è stato sempre Benedetto XVI a imporre alla Chiesa di quel paese di mettersi in stato penitenziale, lungo un severo cammino di rigenerazione da lui tracciato in una lettera pastorale dello scorso 19 marzo, che non ha precedenti.
Sta di fatto che la campagna internazionale contro la pedofilia ha oggi un solo vero bersaglio, il papa. I casi ripescati dal passato sono ogni volta quelli che si calcola di ritorcere contro di lui, sia quand'era arcivescovo di Monaco, sia quand'era prefetto della congregazione per la dottrina della fede, con in più l'appendice di Ratisbona per gli anni il cui il fratello del papa, Georg, dirigeva il coro di bambini della cattedrale.
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I sei capi d'accusa contro Benedetto XVI, fin qui richiamati, aprono una domanda.
Perché questo papa è così sotto attacco, da fuori la Chiesa ma anche da dentro, nonostante la sua lampante innocenza rispetto alle accuse?
Un principio di risposta è che papa Benedetto è sistematicamente attaccato proprio per ciò che fa, per ciò che dice, per ciò che è.
7.4.2010
LA RISPOSTA AI CASI DI ABUSI SESSUALI - Analisi di padre Federico Lombardi S.I. - CITTA' DEL VATICANO, domenica, 11 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l'analisi di padre Federico Lombardi, S.I., direttore della Sala Stampa vaticana, dal titolo "Dopo la Settimana Santa, tenere la rotta", diffusa dalla "Radio Vaticana".
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Il dibattito sugli abusi sessuali, e non solo del clero, procede tra notizie e commenti di vario tenore. Come navigare in queste acque agitate conservando una rotta sicura, rispondendo all'evangelico "Duc in altum - Prendi il largo" ?
Anzitutto continuando a cercare la verità e la pace per gli offesi. Una delle cose che colpisce di più è che vengono oggi alla luce tante ferite interiori che risalgono anche a molti anni addietro - a volte di diversi decenni -, ma evidentemente ancora aperte. Molte vittime non cercano compensi economici, ma aiuto interiore, un giudizio nella loro dolorosa vicenda personale. C'è qualcosa che va ancora capito veramente. Probabilmente dobbiamo fare un'esperienza più profonda di eventi che così negativamente hanno inciso nella vita delle persone, della Chiesa e della società. Ne sono un esempio, a livello collettivo, l'odio e le violenze dei conflitti fra i popoli, che vediamo così difficili da superare in una vera riconciliazione. Gli abusi feriscono a livello personale profondo. Per questo hanno fatto bene quegli episcopati che hanno ripreso con coraggio lo sviluppo delle vie e dei luoghi di libera espressione delle vittime e del loro ascolto, senza dare per scontato che il problema fosse già stato affrontato e superato con i centri d'ascolto già istituiti tempo fa, come pure quegli episcopati o singoli vescovi che con paterno tratto danno attenzione spirituale, liturgica e umana alle vittime. Pare accertato che il numero delle nuove denunce riguardanti gli abusi, come sta avvenendo negli Stati Uniti, diminuisce, ma il cammino del risanamento in profondità per molti comincia solo ora e per altri deve ancora cominciare. Nel contesto dell'attenzione alle vittime, il Papa ha scritto di essere disponibile a nuovi incontri con esse, coinvolgendosi nel cammino di tutta la comunità ecclesiale. Ma è un cammino che per raggiungere effetti profondi deve ancor di più svolgersi nel rispetto delle persone e alla ricerca della pace.
Accanto all'attenzione per le vittime bisogna, poi, continuare ad attuare con decisione e veracità le procedure corrette del giudizio canonico dei colpevoli e della collaborazione con le autorità civili per quanto riguarda le loro competenze giudiziarie e penali, tenendo conto delle specificità delle normative e delle situazioni nei diversi paesi. Solo così si può pensare di ricostituire effettivamente un clima di giustizia e la piena fiducia nell'istituzione ecclesiale. Si è dato il caso che diversi responsabili di comunità o di istituzioni, per inesperienza o impreparazione, non hanno pronti e presenti quei criteri che possono aiutarli ad intervenire con determinazione anche quando ciò può essere per loro molto difficile o doloroso. Ma, mentre la legge civile interviene con norme generali, quella canonica deve tener conto della particolare gravità morale della prevaricazione della fiducia riposta nelle persone con responsabilità nella comunità ecclesiale e della flagrante contraddizione con la condotta che dovrebbero testimoniare. In questo senso, la trasparenza e il rigore si impongono come esigenze urgenti di una testimonianza di governo saggio e giusto nella Chiesa.
In prospettiva, la formazione e la selezione dei candidati al sacerdozio, e più generalmente del personale delle istituzioni educative e pastorali, sono la premessa per un'efficace prevenzione di abusi possibili. Quella di giungere a una sana maturità della personalità, anche dal punto di vista della sessualità, è sempre stata una sfida difficile; ma oggi lo è ancor di più, anche se le migliori conoscenze psicologiche e mediche vengono in grande aiuto alla formazione spirituale e morale. Qualcuno ha osservato che la maggiore frequenza degli abusi si è verificata nel periodo più caldo della "rivoluzione sessuale" degli scorsi decenni. Nella formazione bisogna fare i conti anche con questo contesto e con quello più generale della secolarizzazione. In fondo si tratta di riscoprire e riaffermare senso e importanza del significato della sessualità, della castità e delle relazioni affettive nel mondo di oggi, in forme molto concrete e non solo verbali o astratte. Quale fonte di disordine e sofferenza può essere la sua violazione o sottovalutazione! Come osserva il Papa scrivendo agli irlandesi, una vita cristiana e sacerdotale può rispondere oggi alle esigenze della sua vocazione solo alimentandosi veramente alle sorgenti della fede e dell'amicizia con Cristo.
Chi ama la verità e l'obiettiva valutazione dei problemi saprà cercare e trovare le informazioni per una comprensione più complessiva del problema della pedofilia e degli abusi sui minori nel nostro tempo e nei vari Paesi, comprendendone l'estensione e la pervasività. Potrà così capire meglio in che misura la Chiesa cattolica condivide problemi non solo suoi, in che misura questi presentano per essa una gravità particolare e richiedano interventi specifici, e infine in che misura l'esperienza che la Chiesa va facendo in questo campo possa diventare utile anche per altre istituzioni o per l'intera società. Su questo aspetto ci sembra in verità che i media non abbiano ancora lavorato a sufficienza, soprattutto nei paesi in cui la presenza della Chiesa ha maggior rilevanza, e su cui quindi si appuntano più facilmente gli strali della critica. Ma documenti quali il rapporto nazionale USA sul maltrattamento dei bambini meriterebbero di essere maggiormente conosciuti per capire quali siano i campi di urgente intervento sociale e le proporzioni dei problemi. Nel solo 2008 negli USA sono stati identificati oltre 62.000 attori di abusi su minori, mentre il gruppo dei sacerdoti cattolici è così piccolo da non essere neppure preso in considerazione come tale.
L'impegno per la protezione dei minori e dei giovani è quindi un campo di lavoro immenso e inesauribile, che va ben aldilà del problema riguardante alcuni membri del clero. Coloro che vi dedicano con sensibilità, generosità e attenzione le loro forze meritano gratitudine, rispetto e incoraggiamento da parte di tutti e in particolare delle autorità ecclesiali e civili. Il loro contributo è essenziale per la serenità e la credibilità del lavoro educativo e di formazione della gioventù nella Chiesa e fuori di essa. Giustamente il Papa ha avuto per loro parole di alto apprezzamento nella lettera per l'Irlanda, ma pensando naturalmente a un orizzonte assai più largo.
Infine, il Papa Benedetto XVI, guida coerente sulla via del rigore e della veracità, merita tutto il rispetto e il sostegno di cui gli giungono ampie testimonianze da ogni parte della Chiesa. Egli è un Pastore all'altezza per affrontare con alta rettitudine e sicurezza questo tempo difficile, in cui non mancano critiche e insinuazioni infondate; senza pregiudizio va affermato che Egli è un Papa che ha parlato molto della Verità di Dio e del rispetto della verità, divenendone un testimone credibile. Lo accompagniamo e impariamo da lui la costanza necessaria per crescere nella verità, nella trasparenza, continuando a tenere ampio l'orizzonte sui gravi problemi del mondo, rispondendo con pazienza allo stillicidio di "rivelazioni" parziali o presunte che cercano di logorare la credibilità sua o di altre istituzioni e persone della Chiesa. Di questo paziente e fermo amore della verità abbiamo bisogno nella Chiesa, nella società in cui viviamo, nel comunicare e nello scrivere, se vogliamo servire e non confondere i nostri contemporanei.
LA SINDONE, "RIMANDO ALL'AMORE INFINITO DI GESÙ" - Intervista al presidente della Commissione diocesana - di Chiara Santomiero - ROMA, domenica, 11 aprile 2010 (ZENIT.org).- In occasione dell'inizio della Solenne Ostensione 2010 della Sacra Sindone, ZENIT ha chiesto a monsignor Giuseppe Ghiberti, presidente della Commissione diocesana della Sindone, di spiegare il valore religioso per il credente del telo che secondo la tradizione avrebbe avvolto il corpo di Gesù prima della Resurrezione.
Solo una risposta positiva sull'autenticità della Sindone legittima il rapporto religioso tra il credente e questo oggetto?
Monsignor Ghiberti: Il problema della giustificazione del rapporto religioso con la Sindone è avvertito in modo diverso. Non poche persone ritengono che solo la sicurezza della sua autenticità ne legittimi la venerazione da parte dei fedeli. La teoria opposta afferma invece: si tratta di un oggetto da venerare e quindi è autentico.
Entrambe le posizioni non appaiono convincenti. Il rapporto religioso con la Sindone del credente, cioè di una persona che è vissuta in una tradizione nella quale la persona e le vicende della vita di Gesù sono centrali, nasce nel rendersi conto - nel momento in cui si accosta all'immagine sul telo - che c'è una corrispondenza perfetta tra ciò che vede e ciò che dal racconto evangelico ci viene riferito a proposito della Passione di Gesù. Appena si verifica questa consapevolezza, scatta un tipo di rapporto che non è tanto giustificato dall'oggetto in sé, quanto dal rimando che da questo oggetto viene fatto all'altra vicenda.
Si può qualificare come una "funzione da precursore". S. Giovanni Battista affermava riguardo a Gesù: "Lui deve crescere e io diminuire, Lui è lo sposo e io l'amico dello Sposo"; per la Sindone è lo stesso, nella sua povertà è la sua nobiltà perché il suo valore non si esaurisce in ciò che essa è, ma in ciò a cui essa rimanda.
C'è un carattere pre-scientifico in questo tipo di rapporto con la Sindone in quanto, a questo stadio, non ho ancora posto nessuna domanda sulla sua autenticità: ho semplicemente colto il messaggio che ne promana e che consiste in un rimando al racconto evangelico della Passione.
Solo in seguito io domando alla scienza se in quel lenzuolo c'è stato il corpo di Gesù e questo per il mio cuore è importantissimo. Alla scienza sono quindi interessato, ma non ne resto condizionato. Questa forma di ragionamento credo offra l'impostazione esatta e, accettandola, sono molto più libero.
La Sindone svolge, quindi, una funzione ausiliaria per la fede?
Monsignor Ghiberti: Quando si è acquisita quella libertà interiore per cui, comunque vadano le cose - sebbene io sia un "tifoso" dell'autenticità della Sindone! - il risultato non influisce sulla ricezione del messaggio, occorre chiedersi: che cosa significa la Sindone per me, per la pastorale, per la Chiesa?
Le cose sono collegate l'una all'altra. La Sindone non è certamente oggetto di fede, sono altre le verità fondamentali nelle quali credere. Lo ha detto chiaramente anche Giovanni Paolo II in occasione dell'ostensione del 1998. Però mi aiuta a credere, è uno di quei mezzi che il Signore mette nel cammino dei suoi figli per chiamarli a sé. Non è necessario - c'è una quantità di cristiani che si sono fatti santi senza la Sindone, è bastato il Vangelo e la loro coscienza -, ma nello stesso modo in cui il Signore ha disposto che proprio questi fossero i miei genitori e questo fosse il mio cammino nella vita, ha disposto anche che incontrassi la Sindone e, come me, tante persone.
Queste sono sempre di più, forse perché la cultura del nostro tempo ha una maggiore sensibilità verso l'immagine, nonostante sia molto diversa da quelle che vengono celebrate oggi: sebbene dalla dimensioni armoniose della corporatura si può cogliere che quello della Sindone è un uomo bello, si tratta però di un corpo distrutto dalla tortura.
La gente chiede sempre di poter di stare più tempo davanti alla Sindone poiché in effetti ne ha pochissimo, ma chi può sostarvi davanti a lungo come è capitato a me, deve quasi di sforzarsi di non fuggire perché è una testimonianza di sofferenza indicibile. Il dolore che ne promana, in una civiltà dell' immagine come la nostra, diventa più eloquente di molti discorsi. Giovanni Paolo II, nella stessa occasione disse: "Non poteva amarci di più".
Icona o reliquia?
Monsignor Ghiberti: Il primo ad usare la terminologia dell'icona è stato il cardinale Ballestrero e lo hanno rimproverato di usare un escamotage, un concetto per evitare di parlare di reliquia nel momento in cui si proclamavano i risultati dell'analisi del carbonio 14 che spostava la datazione della Sindone al Medioevo, così da salvaguardarne la sacralità. Si tratta di una polemica ingiustificata. Quello di icona è un concetto utile non per evitare il problema dell'autenticità, perché anche quando questa fosse dimostrata, non ci sarebbero difficoltà ad usarlo. Semmai il problema è oggi poter usare il concetto di reliquia, cioè di oggetto che avrebbe avuto contatto con Gesù.
Nel gioco tra i due concetti, quello di icona ha qualcosa in più e qualcosa in meno. In più ha il vantaggio di non doversi esprimere riguardo al contatto fisico con il corpo di Gesù - senza negarlo, non si pronuncia su questo aspetto -; in meno, si avverte come un concetto un po' più lontano. Il concetto di reliquia ha lo svantaggio di anticipare, nel sentire comune, conclusioni che non ci sono state ancora date. Anche se in un'accezione ampia del termine, reliquia può indicare qualcosa che ha avuto riferimento con un santo ma senza necessariamente un contatto fisico. In questo senso, è un termine che si può utilizzare anche per la Sindone, specificando il significato con il quale lo si usa.
La teologia dell'icona ha una grande densità di significato in quanto esprime, secondo la tradizione dell'uso che ha avuto nella Scrittura e nella cristianità antica, il concetto di una somiglianza che tende addirittura all'identificazione con il punto di partenza.
Si può dire che questa incertezza sull'autenticità della Sindone ha in sé una funzione educativa che Dio offre ai credenti?
Monsignor Ghiberti: E' uno degli aspetti della povertà che è caratteristica del mistero dell'Incarnazione. Se qualcosa ci dice questo mistero è il nascondimento della divinità nella corporeità, l'aspetto più tangibile della presenza di una persona umana. Nel darci la Sindone come aiuto alla fede ma senza liberarlo dalle incertezze scientifiche, Dio ci invita a concentrarci sull'essenziale del messaggio che è il rimando a suo Figlio, incarnato in un corpo, morto e resuscitato. Anche la povertà del segno è nello stile di Gesù che si serve di strumenti "deboli" per convertire i cuori.
Da una parte c'è il milione e mezzo di pellegrini prenotati per l'ostensione, dall'altra c'è scetticismo verso la Sindone tra molti credenti: perché nell'incertezza è più facile credere che non sia autentica piuttosto che il contrario?
Monsignor Ghiberti: Bisognerebbe chiedersi se molti credenti credano davvero a verità di fede come la Resurrezione e la presenza reale di Gesù nell'Eucarestia. E' molto difficile quando si tratta di accogliere bene in coscienza i contenuti di queste affermazioni fondamentali della fede, dire "io credo". Anche alcuni che vanno in chiesa regolarmente pensano forse che siano modi di dire.
L'aspetto dello straordinario, man mano che si procede negli anni, diventa qualcosa che invita a relativizzare; ognuno vive una quantità di esperienze che non recano in sé lo straordinario e ciò che non è passato nella mia esperienza lo metto facilmente tra parentesi o lo escludo. Qualcosa di analogo avviene con la fede. Nel momento in cui sento l'invito a credere, se dico di sì, so che è un invito ad andare al di là, solo che man mano che il tempo passa, lo tiro in qua il cuore che avevo buttato al di là. Quando, come alla mia età, si avvicinano i momenti conclusivi della vita, il pensiero di un futuro nel quale questa mia realtà ha una trasformazione beatificante non è facile da confermare e da accettare. Credere è un processo di conquista che ha le sue difficoltà e le sue gioie a tutte le età e non mi stupisce che riguardo alla Sindone capiti qualcosa di analogo. E' più preoccupante per le verità di fede. La Sindone posso metterla tra parentesi: magari faccio male perché perdo un aiuto, ma il Signore non mi chiederà conto di questo come mi chiederà se ho rinunciato a una o più verità di fede. Si tratta però di ambiti che presentano delle somiglianze. Sta accadendo che ciò che serve per la fede ha le stesse difficoltà che ha la fede stessa di essere accettata.
Che cosa raccomandare ai pellegrini, quale atteggiamento, come accostarsi a questo mistero?
Monsignor Ghiberti: Per lasciarsi sorprendere da questa realtà bisogna impegnarsi per il silenzio, rinunciare ai commenti, vivere questo momento in modo personale. Bisogna inoltre curare la preparazione, non arrivare del tutto sprovveduti.
Affinché non si limiti a una semplice emozione, c'è la possibilità di fermarsi nella cappella dell'adorazione e nella penitenzieria per un momento di adorazione o per la confessione. Molti rientrano dal portone centrale del duomo per soffermarsi davanti alla Sindone con più calma, sebbene da lontano.
Si tratta di cogliere un rimando all'amore infinito di Gesù: questo è il messaggio che sta al di sopra di tutte le considerazioni possibili.
OMELIA DI BENEDETTO XVI PER LA VEGLIA DI PASQUA - ROMA, domenica, 4 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere questo sabato, nella Basilica Vaticana, la solenne Veglia nella Notte Santa di Pasqua.
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Cari fratelli e sorelle,
un’antica leggenda giudaica tratta dal libro apocrifo "La vita di Adamo ed Eva" racconta che Adamo, nella sua ultima malattia, avrebbe mandato il figlio Set insieme con Eva nella regione del Paradiso a prendere l’olio della misericordia, per essere unto con questo e così guarito. Dopo tutto il pregare e il piangere dei due in cerca dell’albero della vita, appare l’Arcangelo Michele per dire loro che non avrebbero ottenuto l’olio dell’albero della misericordia e che Adamo sarebbe dovuto morire. In seguito, lettori cristiani hanno aggiunto a questa comunicazione dell’Arcangelo una parola di consolazione. L’Arcangelo avrebbe detto che dopo 5.500 anni sarebbe venuto l’amorevole Re Cristo, il Figlio di Dio, e avrebbe unto con l’olio della sua misericordia tutti coloro che avrebbero creduto in Lui. "L’olio della misericordia di eternità in eternità sarà dato a quanti dovranno rinascere dall’acqua e dallo Spirito Santo. Allora il Figlio di Dio ricco d’amore, Cristo, discenderà nelle profondità della terra e condurrà tuo padre nel Paradiso, presso l’albero della misericordia". In questa leggenda diventa visibile tutta l’afflizione dell’uomo di fronte al destino di malattia, dolore e morte che ci è stato imposto. Si rende evidente la resistenza che l’uomo oppone alla morte: da qualche parte – hanno ripetutamente pensato gli uomini – dovrebbe pur esserci l’erba medicinale contro la morte. Prima o poi dovrebbe essere possibile trovare il farmaco non soltanto contro questa o quella malattia, ma contro la vera fatalità – contro la morte. Dovrebbe, insomma, esistere la medicina dell’immortalità. Anche oggi gli uomini sono alla ricerca di tale sostanza curativa. Pure la scienza medica attuale cerca, anche se non proprio di escludere la morte, di eliminare tuttavia il maggior numero possibile delle sue cause, di rimandarla sempre di più; di procurare una vita sempre migliore e più lunga. Ma riflettiamo ancora un momento: come sarebbe veramente, se si riuscisse, magari non ad escludere totalmente la morte, ma a rimandarla indefinitamente, a raggiungere un’età di parecchie centinaia di anni? Sarebbe questa una cosa buona? L’umanità invecchierebbe in misura straordinaria, per la gioventù non ci sarebbe più posto. Si spegnerebbe la capacità dell’innovazione e una vita interminabile sarebbe non un paradiso, ma piuttosto una condanna. La vera erba medicinale contro la morte dovrebbe essere diversa. Non dovrebbe portare semplicemente un prolungamento indefinito di questa vita attuale. Dovrebbe trasformare la nostra vita dal di dentro. Dovrebbe creare in noi una vita nuova, veramente capace di eternità: dovrebbe trasformarci in modo tale da non finire con la morte, ma da iniziare solo con essa in pienezza. Ciò che è nuovo ed emozionante del messaggio cristiano, del Vangelo di Gesù Cristo, era ed è tuttora questo, che ci viene detto: sì, quest’erba medicinale contro la morte, questo vero farmaco dell’immortalità esiste. È stato trovato. È accessibile. Nel Battesimo questa medicina ci viene donata. Una vita nuova inizia in noi, una vita nuova che matura nella fede e non viene cancellata dalla morte della vecchia vita, ma che solo allora viene portata pienamente alla luce.
A questo alcuni, forse molti risponderanno: il messaggio, certo, lo sento, però mi manca la fede. E anche chi vuole credere chiederà: ma è davvero così? Come dobbiamo immaginarcelo? Come si svolge questa trasformazione della vecchia vita, così che si formi in essa la vita nuova che non conosce la morte? Ancora una volta un antico scritto giudaico può aiutarci ad avere un’idea di quel processo misterioso che inizia in noi col Battesimo. Lì si racconta come il progenitore Enoch venne rapito fino al trono di Dio. Ma egli si spaventò di fronte alle gloriose potestà angeliche e, nella sua debolezza umana, non poté contemplare il Volto di Dio. "Allora Dio disse a Michele – così prosegue il libro di Enoch –: ‘Prendi Enoch e togligli le vesti terrene. Ungilo con olio soave e rivestilo con abiti di gloria!’ E Michele mi tolse le mie vesti, mi unse di olio soave, e quest’olio era più di una luce radiosa… Il suo splendore era simile ai raggi del sole. Quando mi guardai, ecco che ero come uno degli esseri gloriosi" (Ph. Rech, Inbild des Kosmos, II 524).
Precisamente questo – l’essere rivestiti col nuovo abito di Dio – avviene nel Battesimo; così ci dice la fede cristiana. Certo, questo cambio delle vesti è un percorso che dura tutta la vita. Ciò che avviene nel Battesimo è l’inizio di un processo che abbraccia tutta la nostra vita – ci rende capaci di eternità, così che nell’abito di luce di Gesù Cristo possiamo apparire al cospetto di Dio e vivere con Lui per sempre.
Nel rito del Battesimo ci sono due elementi in cui questo evento si esprime e diventa visibile anche come esigenza per la nostra ulteriore vita. C’è anzitutto il rito delle rinunce e delle promesse. Nella Chiesa antica, il battezzando si volgeva verso occidente, simbolo delle tenebre, del tramonto del sole, della morte e quindi del dominio del peccato. Il battezzando si volgeva in quella direzione e pronunciava un triplice "no": al diavolo, alle sue pompe e al peccato. Con la strana parola "pompe", cioè lo sfarzo del diavolo, si indicava lo splendore dell’antico culto degli dèi e dell’antico teatro, in cui si provava gusto vedendo persone vive sbranate da bestie feroci. Così questo era il rifiuto di un tipo di cultura che incatenava l’uomo all’adorazione del potere, al mondo della cupidigia, alla menzogna, alla crudeltà. Era un atto di liberazione dall’imposizione di una forma di vita, che si offriva come piacere e, tuttavia, spingeva verso la distruzione di ciò che nell’uomo sono le sue qualità migliori. Questa rinuncia – con un procedimento meno drammatico – costituisce anche oggi una parte essenziale del Battesimo. In esso leviamo le "vesti vecchie" con le quali non si può stare davanti a Dio. Detto meglio: cominciamo a deporle. Questa rinuncia è, infatti, una promessa in cui diamo la mano a Cristo, affinché Egli ci guidi e ci rivesta. Quali siano le "vesti" che deponiamo, quale sia la promessa che pronunciamo, si rende evidente quando leggiamo, nel quinto capitolo della Lettera ai Galati, che cosa Paolo chiami "opere della carne" – termine che significa precisamente le vesti vecchie da deporre. Paolo le designa così: "fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere" (Gal 5,19ss). Sono queste le vesti che deponiamo; sono vesti della morte.
Poi il battezzando nella Chiesa antica si volgeva verso oriente – simbolo della luce, simbolo del nuovo sole della storia, nuovo sole che sorge, simbolo di Cristo. Il battezzando determina la nuova direzione della sua vita: la fede nel Dio trinitario al quale egli si consegna. Così Dio stesso ci veste dell’abito di luce, dell’abito della vita. Paolo chiama queste nuove "vesti" "frutto dello Spirito" e le descrive con le seguenti parole: "amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5,22).
Nella Chiesa antica, il battezzando veniva poi veramente spogliato delle sue vesti. Egli scendeva nel fonte battesimale e veniva immerso tre volte – un simbolo della morte che esprime tutta la radicalità di tale spogliazione e di tale cambio di veste. Questa vita, che comunque è votata alla morte, il battezzando la consegna alla morte, insieme con Cristo, e da Lui si lascia trascinare e tirare su nella vita nuova che lo trasforma per l’eternità. Poi, risalendo dalle acque battesimali, i neofiti venivano rivestiti con la veste bianca, la veste di luce di Dio, e ricevevano la candela accesa come segno della nuova vita nella luce che Dio stesso aveva accesa in essi. Lo sapevano: avevano ottenuto il farmaco dell’immortalità, che ora, nel momento di ricevere la santa Comunione, prendeva pienamente forma. In essa riceviamo il Corpo del Signore risorto e veniamo, noi stessi, attirati in questo Corpo, così che siamo già custoditi in Colui che ha vinto la morte e ci porta attraverso la morte.
Nel corso dei secoli, i simboli sono diventati più scarsi, ma l’avvenimento essenziale del Battesimo è tuttavia rimasto lo stesso. Esso non è solo un lavacro, ancor meno un’accoglienza un po’ complicata in una nuova associazione. È morte e risurrezione, rinascita alla nuova vita.
Sì, l’erba medicinale contro la morte esiste. Cristo è l’albero della vita reso nuovamente accessibile. Se ci atteniamo a Lui, allora siamo nella vita. Per questo canteremo in questa notte della risurrezione, con tutto il cuore, l’alleluia, il canto della gioia che non ha bisogno di parole. Per questo Paolo può dire ai Filippesi: "Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti!" (Fil 4,4). La gioia non la si può comandare. La si può solo donare. Il Signore risorto ci dona la gioia: la vera vita. Noi siamo ormai per sempre custoditi nell’amore di Colui al quale è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra (cfr Mt 28,18). Così chiediamo, certi di essere esauditi, con la preghiera sulle offerte che la Chiesa eleva in questa notte: Accogli, Signore, le preghiere del tuo popolo insieme con le offerte sacrificali, perché ciò che con i misteri pasquali ha avuto inizio ci giovi, per opera tua, come medicina per l’eternità. Amen.
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Il drammatico racconto di una donna: "I medici dicevano che non avrei avuto fastidi, invece è terribile. E devi fare tutto da sola". - di Melania Rizzoli, il Giornale, 3 aprile 2010
Anna ha 34 anni, è un avvocato toscano, e nella sua regione, nel 2005, con la pillola Ru486,allora in fase sperimentale, ha abortito un figlio indesiderato concepito con il marito che stava lasciando.
«Ma quale banalizzazione dell’aborto» mi racconta mentre siamo sedute in un bar di Orbetello, «è stato terribile e non lo rifarei mai più». «Voi medici siete crudeli e cinici, siete abituati al dolore, quello degli altri, e trascurate l’impatto psicologico delle vostre cure e degli effetti delle vostre terapie su noi poveri pazienti».
Ho chiesto ad Anna di raccontare la sua esperienza personale, naturalmente garantendole l’anonimato, e lei ha accettato.
Ed è un fiume in piena... «I dottori mi avevano informato su questa nuova tecnica abortiva, solo ed esclusivamente farmacologica, mi avevano assicurato che tutto sarebbe stato più dolce, che avrei evitato l’intervento chirurgico, l’anestesia, il raschiamento e tutte quelle pratiche dolorose, compreso il ricovero, ma per me è stato peggio, molto peggio...».
«Intanto non è proprio una passeggiata, non è come mandare giù un’aspirina e via, anzi... dopo che hai ingoiato la prima pillola, sai che quel giorno stesso tuo figlio morirà, e resterà attaccato lì, morto, dentro il tuo utero... semplicemente il suo cuoricino, che il giorno prima hai ascoltato durante l’ecografia, smetterà di battere. Per sempre. È l'effetto della prima pasticca, che tu devi mettere in bocca da sola, perché da sola sei lasciata a sopprimere quella vita che tu stessa vuoi eliminare. Lo capisci subito la sera stessa che quel figlio è morto, perché senti improvvisamente sparire tutti quei segni di gravidanza che noi donne ben conosciamo, primo fra tutti il seno, di colpo non lo senti più turgido, te lo tocchi, lo palpi e non è più teso, quasi si affloscia, e sparisce anche quella piccola tensione del basso ventre tipica dei primi mesi di gravidanza».
«E poi viene il peggio... perché devi aspettare! Devi aspettare tre lunghi giorni, nei quali continui a fare quello che hai sempre fatto, lavorare, camminare, mangiare, dormire, andare al cinema... cerchi cioè di distrarti, ma sai che hai quel “coso” morto lì dentro che deve essere eliminato, espulso, cioè abortito!».
«Per me sono stati tre giorni terribili, già ero a terra per la separazione da mio marito, e come ultima punizione ora mi accingevo a separarmi dall’unica cosa che mi avrebbe legato a lui per sempre, e che in quel momento era l’ultima cosa che volevo».
«In quei tre giorni, poi, hai tutto il tempo per pensare e riflettere su quello che ti è accaduto e che ti accadrà, hai il tempo per pregare e per piangere... io mi sentivo una specie di assassina in libertà... ma perché avevo accettato questo maledetto metodo, mi chiedevo, non era meglio far fare tutto al medico? Io sarei stata in anestesia, in sala operatoria, non avrei sentito né provato nulla, lui avrebbe operato e fatto tutto, io mi sarei risvegliata pulita e liberata dal mio problema, il tutto sarebbe durato meno di un’ora e non avrei avuto quelle sensazioni orribili dell’attesa».
«Il terzo giorno mi sono ripresentata, senza aver dormito e con delle occhiaie così, in ospedale per la seconda pasticca. Anche quella ti viene messa in mano e sei tu che la devi mandare giù... sei tu l’unica e sola mandante e autrice di un piccolo omicidio, quello del tuo figlio mai nato, e senti che una parte di te sta per sparire per sempre, che non tornerà mai più ed è una sensazione solo tua, di solitudine, che non condividi nemmeno con l’anonima infermiera che ti consegna la pillola nella garza sterile.
A quel punto però la ingoi subito perché speri che tutto finisca più in fretta possibile. Non sai ancora che, da quel momento, ti prepari ad assistere, a partecipare ed a effettuare il tuo “avveniristico” aborto terapeutico!».
«Intanto, oltre alla situazione dolorosa, vieni pervasa dall’ansia dell’arrivo dei dolori fisici. Il medico durante il colloquio mi aveva spiegato bene che con la seconda pillola, una prostaglandina, sarebbe avvenuto una sorta di mini-travaglio, con qualche contrazione uterina, ripetute e ravvicinate, lievemente dolorose, ma essenziali per provocare il distacco del feto, ormai morto, dalla parete uterina e per la sua espulsione, e che comunque sarebbe stato eliminato facilmente, misto con del sangue... sarebbe stato cioè come avere delle mestruazioni più dolorose del solito, così mi disse».
«Invece il dolore è stato molto più forte, le contrazioni molto più lunghe e la consapevolezza di quello che stava avvenendo rendeva tutto più nauseante, orribile e terribile insieme. Ed assistere a tutto questo è stato insopportabile. Ho pianto per il dolore fisico, ma soprattutto ho pianto per il dolore dell’anima, per la mia partecipazione attiva ad un evento che mai avrei voluto vivere ed osservare da così vicino».
«Poi, quando tutto è finito, quando tutto è compiuto, la procedura ti obbliga anche a verificare di persona che effettivamente l’aborto farmacologico sia ben riuscito, per cui ti viene effettuata l’ecografia di controllo, che trasmette dallo schermo l’immagine pulita del tuo utero non più “abitato”, ma vuoto e libero dal corpo estraneo che si è medicalmente voluto eliminare... non si sente più nessun battito galoppante, nessun segno di vita, ma solo silenzio di morte».
«Ho avuto un peso nel petto per lungo tempo... non è stata una liberazione per me, ma ho avuto un senso di colpa per diversi mesi, e ancora oggi, quando ci ripenso, e spesso ci ripenso, mi torna la nausea per quell’esperienza terribile, irreparabile e definitiva».
«Ogni volta che oggi leggo o sento parlare di aborto, rivivo quei miei pochi ma orribili giorni con il ricordo di una scelta dalla quale non si può più tornare indietro... e molte volte la vita poi ti porta a situazioni in cui avresti voluto che le cose fossero andate diversamente».
Anna è seduta di fronte a me e sorride amaramente. Ha una parrucca bionda in testa, a coprire una calvizie da chemioterapia.
Anna sta combattendo contro un tumore maligno del sangue che si è presentato all’inizio dell’anno. Anna sta lottando per la vita.
La sua stavolta.
Avvenire.it, 10 Aprile 2010 - Il caso Andalusia - Nel suk dell'umano arriva anche l'aborto in saldo - Assuntina Morresi
L’aborto in clinica privata al 20% di sconto per giovani dai quattordici fino ai trent’anni, accanto alle riduzioni sui biglietti del cinema, o l’acquisto di capi di abbigliamento. Il tutto grazie a una «carta servizi» regionale – un’iniziativa istituzionale, quindi – pubblicizzata con lo slogan «Usala per tutto». Aborto compreso. È quanto accade nella regione spagnola dell’Andalusia, ma non ci si deve stupire: se l’aborto è considerato un atto individuale privato, una scelta personale che riguarda solo chi la fa, se è una delle tante prestazioni sanitarie che normalmente una donna può richiedere, non possiamo sorprenderci di trovare gli interventi nella lista dei servizi convenzionati per i giovani, a prezzi stracciati.
È l’esito ultimo della banalizzazione dell’aborto, l’estremo tentativo di farlo scomparire dalla scena pubblica: mimetizzarlo fra i tanti servizi offerti dal mercato, una prestazione medica cui è normale dover ricorrere qualche volta nella vita, una situazione giusto un po’ antipatica, come una visita dal dentista, o la prima volta delle lenti a contatto, ma nient’altro. Non si riconosce la soppressione di una vita umana, ma non vale neanche più la retorica stantìa dell’aborto come "diritto": siamo di fronte a qualcosa a metà strada tra un consiglio per gli acquisti e i saldi di fine stagione, alla portata di tutte le tasche.
In Italia per ora una carta sconti di questo tipo non può esistere: la legge 194 vieta le interruzioni di gravidanza a pagamento in cliniche private e permette solo l’aborto di Stato, espressione assai sgradevole con la quale però sono state almeno risparmiate al nostro Paese le catene di cliniche private specializzate in aborti, che in Spagna "producono" il 98% delle interruzioni di gravidanza.
Impossibile far prevenzione se qualcuno guadagna sugli aborti, che anche per questo in Italia – situazione pressoché unica in Occidente – sono diminuiti nel corso del tempo: da noi, almeno, non c’è possibilità di lucrare su una situazione tanto dolorosa, mentre c’è – dovrebbe esserci – ancora spazio per parlare, riflettere e – magari – ripensarci. Uno spazio che certamente si deve sfruttare molto più di quanto accaduto sinora. E che purtroppo una gestione irresponsabile della pillola abortiva Ru486 appena introdotta potrebbe compromettere, con esiti devastanti.
Per ironia della sorte, nell’elenco degli enti andalusi che offrono convenzioni ai giovani, la clinica abortista viene appena prima di un istituto per la nutrizione, con riduzioni su programmi di prevenzione dell’obesità, dove però – si precisa – i minori di 18 anni si possono presentare solo col consenso dei genitori. Consenso non richiesto per l’aborto nella Spagna di Zapatero se si hanno almeno 16 anni: i genitori hanno voce in capitolo solo se serve una dieta.
Gli sconti sull’aborto, ma anche l’asta per gli ovociti in Gran Bretagna, lo stoccaggio di embrioni congelati, l’affitto degli uteri... Il lessico del commercio ha sfondato nel campo della maternità – quella voluta a ogni costo come quella negata – nel nuovo suk globale dell’umano in cui tutto ciò che si desidera può essere comprato. Prendere o buttare: è solo una faccenda di scelta individuale, insindacabile, pure a prezzi scontati. Ma quale sarà, alla fine, il conto da pagare?
Assuntina Morresi
12 Aprile. Giuseppe Moscati: un santo scomodo per la vulgata televisiva - Autore: Restelli, Silvio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - sabato 10 aprile 2010
Oggi 12 Aprile nel 1927 moriva a Napoli Giuseppe Moscati (Benevento, 25 luglio 1880 – Napoli, 12 aprile 1927), grande medico italiano, canonizzato da papa Giovanni Paolo II nel 1987, senza dubbio uno dei santi più popolari del XX secolo.
Molto significativa (in negativo) la riduzione televisiva che ne è stata fatta come ha acutamente osservato Rino Camilleri su Il Giornale del 30 Settembre 2007.
"D’accordo, le vite dei santi fanno audience, tant’è che proprio mentre trasmettevano lo sceneggiato in due puntate su San Giuseppe Moscati compariva l’annuncio di Chiara e Francesco, ennesima fiction sul Poverello d’Assisi (una all’anno in media).
Ma se le biografie agiografiche «tirano» e se, com’è ovvio, sono rivolte a un pubblico familiare (e soprattutto cattolico) da prima serata, che c’entra una scena di sesso, insistito e senza veli, nella prima puntata del Giuseppe Moscati?
I santi sono il contrario del politicamente corretto e di certo non amano che si parli di loro nascondendosi dietro il dito della didascalia «liberamente ispirato a». Questa «avvertenza per lo spettatore» dovrebbe giustificare ogni volo pindarico, ma di fatto finisce col piegare il racconto alle regole più mediocri e banali del narrare per immagini.
Così, si prende un santo, persona per definizione eccezionale, e lo si trasforma in un generico buonista da telefilm d’ambientazione sanitaria.
Ciò accade perché si diffida della capacità di una vita di santo di essere di per sé spettacolare. Il vero Moscati (che, per inciso, portava gli occhiali e non assomigliava a Beppe Fiorello, bensì all’attore che fa la parte dell’amico-nemico) era uomo da comunione quotidiana, di cui nello sceneggiato non c’è traccia.
In tutta la prima puntata lo si vede una sola volta in preghiera e, paradossalmente, davanti al «Cristo velato» della napoletana cappella Sansevero, una scultura massonica ed esoterica. Forse si pensa di vendere lo sceneggiato all’estero, dove nessuno conosce quella statua? Ma lo stesso può dirsi della figura di S. Giuseppe Moscati, e specialmente all’estero.
Il vero Moscati, che fu famoso per l’infallibilità delle sue diagnosi, abilità definita «miracolosa» anche dai suoi colleghi razionalisti e atei, usava consultarsi con Dio prima di pronunciarne una. Al contrario, darebbe alla fiction una profondità che potrebbe aspirare al capolavoro. Lo stesso ragionamento vale per l’espediente escogitato dai soggettisti per spiegare la scelta celibataria del Moscati: una banale delusione d’amore. Invece, nella storia vera, l’ormai illustre cattedratico e scienziato (fu tra gli anticipatori della biochimica) venne chiamato d’urgenza al capezzale di una donna di malaffare. Era uno scherzo di pessimo gusto che sapeva di poter contare sulla carità eroica del santo, il quale non badava al suo rango e nemmeno alla parcella quando c’era da assistere un malato.
Quel giorno Giuseppe Moscati si infilò nella chiesa delle Sacramentine e, davanti all’immagine della Madonna del Buon Consiglio, fece voto perpetuo di castità. Ovviamente, si è pensato che la castità non sia «telegenica». E si è persa un’altra occasione per uscire dall’usuale piattezza delle trame.
E dire che il cattolicissimo Moscati era un pugno nell’occhio per la classe medica del suo tempo, trasudante positivismo agnostico e scientista: conflitto che da solo bastava a riempire un film. Domanda: perché non affidano a un vero romanziere cattolico i soggetti filmici sui santi?"
La Passione della Chiesa - 2 APRILE 2010 / IN NEWS - La Passione della Chiesa, che è in corso, è stata profetizzata per filo e per segno. Qualunque cosa si pensi delle moderne apparizioni della Madonna, i documenti parlano chiaro. - Antonio Socci - Da “Libero”, 2 aprile 2010
I due volti simbolo dell’attuale Passione della Chiesa sono il Papa e un povero e umile cristiano del Pakistan, Arshed Masih, 38 anni, che lavorava come autista a Rawalpindi.
Davanti a tre poliziotti e alcuni capi religiosi musulmani è stato cosparso di benzina e bruciato vivo perché si rifiutava di rinnegare Cristo e di convertirsi all’Islam.
E quando la moglie Martha, distrutta dal dolore, è andata al commissariato a denunciare l’assassinio del marito, è stata torturata e stuprata dai poliziotti davanti agli occhi atterriti dei figlioletti di 7, 10 e 12 anni.
L’episodio è di questi giorni, ma documenta il continuo, immane martirio di cristiani che nel Novecento è stato perpetrato sotto tutti i regimi, le ideologie e le latitudini.
Uno sociologo di Oxford ha calcolato in 45 milioni i cristiani che hanno perso la vita, in modo diretto o indiretto, a causa della propria fede.
Questo oceano di sangue cristiano era stato profetizzato esplicitamente a Fatima, dalla Madonna. E’ scritto nero su bianco.
Tale martirio resta tuttora sconosciuto ai più. Anzi, ad esso viene aggiunto il martirio morale della Chiesa trascinata sul banco degli accusati e bollata col marchio di infamia.
Sempre a Fatima la Madonna ha profetizzato la persecuzione del Papa e in una visione di Giacinta (una dei tre pastorelli, beatificata nel 2000), sembra di scorgere un suo linciaggio morale che pare coincidere con ciò che Benedetto XVI si trova a vivere in queste settimane.
Tale visione è descritta nella “terza memoria” di suor Lucia, datata 31 agosto 1941:
“Un giorno Giacinta si sedette sulle lastre del pozzo dei miei genitori… Dopo qualche tempo mi chiama.
- Non hai visto il Santo Padre?
- No !
- Non so com’è stato! Io ho visto il Santo Padre in una casa molto grande, inginocchiato davanti a un tavolo, con la faccia tra le mani, in pianto. Fuori dalla casa c’era molta gente, alcuni tiravano sassi, altri imprecavano e dicevano molte parolacce. Povero Santo Padre! Dobbiamo pregare molto per Lui!”.
Sembra la descrizione del linciaggio morale a cui è sottoposto oggi il Papa. E’ in corso infatti una delegittimazione morale della Chiesa di cui non si ricorda uguale, addirittura col tentativo esplicito di trascinare personalmente il Pontefice in giudizio come capo di un’accolita di malfattori.
Va aggiunto che alle persecuzioni contro la Chiesa seguono sempre disgrazie per il mondo. Infatti la visione di Giacinta prosegue così:
“Non vedi tante strade, tanti sentieri e campi pieni di persone che piangono di fame e non hanno niente da mangiare? E il Santo Padre in una chiesa, davanti al Cuore Immacolato di Maria, in preghiera? E tanta gente in preghiera con Lui?”.
Tutto questo martirio materiale e morale della Chiesa del XX secolo sembra rappresentare una svolta drammatica della sua storia millenaria.
Come è stato rivelato – quando stava iniziando – a un papa, quel Leone XIII, autore della “Rerum novarum” (la prima enciclica sociale) che traghettò la Chiesa nel Novecento.
Una mattina infatti, il 13 ottobre 1884 (lo stesso giorno dell’apparizione finale di Fatima: 13 ottobre 1917), dopo la celebrazione della Messa, mentre papa Leone XIII era in preghiera, fu visto alzare la testa come se avesse una visione.
Sembrò terrorizzato: gli fu dato di sentire un dialogo, presso il tabernacolo. Una voce orribile, appartenente a Satana, lanciava la sfida a Dio, dicendosi capace di distruggere la Chiesa se solo avesse potuto metterla alla prova (Satana disprezza sempre gli uomini che continuamente accusa. Mentre Dio dà sempre fiducia ai suoi figli).
Sembra sia stata permessa tale prova per circa un secolo.
Quindi papa Leone XIII – quella mattina del 1884 – vide in visione la Basilica di San Pietro assalita dai demoni e scossa fin dalle fondamenta.
La rivelazione al papa coincide con quella alla mistica Anna Katharina Emmerich, che scrisse:
“Se non sbaglio sentii che Lucifero sarà liberato e gli verranno tolte le catene, cinquanta o sessant’anni prima degli anni 2000 dopo Cristo, per un certo tempo. Sentii che altri avvenimenti sarebbero accaduti in tempi determinati, ma che ho dimenticato”.
Fu dopo quella visione che Leone XIII scrisse la preghiera, per la protezione della Chiesa, a San Michele Arcangelo che si è recitata alla fine della Messa fino al Concilio. Dopo il quale fu abolita e dopo il quale, già nei primi anni Sessanta, Paolo VI annuncerà drammaticamente: “Il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio”.
Di recente il famoso esorcista, padre Gabriele Amorth, ha spiegato che quel fumo di Satana in Vaticano va inteso anche in senso letterale: uomini sotto il potere di Satana che sarebbero presenti nella Chiesa e nel Vaticano stesso.
Che questo attacco demoniaco comprenda anche la caduta di alcuni preti in perversioni come la pedofilia (crimini contro i figli di Dio più innocenti e inermi: i bambini), è stato predetto dalla Madonna – a quanto pare – a La Salette nel 1846 (dove la Vergine preannunciò pure le sofferenze del papa e attentati ai suoi danni).
L’apparizione è riconosciuta dalla Chiesa, ma su questo testo non c’è un giudizio ufficiale: “La Chiesa subirà una crisi spaventosa” avrebbe detto la Madonna, “si vedrà l’abominio nei luoghi santi; nei conventi i fiori della Chiesa saranno putrefatti e il demonio diventerà come il re dei cuori (…) i sacerdoti con la loro cattiva vita sono diventati delle cloache di impurità”.
Dopo 150 anni, nella celebre Via Crucis del 25 marzo 2005, il cardinal Ratzinger constaterà: “quanta sporcizia nella Chiesa”. Con le pesanti parole di quella Via crucis probabilmente Ratzinger e Giovanni Paolo II intesero implicitamente rivelare (per obbedire alla Madonna), i contenuti ancora non pubblicati del “terzo segreto di Fatima”, dello stesso tenore della Salette.
Tutta questa serie di apparizioni della Madonna, che convergono nei contenuti, aveva lo scopo di avvertire che quella attuale è un’epoca eccezionale della storia della Chiesa e che è in corso uno speciale soccorso del Cielo.
Quello che è accaduto e che sta accadendo prova che gli avvertimenti profetici erano autentici e dimostra pure che la Madonna ha la missione speciale di salvare la Chiesa in questa terribile, lunga prova.
Purché la si ascolti. Perché il misfatto peggiore che il ceto ecclesiastico ha compiuto e può compiere è proprio quello di “disprezzare le profezie” e “spegnere lo Spirito”.
Fu perpetrato con le persecuzioni a preti santi, come padre Pio. E fu ripetuto in parte con Fatima, rifiutandosi per decenni di fare la Consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di Maria (per esorcizzare il comunismo), come chiesto dalla Madonna stessa.
Infatti, apparendo a suor Lucia, Gesù nel 1930 previde la persecuzione dei papi proprio a causa di quella sordità.
Adesso il “piano di salvataggio” della Madonna riemerge con le sue apparizioni a Medjugorje (“la prosecuzione di Fatima”, ha detto lei stessa).
Da quando, nel 1981, sono iniziate queste straordinarie apparizioni oltrecortina si è assistito al compiersi di varie profezie (sulla guerra in Jugoslavia), al crollo del comunismo e a un’ondata oceanica di conversioni.
Proprio in questi mesi una commissione vaticana, presieduta dal cardinal Ruini, sta valutando le apparizioni di Medjugorje di cui Giovanni Paolo II era certo ed entusiasta. Dovranno decidere se accogliere questo estremo, formidabile soccorso soprannaturale o rifiutarlo, smentendo papa Wojtyla.
Il ceto clericale, che oggi è al centro della tempesta, dovrebbe considerare con umiltà l’immensità dei frutti e dei segni di queste apparizioni.
E, consapevole dei propri enormi limiti, affidare la Chiesa alla protezione di Maria, l’Immacolata, la sola “senza macchia”.
In caso contrario…
Antonio Socci - Da “Libero”, 2 aprile 2010
Avvenire.it, 10 Aprile 2010 - TRA FEDE E DEVOZIONE - «Davanti alla Sindone con la nostalgia di Dio» - Marina Corradi
La prima volta la vide dopo tre ore di coda, parroco in mezzo ai suoi parrocchiani, nel 1978. L’ultima volta l’ha vista nelle vesti di arcivescovo di Torino, solo davanti a quel volto per dieci minuti, che ancora gli sono indimenticabili. Nel giorno in cui un milione e mezzo di visitatori comincia ad affluire a Torino per vedere e venerare la Sacra Sindone – oggi – abbiamo chiesto al cardinale Severino Poletto, che della Sindone è anche custode, cosa cerca in quel volto questa moltitudine in arrivo dai più remoti angoli del mondo; e cosa dà la contemplazione di quel sudario, a chi gli si ponga davanti. «Io credo – risponde il cardinale – che questa immensa folla che convergerà verso Torino sia l’immagine di una umanità in cerca di salvezza, di conforto e di speranza. Una speranza che non viene dalle cose terrene – perché le cose terrene passano. Questa nostalgia, penso, può toccare anche coloro che non credono. È una nostalgia interiore e profonda, quella che spinge a voler vedere con i propri occhi il volto di quell’uomo crocifisso – che della Passione di Cristo è immagine impressionante, e, come disse Giovanni Paolo II, "specchio dei Vangeli". Quel telo infatti riporta tutti i segni dei patimenti di Cristo, così come sono stati narrati dagli apostoli. Impressiona il referto della medicina legale, secondo il quale il sangue delle ferite sul telo è sangue di un uomo vivente, mentre quello del costato è sangue cadaverico: esattamente come è scritto nel Vangelo di Giovanni. Naturalmente l’immagine della Sindone non fonda la fede, che è radicata invece sul Vangelo e sulla testimonianza degli apostoli. Però la contemplazione di quel corpo segnato esattamente dalle piaghe descritte da chi vide la Passione aiuta la riflessione e la preghiera, e quindi la fede».
Perché questa Ostensione, ben prima della prossima scadenza giubilare del 2025?
Molti, fedeli e comunità civile, chiedevano la possibilità di vedere la Sindone. Il 2025 sembrava una data davvero troppo lontana. Inoltre nel 2002 si è proceduto, con l’autorizzazione del Papa, a un importante restauro : il telo è stato ripulito e sono state rimosse le toppe che cinque secoli fa le Clarisse di Chambery avevano apposto per riparare le bruciature dell’incendio del 1532. Questa è dunque anche l’occasione per mostrare per la prima volta al pubblico la Sindone restaurata. Ma voglio ricordare che il motto scelto per l’ostensione del 2010 è «Passio Christi passio homini». Parole che vogliono sottolineare la simmetria fra la Passione di Cristo – cioè la sua sofferenza e il suo appassionarsi per la sorte dell’umanità –, e la sofferenza dell’umanità intera. La Passione di Cristo dà una luce nuova alla sofferenza degli uomini; che resta, nella sua dolorosità, e però ne viene confortata e redenta. Anche la sofferenza di un bambino innocente trae, sia pure in modo misterioso, valore spirituale e conforto dalla Croce: innocente era Gesù Cristo, l’Innocente per eccellenza. Se dunque pensiamo che Cristo ha scelto liberamente di soffrire, comprendiamo che la sofferenza deve avere un senso, pure per noi non sempre decifrabile, nel disegno di Dio.
L’Ostensione cade in un momento di difficoltà e amarezza per la Chiesa...
Mai, nella storia, la Chiesa ha conosciuto tempi privi di difficoltà. Le difficoltà e anche le persecuzioni ci sono state anzi promesse: «Beati voi quando vi perseguiteranno e vi malediranno». La Chiesa sarà sempre osteggiata perché propone un modello di umanità che è inaccettabile al mondo: la Chiesa santa in quanto corpo di Cristo, e peccatrice perché fatta da uomini peccatori. Il male compiuto da uomini di Chiesa va condannato senza riserve; ma non bisogna generalizzare. È invece onestà e verità non dimenticare il grande bene operato dai sacerdoti in tutti i tempi e in ogni parte del mondo. Gli attacchi tuttavia non frenano i pellegrini, che con sapienza cristiana sanno che il male c’è, fra noi, e però c’è anche il bene. Cerchiamo Cristo proprio perché siamo coscienti che c’è il male e il dolore. Per via del nostro male e dolore abbiamo sete di Lui. Infatti all’uscita dal Duomo abbiamo predisposto due grandi ambienti, uno per l’adorazione eucaristica e uno adibito a penitenzieria, con 12 confessori che conoscono diverse lingue. Già nel 2000 quest’ultimo spazio fu quasi preso d’assalto dai fedeli che avevano contemplato la Sindone.
Cos’è, per Torino e la sua Chiesa, quel telo gelosamente custodito?
È un grande dono. Perché proprio a Torino? Storicamente lo sappiamo, certo, ce lo portarono i Savoia. Ma dal punto di vista spirituale cosa significa questa presenza? È un continuo confronto con il silenzioso messaggio della sofferenza di Cristo. Mentre le parlo ho davanti a me una grande immagine di quel volto. La Chiesa, lo sappiamo, afferma che l’autenticità della Sindone può essere decretata solo dalla scienza. Ma la scienza finora non ha saputo spiegare come si sia formata questa immagine. Di certo non è un manufatto. Di certo, come dicevo, è specchio preciso del martirio di Cristo. La presenza di quel volto umano e divino fra noi è uno stimolo continuo a guardare la sofferenza di tanti nostri fratelli. E anche la sofferenza nostra e la nostra morte traggono speranza da quel volto.
Allora la contemplazione della Sindone è occasione di conversione? E in che modo bisogna avvicinarsi?
Già dall’Ostensione del ’98 si è dato ai pellegrini un percorso di pre-lettura, in modo da preparare i visitatori a guardare a quel sudario come a qualcosa che riguarda ognuno di noi. Se questa immedesimazione avviene, prepara il terreno alla conversione: capiamo quale prezzo ha pagato Cristo per noi, e quanto noi al confronto siamo meschini. Ecco perché molti escono e si confessano, in un desiderio di vita nuova.
«Sfida all’intelligenza»: così Giovanni Paolo II chiamò la Sindone. Qual è la sfida?
L’uomo non sa darsi da solo risposte di senso di fronte al dolore e alla morte. Cristo risorto ci si presenta ancora con le sue piaghe: «Sono proprio io, guardate le mani e piedi e il costato, toccatemi». La Pasqua dunque non cancella i segni della sofferenza per Gesù uomo. Ciò che ci disse Giovanni Paolo II era un appello a riconoscere che abbiamo bisogno di Cristo per capire il significato della vita, e il nostro destino. Abbiamo bisogno di fede e di ragione. Come si legge nella Fides et ratio, fede e ragione sono le due ali che conducono l’uomo alla verità.
Eminenza, lei che ricordo ha della Sindone?
La vidi per la prima volta da parroco, nel 1978, dopo una lunga coda. Poi da vescovo. Infine nel 2000 ebbi modo di assistere a una Ostensione destinata agli studiosi convenuti a Torino per un grande convegno. Quel giorno la Sindone era priva della teca, «nuda», diciamo. Chiesi di restare un quarto d’ora da solo. L’emozione fu indescrivibile. Io mi sono davvero sentito al cospetto di Cristo sofferente, morto per me. Le parole non bastano: posso dire solo che sono rimasto commosso nel profondo, e sono stato preso da una grande riconoscenza. Fa’ – ho detto dentro di me – che fino all’ultimo respiro io possa annunciare il tuo amore.
Marina Corradi
Avvenire.it, 9 Aprile 2010 - FEDE E RAGIONE - Sindone, sfida alla scienza - Bruno Barberis, direttore del Centro internazionale di sindonologia
La prima Ostensione della Sindone del terzo millennio è ormai imminente, dieci anni dopo quella del Giubileo. Da domani al 23 maggio circa due milioni di persone provenienti da tutti i continenti si daranno appuntamento di fronte alla Sindone nel Duomo di Torino. Come sempre accade ogni volta che viene indetta un’Ostensione, sui mass media si riaccendono le solite discussioni riguardanti presunte scoperte e nuove ricerche.
Studiosi di varie provenienze sostengono che la Sindone sarebbe un falso realizzato con le tecniche più svariate, ovviamente in epoca medioevale. Qualcuno afferma che la Sindone sarebbe l’autoritratto di Leonardo realizzato dal genio toscano in una vera e propria camera oscura utilizzando un busto con le proprie fattezze: in pratica l’invenzione della fotografia sarebbe da far retrocedere di quasi quattrocento anni! Leonardo però è nato cent’anni dopo le prime Ostensioni pubbliche documentate della Sindone in Europa. Altri affermano che l’immagine della Sindone è facilmente realizzabile con un pirografo. Altri ancora sostengono di aver ottenuto un’impronta identica a quella sindonica usando come matrici un corpo umano e un calco in gesso e utilizzando ocra rossiccia, tempera liquida, acido solforico, alluminato di cobalto e altre sostanze.
Per dimostrare che un’ipotesi teorica sulla formazione dell’immagine sindonica è significativa, è indispensabile effettuare esperimenti per verificarne l’attendibilità. Non è sufficiente però ottenere un immagine che ad un esame visivo appaia simile a quella presente sulla Sindone. Per poter affermare di aver ottenuto (non importa con quale tecnica o metodo) un’immagine identica a quella sindonica è indispensabile effettuare su di essa le stesse analisi fatte sulla Sindone ed ottenere tutti gli stessi identici risultati.
Tutte le teorie proposte fino ad oggi, pur interessanti di per sé, sono sempre risultate carenti o perché non sono state corredate da verifiche sperimentali serie o perché tali verifiche hanno evidenziato sulle immagini ottenute caratteristiche fisico-chimiche molto diverse da quelle possedute dall’immagine sindonica. Il processo che ha causato la formazione dell’immagine sindonica rimane pertanto ancora non noto e per giungere alla sua identificazione saranno necessari ulteriori studi sia teorici sia sperimentali.
Nel 1988 un campione di tessuto sindonico fu datato con il metodo del radiocarbonio (il cosiddetto C14): il risultato fornì una data medievale compresa tra il 1260 e il 1390 d.C. Questo risultato è tuttora oggetto di un ampio dibattito tra gli studiosi circa l’attendibilità dell’uso del metodo del radiocarbonio per datare un oggetto con caratteristiche storiche e chimico-fisiche così peculiari come la Sindone.
La datazione medioevale contrasta con vari risultati ottenuti in altri campi di ricerca ed inoltre non è facile accertare se nel corso dei secoli non si è aggiunto nuovo C14 a quello antico. Studi effettuati su tessuti antichi hanno fornito risultati sperimentali che sembrano provare che contaminazioni di tipo biologico, chimico e tessile sono in grado di alterare considerevolmente l’età radiocarbonica di un tessuto.
Poiché la Sindone è certamente stata sottoposta a contaminazioni di tipo biologico (lo provano le microtracce ritrovate su di essa), chimico (in conseguenza dell’incendio patito a Chambéry) e tessile (la zona del prelievo sembra possedere caratteristiche diverse dal resto del tessuto, facendo presumere che possa essere stata oggetto di un rammendo), i suddetti risultati sperimentali meritano di essere attentamente studiati e verificati mediante la realizzazione di un ampio programma di ricerche e di nuovi esami che consenta di valutare il problema dell’introduzione di un opportuno fattore di correzione alla data radiocarbonica del tessuto sindonico.
Pertanto al momento attuale il problema della datazione del tessuto sindonico risulta aperto e non ancora risolto. In questi ultimi trent’anni alcuni studiosi hanno affermato di aver individuato su ingrandimenti di fotografie della Sindone tracce grafiche variamente disposte. Queste tracce sono state interpretate come scritte in varie lingue (greco, latino, ebraico, aramaico) fatte direttamente sul telo o trasferite su di esso con varie tecniche. Altri studiosi hanno affermato di aver osservato anche tracce di petali di infiorescenze di fiori e di altri oggetti vari. Sono state inoltre identificate tracce di due monete poste sulla palpebra destra e sul sopracciglio sinistro.
Recentemente sono state proposte ricostruzioni storiche dell’immagine sindonica basate totalmente su tali presunte scoperte. Bisogna essere molto cauti nell’accettare tali risultati per evitare il rischio che si tratti di interpretazioni soggettive di segni casuali presenti sulle fotografie esaminate. La maggior parte delle suddette scoperte sono state fatte esaminando esclusivamente le fotografie in bianco e nero della Sindone scattate da Giuseppe Enrie nel 1931 realizzate su lastre ortocromatiche che posseggono caratteristiche tecniche tali da consentire un’ottima visione d’insieme dell’immagine sindonica, ma che provocano una consistente perdita di informazioni dovuta alla trasformazione in bianchi o in neri di tutte le sfumature intermedie dei grigi.
Per questi motivi tali fotografie non sono adatte allo studio scientifico dell’immagine in quanto, ingrandendole, si corre il rischio di vedere figure e sagome dovute alla grana della lastra e non all’immagine. La traccia che sembra essere più attendibile è quella individuata sulla palpebra destra e interpretata come quella lasciata da una moneta romana coniata nella prima metà del primo secolo d.C. Per potere esprimere un giudizio certo e definitivo su tali studi sarà necessario effettuare nuove fotografie ad alta definizione da esaminare con le più moderne tecniche di elaborazione di immagini.
È evidente che il futuro della ricerca sul misterioso lenzuolo dipende da una nuova campagna di raccolta di dati fatta direttamente sulla Sindone. La nuova ed affascinante sfida che la Sindone lancia alla scienza per il nuovo millennio è già iniziata.
Bruno Barberis, direttore del Centro internazionale di sindonologia
IL CICLO DI TV2000 SULLA VITA CLAUSTRALE - Il silenzio che offre forza vero «spettacolo clamoroso» - ANNA MARIA CÀNOPI* - Avvenire, 11 aprile 2010
Oggi i mass media offrono a profusione immagini tali da fare della vita umana uno ' spettacolo clamoroso', pieno di ambiguità e spesso a tinte violente; in esso conta più l’apparire che l’essere.
Con la sua semplice presenza la vita claustrale costituisce perciò una vera sfida, a maggior ragione quando – come accade da ieri sera su Tv2000 con un nuovo ciclo de « I passi del silenzio » – le telecamere entrano in punta di piedi nei monasteri femminili per raccontarne la vita, tutta all’insegna dell’umiltà, della povertà, dell’obbedienza, del silenzio e della più grande carità. Un’occasione che può essere per molti, in particolare per i giovani, un tacito invito a riflettere. Tra tutte le vocazioni quella monastica è forse la meno compresa perché la più nascosta e, apparentemente, la meno utile. Quale il suo senso, la sua bellezza? La vita contemplativa ha il suo fascino semplicemente nell’essere una risposta radicale e gratuita all’Amore gratuito di Dio. Essa è un segno trasparente delle realtà escatologiche, un anticipo del Regno che viene, e nello stesso tempo nulla di quanto concerne l’uomo nella sua situazione storica le rimane estraneo. È una vita in Dio per i fratelli.
La vita claustrale è anzitutto un mistero di grazia; alla sua radice c’è il desiderio di prendere alla lettera la parola e l’esempio di Gesù nel mostrare con i fatti che non c’è amore più grande che dare la vita per gli altri. Essa perciò si situa proprio nel cuore del mistero cristiano, affonda le sue radici nel Fiat, nel sì di Maria a Nazaret e nel Fiat , nel sì di Gesù nell’ora della sua Passione redentrice. Con la scelta della verginità consacrata e la vita in seno a una comunità, con l’impegno fondamentale di praticare stabilmente la povertà, l’umiltà, l’obbedienza, la donna consacrata nella radicalità della vita claustrale non è più soltanto una persona che prega ma una preghiera incessante; non soltanto una persona che fa qualche cosa per gli altri, ma che sempre sta per gli altri davanti a Dio, innestata in Cristo, nel mistero fecondo della croce, alla sorgente del mistero della Vita.
Per questo l’incontro con una comunità di contemplative, pur con tutti i loro limiti, non lascia nessuno indifferente.
Nell’animo umano, infatti, persino dopo le più devastanti esperienze rimane sempre una potenziale consonanza con il vero, il buono e il bello che permette di cogliere il fascino che promana da una vita tutta donata a Dio; fascino di vergine bellezza, di gratuita bontà, di essenzialità.
Talvolta la partecipazione alla liturgia di una comunità orante è sentita quasi come un immergersi nel fonte battesimale, ritrovandovi la pura gioia di una vita nuova che si esprime in un nuovo cantico d’amore. L’incontro con il Cristo attraverso chi è a Lui legato con vincolo sponsale fa costatare che l’amore eternamente fedele non è un’utopia ma una splendida realtà.
« Come potete essere così contente? » : è una domanda che ci viene spesso rivolta da chi scopre la nostra presenza.
La risposta non ha bisogno di parole. La gente la intuisce dal nostro modo di essere, di pregare, di guardare con amore le stesse realtà umane tenendo sempre lo sguardo fisso a quelle divine.
Uscendo dal monastero dopo la partecipazione a una lectio divina un’adolescente confidava a una sua insegnante: « Non ci credevo, ma ora credo che c’è Dio e che il paradiso è amare Lui che ci ama! » .
La vita religiosa offre una visione serena della vita presente così spesso segnata dal dolore. Infatti la serenità, la pace, la compostezza che traspare dalle religiose claustrali non sono una semplice quiete dovuta alla preservazione dalle prove. Queste non mancano neanche alle contemplative, ma sono vissute come partecipazione al mistero pasquale di Cristo, come croce che già contiene la gioia della risurrezione. Perciò la vita claustrale, spesso immaginata come chiusa, imprigionata, è in realtà come una grande finestra aperta su un orizzonte aurorale che annunzia un futuro ancora pieno di speranza.
Osb, Abbazia Benedettina « Mater Ecclesiæ » , Isola San Giulio - Orta ( Novara)
Eterologa per sentenza: è la «nuova» Corte europea - Prima il verdetto sul crocifisso, poi quello contro il divieto in Austria di ricorrere a gameti altrui nella Pma Sulle «stranezze» della Corte di Strasburgo il commento di un suo ex giudice, Javier Borrego
Prima la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo che chiedeva di rimuovere il crocifisso nelle scuole (accogliendo poi la richiesta di appello da parte del Governo italiano). Quindi, giorni fa, la sentenza che condanna le autorità austriache perché la legge che regola la procreazione assistita in Austria non consente di ricorrere alla donazione di sperma per la fertilizzazione in vitro e alla donazione di ovuli in genere. In sostanza vieta come in Italia la fecondazione eterologa.
Secondo Javier Borrego Borrego, ex giudice a Strasburgo, «la Corte Europea è nata perché mai si ripetessero il disastro e l’orrore della seconda guerra mondiale, perché venissero rispettati i diritti umani. Ultimamente, però, sembra discostarsi dal suo ruolo».
La sentenza sul crocifisso può essere considerata paradigmatica, secondo Borrego: «È inesplicabile perché si tratta di un tribunale europeo ed è sorprendente che questo pretenda di espellere il segno del Cristianesimo. È come negare la sua condizione di tribunale europeo. È inesplicabile perché i giudici sembra non conoscano l’Italia.
Il crocifisso è ovunque. La Corte non può interpretare un diritto contro il sentire comune di uno Stato», spiega Borrego. Ma soprattutto Strasburgo è chiamata «a risolvere casi individuali e non può generalizzare. Se generalizza, si converte in un Parlamento nazionale. E una corte internazionale non è mai un parlamento nazionale».
Borrego spiega come concretamente la Corte è chiamata ad agire: «Per prima cosa deve analizzare il singolo caso.
Nella sentenza del crocifisso, invece, non si studia il caso individuale, ma si dice con carattere generale che in ambito pubblico non deve esserci il crocifisso. Il ragionamento della sentenza avrebbe dovuto essere limitato, a mio giudizio, all’aula, alla classe concreta, alla scuola in cui stavano i figli di questa signora finlandese, ma non avrebbe dovuto avere un carattere generale, riferendosi all’ambito pubblico. Questo la Corte non lo può mai fare».
Una tendenza «creativa del diritto» che Borrego vede all’orizzonte anche su un tema delicatissimo come quello del suicidio assistito: «Nel 2002, il tribunale europeo ha detto all’unanimità che la convezione europea non garantisce il diritto a morire, il suicidio assistito. È un caso inglese: Pretty contro Regno Unito. In un caso tedesco, identico al caso Pretty, il Tribunale 'ha comunicato la questione' al Governo tedesco. Questo è sorprendente perché se già esiste il caso Pretty è naturale che non si entri nuovamente in questo tema.
Quando il Tribunale comunica un caso significa che lo vuole studiare, che vuole una risposta dal Governo. Il tribunale sta aprendo la porta ad un tema molto preoccupante, il suicidio assistito. Se vuole studiarlo di nuovo, si presume che sia per cambiare. Sarebbe stata logica, invece, l’inammissibilità: non va studiato perché è stato già risolto dal caso Pretty.
Quando una persona presenta una domanda nel 93% dei casi non si ammette perché non è competenza del tribunale o perché esiste una giurisprudenza consolidata. La questione del suicidio assistito è una questione che deve essere discussa all’interno di ciascuno Stato».
L’opinione di Borrego è che se la Corte interpreta la convenzione in questo modo, creando nuovi diritti, perde tutta la sua credibilità. E se perde la credibilità, gli Stati non applicano le sentenze. Inoltre, la sentenza del crocifisso sembrerebbe indicare che la Corte usi pesi e misure diverse: «In Norvegia la Costituzione dice che la religione luterana è la religione ufficiale e i bambini devono essere educati nella religione luterana. In un caso relativo alla Norvegia, il tribunale ha analizzato molto diligentemente le circostanze di quel paese, i costumi e la legge. Nella sentenza del crocifisso il Cristianesimo in Italia si riduce a tre parole: 'Religione maggioritaria in Italia'», dice Borrego.
Compito della Corte Europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo, che nulla ha a che vedere con la Corte di Giustizia di Lussemburgo – istituzione dell’Unione Europea – è quello di applicare la Convezione dei diritti dell’Uomo firmata a Roma nel 1950. La Corte è composta da un numero di giudici pari al numero degli Stati membri, uno per Stato, scelto da una rosa di tre candidati proposti dai singoli Stati.
Il perché la Corte abbia intrapreso un percorso lontano dai compiti stabiliti dal trattato che la istituisce sembrerebbe risiedere, secondo Borrego, nelle modalità di scelta dei giudici.
«Attualmente su 46 giudici, 26 sono professori, ovvero non sono professionisti, e intendo giudici di carriera, avvocati. La mia opinione è che i professori quando arrivano a diventare giudici pensano che la sentenza sia una opportunità per esprimere e convertire in legge le proprie idee. Il giudice sa che la legge la fa l’assemblea, mentre lui la applica e deve decidere senza opinioni preconcette. Ci sono bravi professori, ma sono l’eccezione».
Nomine, quelle dei giudici, di natura politica: «Il criterio politico non è un criterio di selezione, la scelta dovrebbe essere fatta per professionalità, esperienza. Solitamente il Governo indica il suo favorito e poi i Parlamenti eleggono. Prima, anche nella corte di Lussemburgo gli Stati nominavano i giudici e l’Unione accettava. Dall’inizio di quest’anno per il trattato di Lisbona si è creata una commissione di giuristi per selezionare i giudici, perché l’Unione Europea era molto preoccupata per alcuni giudici nominati dai Governi».
Altro nodo è quello di stabilire quale sia il tribunale di ultima istanza in Europa. L’Unione Europea, infatti, come Unione non ha firmato il trattato, spiega Borrego, e per questo non può essere sottomessa alla giurisdizione del tribunale europeo dei diritti umani.
Hanno firmato, invece, tutti e 27 gli Stati membri. «Se, per esempio, un cittadino ricorre sostenendo che la Corte di Lussemburgo abbia violato un diritto umano, ad esempio il diritto al giusto processo, la Corte Europea non si rivolge all’Unione Europea, ma dirige la domanda a 27 stati. Che è una cosa abbastanza assurda. E anche così, il Tribunale perde credibilità».
Una perdita di credibilità che indebolisce un importante strumento di tutela dei diritti umani e che, secondo Borrego, potrebbe essere arginata solo se l’errore della Corte venisse pubblicamente ammesso, solo se l’input giungesse dall’opinione pubblica. «Se non succede nulla. Se si accetta tutto, ci saranno altri passi avanti» nella tendenza a cambiare la società attraverso le sentenze.
Elena Pasquini