Nella rassegna stampa di oggi:
1) Messaggio di Benedetto XVI alla Conferenza sulla sicurezza alimentare
2) Nel discorso del Papa alla Fao l’invito a un profondo cambiamento di mentalità
3) Malta, un paese che riconosce la vita fin dal concepimento - Intervista al fondatore di “Gift of Life +9”
4) Basta finanziare i maestri dell’odio islamico
5) Diciannove anni nel Gulag cinese
6) Pellegrini alla tomba di Pietro. Come nell'antica Roma, di Sandro Magister
7) L’emergenza educativa è emergenza della Chiesa
8) "L'effetto Lucifero" di Philip Zimbardo studia gli automatismi della violenza - Come si diventa cattivi
9) Viaggio del Papa in America - Albacete: «Anche i non cattolici conquistati da lui»
Messaggio di Benedetto XVI alla Conferenza sulla sicurezza alimentare
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 3 maggio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il Messaggio di Benedetto XVI che il Cardinale Tarcisio Bertone, capo delegazione della Santa Sede, ha letto questo martedì mattina alla "Conferenza di alto livello sulla sicurezza alimentare mondiale: la sfida dei cambiamenti climatici e delle bioenergie", organizzata a Roma dalla FAO, dal 3 al 5 giugno.
* * *
Signor Presidente della Repubblica italiana,
Illustri Capi di Stato e di Governo,
Signor Direttore Generale della FAO,
Signor Segretario Generale dell’ONU,
Signore e Signori!
Sono lieto di porgere il mio deferente e cordiale saluto a Voi, che, a diverso titolo, rappresentate le varie componenti della famiglia umana e vi siete riuniti a Roma per concordare soluzioni idonee ad affrontare il problema della fame e della malnutrizione.
Al Cardinale Tarcisio Bertone, mio Segretario di Stato, ho chiesto di parteciparVi la particolare attenzione con cui seguo il vostro lavoro e di assicurarVi che attribuisco grande importanza all’arduo compito che Vi attende. A Voi guardano milioni di uomini e donne, mentre nuove insidie minacciano la loro sopravvivenza e preoccupanti situazioni mettono a rischio la sicurezza dei loro Paesi. Infatti, la crescente globalizzazione dei mercati non sempre favorisce la disponibilità di alimenti ed i sistemi produttivi sono spesso condizionati da limiti strutturali, nonché da politiche protezionistiche e da fenomeni speculativi che relegano intere popolazioni ai margini dei processi di sviluppo. Alla luce di tale situazione, occorre ribadire con forza che la fame e la malnutrizione sono inaccettabili in un mondo che, in realtà, dispone di livelli di produzione, di risorse e di conoscenze sufficienti per mettere fine a tali drammi ed alle loro conseguenze. La grande sfida di oggi è quella di "globalizzare non solo gli interessi economici e commerciali, ma anche le attese di solidarietà, nel rispetto e nella valorizzazione dell’apporto di ogni componente umana» (Discorso alla Fondazione Centesimus Annus pro Pontifice, 31 maggio 2008).
Alla FAO ed al suo Direttore Generale va, pertanto, il mio apprezzamento e la mia gratitudine, per aver nuovamente attirato l'attenzione della comunità internazionale su quanto ostacola la lotta contro la fame e per averla sollecitata ad un'azione che, per risultare efficace, dovrà essere unitaria e coordinata.
In tale spirito, alle alte Personalità che partecipano a questo Vertice desidero rinnovare l’auspicio che ho formulato durante la mia recente visita alla sede dell’ONU: è urgente superare il "paradosso di un consenso multilaterale che continua ad essere in crisi a causa della sua subordinazione alle decisioni di pochi" (Discorso all’Assemblea Generale dell’ONU, 18 aprile 2008). Inoltre, mi permetto d’invitarVi a collaborare in maniera sempre più trasparente con le organizzazioni della società civile impegnate a colmare il crescente divario tra ricchezza e povertà. Vi esorto ancora a proseguire in quelle riforme strutturali che, a livello nazionale, sono indispensabili per affrontare con successo i problemi del sottosviluppo, di cui la fame e la malnutrizione sono dirette conseguenze. So quanto tutto ciò sia arduo e complesso!
Tuttavia, come si può rimanere insensibili agli appelli di coloro che, nei diversi continenti, non riescono a nutrirsi a sufficienza per vivere? Povertà e malnutrizione non sono una mera fatalità, provocata da situazioni ambientali avverse o da disastrose calamità naturali. D’altra parte, le considerazioni di carattere esclusivamente tecnico o economico non debbono prevalere sui doveri di giustizia verso quanti soffrono la fame. Il diritto all’alimentazione "risponde principalmente ad una motivazione etica: ‘dare da mangiare agli affamati’ (cfr Mt 25, 35), che spinge a condividere i beni materiali quale segno dell’amore di cui tutti abbiamo bisogno […] Questo diritto primario all’alimentazione è intrinsecamente vincolato alla tutela e alla difesa della vita umana, roccia salda e inviolabile sui cui si fonda tutto l’edificio dei diritti umani» (Discorso al nuovo Ambasciatore del Guatemala, 31 maggio 2008). Ogni persona ha diritto alla vita: pertanto, è necessario promuovere l’effettiva attuazione di tale diritto e si debbono aiutare le popolazioni che soffrono per la mancanza di cibo a divenire gradualmente capaci di soddisfare le proprie esigenze di un’alimentazione sufficiente e sana.
In questo particolare momento, che vede la sicurezza alimentare minacciata dal rincaro dei prodotti agricoli, vanno poi elaborate nuove strategie di lotta alla povertà e di promozione dello sviluppo rurale. Ciò deve avvenire anche attraverso processi di riforme strutturali, che consentano di affrontare le sfide della medesima sicurezza e dei cambiamenti climatici; inoltre, occorre incrementare la disponibilità del cibo valorizzando l’industriosità dei piccoli agricoltori e garantendone l’accesso al mercato. L’aumento globale della produzione agricola potrà, tuttavia, essere efficace, solo se sarà accompagnato dall’effettiva distribuzione di tale produzione e se essa sarà destinata primariamente alla soddisfazione dei bisogni essenziali. Si tratta di un cammino certamente non facile, ma che consentirebbe, fra l’altro, di riscoprire il valore della famiglia rurale: essa non si limita a preservare la trasmissione, dai genitori ai figli, dei sistemi di coltivazione, di conservazione e di distribuzione degli alimenti, ma è soprattutto un modello di vita, di educazione, di cultura e di religiosità. Inoltre, sotto il profilo economico, assicura un’attenzione efficace ed amorevole ai più deboli e, in forza del principio di sussidiarietà, può assumere un ruolo diretto nella catena di distribuzione e di commercializzazione dei prodotti agricoli destinati all'alimentazione, riducendo i costi dell’intermediazione e favorendo la produzione su piccola scala.
Signore e Signori,
Le difficoltà odierne mostrano come le moderne tecnologie, da sole, non siano sufficienti per sopperire alla carenza alimentare, come non lo sono i calcoli statistici e, nelle situazioni di emergenza, l’invio di aiuti alimentari. Tutto ciò certamente ha grande rilievo, tuttavia deve essere completato ed orientato da un’azione politica che, ispirata a quei principi della legge naturale che sono iscritti nel cuore degli uomini, protegga la dignità della persona. In tal modo, anche l'ordine della creazione viene rispettato e si ha "come criterio orientatore il bene di tutti" (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2008, n. 7). Solo la tutela della persona, dunque, consente di combattere la causa principale della fame, cioè quella chiusura dell'essere umano nei confronti dei propri simili che dissolve la solidarietà, giustifica i modelli di vita consumistici e disgrega il tessuto sociale, preservando, se non addirittura approfondendo, il solco di ingiusti equilibri e trascurando le più profonde esigenze del bene (cfr. Lettera Enciclica Deus caritas est, n. 28). Se, pertanto, il rispetto della dignità umana fosse fatto valere sul tavolo del negoziato, delle decisioni e della loro attuazione, si potrebbero superare ostacoli altrimenti insormontabili e si eliminerebbe, o almeno diminuirebbe, il disinteresse per il bene altrui. Di conseguenza, sarebbe possibile adottare provvedimenti coraggiosi, che non si arrendano di fronte alla fame ed alla malnutrizione, come se si trattasse semplicemente di fenomeni endemici e senza soluzione. La difesa della dignità umana nell’azione internazionale, anche di emergenza, aiuterebbe inoltre a misurare il superfluo nella prospettiva delle necessità altrui e ad amministrare secondo giustizia i frutti della creazione, ponendoli a disposizione di tutte le generazioni.
Alla luce di tali principi, auspico che le Delegazioni presenti a questa riunione si assumano nuovi impegni e si prefiggano di realizzarli con grande determinazione. La Chiesa cattolica, dal canto suo, desidera unirsi a questo sforzo! In spirito di collaborazione, essa trae dalla saggezza antica, inspirata al Vangelo, un appello fermo ed accorato, che rimane di grande attualità per quanti partecipano al Vertice: "Dà da mangiare a colui che è moribondo per la fame, perché, se non gli avrai dato da mangiare, lo avrai ucciso" (Decretum Gratiani, c. 21, d. LXXXVI). Vi assicuro che, in questo cammino, potete contare sull’apporto della Santa Sede. Pur differenziandosi dagli Stati, essa si unisce ai loro obiettivi più nobili per suggellare un impegno che, per sua natura, coinvolge l’intera comunità internazionale: incoraggiare ogni Popolo a condividere le necessità degli altri Popoli, mettendo in comune i beni della terra che il Creatore ha destinato all'intera famiglia umana.
Con questi sentimenti, formulo i miei più fervidi auguri per il successo dei lavori ed invoco la Benedizione dell'Altissimo su di Voi e su quanti si impegnano per l’autentico progresso della persona e della società.
Dal Vaticano, 2 Giugno 2008
BENEDICTUS PP. XVI
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Nel discorso del Papa alla Fao l’invito a un profondo cambiamento di mentalità
Int. a Andrea Tornielli04/06/2008
Autore(i): Int. a Andrea Tornielli. Pubblicato il 04/06/2008 – IlSussidiario.net
Cosa intende dire Benedetto XVI quando, nel suo discorso per l’Assemblea della Fao, chiede una «globalizzazione della solidarietà»?
Credo che questo discorso contenga in nuce gli argomenti della prossima enciclica sociale di Benedetto XVI, dedicata proprio al tema della globalizzazione e delle sue ricadute. L’elemento centrale di questo messaggio è il fatto che il Papa chiede un cambiamento di mentalità generale: dire infatti che bisogna globalizzare la solidarietà in un momento in cui si parla molto di globalizzazione, ma in cui ci sono anche fenomeni di ritorno, di protezionismo, di attenzioni e di paure, richiede proprio quel cambiamento che dicevo. Così come è importante anche l’invito a non arrendersi alla fame nel mondo come qualcosa di ineludibile e di ineluttabile.
Al tempo stesso mi colpisce pure il fatto che il Papa, invitando tutti ad assumersi le responsabilità, parli più volte della necessità di riforme strutturali interni agli Stati stessi: questo è un elemento essenziale perché gli aiuti, la solidarietà e i grandi lavori in campo educativo possano attecchire.
Altri due passaggi che le chiederei di commentare: la citazione del principio di sussidiarietà a proposito della valorizzazione dell’industriosità di chi svolge l’attività agricola; e il richiamo all’importanza di una politica ispirata alla dignità dell’uomo, al di là di quelle che sono le tecnologie o le analisi statistiche.
Il principio di sussidiarietà appartiene alla Dottrina sociale della Chiesa, e ne è uno dei principi fondanti; è quindi naturale che il Papa lo rimetta in gioco. Importante è certo questo richiamo all’agricoltura e al valore della famiglia rurale, partendo proprio dal basso. Non è solo un invito a preservare i sistemi di coltivazione, ma anche un modello di vita e di educazione.
La necessità di non arrendersi e di non vedere tutto soltanto nell’ottica di calcoli statistici, di tecnologie, e nemmeno solo nell’invio degli aiuti alimentari: è un cambiamento di mentalità perché parla di una politica ispirata dai principi della legge naturale e dalla promozione della dignità della persona. Il tutto nella piena consapevolezza che le risorse ci sarebbero per tutti.
Non c’è forse il rischio che richiami come questi vengano presi per buoni in linea teorica, ma non incisivi per la soluzione reale dei problemi?
Mi sembra che la richiesta di un cambiamento di mentalità in una situazione come quella attuale, con questo snodo dato dall’aumento del prezzo dei cereali, sia oggi una questione di convenienza e di lucida analisi di quelli che possono essere i possibili scenari futuri. Di fronte al fatto che ci sono centinaia di milioni di persone che sono sotto i tentacoli della fame e ai problemi legati ai flussi migratori, la possibilità di iniziare a rispondere a queste emergenze favorendo una più equa distribuzione delle ricchezze e favorendo la possibilità per tanti Paesi di cominciare ad autosostentarsi mi sembra una questione non legata soltanto a una sana considerazione di equità e di tutela della dignità umana, ma anche una questione di analisi, di strategie rispetto al futuro dell’umanità.
Rimandare il problema e non cercare di affrontarlo e di risolverlo almeno in parte con quel cambio di mentalità significa andare incontro a problemi sempre più seri che toccheranno da vicino i Paesi più sviluppati.
Quali sono gli altri elementi che secondo lei sono particolarmente importanti in questo discorso di fronte all’assemblea della Fao?
Un’altra cosa da sottolineare è l’“autocitazione” del discorso che il Papa ha tenuto all’Onu quando dice che bisogna superare il paradosso di un consenso multilaterale che continua ad essere in crisi a causa della sua subordinazione alla decisione di pochi: è un giudizio importante, pressante, sulla situazione in cui vivono le Nazioni Unite e tutte queste organizzazioni. Le decisioni appartengono a pochi, mentre quello che serve è allargare la base di chi prende decisioni comuni. Infine sottolineerei anche l’invito che viene fatto ai leader di collaborare in maniera sempre più trasparente con le organizzazioni della società civile. È una bella valorizzazione di chi lavora in questo campo, ed è anche un invito ai governi a non mettere i bastoni tra le ruote a queste organizzazioni.
Malta, un paese che riconosce la vita fin dal concepimento - Intervista al fondatore di “Gift of Life +9”
di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 4 giugno 2008 (ZENIT.org).- Uno dei pochi Paesi europei dove l’aborto non è liberalizzato è Malta. Nonostante le tante pressioni internazionali, in un sondaggio recente la popolazione si è espressa al 93% contro l’aborto.
Per comprendere le ragioni che stanno alla base di questo forte sentimento pro life, ZENIT ha intervistato il Presidente del Movimento per la Vita maltese, Paul Vincenti, che ha creato la Fondazione “Gift of Life +9”.
Malta è uno dei pochi Paesi dove la legge non autorizza l'aborto. Quali sono gli effetti di questa politica?
Vincenti: Malta non dispone di una legge che autorizza l’aborto né di una legge per il divorzio. Malta è completamente favorevole alla vita nascente. Abbiamo tanto amore per la famiglia anche se abbiamo i nostri problemi come tanti altri Paesi. Da noi, il valore della vita è sempre al primo posto. E’ naturale per noi vivere con questo mentalità. Di recente ci sono state poche voci che hanno chiesto una legge che permettesse l'aborto, ma la popolazione non ha dato credito a queste richieste.
Il Movimento per la Vita, il “Gift of Life”, si è formato per combattere la cultura della morte anche prima che questa fosse un problema per Malta. Abbiamo analizzato l’esperienza di altri Paesi che adesso hanno una legge a favore dell'aborto, ed abbiamo deciso di non seguire quella strada. Siamo favorevoli alla vita e insegniamo ai maestri delle scuole come educare i giovani studenti alla cultura della vita.
Svolgiamo un lavoro di informazione per i rappresentanti al Parlamento. Approfondiamo i problemi di etica medica e sociale. Ci difendiamo dalla propaganda dei movimenti favorevoli all’aborto.
Sebbene non ci siano mai stati casi di aborto illegali a Malta, sappiamo che una media di circa 180 ragazze all’anno va in Sicilia o in Gran Bretagna a praticare l’aborto.
Per aiutare chiunque si trovasse in difficoltà, abbiamo creato un gruppo di accoglienza e appoggio che si chiama HOPE (speranza). In questo modo aiutiamo le ragazze che rimangono incinte e che entrano in crisi. Grazie a questo tipo di sostegno lo scorso anno abbiamo aiutato 12 mamme che hanno deciso di far nascere i loro bambini e bambine.
Ci sono ancora aborti clandestini? Le donne soffrono e non sono emancipate perché non c’è l’aborto?
Vincenti: Non ci sono aborti clandestini a Malta. La larga maggioranze delle donne non crede nell’aborto. Non ci sono gruppi di femministe che propagandano l’aborto come espressione di libertà ed emancipazione. La larga maggioranza dei bambini a Malta nasce dal matrimonio di coppie stabili.
In Europa c'è un aborto ogni 27 secondi e un divorzio ogni 30. Qual è la situazione a Malta? Può fornirci i dati di crescita demografica e di fertilità femminile di Malta?
Vincenti: Malta ha un alto tasso di fertilità. Insieme a Cipro, tra i più alti d’Europa. Malta ha anche il record di famiglie numerose, con 3,2 membri per famiglia, mentre la media europea è di 2,1.
Le famiglie soffrono per la mancanza dell'aborto oppure i legami familiari sono più forti della media europea?
Vincenti: La legge maltese è molto chiara nel trasmettere un messaggio a favore della vita. Se un Paese legalizza l'aborto, la gente guarderà alla vita con meno valore. Le famiglie che si oppongono all’aborto sanno che guadagnano in umanità. Molto difficilmente c’è gente che raccomanda l'aborto come soluzione. Abbiamo fatto un sondaggio nel 2005 chiedendo ai Maltesi che cosa pensassero dell’aborto ed in particolare cosa pensassero dell’Unione europea che raccomanda la libera interruzione di gravidanza. Il 93% degli interpellati ha risposto di essere contraria all’aborto e di voler mantenere la legge che lo proibisce anche se tutta la Ue lo legalizzerà. Il modo di trattare il diritto alla vita in Europa è una cosa che i Maltesi non capiscono e non condividono.
Come si chiama il Movimento per la Vita di cui lei fa parte e quali sono le iniziative che portate avanti?
Vincenti: Il Gift of Life (Dono della Vita) è stato fondato nel 2004 come il primo e, fino ad ora, unico movimento ufficiale a favore della vita a Malta. Il nostro messaggio si basa sui risultati della ricerca scientifica e sui fatti confermati dalle testimonianze. Prediamo parte a tantissimi programmi televisivi, sulla radio e nei giornali. Svolgiamo un lavoro di informazione e formazione sui temi della vita per maestri e professori di scuola. Nel corso di quest'anno svolgeremo tre seminari per insegnanti in tutte le scuole Maltesi, diffondendo depliant, fascicoli, DVD, che spiegano la dignità delle persona umana e come la vita nasce fin dal concepimento.
Ogni tanto affiggiamo grandi manifesti sulle strade principiali dell’isola. Il messaggio che adesso stiamo diffondendo è quello relativo a + 9, ricordiamo cioè che ognuno di noi si forma dal concepimento.
Abbiamo creato un monumento a favore della vita nel 2005 che è stato inaugurato dal nostro Presidente. Si tratta di un monumento nazionale ed ogni anno celebriamo il giorno della vita davanti al monumento.
In che consiste la campagna "+ 9"? Quali sono i risultati? E' vero che vorreste proporla in Europa e nel mondo?
Vincenti: Il simbolo +9 è nato in seguito a tante preghiere. +9 a Malta è diventato il simbolo nazionale del movimento. Il +9 significa che la nostra vita è più lunga di nove mesi, ogni volta che celebriamo il compleanno. Abbiamo trovato che specialmente ai giovani, il simbolo piace molto. Infatti, la usano nei messaggi SMS quando parlano di compleanni ed anche su internet e nelle chat.
Abbiamo scoperto che persone di altri gruppi internazionali a favore della vita hanno cominciato ad utilizzare il simbolo +9. Credo che sia una campagna popolare e molto efficace. Nella riunione che si è svolta a Roma con gli altri Movimenti per la Vita ho proposto di diffondere la campagna in tutta Europa.
Se tutti nel mondo usassero questo simbolo che è semplice da riprodurre, e facile da spiegare e capire, il Movimento mondiale per la Vita sarà molto più forte. Sono convinto che i Movimenti per la Vita debbano diventare molto più visibili e riconosciuti, specialmente nei mass media.
Sappiamo che se il +9 diventerà un simbolo che tutti usano, fra non molto tempo riusciremo ad influenzare anche la stesura delle leggi in materia. Il +9 è un simbolo che può diventare facilmente messaggio per la vita. Spero che tanti comincino ad usare il simbolo nelle loro email, sulla loro carta stampata e sulle bandiere.
Inoltre, stiamo lavorando per portare anche al Parlmanto europeo il simbolo +9.
Basta finanziare i maestri dell’odio islamico
di Massimo Introvigne (il Giornale, 31 maggio 2008)
Apparentemente quella che arriva dal Pakistan è una storia di ordinaria follia. Un bambino di sette anni, Mohammed Atif, che non era riuscito a memorizzare il Corano come chiedeva l'insegnante di una madrassa, è stato appeso dallo zelante maestro a testa in giù a un ventilatore da soffitto, e bastonato con ferocia finché non è morto.
Si dirà che i pazzi ci sono dovunque e che l'ultrafondamentalismo islamico stavolta non c'entra. E invece no. Nell'Afghanistan dei talebani bambini anche di quattro o cinque anni erano sottoposti a un'istruzione che consisteva quasi solo nel mandare a memoria il Corano e nell'imparare a usare il kalashnikov. Se non erano rapidi nell'una o l'altra materia piovevano le bastonate. Ma i maestri talebani avevano imparato l'arte in Pakistan. Qui funziona un sistema di oltre diecimila madrasse - non esistono registri, ispezioni, controlli e il numero esatto nessuno lo conosce - fra cui gli specialisti possono distinguere sfumature teologiche, ma il cui schema è sempre lo stesso. Pochissima istruzione in materie non religiose, Corano a memoria, incitamento all'odio per l'Occidente e botte.
I vari governi che si sono succeduti in Pakistan hanno promesso e qualche volta anche fatto qualcosa contro la presenza di Al Qaida, ma non hanno mai osato toccare le madrasse. E c'è di peggio: una parte sostanziale degli aiuti umanitari che vanno al Pakistan - come ha rivelato di recente un'inchiesta del più noto giornalista pakistano, Ahmed Rashid - finisce direttamente o indirettamente alle madrasse. Forse anche la scuola dove è stato picchiato a morte il piccolo Mohammed funzionava grazie agli aiuti delle Nazioni Unite o dell'Unicef.
Questo sistema deve finire. Le madrasse non sono scuole come le altre. Anche quando gli allievi non finiscono massacrati come Mohammed sono indottrinati all'odio per l'Occidente, spesso direttamente al terrorismo. Nella maggior parte dei casi, non ricevono l'istruzione essenziale per svolgere nella società lavori che non siano il predicatore, il militante a tempo pieno di movimenti estremisti o il terrorista. Uno dei modi essenziali per sradicare il terrorismo è chiudere le madrasse e sostituirle non con scuole di ateismo (come sognava Kemal Atatürk, il quale dovette rendersi conto ben presto che si trattava di utopie irrealizzabili in terra d'islam) ma con istituti di formazione certo rispettosi dei valori e delle tradizioni islamiche, ma nello stesso tempo capaci di insegnare agli allievi le principali materie che si apprendono nelle scuole di tutto il mondo. E di prepararli a una vita normale, sotto il controllo di autorità scolastiche indipendenti e competenti.
I talebani afghani hanno capito che il loro vero nemico è il maestro di scuola. Infatti in un anno hanno fatto saltare duecento scuole, uccidendo oltre centocinquanta bambini frequentatori di scuole elementari. Ma è solo sostituendo le madrasse con vere scuole che si prepara un futuro senza terroristi.
Diciannove anni nel Gulag cinese
Tommaso Piffer
Studi Cattolici, aprile 2008
«Improvvisamente la mia mente si riscosse ed ebbi una specie di rivelazione. La vita umana qui non ha valore, pensai amaramente. Non è più importante della cenere di sigaretta sparsa nel vento. Ma se la vita di una persona non ha valore, anche la società che foggia quella vita non ha valore.
Se la gente non è altro che polvere, allora la società non vale nulla e non merita di continuare. E se la società rischia di non continuare, tocca a me fare qualcosa per impedirlo. In quel momento seppi che non potevo morire». Oggi Harry Wu ha settant'anni, diciannove dei quali passati in un lager della Cina comunista. È un signore distinto dall'aria seria e lo sguardo triste, che ha dedicato la sua vita a far conoscere l'inferno nel quale è stato scaraventato e a combattere perché le violazioni dei diritti umani in Cina non passino sotto silenzio.
Il passaggio che abbiano citato è tratto dalle sue memorie (Harry Wu, Controrivoluzionario. I miei anni nel Gulag cinese , San Paolo, Cinisello Balsamo-MI 2008, pp. 424, euro 22), di recente tradotte in italiano e pubblicate in collaborazione con Mondo e Missione , la rivista del Pime. Lo incontriamo a Milano, dove si trova in occasione di un giro di conferenze prima di tornare negli Stati Uniti.
Nato in una famiglia agiata, Harry aveva trascorso l'infanzia in una situazione tutto sommato privilegiata, studiando dai preti cattolici in un contesto molto lontano dalla povertà che affliggeva la Cina degli anni Trenta. La guerra civile e la presa del potere dei comunisti all'inizio non cambiano molto le cose. La gente, racconta Wu, si fidava di Mao, e appoggiava il regime che aveva eliminato la prostituzione, il gioco clandestino e la droga. Lui stesso non si sottrae e all'età di 18 anni si trasferisce a Pechino per studiare Geologia: «Desideravo», scrive nelle sue memorie, «dedicare la mia vita ad aiutare il Partito comunista nella costruzione di un nuovo futuro, di una nuova nazione, in cui gli uomini potessero vivere con dignità, senza essere oppressi dal bisogno e dall'ingiustizia».
Incubi & orrori
Ma Wu aveva un padre «borghese », ed era battezzato: il suo destino è già segnato. Nel 1957, nel corso di uno dei numerosi incontri di indottrinamento politico ai quali tutti gli studenti sono sottoposti, si esprime contro l'invasione sovietica dell'Ungheria. È l'inizio di un incubo: accusato di essere un «controrivoluzionario di destra», vede crearsi rapidamente il vuoto attorno a sé. «Quando sono stato accusato di essere un controrivoluzionario di destra», ci racconta, «a scuola la gente ha smesso di parlarmi. Ero il capitano della squadra di baseball: il giorno dopo ero stato dimenticato. Gli altri membri della squadra mi hanno condannato. All'improvviso ero solo». La pressione su di lui diventa enorme: è costretto a partecipare a infiniti gruppi di discussione durante i quali si elencano i suoi errori e le sue «devianze», deve scrivere una lettera di autocritica dopo l'altra, è sottoposto a continua sorveglianza. Neanche i parenti più stretti lo difendono, anzi lo accusano pubblicamente. Sua madre preferirà suicidarsi piuttosto che rinnegarlo, ma questo Wu lo avrebbe scoperto solo anni dopo. Nel 1960 viene arrestato e condannato all'ergastolo. Nel 1963 fa il suo ingresso nel Laogai, il sistema concentrazionario cinese. Laogai è una sigla che sta per Laodong Gaizao Dui , e significa «riforma attraverso il lavoro». I Laogai sono parte integrante del sistema totalitario cinese, e hanno due funzioni: la prima è quella della rieducazione del prigioniero, che deve riconoscere i propri errori e imparare a comportarsi come un «buon rivoluzionario ». La seconda funzione essenziale è quella di fornire una immensa forza lavoro a costo zero. Se il primo elemento rende in qualche modo il sistema cinese peculiare rispetto a quello sovietico, per il resto leggere le memorie di Harry Wu non può non far tornare alla mente quelle di Alexander Solzenicyn. La vita nei campi è terribile, le condizioni sanitarie inesistenti, il cibo insufficiente e il tasso di mortalità elevato: «lavoravamo 18 ore al giorno, sette giorni a settimana, tutto l'anno», racconta Wu. Ai prigionieri è richiesto di raggiungere una quota di lavoro prestabilita, e il cibo viene fornito in proporzione ai risultati raggiunti.
Nel corso dei 19 anni passati nel Laogai Harry Wu verrà impiegato in diverse mansioni: lavorerà in una industria chimica, in una fattoria, in una acciaieria e in una miniera. Vedrà morire di stenti gran parte dei sui compagni. Ma non sono solo le terribili condizioni di vita che impressionano nelle sue memorie. È soprattutto la completa disumanizzazione dei prigionieri, risultato di un continuo indottrinamento e della fame cui sono sottoposti, che li costringe a rinnegare tutte le più elementari forme di solidarietà umana pur di sopravvivere.
Wu sarebbe arrivato a pesare 36 chili. L'incubo finisce solo nel 1979, dopo diciannove anni, quando viene rilasciato insieme ai vecchi «controrivoluzionari» in seguito alla nuova politica stabilita dal partito dopo la morte di Mao. Wu calcola che di circa un milione di cinesi arrestati come lui con l'accusa di essere dei «controrivoluzionari di destra», solo diecimila sono sopravvissuti. Una volta rilasciato, Harry Wu trova lavoro all'università di Pechino, fino a quando, nel 1985, riesce a raggiungere gli Stati Uniti. Solo in quel momento, ha raccontato poi, si è sentito libero. Con 40 dollari in tasca, ha tentato di ricostruirsi una vita. All'inizio con un solo pensiero: dimenticare quello che era successo. «Nei primi tempi», ci dice, «il mio problema negli Stati Uniti era di procurarmi da vivere. Insegnavo in università e la sera lavoravo in un fastfood. I primi dieci giorni ho dormito per strada. Poi in una stanza con altri cinque studenti cinesi». Ma soprattutto, aggiunge, «il regime comunista era troppo potente e io non pensavo che la gente volesse stare a sentirmi. Avevo quasi cinquant'anni allora, e non volevo mettermi a combattere un regime».
All'inizio degli anni Novanta il Congresso americano gli chiede varie volte di testimoniare sulla sua esperienza nei campi di lavoro cinesi. Harry Wu accetta: da allora è sulla «lista nera» del governo cinese, ma non ha più smesso di combattere per far conoscere al mondo la realtà dei Laogai cinesi. «Anche se avevo trovato rifugio negli Stati Uniti», scrive, «non ero ancora riuscito a trovare pace. Ripensavo continuamente ai volti che mi ero lasciato alle spalle. Ero costantemente preoccupato dal fatto che, nonostante io fossi fuggito, il sistema della riforma attraverso il lavoro continuava a operare, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ignorato su vasta scala, non sfidato e quindi immutato. Sentivo la responsabilità pressante non solo di denunciare, ma anche di rendere di pubblico dominio la verità sui meccanismi di controllo del Partito comunista, qualunque rischio corressi, qualunque disagio mi costasse rivelare la mia storia».
Difficile battaglia per la verità
Nel 1992 ha dato vita alla «Laogai Foundation», che si occupa di far conoscere al mondo le violazioni dei diritti umani in Cina. La Fondazione calcola che oggi siano oltre mille i campi ancora attivi, con un numero stimato di prigionieri che supera i tre milioni. Il governo cinese non ne riconosce ufficialmente l'esistenza. Alcune cose con il tempo si sono modificate, lo stesso regime sotto certi aspetti è cambiato, ma bisogna rendersi conto che «in Cina c'è un regime comunista» e che «Laogai e democrazia sono incompatibili. Se c'è la democrazia non ci sono i Laogai. Se ci sono i Laogai non c'è la democrazia». Nel 1995, quando ormai era diventato cittadino americano, è tornato in Cina per raccogliere prove dell'esistenza dei Laogai: il governo cinese lo ha immediatamente fatto arrestare e condannare a quindici anni di prigione per spionaggio. Solo la forte pressione internazionale ha permesso che la condanna fosse tramutata in espulsione dal Paese. Ma non è solo contro il sistema del lavoro forzato che combatte la Fondazione di cui è animatore: Harry Wu non si stanca di denunciare le forti restrizioni alla libertà religiosa, alla libertà di associazione, all'utilizzo di Internet da parte del governo. E ancora, la tragica verità del traffico degli organi espiantati ai prigionieri giustiziati. La Cina, dice, è il secondo Paese al mondo per numero di trapianti effettuati, e la stragrande maggioranza degli organi proviene dalle esecuzioni.
Nel corso di una battaglia che ormai dura da quindici anni, racconta Wu, l'atteggiamento della società occidentale è cambiato. «Non solo il governo americano, ma anche i semplici cittadini mi paiono sempre più interessati a questi temi». Da quando è nata la Fondazione, il suo fondatore ha girato tutti gli Stati Uniti e buona parte dei Paesi europei. «Ma l'Italia », spiega, «è abbastanza indietro. Negli anni Novanta quando giravo l'Europa, da qui non mi è mai venuto nessun invito. Ci sono venuto solo come turista». Soltanto nel 2006 la casa editrice l'Ancora del Mediterraneo ha tradotto il libro Laogai. I gulag di Mao Zedong , che era uscito in inglese nel 1992. Nel 2006, peraltro, la forte resistenza di natura ideologica a questi temi presente nella cultura italiana si manifestò nella sua forma peggiore, quando una cinquantina di attivisti dei centri sociali impedirono la presentazione del libro a Roma. Anche il volume pubblicato ora dalla San Paolo è uscito nella sua edizione originale inglese nel 1994, e ha quindi dovuto aspettare oltre tredici anni per essere reso accessibile al pubblico italiano. Ma Harry Wu non si scoraggia, e prosegue la sua battaglia contro l'indifferenza e il realismo politico di chi preferisce non toccare certi temi per timore di ripercussioni di natura commerciale. «Non posso fare a meno di pensare», ha scritto sulla scelta di assegnare a Pechino le Olimpiadi del 2008, «che mentre a Hitler le Olimpiadi del 1936 furono assegnate senza immaginare gli orribili avvenimenti che sarebbero poi accaduti, a Pechino sono state concesse pur conoscendo l'efferatezza dei crimini che la Cina tuttora commette».
Pellegrini alla tomba di Pietro. Come nell'antica Roma
Dieci metri sotto la basilica vaticana è possibile ripercorrere la stessa strada che conduceva alla sepoltura dell'apostolo, tra file di tombe romane uscite intatte dagli scavi. L'ultimo restauro è di pochi giorni fa. Una meraviglia di arte, di storia, di fede
di Sandro Magister
ROMA, 3 giugno 2008 – Immaginiamo che sia notte, come nella foto qui sopra. Stiamo percorrendo una stradina affiancata da tombe romane del II e III secolo dopo Cristo. Siamo sulle prime pendici del Colle Vaticano. A poca distanza c'è l'imponente obelisco che sorgeva al centro dello stadio di Caligola e Nerone. Lì fu martirizzato l'apostolo Pietro. E lungo questa stradina sorge il "trofeo" che segna il luogo in cui fu sepolto.
Proprio così. L'unica cosa inesatta è che non è notte. E quel cielo buio è il pavimento della basilica di San Pietro, sotto la quale stiamo camminando.
Quando nel IV secolo l'imperatore Costantino costruì la basilica, volle che il piano dell'abside poggiasse proprio sopra la tomba dell'apostolo. E per portare allo stesso livello anche la navata coprì di terra tutte le tombe che da quella di Pietro si susseguivano in leggera discesa in direzione del fiume Tevere. Nel Cinquecento, al posto della basilica costantiniana e a un livello più alto fu costruita una nuova basilica più grande, l'attuale. In ogni caso, per sedici secoli nessuno scavò sotto il pavimento della basilica.
Fu Pio XII, nel 1939, a dare il via all'esplorazione archeologica. E in pochi anni furono riportate alla luce non solo la tomba di Pietro, sotto l'altare maggiore della basilica, ma anche altre 22 tombe allineate lungo l'antica stradina, per un tratto di circa 70 metri, una decina di metri al di sotto della navata centrale della chiesa.
Nel 1998 le autorità vaticane ordinarono il restauro e la valorizzazione della necropoli scavata sotto la basilica di San Pietro.
L'ultima delle tombe restaurate è stata inaugurata pochi giorni fa, mercoledì 28 maggio. È la più grande e sontuosa tra quelle tornate alla luce. Fu edificata poco dopo la metà del II secolo, quando l'imperatore era Marco Aurelio, da un'importante famiglia romana, quella dei Valerii. Oltre alle statue di membri della famiglia, di filosofi e di divinità, spiccano la testa leggiadra di una fanciulla e quella in stucco dorato di un bambino col caratteristico ciuffo di Iside.
Le 22 tombe della necropoli sono quasi tutte pagane, con tracce di culti orientali. L'unica interamente cristiana è quella dei Iulii. Nella sua volta risplende un meraviglioso mosaico che raffigura Cristo come Sole ed Apollo, mentre ascende al cielo su una quadriga di cavalli bianchi, reggendo il globo terrestre nella mano sinistra. Alle pareti, si distinguono le immagini del Buon Pastore, di Giona inghiottito dal mostro marino e di un pescatore che getta tra le onde l'amo al quale un pesce abbocca mentre un altro fugge, simbolo delle anime che possono accogliere o rifiutare la salvezza.
Ciò che più impressiona, di questo sepolcreto, è che esso è quasi intatto. È com'era poco prima che Costantino lo interrasse. Percorrendolo, si ricalcano i passi degli antichi cittadini di Roma, ma anche di quei pellegrini che si recavano a pregare alla tomba dell'apostolo Pietro. La preistoria della basilica di San Pietro è nei mattoni, nei marmi, nelle statue, nelle scritte, nelle decorazioni di questa antica strada tra le tombe, fino al luogo della sepoltura del pescatore di Galilea divenuto apostolo di Cristo e morto martire nella capitale del più grande impero del mondo.
Risalito in superficie, nella basilica e nella piazza, il pellegrino vedrà che questo percorso dall'antica Roma al cristianesimo prosegue unitario. Il nuovo impero è quello del perdono di Gesù a tutti gli uomini, mediato dalla Chiesa. Dalla sommità della facciata della basilica di San Pietro, come da una tribuna, il Salvatore e i santi guardano l'ovale del nuovo circo disegnato dal colonnato del Bernini, con al centro lo stesso obelisco presso cui l'apostolo fu crocifisso. Circo aperto "urbi et orbi", alla città e al mondo intero.
Il restauro della tomba dei Valerii è stato curato dalla Fabbrica di San Pietro e in particolare dal direttore dei lavori di conservazione della necropoli, Pietro Zander.
È durato dieci mesi ed è stato eseguito da Adele Cecchini e Franco Adamo, grandi specialisti in restauri di opere antiche, in Italia, in Egitto, a Gerusalemme.
Le spese sono state sostenute dalla Fondazione Pro Musica e Arte Sacra fondata e presieduta da Hans-Albert Courtial, la stessa che organizza ogni autunno, a Roma, splendidi concerti di musica sacra nelle basiliche papali, con i Wiener Philarmoniker come ospiti fissi:
> Pro Musica e Arte Sacra
Grazie ai contributi suoi e di altri benefattori, la Fondazione ha consentito negli ultimi anni il restauro di importanti opere d'arte presenti nelle basiliche romane. Ultimato quello della tomba dei Valerii, gli interventi in corso riguardano il ciborio marmoreo dell'altare maggiore della basilica di San Paolo fuori le Mura, il coro ligneo della basilica di San Giovanni in Laterano e l'organo della chiesa di Sant'Ignazio di Loyola.
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La più affascinante guida illustrata alla necropoli sotto la basilica vaticana è la seguente:
Pietro Zander, "La Necropoli sotto la Basilica di San Pietro in Vaticano", Fabbrica di San Pietro ed Elio de Rosa editore, Roma, 2007, pp. 136.
Le visite guidate agli scavi si effettuano ogni giorno dalle ore 9 alle 18, ad esclusione della domenica e dei giorni festivi in Vaticano.
Per la particolare collocazione del sito nei sotterranei della basilica e per le sue ridotte dimensioni è consentito l’accesso agli scavi solo a un limitato numero di persone di età superiore ai quindici anni.
L’autorizzazione alla visita va richiesta alla Fabbrica di San Pietro per fax (+39.0669873017) o per e-mail (scavi@fsp.va), indicando il numero delle persone, la lingua, le date disponibili e un recapito per la risposta.
L’emergenza educativa è emergenza della Chiesa
Intervista al Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica
CITTÀ DEL VATICANO, martedì, 3 giugno 2008 (ZENIT.org).- L’emergenza educativa è un’emergenza per l’opera di evangelizzazione della Chiesa, afferma in questa intervista rilasciata a ZENIT l’Arcivescovo Jean-Louis Bruguès, nominato di recente Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica.
Monsignor Bruguès è nato il 22 novembre 1943 a Bagnères-de-Bigorre (diocesi di Tarbes e Lourdes). Dopo essersi laureato in Economia e Diritto è entrato nell’Ordine dei Predicatori nel 1968.
Ha ricevuto la laurea “honoris causa” dall’Aquinas Institute of Theology dell’Università di Saint-Louis (Stati Uniti), nel 2002. Giovanni Paolo II lo ha nominato Vescovo di Angers il 20 marzo del 2000, mentre Benedetto XVI lo ha chiamato a collaborare con lui alla Santa Sede, il 10 novembre scorso.
Come descriverebbe la gioventù di oggi?
Monsignor Bruguès: Abbiamo la fortuna di poter contare su una gioventù che io qualificherei straordinaria. È generosa. È una minoranza, è vero, se si guardano alle cifre complessive, ma ha volontà. Sa di non sapere, dal punto di vista della cultura cristiana; si rende conto che il contenuto della fede gli è familiare fino a un certo punto, ma vuole imparare!
Per questo motivo le catechesi riscuotono un grande successo presso i giovani, siano essi adolescenti o più grandi, studenti o giovani professionisti. E a me questi giovani aiutano a compiere un atto di fede nel futuro della Chiesa, anche qui, in una società in via di rapida secolarizzazione.
Ogni anno, nel mese di luglio, vado a Lourdes con seicento adolescenti. Quando tenevo le catechesi i giovani venivano a centinaia e talvolta superavano il migliaio. Abbiamo fatto una festa della catechesi e sono venuti in settemila. Evidentemente i numeri non dicono tutto. Il titolo dell’incontro era: “Questo futuro da amare” e l’obiettivo era riconciliare i nostri cristiani, i nostri battezzati, con il loro futuro.
In Francia si è appena svolto un grande dibattito sulle catechesi e le scuole cattoliche. Qual è la sua posizione e le sue riflessioni su questo tema?
Monsignor Bruguès: La situazione della scuola cattolica si differenzia molto tra un Paese e l’altro. Mi limito alla Francia ricordando un ulteriore dato: nella mia diocesi l’insegnamento cattolico riguarda il 41% dei giovani. Quasi uno su due. Quando si dice che la Chiesa non ha contatto con i giovani, evidentemente non si conosce la realtà, perché nel nostro ambiente ha la possibilità di rivolgersi quasi a un giovane su due.
Cosa facciamo di fronte a questa opportunità? Questa è la domanda con cui ci confrontiamo. Oggi, sulla scuola cattolica, è in corso un dibattito che ritengo interessante, utile, anche se talvolta viene fatto a colpi di cannone; un dibattito che ci obbliga a ricordare a noi stessi, Vescovi, sacerdoti, direttori dei centri, professori che cos’è una scuola cattolica.
Anzitutto possiamo dire che il termine “cattolico” ha in sé due significati. Cattolico vuol dire universale e pertanto i nostri centri devono avere l’impegno di aprirsi a chi bussa alla porta, soprattutto a chi si trova in condizioni sociali meno favorevoli. Cattolico, per un secondo verso, significa anche confessione di una fede. Una scuola cattolica quindi è una scuola aperta in cui la cultura che viene insegnata è orientata alla confessione di una specifica fede.
Come si possono articolare queste due dimensioni della scuola cattolica?
Monsignor Bruguès: Tra queste due definizioni del termine cattolico - universalità e specificità - esiste, è sempre esistita, una tensione che io trovo salutare. Il pericolo vero sarebbe di voler sopprimere uno dei due significati, con lo scopo di eliminare questa tensione.
Se si vuole eliminare la dimensione universale, si fa della scuola cattolica una scuola di una comunità particolare e, in certi casi, una scuola ghetto. Se si elimina la dimensione della confessione della fede, si fa della scuola cattolica una scuola come le altre, senza un carattere proprio. Se si aprono tutte le finestre di una casa, si ottiene una corrente d’aria ma non si riesce a lavorare. Per questo sono faziosamente favorevole a questa tensione.
Nella pratica che cosa implica questo?
Monsignor Bruguès: Le faccio un esempio concreto. Quando sono arrivato alla diocesi mi sono reso conto che, quando i genitori venivano ad iscrivere i figli in un istituto cattolico, il Direttore diceva loro che in quella scuola si faceva una proposta di fede, una proposta catechetica. I genitori erano liberi di accettare o di rifiutare. Cosa succedeva se rifiutavano? Niente. Non se ne faceva nulla. La scelta era: catechesi o nulla.
Io credo che questo non sia un buon modo di presentare la questione e pertanto abbiamo intrapreso un’esperienza di cui sono molto contento e anche molto fiero. Abbiamo iniziato a costruire un ciclo di cultura cristiana. Non dico religiosa, ma cristiana.
In cosa consiste questa proposta di cultura cristiana?
Monsignor Bruguès: Con gli strumenti più moderni abbiamo creato una pedagogia, una metodologia, per l’insegnamento della cultura cristiana che, molto ben realizzata a livello tecnico, piace moltissimo ai bambini. Nella metà dei centri scolastici della nostra diocesi la cultura cristiana è quindi obbligatoria per tutti. Se i genitori vogliono iscrivere i loro figli alla scuola, sanno da subito che ci sarà un insegnamento vivo della cultura cristiana. Ma non è una catechesi. Per chi invece lo desidera, esiste anche una proposta catechetica. La nostra proposta quindi non è più “o-o”, ma è “e-e”!
Ciò che constatiamo è che questo insegnamento della cultura cristiana è vissuto da molti come un primo annuncio della fede, al punto che il numero dei bambini che si iscrivono alla catechesi è aumentato di un terzo. Vorrei che questa esperienza fosse maggiormente conosciuta e riconosciuta, e - perché no - diffusa, tanto più che le diocesi di Angers e di Nantes, che si sono associate, hanno creato con il libro di testo “Anne e Leo giornalisti” uno strumento straordinario.
Questo è un esempio che dimostra che è possibile vivere in modo molto proficuo questa tensione fra l’universalità e la specificità della scuola cattolica.
Lei ha parlato di questi ambiti in cui si è riusciti ad incidere, come quello della scuola cattolica. Nel suo nuovo incarico lei ha anche i seminari. Quale può essere in Occidente la politica per i seminari, di fronte al calo delle vocazioni?
Monsignor Bruguès: Non so se sia giusto elaborare una politica al vertice e dire: ecco qua ciò che si deve fare a tutti i livelli. Io farei piuttosto il percorso inverso: cosa avviene alla base?
Nella mia esperienza di religioso, di professore e di Vescovo posso dire che Dio chiama oggi nella stessa misura in cui chiamava prima. Per esempio, in questo momento, ho una quindicina di ragazzi che sono venuti ad incontrarsi con me - non so se prima si faceva così - e hanno detto al Vescovo di avere delle domande. Il più giovane ha 14 anni e il più grande sui 22 o 23. Pertanto, Dio chiama.
D’altra parte è vero, e io ci credo, che esiste una stretta relazione tra il numero delle vocazioni e il numero dei praticanti. Dio chiama questo popolo, i servitori, perché ne ha bisogno. Per me quindi la questione non è la scarsità di vocazioni, ma lo scarso sostegno, lo scarso accompagnamento. Ed è da qui che arrivano le difficoltà: non è facile trovare una comunità cristiana che sostenga veramente queste vocazioni e che accompagni passo dopo passo il giovane che si senta chiamato, anche se, evidentemente, all’inizio la certezza non c’è.
Come può la Chiesa aiutare i giovani a rispondere alla chiamata di Dio?
Monsignor Bruguès: Un numero significativo di vocazioni si perde sul campo. Una comunità ha sempre i sacerdoti che si merita. Un esempio recente: un sacerdote viene da me per dirmi che ha raggiunto l’età della pensione e che ha deciso di ritirarsi. Nel colloquio gli chiedo: “non c’è stato mai un giovane che è venuto a trovarla?”. “Sì, sì, c’è stato uno di recente, di 22 anni, con studi di musicologia...”. E questo giovane, la cui madre faceva parte dell’EAP (Equipe di animazione parrocchiale), aveva colto l’occasione, una domenica in cui il parroco era stato invitato a casa, per dire alla famiglia che stava pensando di farsi sacerdote.
La madre allora va su tutte le furie e gli dice: “È una strada senza uscita, spero che tu non lo faccia”. E passa il resto del pranzo a dissuadere il figlio. Responsabile dell’EAP! E il parroco era lì! Allora gli ho chiesto: “E lei cosa le ha detto?”. “Niente”. È l’esempio di una comunità che non si fa carico della chiamata che Dio rivolge a uno dei suoi giovani.
Come si può favorire questa presa di coscienza?
Monsignor Bruguès: I metodi sono diversi. Conosco parrocchie in cui si prega per le vocazioni. E' un buon mezzo ma bisognerebbe sensibilizzare, responsabilizzare, le comunità parrocchiali e le famiglie, perché veramente si accolga come un dono, una grazia e - perché no - come un onore, la chiamata che può essere rivolta a uno dei suoi giovani. E poi bisogna utilizzare tutti i mezzi per accompagnare il giovane.
In parte per rispondere a tale questione ho creato quest’anno, nella mia diocesi, delle case per studenti. In queste tre case, per ora, risiedono ventisette giovani, che sono responsabili di esse. Hanno tutti i giorni un tempo di preghiera e ricevono un insegnamento esplicitamente cristiano. Questo vuol dire che, parallelamente alla formazione professionale che ricevono nelle università, acquisiscono una formazione cristiana. Alcuni di loro si fanno delle domande di tipo vocazionale. Lì trovano l’ambiente e i direttori spirituali di cui hanno bisogno. Di questi ventisette, quattro mi hanno detto che stanno pensando di farsi sacerdoti o religiosi. Queste prime tre case accolgono solo ragazzi, ma ho lanciato - anche se spetterà al mio successore - la creazione di case per ragazze.
"L'effetto Lucifero" di Philip Zimbardo studia gli automatismi della violenza - Come si diventa cattivi
di Oddone Camerana
Cattivi si diventa o lo si è? Per essere meno generici, la domanda dovrebbe essere se persecutori, aguzzini, vessatori, torturatori o mele marce di un sistema si nasce o si diventa. La risposta è che, salvo casi eccezionali, lo si diventa. Ma in che modo? La stessa domanda vale per la bontà. E la risposta è che buoni si diventa o lo si può diventare. Anche qui, per essere più specifici, la domanda dovrebbe essere se e come si diventa soccorritori, disobbedienti all'ingiustizia imposta, difensori e anche eroi generosi, se questo comporta la rinuncia a vantaggi, a sicurezze e al cosiddetto quieto vivere.
A queste e a molte domande inerenti al bene e al male procurato al prossimo risponde il libro di Philip Zimbardo L'effetto Lucifero (Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008, pagine 733, euro 34,80). Scritto da un docente di psicologia sociale all'Università di Stanford in California - in quanto tale chiamato a testimoniare come perito nei processi di Abu Ghraib - il testo in questione ha del romanzesco. Presentandosi infatti come la cronologia di un esperimento sui comportamenti carcerari, rivela la avvenuta, clamorosa e riconosciuta conclusione fallimentare dell'esperimento stesso. Ricavandolo poi dalla realtà dei fatti, l'autore formula il nucleo della teoria sull'origine della malvagità delle persone, proprietà da riconoscersi non tanto in una ipotetica inclinazione di tipo lombrosiano delle persone quanto nelle situazioni in cui le medesime si vengono a trovare. Sennonché questo vale in parte, come vedremo, anche nel caso opposto della bontà o del bene.
Allo scopo di studiare il modo in cui, in quanto crogiuolo di trasformazioni psicosociali, la detenzione cambia le persone, nell'agosto del 1971 Zimbardo lancia il suo progetto di simulazione che consiste nell'invitare, in locali appositamente attrezzati e dietro compenso, due gruppi di studenti selezionati della facoltà di psicologia disposti a sottoporsi alla prova di interpretare rispettivamente la parte di guardie carcerarie e di detenuti. Durata dell'esperimento, due settimane. Il tempo ritenuto necessario per mettere a confronto gli effetti, su ciascuno dei volontari, delle forze cosiddette situazionali dell'ambiente similcarcerario con quelli delle tendenze disposizionali.
È evidente come l'intento di superare il limite degli studi criminologici tradizionali, statici e inadatti a rappresentare la dinamica reale dei comportamenti, abbia ispirato lo schema della ricerca, una simulazione del vero copiata in seguito dalla serie dei reality show televisivi che tanto discusso successo hanno avuto anche in Europa.
Attuati così gli arresti a sorpresa degli aderenti all'iniziativa e avviata la settimana con tanto di riprese televisive, il progetto prende corpo. I detenuti imparano i loro numeri di matricola che sostituiscono i loro nomi e infilano i loro camici umilianti. Le guardie indossano le loro divise e, nascondendo lo sguardo dietro occhiali specchianti, brandiscono i loro manganelli e alzano la voce. Prendono così vita i frequenti riti delle "conte", momento privilegiato e temuto che stimola ogni sorta di vessazione verbale e non, prontamente accompagnata dalle classiche punizioni - flessioni e piegamenti e altri esercizi faticosi - a ogni minimo errore.
Ci vuole poco a capire come la descrizione giorno per giorno dell'esperimento, descrizione che occupa da sola una buona metà del testo, sia la cronaca di una inaspettata discesa agli inferi. Discesa piena di suspense conoscitiva nei riguardi degli automatismi di prepotenza attivati dalla semplice assunzione del ruolo di guardia carceraria, nel caso di queste ultime, e della perdita progressiva di identità, come dell'autocolpevolizzazione strisciante e della creazione della vittima, nel caso dei detenuti.
Fatto sta che cedendo all'inattesa esplosione della violenza e alla richiesta di qualcuno dei detenuti di abbandonare il progetto, al venerdì della prima settimana, Zimbardo si sente obbligato a sospenderlo dichiarandolo chiuso. Entrato anche lui nel ruolo del ricercatore, aveva perso di vista le conseguenze dell'effetto Lucifero che lo aveva intaccato. E, ravvedutosi in tempo, chiede pubblicamente scusa prima che la situazione degeneri ulteriormente.
A cose fatte e senza che Zimbardo dia loro pubblicazione, i risultati dell'esperimento diventano un caso di studio. Circolano negli ambienti universitari di quegli anni, aggiungendosi ad altri risultati di esperimenti dello stesso genere. Altre simulazioni di situazioni di stress, di obbedienza, di sottomissione e altri casi di giuochi di ruolo, i quali nel loro insieme rispondono alla fame di dati e misure così visceralmente pragmatica e propria della cultura nordamericana.
Ma allo scoppio della seconda guerra in Iraq, a seguito delle rivelazioni di quanto succede nei centri di detenzione di Guantanamo e poi della diffusione delle fotografie delle torture inflitte ai prigionieri di guerra nelle carceri di Abu Ghraib, ecco che, chiamato nel frattempo dal Congresso americano in quanto perito, Zimbardo sente il bisogno di riprendere i risultati del suo esperimento di Stanford del 1971 e, insieme ad altri, di confrontarli con quelli reali emersi a Guantanamo e Abu Ghraib, traendone le conclusioni. Nasce così L'effetto Lucifero, un poderoso studio sulle influenze perverse indotte sui comportamenti umani dai sistemi di appartenenza, individuati e individuabili, questi, in eserciti o corpi di polizia e altre organizzazioni dello stesso genere.
Laddove formazione, procedure e controlli non vigilano sul rispetto della dignità umana e sulla moderazione della durezza imposta dal ruolo, ecco che quest'ultimo scivola facilmente nell'abuso. Situazioni di stress come guerra, combattimento, azione di antiterrorismo, interrogatori, pressioni dall'alto, nonché l'uso di divise, mascheramenti, linguaggi che deformano la realtà o la ricreano secondo la visione di un sistema di potere come quello imposto da sette e confraternite, o che facilitano la deindividualizzazione degli affiliati, tutto ciò concorre a intossicare un ambiente dato, facilitando forme di arbitrio e di disimpegno morale. Nulla di nuovo considerando l'effetto anonimato, già garantito in passato dai metodi arcaici di lapidazione - dove ogni pietra, ma nessuna in particolare, era quella omicida - o dai metodi più vicini a noi impiegati dai plotoni di esecuzione dove tutti i fucili sparano, ma nessuno sa quale sia quello non caricato a salve.
Accettazione degli addetti e paura di insicurezza diventano così le grandi matrici del sadismo collettivo. Ma attenzione: dare peso nella generazione di abusi, torture e vessazioni, come fa Zimbardo, al potere del ruolo, della situazione e del sistema di appartenenza degli autori degli abusi stessi non vuole discolpare gli autori. Vuole piuttosto smascherare la tendenza della scienza criminale che preferisce affidarsi alla teoria delle "mele marce" trascurando il "cesto" di omertà in cui le mele stesse sono marcite, vero responsabile della putrefazione dei frutti insieme a chi ne ha intrecciato le fibre. Queste in sintesi le conclusioni a cui arriva Zimbardo dopo aver scavato in una montagna di dati messi in luce, tra cui e per esempio la serie delle impressionanti direttive studiate da psichiatri esperti in vulnerabilità e fornite per preparare i detenuti agli interrogatori senza che ne rimangano tracce corporali.
Ci troviamo qui a procedere su un terreno scabroso, quello su cui è cresciuta l'ipotesi che nei campi di sterminio poté più l'obbedienza ai superiori dell'antisemitismo di origine, ipotesi suffragata dalla nota definizione della banalità del male. L'evangelista che nel corso della passione di Gesù riporta la celebre frase: "Mi hanno odiato senza ragione" (Giovanni, 15, 25) aveva capito prima della Arendt la potenza degli aguzzini che, obbedendo ai superiori, agiscono in un contesto di assoluta ordinarietà e normalità, e fanno il loro mestiere. Meno banale e meno ordinaria è invece la ribellione al male. Intesa come bene, la ribellione e la resistenza all'ingiustizia rivelano la natura del bene come conquista e non come cosa data o entità fissa e chiusa in sé.
Se il bene esiste come azione e solo nella relazione col prossimo, Zimbardo ne esplora i confini nel capitolo finale dedicato all'eroismo inteso come generosità che si oppone all'inerzia al male e alla gran macchina di formazione della paura e dell'illusione della sicurezza. Bene è rinunciare a vivere come in uno zoo e togliere gli occhiali scuri e le maschere che assicurano l'anonimato.
È tornare a dare importanza ai peccati veniali come spargere voci e fare dispetti che indicano la disponibilità alla violenza. Il giusto e il disobbediente civile non fanno pettegolezzi, non ridono di barzellette razziste e non si macchiano di piccole prepotenze. È il loro modo di tagliare sul nascere ogni compromissione con l'ordinarietà del male. Sennonché dalla tenebra dell'istituzione carceraria la realtà dimenticata della compromissione dello Stato con la violenza non smette di lanciare i suoi messaggi desolati. La delega a questa massima istituzione civile resta un fatto fondativo. Nessuna nozione di limite, nessuna garanzia dei diritti umani, nessuna convenzione di Ginevra riesce a dissolvere il compromesso con la violenza se il legame arcaico con il sacro della violenza non viene spezzato del tutto.
È il concetto stesso di delega che parla la lingua di una violenza come destino e che arma le parole di giuristi e legislatori i quali al momento della paura - oggi si chiama terrore - trovano l'ascolto necessario per consentire allo Stato di agire al di sopra della legge e ricevere poteri eccezionali delegati. Legittimati, ma non legittimi.
È il lato oscuro della legge, sul quale prosperano i facilitatori del male, i fabbricanti di "cesti" che fanno marcire anche le mele buone, fino a che a sbarrare loro la strada non trovano le mele eroiche.
(©L'Osservatore Romano - 4 giugno 2008)
Albacete: «Anche i non cattolici conquistati da lui»
Avvenire, 4 giugno 2008
DI CRISTIANA CARICATO
«Non credo sia possibile un giudizio definitivo sul viaggio: molto dipenderà dalla Chiesa americana. Da come i sacerdoti, i vescovi e gli altri responsabili della pastorale sapranno portare al popolo americano il messaggio di Benedetto XVI». Si astiene da un bilancio monsignor Lorenzo Albacete, teologo americano tra i più noti oltreoceano, editorialista del New York Times e attento osservatore di tutto ciò che fermenta nella cultura a stelle e strisce. «Il Papa è venuto e ha rivolto una proposta molto chiara agli Stati Uniti: Cristo nostra speranza – ci dice nella sua casa di Yonkers nell’hinterland newyorkese –. Non solo discorsi ma una testimonianza vissuta personalmente, attraverso i suoi gesti e i problemi evidenziati. Ora tutto è rimandato alla libertà dei singoli».
Che impatto ha avuto il «personaggio » Ratzinger sugli americani?
Molto positivo. Non era conosciuto, sebbene avesse visitato più volte gli Usa. Molti avevano di lui un’idea negativa: enforcer dell’ortodossia morale e dottrinale, un Papa incapace di gesti comunicativi, e soprattutto un «tedesco»... Ora tutto ciò appartiene al passato. Benedetto XVI ha conquistato fiducia e consensi soprattutto tra i non cattolici. Quanti nei mesi scorsi avevano mostrato atteggiamenti ostili, alla fine hanno dovuto riconoscere che le loro aspettative erano infondate e hanno dichiarato apertamente la loro stima per il Papa. Credo sia splendido.
Benedetto XVI ha dichiarato da subito di essere affascinato dalla cultura americana, soprattutto dal rapporto tra fede e vita pubblica.
Il Papa è stato molto molto chiaro nel sottolineare la dimensione positiva dell’esperimento americano, soprattutto nelle relazioni tra le religioni e lo Stato, nei rapporti Chiesa-laicità. Negli Stati Uniti questa sperimentazione ci ha condotti a una forma di «secolarizzazione» considerata positiva. Ratzinger, che pure non è molto incline ad apprezzare il termine «secolarizzazione», ha compreso come questa forma particolare abbia aiutato la Chiesa statunitense rendendola libera di rivolgere una proposta autentica alla gente. Durante il viaggio il Papa ha potuto toccare le diverse e principali anime della spiritualità americana. Certo ha anche messo in guardia da un nuovo processo di secolarizzazione che sta già invadendo l’Europa e che rischia di invadere anche gli Usa.
Qual è il rischio che corre il cattolicesimo americano?
Negli Stati Uniti è molto complicato trovare la risposta alla domanda: dov’è Gesù? Ci sono tanti, troppi Gesù e la verità non è facile da trovare. Per trovare la verità bisogna aprirsi alla categoria della possibilità e anche da noi la mentalità relativistica ha travolto la cultura cattolica, giungendo a una separazione netta tra fede e ragione. Quando ciò accade la realtà diviene incomprensibile alla ragione e la fede è sminuita a buona disposizione etico-morale. Il problema è qui, il Papa l’ha intuito subito. Ma spera anche che la religiosità americana sia abbastanza forte da resistere a questa «secolarizzazione relativistica».
Ma la complessità del pensiero ratzingeriano può essere compresa fino in fondo dagli americani?
Sebbene la stragrande maggioranza non sia in grado di cogliere a fondo tutte le sfumature del suo pensiero, i più sono stati conquistati dalla sua testimonianza. Ha pronunciato discorsi e compiuto gesti che l’America voleva sentire e vedere.
La visita a Ground Zero è stata il momento in cui si è avvicinato di più al sentire americano?
Sì, all’America di ieri e anche a quella contemporanea. Un momento davvero commovente. L’11 settembre è un’esperienza comunitaria che il popolo americano non potrà mai dimenticare e rimarrà come qualcosa di profondamente misterioso. E allora vedere il Papa sul luogo del crollo delle Twin Towers, portare Cristo a Ground Zero, senza parole ma solo con i gesti... Dopo tutto, lui ha insistito più volte che il cristianesimo è un avvenimento, accade nell’individualità di un incontro umano. Ed è questo che abbiamo visto più volte nei giorni della sua visita. Parole date per interpretare il senso dell’incontro, l’esperienza concreta di Cristo che dobbiamo continuare.
Nel corso del viaggio il Papa è tornato più volte sulla questione degli abusi sessuali compiuti sui minori: una ferita ancora aperta per la Chiesa americana...
Tutto ciò era essenziale. Anzi proprio in questo potremmo trovare il significato dell’intera visita. Tutti aspettavamo che il Papa avrebbe detto qualcosa a riguardo: ma nessuno immaginava la profondità né la ripetizione insistente delle sue parole. E poi quell’incontro con le vittime degli abusi è stato qualcosa di completamente inatteso. L’intera vicenda era stata per la Chiesa cattolica un disastro, non tanto sul piano economico ma a livello d’intimità col clero; io stesso provavo difficoltà ad andare in giro in talare. Era venuta meno la fiducia tra fedeli e sacerdoti, quel rapporto d’umanità viva che si instaura tra un prete e i suoi parrocchiani. Con lo scandalo c’è stata una rottura violentissima dei normali rapporti ecclesiali; una situazione devastante che ha lasciato profonde ferite.
Inaspettato è stato anche il discorso all’Onu. Non ha toccato punti concreti all’ordine del giorno nell’agenda internazionale ma la questione dei principi fondamentali. Anche questo un discorso che dovrà essere compreso fino in fondo?
Dovrebbe essere letto e studiato più a fondo. Non so chi davvero lo farà a livello di comunità internazionale... Quanti seguono da sempre Ratzinger non potevano immaginare che avrebbe fatto nessun altro tipo di discorso. Basti pensare alle sue discussioni con Flores D’Arcais sui diritti fondamentali. Ricordo che in uno di quei dibattiti lui chiese all’intellettuale italiano se credeva davvero ci fossero diritti umani e quegli rispose: «No, ci sono diritti civili». Replicò Ratzinger: «Non lo posso accettare, i diritti civili non bastano, io ho attraversato il nazismo, ho vissuto e so cosa questo significhi e comporti». È sempre sorprendente come la verità trovi la sua forza dietro il dramma vissuto da un uomo impegnato a difendere i diritti umani e non in uno Stato che dovrebbe garantirli perché ne ha l’autorità.
Il noto teologo Usa: «La preghiera a Ground Zero e l’incontro con le vittime degli abusi i momenti più intensi della visita del Papa»
1) Messaggio di Benedetto XVI alla Conferenza sulla sicurezza alimentare
2) Nel discorso del Papa alla Fao l’invito a un profondo cambiamento di mentalità
3) Malta, un paese che riconosce la vita fin dal concepimento - Intervista al fondatore di “Gift of Life +9”
4) Basta finanziare i maestri dell’odio islamico
5) Diciannove anni nel Gulag cinese
6) Pellegrini alla tomba di Pietro. Come nell'antica Roma, di Sandro Magister
7) L’emergenza educativa è emergenza della Chiesa
8) "L'effetto Lucifero" di Philip Zimbardo studia gli automatismi della violenza - Come si diventa cattivi
9) Viaggio del Papa in America - Albacete: «Anche i non cattolici conquistati da lui»
Messaggio di Benedetto XVI alla Conferenza sulla sicurezza alimentare
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 3 maggio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il Messaggio di Benedetto XVI che il Cardinale Tarcisio Bertone, capo delegazione della Santa Sede, ha letto questo martedì mattina alla "Conferenza di alto livello sulla sicurezza alimentare mondiale: la sfida dei cambiamenti climatici e delle bioenergie", organizzata a Roma dalla FAO, dal 3 al 5 giugno.
* * *
Signor Presidente della Repubblica italiana,
Illustri Capi di Stato e di Governo,
Signor Direttore Generale della FAO,
Signor Segretario Generale dell’ONU,
Signore e Signori!
Sono lieto di porgere il mio deferente e cordiale saluto a Voi, che, a diverso titolo, rappresentate le varie componenti della famiglia umana e vi siete riuniti a Roma per concordare soluzioni idonee ad affrontare il problema della fame e della malnutrizione.
Al Cardinale Tarcisio Bertone, mio Segretario di Stato, ho chiesto di parteciparVi la particolare attenzione con cui seguo il vostro lavoro e di assicurarVi che attribuisco grande importanza all’arduo compito che Vi attende. A Voi guardano milioni di uomini e donne, mentre nuove insidie minacciano la loro sopravvivenza e preoccupanti situazioni mettono a rischio la sicurezza dei loro Paesi. Infatti, la crescente globalizzazione dei mercati non sempre favorisce la disponibilità di alimenti ed i sistemi produttivi sono spesso condizionati da limiti strutturali, nonché da politiche protezionistiche e da fenomeni speculativi che relegano intere popolazioni ai margini dei processi di sviluppo. Alla luce di tale situazione, occorre ribadire con forza che la fame e la malnutrizione sono inaccettabili in un mondo che, in realtà, dispone di livelli di produzione, di risorse e di conoscenze sufficienti per mettere fine a tali drammi ed alle loro conseguenze. La grande sfida di oggi è quella di "globalizzare non solo gli interessi economici e commerciali, ma anche le attese di solidarietà, nel rispetto e nella valorizzazione dell’apporto di ogni componente umana» (Discorso alla Fondazione Centesimus Annus pro Pontifice, 31 maggio 2008).
Alla FAO ed al suo Direttore Generale va, pertanto, il mio apprezzamento e la mia gratitudine, per aver nuovamente attirato l'attenzione della comunità internazionale su quanto ostacola la lotta contro la fame e per averla sollecitata ad un'azione che, per risultare efficace, dovrà essere unitaria e coordinata.
In tale spirito, alle alte Personalità che partecipano a questo Vertice desidero rinnovare l’auspicio che ho formulato durante la mia recente visita alla sede dell’ONU: è urgente superare il "paradosso di un consenso multilaterale che continua ad essere in crisi a causa della sua subordinazione alle decisioni di pochi" (Discorso all’Assemblea Generale dell’ONU, 18 aprile 2008). Inoltre, mi permetto d’invitarVi a collaborare in maniera sempre più trasparente con le organizzazioni della società civile impegnate a colmare il crescente divario tra ricchezza e povertà. Vi esorto ancora a proseguire in quelle riforme strutturali che, a livello nazionale, sono indispensabili per affrontare con successo i problemi del sottosviluppo, di cui la fame e la malnutrizione sono dirette conseguenze. So quanto tutto ciò sia arduo e complesso!
Tuttavia, come si può rimanere insensibili agli appelli di coloro che, nei diversi continenti, non riescono a nutrirsi a sufficienza per vivere? Povertà e malnutrizione non sono una mera fatalità, provocata da situazioni ambientali avverse o da disastrose calamità naturali. D’altra parte, le considerazioni di carattere esclusivamente tecnico o economico non debbono prevalere sui doveri di giustizia verso quanti soffrono la fame. Il diritto all’alimentazione "risponde principalmente ad una motivazione etica: ‘dare da mangiare agli affamati’ (cfr Mt 25, 35), che spinge a condividere i beni materiali quale segno dell’amore di cui tutti abbiamo bisogno […] Questo diritto primario all’alimentazione è intrinsecamente vincolato alla tutela e alla difesa della vita umana, roccia salda e inviolabile sui cui si fonda tutto l’edificio dei diritti umani» (Discorso al nuovo Ambasciatore del Guatemala, 31 maggio 2008). Ogni persona ha diritto alla vita: pertanto, è necessario promuovere l’effettiva attuazione di tale diritto e si debbono aiutare le popolazioni che soffrono per la mancanza di cibo a divenire gradualmente capaci di soddisfare le proprie esigenze di un’alimentazione sufficiente e sana.
In questo particolare momento, che vede la sicurezza alimentare minacciata dal rincaro dei prodotti agricoli, vanno poi elaborate nuove strategie di lotta alla povertà e di promozione dello sviluppo rurale. Ciò deve avvenire anche attraverso processi di riforme strutturali, che consentano di affrontare le sfide della medesima sicurezza e dei cambiamenti climatici; inoltre, occorre incrementare la disponibilità del cibo valorizzando l’industriosità dei piccoli agricoltori e garantendone l’accesso al mercato. L’aumento globale della produzione agricola potrà, tuttavia, essere efficace, solo se sarà accompagnato dall’effettiva distribuzione di tale produzione e se essa sarà destinata primariamente alla soddisfazione dei bisogni essenziali. Si tratta di un cammino certamente non facile, ma che consentirebbe, fra l’altro, di riscoprire il valore della famiglia rurale: essa non si limita a preservare la trasmissione, dai genitori ai figli, dei sistemi di coltivazione, di conservazione e di distribuzione degli alimenti, ma è soprattutto un modello di vita, di educazione, di cultura e di religiosità. Inoltre, sotto il profilo economico, assicura un’attenzione efficace ed amorevole ai più deboli e, in forza del principio di sussidiarietà, può assumere un ruolo diretto nella catena di distribuzione e di commercializzazione dei prodotti agricoli destinati all'alimentazione, riducendo i costi dell’intermediazione e favorendo la produzione su piccola scala.
Signore e Signori,
Le difficoltà odierne mostrano come le moderne tecnologie, da sole, non siano sufficienti per sopperire alla carenza alimentare, come non lo sono i calcoli statistici e, nelle situazioni di emergenza, l’invio di aiuti alimentari. Tutto ciò certamente ha grande rilievo, tuttavia deve essere completato ed orientato da un’azione politica che, ispirata a quei principi della legge naturale che sono iscritti nel cuore degli uomini, protegga la dignità della persona. In tal modo, anche l'ordine della creazione viene rispettato e si ha "come criterio orientatore il bene di tutti" (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2008, n. 7). Solo la tutela della persona, dunque, consente di combattere la causa principale della fame, cioè quella chiusura dell'essere umano nei confronti dei propri simili che dissolve la solidarietà, giustifica i modelli di vita consumistici e disgrega il tessuto sociale, preservando, se non addirittura approfondendo, il solco di ingiusti equilibri e trascurando le più profonde esigenze del bene (cfr. Lettera Enciclica Deus caritas est, n. 28). Se, pertanto, il rispetto della dignità umana fosse fatto valere sul tavolo del negoziato, delle decisioni e della loro attuazione, si potrebbero superare ostacoli altrimenti insormontabili e si eliminerebbe, o almeno diminuirebbe, il disinteresse per il bene altrui. Di conseguenza, sarebbe possibile adottare provvedimenti coraggiosi, che non si arrendano di fronte alla fame ed alla malnutrizione, come se si trattasse semplicemente di fenomeni endemici e senza soluzione. La difesa della dignità umana nell’azione internazionale, anche di emergenza, aiuterebbe inoltre a misurare il superfluo nella prospettiva delle necessità altrui e ad amministrare secondo giustizia i frutti della creazione, ponendoli a disposizione di tutte le generazioni.
Alla luce di tali principi, auspico che le Delegazioni presenti a questa riunione si assumano nuovi impegni e si prefiggano di realizzarli con grande determinazione. La Chiesa cattolica, dal canto suo, desidera unirsi a questo sforzo! In spirito di collaborazione, essa trae dalla saggezza antica, inspirata al Vangelo, un appello fermo ed accorato, che rimane di grande attualità per quanti partecipano al Vertice: "Dà da mangiare a colui che è moribondo per la fame, perché, se non gli avrai dato da mangiare, lo avrai ucciso" (Decretum Gratiani, c. 21, d. LXXXVI). Vi assicuro che, in questo cammino, potete contare sull’apporto della Santa Sede. Pur differenziandosi dagli Stati, essa si unisce ai loro obiettivi più nobili per suggellare un impegno che, per sua natura, coinvolge l’intera comunità internazionale: incoraggiare ogni Popolo a condividere le necessità degli altri Popoli, mettendo in comune i beni della terra che il Creatore ha destinato all'intera famiglia umana.
Con questi sentimenti, formulo i miei più fervidi auguri per il successo dei lavori ed invoco la Benedizione dell'Altissimo su di Voi e su quanti si impegnano per l’autentico progresso della persona e della società.
Dal Vaticano, 2 Giugno 2008
BENEDICTUS PP. XVI
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Nel discorso del Papa alla Fao l’invito a un profondo cambiamento di mentalità
Int. a Andrea Tornielli04/06/2008
Autore(i): Int. a Andrea Tornielli. Pubblicato il 04/06/2008 – IlSussidiario.net
Cosa intende dire Benedetto XVI quando, nel suo discorso per l’Assemblea della Fao, chiede una «globalizzazione della solidarietà»?
Credo che questo discorso contenga in nuce gli argomenti della prossima enciclica sociale di Benedetto XVI, dedicata proprio al tema della globalizzazione e delle sue ricadute. L’elemento centrale di questo messaggio è il fatto che il Papa chiede un cambiamento di mentalità generale: dire infatti che bisogna globalizzare la solidarietà in un momento in cui si parla molto di globalizzazione, ma in cui ci sono anche fenomeni di ritorno, di protezionismo, di attenzioni e di paure, richiede proprio quel cambiamento che dicevo. Così come è importante anche l’invito a non arrendersi alla fame nel mondo come qualcosa di ineludibile e di ineluttabile.
Al tempo stesso mi colpisce pure il fatto che il Papa, invitando tutti ad assumersi le responsabilità, parli più volte della necessità di riforme strutturali interni agli Stati stessi: questo è un elemento essenziale perché gli aiuti, la solidarietà e i grandi lavori in campo educativo possano attecchire.
Altri due passaggi che le chiederei di commentare: la citazione del principio di sussidiarietà a proposito della valorizzazione dell’industriosità di chi svolge l’attività agricola; e il richiamo all’importanza di una politica ispirata alla dignità dell’uomo, al di là di quelle che sono le tecnologie o le analisi statistiche.
Il principio di sussidiarietà appartiene alla Dottrina sociale della Chiesa, e ne è uno dei principi fondanti; è quindi naturale che il Papa lo rimetta in gioco. Importante è certo questo richiamo all’agricoltura e al valore della famiglia rurale, partendo proprio dal basso. Non è solo un invito a preservare i sistemi di coltivazione, ma anche un modello di vita e di educazione.
La necessità di non arrendersi e di non vedere tutto soltanto nell’ottica di calcoli statistici, di tecnologie, e nemmeno solo nell’invio degli aiuti alimentari: è un cambiamento di mentalità perché parla di una politica ispirata dai principi della legge naturale e dalla promozione della dignità della persona. Il tutto nella piena consapevolezza che le risorse ci sarebbero per tutti.
Non c’è forse il rischio che richiami come questi vengano presi per buoni in linea teorica, ma non incisivi per la soluzione reale dei problemi?
Mi sembra che la richiesta di un cambiamento di mentalità in una situazione come quella attuale, con questo snodo dato dall’aumento del prezzo dei cereali, sia oggi una questione di convenienza e di lucida analisi di quelli che possono essere i possibili scenari futuri. Di fronte al fatto che ci sono centinaia di milioni di persone che sono sotto i tentacoli della fame e ai problemi legati ai flussi migratori, la possibilità di iniziare a rispondere a queste emergenze favorendo una più equa distribuzione delle ricchezze e favorendo la possibilità per tanti Paesi di cominciare ad autosostentarsi mi sembra una questione non legata soltanto a una sana considerazione di equità e di tutela della dignità umana, ma anche una questione di analisi, di strategie rispetto al futuro dell’umanità.
Rimandare il problema e non cercare di affrontarlo e di risolverlo almeno in parte con quel cambio di mentalità significa andare incontro a problemi sempre più seri che toccheranno da vicino i Paesi più sviluppati.
Quali sono gli altri elementi che secondo lei sono particolarmente importanti in questo discorso di fronte all’assemblea della Fao?
Un’altra cosa da sottolineare è l’“autocitazione” del discorso che il Papa ha tenuto all’Onu quando dice che bisogna superare il paradosso di un consenso multilaterale che continua ad essere in crisi a causa della sua subordinazione alla decisione di pochi: è un giudizio importante, pressante, sulla situazione in cui vivono le Nazioni Unite e tutte queste organizzazioni. Le decisioni appartengono a pochi, mentre quello che serve è allargare la base di chi prende decisioni comuni. Infine sottolineerei anche l’invito che viene fatto ai leader di collaborare in maniera sempre più trasparente con le organizzazioni della società civile. È una bella valorizzazione di chi lavora in questo campo, ed è anche un invito ai governi a non mettere i bastoni tra le ruote a queste organizzazioni.
Malta, un paese che riconosce la vita fin dal concepimento - Intervista al fondatore di “Gift of Life +9”
di Antonio Gaspari
ROMA, mercoledì, 4 giugno 2008 (ZENIT.org).- Uno dei pochi Paesi europei dove l’aborto non è liberalizzato è Malta. Nonostante le tante pressioni internazionali, in un sondaggio recente la popolazione si è espressa al 93% contro l’aborto.
Per comprendere le ragioni che stanno alla base di questo forte sentimento pro life, ZENIT ha intervistato il Presidente del Movimento per la Vita maltese, Paul Vincenti, che ha creato la Fondazione “Gift of Life +9”.
Malta è uno dei pochi Paesi dove la legge non autorizza l'aborto. Quali sono gli effetti di questa politica?
Vincenti: Malta non dispone di una legge che autorizza l’aborto né di una legge per il divorzio. Malta è completamente favorevole alla vita nascente. Abbiamo tanto amore per la famiglia anche se abbiamo i nostri problemi come tanti altri Paesi. Da noi, il valore della vita è sempre al primo posto. E’ naturale per noi vivere con questo mentalità. Di recente ci sono state poche voci che hanno chiesto una legge che permettesse l'aborto, ma la popolazione non ha dato credito a queste richieste.
Il Movimento per la Vita, il “Gift of Life”, si è formato per combattere la cultura della morte anche prima che questa fosse un problema per Malta. Abbiamo analizzato l’esperienza di altri Paesi che adesso hanno una legge a favore dell'aborto, ed abbiamo deciso di non seguire quella strada. Siamo favorevoli alla vita e insegniamo ai maestri delle scuole come educare i giovani studenti alla cultura della vita.
Svolgiamo un lavoro di informazione per i rappresentanti al Parlamento. Approfondiamo i problemi di etica medica e sociale. Ci difendiamo dalla propaganda dei movimenti favorevoli all’aborto.
Sebbene non ci siano mai stati casi di aborto illegali a Malta, sappiamo che una media di circa 180 ragazze all’anno va in Sicilia o in Gran Bretagna a praticare l’aborto.
Per aiutare chiunque si trovasse in difficoltà, abbiamo creato un gruppo di accoglienza e appoggio che si chiama HOPE (speranza). In questo modo aiutiamo le ragazze che rimangono incinte e che entrano in crisi. Grazie a questo tipo di sostegno lo scorso anno abbiamo aiutato 12 mamme che hanno deciso di far nascere i loro bambini e bambine.
Ci sono ancora aborti clandestini? Le donne soffrono e non sono emancipate perché non c’è l’aborto?
Vincenti: Non ci sono aborti clandestini a Malta. La larga maggioranze delle donne non crede nell’aborto. Non ci sono gruppi di femministe che propagandano l’aborto come espressione di libertà ed emancipazione. La larga maggioranza dei bambini a Malta nasce dal matrimonio di coppie stabili.
In Europa c'è un aborto ogni 27 secondi e un divorzio ogni 30. Qual è la situazione a Malta? Può fornirci i dati di crescita demografica e di fertilità femminile di Malta?
Vincenti: Malta ha un alto tasso di fertilità. Insieme a Cipro, tra i più alti d’Europa. Malta ha anche il record di famiglie numerose, con 3,2 membri per famiglia, mentre la media europea è di 2,1.
Le famiglie soffrono per la mancanza dell'aborto oppure i legami familiari sono più forti della media europea?
Vincenti: La legge maltese è molto chiara nel trasmettere un messaggio a favore della vita. Se un Paese legalizza l'aborto, la gente guarderà alla vita con meno valore. Le famiglie che si oppongono all’aborto sanno che guadagnano in umanità. Molto difficilmente c’è gente che raccomanda l'aborto come soluzione. Abbiamo fatto un sondaggio nel 2005 chiedendo ai Maltesi che cosa pensassero dell’aborto ed in particolare cosa pensassero dell’Unione europea che raccomanda la libera interruzione di gravidanza. Il 93% degli interpellati ha risposto di essere contraria all’aborto e di voler mantenere la legge che lo proibisce anche se tutta la Ue lo legalizzerà. Il modo di trattare il diritto alla vita in Europa è una cosa che i Maltesi non capiscono e non condividono.
Come si chiama il Movimento per la Vita di cui lei fa parte e quali sono le iniziative che portate avanti?
Vincenti: Il Gift of Life (Dono della Vita) è stato fondato nel 2004 come il primo e, fino ad ora, unico movimento ufficiale a favore della vita a Malta. Il nostro messaggio si basa sui risultati della ricerca scientifica e sui fatti confermati dalle testimonianze. Prediamo parte a tantissimi programmi televisivi, sulla radio e nei giornali. Svolgiamo un lavoro di informazione e formazione sui temi della vita per maestri e professori di scuola. Nel corso di quest'anno svolgeremo tre seminari per insegnanti in tutte le scuole Maltesi, diffondendo depliant, fascicoli, DVD, che spiegano la dignità delle persona umana e come la vita nasce fin dal concepimento.
Ogni tanto affiggiamo grandi manifesti sulle strade principiali dell’isola. Il messaggio che adesso stiamo diffondendo è quello relativo a + 9, ricordiamo cioè che ognuno di noi si forma dal concepimento.
Abbiamo creato un monumento a favore della vita nel 2005 che è stato inaugurato dal nostro Presidente. Si tratta di un monumento nazionale ed ogni anno celebriamo il giorno della vita davanti al monumento.
In che consiste la campagna "+ 9"? Quali sono i risultati? E' vero che vorreste proporla in Europa e nel mondo?
Vincenti: Il simbolo +9 è nato in seguito a tante preghiere. +9 a Malta è diventato il simbolo nazionale del movimento. Il +9 significa che la nostra vita è più lunga di nove mesi, ogni volta che celebriamo il compleanno. Abbiamo trovato che specialmente ai giovani, il simbolo piace molto. Infatti, la usano nei messaggi SMS quando parlano di compleanni ed anche su internet e nelle chat.
Abbiamo scoperto che persone di altri gruppi internazionali a favore della vita hanno cominciato ad utilizzare il simbolo +9. Credo che sia una campagna popolare e molto efficace. Nella riunione che si è svolta a Roma con gli altri Movimenti per la Vita ho proposto di diffondere la campagna in tutta Europa.
Se tutti nel mondo usassero questo simbolo che è semplice da riprodurre, e facile da spiegare e capire, il Movimento mondiale per la Vita sarà molto più forte. Sono convinto che i Movimenti per la Vita debbano diventare molto più visibili e riconosciuti, specialmente nei mass media.
Sappiamo che se il +9 diventerà un simbolo che tutti usano, fra non molto tempo riusciremo ad influenzare anche la stesura delle leggi in materia. Il +9 è un simbolo che può diventare facilmente messaggio per la vita. Spero che tanti comincino ad usare il simbolo nelle loro email, sulla loro carta stampata e sulle bandiere.
Inoltre, stiamo lavorando per portare anche al Parlmanto europeo il simbolo +9.
Basta finanziare i maestri dell’odio islamico
di Massimo Introvigne (il Giornale, 31 maggio 2008)
Apparentemente quella che arriva dal Pakistan è una storia di ordinaria follia. Un bambino di sette anni, Mohammed Atif, che non era riuscito a memorizzare il Corano come chiedeva l'insegnante di una madrassa, è stato appeso dallo zelante maestro a testa in giù a un ventilatore da soffitto, e bastonato con ferocia finché non è morto.
Si dirà che i pazzi ci sono dovunque e che l'ultrafondamentalismo islamico stavolta non c'entra. E invece no. Nell'Afghanistan dei talebani bambini anche di quattro o cinque anni erano sottoposti a un'istruzione che consisteva quasi solo nel mandare a memoria il Corano e nell'imparare a usare il kalashnikov. Se non erano rapidi nell'una o l'altra materia piovevano le bastonate. Ma i maestri talebani avevano imparato l'arte in Pakistan. Qui funziona un sistema di oltre diecimila madrasse - non esistono registri, ispezioni, controlli e il numero esatto nessuno lo conosce - fra cui gli specialisti possono distinguere sfumature teologiche, ma il cui schema è sempre lo stesso. Pochissima istruzione in materie non religiose, Corano a memoria, incitamento all'odio per l'Occidente e botte.
I vari governi che si sono succeduti in Pakistan hanno promesso e qualche volta anche fatto qualcosa contro la presenza di Al Qaida, ma non hanno mai osato toccare le madrasse. E c'è di peggio: una parte sostanziale degli aiuti umanitari che vanno al Pakistan - come ha rivelato di recente un'inchiesta del più noto giornalista pakistano, Ahmed Rashid - finisce direttamente o indirettamente alle madrasse. Forse anche la scuola dove è stato picchiato a morte il piccolo Mohammed funzionava grazie agli aiuti delle Nazioni Unite o dell'Unicef.
Questo sistema deve finire. Le madrasse non sono scuole come le altre. Anche quando gli allievi non finiscono massacrati come Mohammed sono indottrinati all'odio per l'Occidente, spesso direttamente al terrorismo. Nella maggior parte dei casi, non ricevono l'istruzione essenziale per svolgere nella società lavori che non siano il predicatore, il militante a tempo pieno di movimenti estremisti o il terrorista. Uno dei modi essenziali per sradicare il terrorismo è chiudere le madrasse e sostituirle non con scuole di ateismo (come sognava Kemal Atatürk, il quale dovette rendersi conto ben presto che si trattava di utopie irrealizzabili in terra d'islam) ma con istituti di formazione certo rispettosi dei valori e delle tradizioni islamiche, ma nello stesso tempo capaci di insegnare agli allievi le principali materie che si apprendono nelle scuole di tutto il mondo. E di prepararli a una vita normale, sotto il controllo di autorità scolastiche indipendenti e competenti.
I talebani afghani hanno capito che il loro vero nemico è il maestro di scuola. Infatti in un anno hanno fatto saltare duecento scuole, uccidendo oltre centocinquanta bambini frequentatori di scuole elementari. Ma è solo sostituendo le madrasse con vere scuole che si prepara un futuro senza terroristi.
Diciannove anni nel Gulag cinese
Tommaso Piffer
Studi Cattolici, aprile 2008
«Improvvisamente la mia mente si riscosse ed ebbi una specie di rivelazione. La vita umana qui non ha valore, pensai amaramente. Non è più importante della cenere di sigaretta sparsa nel vento. Ma se la vita di una persona non ha valore, anche la società che foggia quella vita non ha valore.
Se la gente non è altro che polvere, allora la società non vale nulla e non merita di continuare. E se la società rischia di non continuare, tocca a me fare qualcosa per impedirlo. In quel momento seppi che non potevo morire». Oggi Harry Wu ha settant'anni, diciannove dei quali passati in un lager della Cina comunista. È un signore distinto dall'aria seria e lo sguardo triste, che ha dedicato la sua vita a far conoscere l'inferno nel quale è stato scaraventato e a combattere perché le violazioni dei diritti umani in Cina non passino sotto silenzio.
Il passaggio che abbiano citato è tratto dalle sue memorie (Harry Wu, Controrivoluzionario. I miei anni nel Gulag cinese , San Paolo, Cinisello Balsamo-MI 2008, pp. 424, euro 22), di recente tradotte in italiano e pubblicate in collaborazione con Mondo e Missione , la rivista del Pime. Lo incontriamo a Milano, dove si trova in occasione di un giro di conferenze prima di tornare negli Stati Uniti.
Nato in una famiglia agiata, Harry aveva trascorso l'infanzia in una situazione tutto sommato privilegiata, studiando dai preti cattolici in un contesto molto lontano dalla povertà che affliggeva la Cina degli anni Trenta. La guerra civile e la presa del potere dei comunisti all'inizio non cambiano molto le cose. La gente, racconta Wu, si fidava di Mao, e appoggiava il regime che aveva eliminato la prostituzione, il gioco clandestino e la droga. Lui stesso non si sottrae e all'età di 18 anni si trasferisce a Pechino per studiare Geologia: «Desideravo», scrive nelle sue memorie, «dedicare la mia vita ad aiutare il Partito comunista nella costruzione di un nuovo futuro, di una nuova nazione, in cui gli uomini potessero vivere con dignità, senza essere oppressi dal bisogno e dall'ingiustizia».
Incubi & orrori
Ma Wu aveva un padre «borghese », ed era battezzato: il suo destino è già segnato. Nel 1957, nel corso di uno dei numerosi incontri di indottrinamento politico ai quali tutti gli studenti sono sottoposti, si esprime contro l'invasione sovietica dell'Ungheria. È l'inizio di un incubo: accusato di essere un «controrivoluzionario di destra», vede crearsi rapidamente il vuoto attorno a sé. «Quando sono stato accusato di essere un controrivoluzionario di destra», ci racconta, «a scuola la gente ha smesso di parlarmi. Ero il capitano della squadra di baseball: il giorno dopo ero stato dimenticato. Gli altri membri della squadra mi hanno condannato. All'improvviso ero solo». La pressione su di lui diventa enorme: è costretto a partecipare a infiniti gruppi di discussione durante i quali si elencano i suoi errori e le sue «devianze», deve scrivere una lettera di autocritica dopo l'altra, è sottoposto a continua sorveglianza. Neanche i parenti più stretti lo difendono, anzi lo accusano pubblicamente. Sua madre preferirà suicidarsi piuttosto che rinnegarlo, ma questo Wu lo avrebbe scoperto solo anni dopo. Nel 1960 viene arrestato e condannato all'ergastolo. Nel 1963 fa il suo ingresso nel Laogai, il sistema concentrazionario cinese. Laogai è una sigla che sta per Laodong Gaizao Dui , e significa «riforma attraverso il lavoro». I Laogai sono parte integrante del sistema totalitario cinese, e hanno due funzioni: la prima è quella della rieducazione del prigioniero, che deve riconoscere i propri errori e imparare a comportarsi come un «buon rivoluzionario ». La seconda funzione essenziale è quella di fornire una immensa forza lavoro a costo zero. Se il primo elemento rende in qualche modo il sistema cinese peculiare rispetto a quello sovietico, per il resto leggere le memorie di Harry Wu non può non far tornare alla mente quelle di Alexander Solzenicyn. La vita nei campi è terribile, le condizioni sanitarie inesistenti, il cibo insufficiente e il tasso di mortalità elevato: «lavoravamo 18 ore al giorno, sette giorni a settimana, tutto l'anno», racconta Wu. Ai prigionieri è richiesto di raggiungere una quota di lavoro prestabilita, e il cibo viene fornito in proporzione ai risultati raggiunti.
Nel corso dei 19 anni passati nel Laogai Harry Wu verrà impiegato in diverse mansioni: lavorerà in una industria chimica, in una fattoria, in una acciaieria e in una miniera. Vedrà morire di stenti gran parte dei sui compagni. Ma non sono solo le terribili condizioni di vita che impressionano nelle sue memorie. È soprattutto la completa disumanizzazione dei prigionieri, risultato di un continuo indottrinamento e della fame cui sono sottoposti, che li costringe a rinnegare tutte le più elementari forme di solidarietà umana pur di sopravvivere.
Wu sarebbe arrivato a pesare 36 chili. L'incubo finisce solo nel 1979, dopo diciannove anni, quando viene rilasciato insieme ai vecchi «controrivoluzionari» in seguito alla nuova politica stabilita dal partito dopo la morte di Mao. Wu calcola che di circa un milione di cinesi arrestati come lui con l'accusa di essere dei «controrivoluzionari di destra», solo diecimila sono sopravvissuti. Una volta rilasciato, Harry Wu trova lavoro all'università di Pechino, fino a quando, nel 1985, riesce a raggiungere gli Stati Uniti. Solo in quel momento, ha raccontato poi, si è sentito libero. Con 40 dollari in tasca, ha tentato di ricostruirsi una vita. All'inizio con un solo pensiero: dimenticare quello che era successo. «Nei primi tempi», ci dice, «il mio problema negli Stati Uniti era di procurarmi da vivere. Insegnavo in università e la sera lavoravo in un fastfood. I primi dieci giorni ho dormito per strada. Poi in una stanza con altri cinque studenti cinesi». Ma soprattutto, aggiunge, «il regime comunista era troppo potente e io non pensavo che la gente volesse stare a sentirmi. Avevo quasi cinquant'anni allora, e non volevo mettermi a combattere un regime».
All'inizio degli anni Novanta il Congresso americano gli chiede varie volte di testimoniare sulla sua esperienza nei campi di lavoro cinesi. Harry Wu accetta: da allora è sulla «lista nera» del governo cinese, ma non ha più smesso di combattere per far conoscere al mondo la realtà dei Laogai cinesi. «Anche se avevo trovato rifugio negli Stati Uniti», scrive, «non ero ancora riuscito a trovare pace. Ripensavo continuamente ai volti che mi ero lasciato alle spalle. Ero costantemente preoccupato dal fatto che, nonostante io fossi fuggito, il sistema della riforma attraverso il lavoro continuava a operare, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ignorato su vasta scala, non sfidato e quindi immutato. Sentivo la responsabilità pressante non solo di denunciare, ma anche di rendere di pubblico dominio la verità sui meccanismi di controllo del Partito comunista, qualunque rischio corressi, qualunque disagio mi costasse rivelare la mia storia».
Difficile battaglia per la verità
Nel 1992 ha dato vita alla «Laogai Foundation», che si occupa di far conoscere al mondo le violazioni dei diritti umani in Cina. La Fondazione calcola che oggi siano oltre mille i campi ancora attivi, con un numero stimato di prigionieri che supera i tre milioni. Il governo cinese non ne riconosce ufficialmente l'esistenza. Alcune cose con il tempo si sono modificate, lo stesso regime sotto certi aspetti è cambiato, ma bisogna rendersi conto che «in Cina c'è un regime comunista» e che «Laogai e democrazia sono incompatibili. Se c'è la democrazia non ci sono i Laogai. Se ci sono i Laogai non c'è la democrazia». Nel 1995, quando ormai era diventato cittadino americano, è tornato in Cina per raccogliere prove dell'esistenza dei Laogai: il governo cinese lo ha immediatamente fatto arrestare e condannare a quindici anni di prigione per spionaggio. Solo la forte pressione internazionale ha permesso che la condanna fosse tramutata in espulsione dal Paese. Ma non è solo contro il sistema del lavoro forzato che combatte la Fondazione di cui è animatore: Harry Wu non si stanca di denunciare le forti restrizioni alla libertà religiosa, alla libertà di associazione, all'utilizzo di Internet da parte del governo. E ancora, la tragica verità del traffico degli organi espiantati ai prigionieri giustiziati. La Cina, dice, è il secondo Paese al mondo per numero di trapianti effettuati, e la stragrande maggioranza degli organi proviene dalle esecuzioni.
Nel corso di una battaglia che ormai dura da quindici anni, racconta Wu, l'atteggiamento della società occidentale è cambiato. «Non solo il governo americano, ma anche i semplici cittadini mi paiono sempre più interessati a questi temi». Da quando è nata la Fondazione, il suo fondatore ha girato tutti gli Stati Uniti e buona parte dei Paesi europei. «Ma l'Italia », spiega, «è abbastanza indietro. Negli anni Novanta quando giravo l'Europa, da qui non mi è mai venuto nessun invito. Ci sono venuto solo come turista». Soltanto nel 2006 la casa editrice l'Ancora del Mediterraneo ha tradotto il libro Laogai. I gulag di Mao Zedong , che era uscito in inglese nel 1992. Nel 2006, peraltro, la forte resistenza di natura ideologica a questi temi presente nella cultura italiana si manifestò nella sua forma peggiore, quando una cinquantina di attivisti dei centri sociali impedirono la presentazione del libro a Roma. Anche il volume pubblicato ora dalla San Paolo è uscito nella sua edizione originale inglese nel 1994, e ha quindi dovuto aspettare oltre tredici anni per essere reso accessibile al pubblico italiano. Ma Harry Wu non si scoraggia, e prosegue la sua battaglia contro l'indifferenza e il realismo politico di chi preferisce non toccare certi temi per timore di ripercussioni di natura commerciale. «Non posso fare a meno di pensare», ha scritto sulla scelta di assegnare a Pechino le Olimpiadi del 2008, «che mentre a Hitler le Olimpiadi del 1936 furono assegnate senza immaginare gli orribili avvenimenti che sarebbero poi accaduti, a Pechino sono state concesse pur conoscendo l'efferatezza dei crimini che la Cina tuttora commette».
Pellegrini alla tomba di Pietro. Come nell'antica Roma
Dieci metri sotto la basilica vaticana è possibile ripercorrere la stessa strada che conduceva alla sepoltura dell'apostolo, tra file di tombe romane uscite intatte dagli scavi. L'ultimo restauro è di pochi giorni fa. Una meraviglia di arte, di storia, di fede
di Sandro Magister
ROMA, 3 giugno 2008 – Immaginiamo che sia notte, come nella foto qui sopra. Stiamo percorrendo una stradina affiancata da tombe romane del II e III secolo dopo Cristo. Siamo sulle prime pendici del Colle Vaticano. A poca distanza c'è l'imponente obelisco che sorgeva al centro dello stadio di Caligola e Nerone. Lì fu martirizzato l'apostolo Pietro. E lungo questa stradina sorge il "trofeo" che segna il luogo in cui fu sepolto.
Proprio così. L'unica cosa inesatta è che non è notte. E quel cielo buio è il pavimento della basilica di San Pietro, sotto la quale stiamo camminando.
Quando nel IV secolo l'imperatore Costantino costruì la basilica, volle che il piano dell'abside poggiasse proprio sopra la tomba dell'apostolo. E per portare allo stesso livello anche la navata coprì di terra tutte le tombe che da quella di Pietro si susseguivano in leggera discesa in direzione del fiume Tevere. Nel Cinquecento, al posto della basilica costantiniana e a un livello più alto fu costruita una nuova basilica più grande, l'attuale. In ogni caso, per sedici secoli nessuno scavò sotto il pavimento della basilica.
Fu Pio XII, nel 1939, a dare il via all'esplorazione archeologica. E in pochi anni furono riportate alla luce non solo la tomba di Pietro, sotto l'altare maggiore della basilica, ma anche altre 22 tombe allineate lungo l'antica stradina, per un tratto di circa 70 metri, una decina di metri al di sotto della navata centrale della chiesa.
Nel 1998 le autorità vaticane ordinarono il restauro e la valorizzazione della necropoli scavata sotto la basilica di San Pietro.
L'ultima delle tombe restaurate è stata inaugurata pochi giorni fa, mercoledì 28 maggio. È la più grande e sontuosa tra quelle tornate alla luce. Fu edificata poco dopo la metà del II secolo, quando l'imperatore era Marco Aurelio, da un'importante famiglia romana, quella dei Valerii. Oltre alle statue di membri della famiglia, di filosofi e di divinità, spiccano la testa leggiadra di una fanciulla e quella in stucco dorato di un bambino col caratteristico ciuffo di Iside.
Le 22 tombe della necropoli sono quasi tutte pagane, con tracce di culti orientali. L'unica interamente cristiana è quella dei Iulii. Nella sua volta risplende un meraviglioso mosaico che raffigura Cristo come Sole ed Apollo, mentre ascende al cielo su una quadriga di cavalli bianchi, reggendo il globo terrestre nella mano sinistra. Alle pareti, si distinguono le immagini del Buon Pastore, di Giona inghiottito dal mostro marino e di un pescatore che getta tra le onde l'amo al quale un pesce abbocca mentre un altro fugge, simbolo delle anime che possono accogliere o rifiutare la salvezza.
Ciò che più impressiona, di questo sepolcreto, è che esso è quasi intatto. È com'era poco prima che Costantino lo interrasse. Percorrendolo, si ricalcano i passi degli antichi cittadini di Roma, ma anche di quei pellegrini che si recavano a pregare alla tomba dell'apostolo Pietro. La preistoria della basilica di San Pietro è nei mattoni, nei marmi, nelle statue, nelle scritte, nelle decorazioni di questa antica strada tra le tombe, fino al luogo della sepoltura del pescatore di Galilea divenuto apostolo di Cristo e morto martire nella capitale del più grande impero del mondo.
Risalito in superficie, nella basilica e nella piazza, il pellegrino vedrà che questo percorso dall'antica Roma al cristianesimo prosegue unitario. Il nuovo impero è quello del perdono di Gesù a tutti gli uomini, mediato dalla Chiesa. Dalla sommità della facciata della basilica di San Pietro, come da una tribuna, il Salvatore e i santi guardano l'ovale del nuovo circo disegnato dal colonnato del Bernini, con al centro lo stesso obelisco presso cui l'apostolo fu crocifisso. Circo aperto "urbi et orbi", alla città e al mondo intero.
Il restauro della tomba dei Valerii è stato curato dalla Fabbrica di San Pietro e in particolare dal direttore dei lavori di conservazione della necropoli, Pietro Zander.
È durato dieci mesi ed è stato eseguito da Adele Cecchini e Franco Adamo, grandi specialisti in restauri di opere antiche, in Italia, in Egitto, a Gerusalemme.
Le spese sono state sostenute dalla Fondazione Pro Musica e Arte Sacra fondata e presieduta da Hans-Albert Courtial, la stessa che organizza ogni autunno, a Roma, splendidi concerti di musica sacra nelle basiliche papali, con i Wiener Philarmoniker come ospiti fissi:
> Pro Musica e Arte Sacra
Grazie ai contributi suoi e di altri benefattori, la Fondazione ha consentito negli ultimi anni il restauro di importanti opere d'arte presenti nelle basiliche romane. Ultimato quello della tomba dei Valerii, gli interventi in corso riguardano il ciborio marmoreo dell'altare maggiore della basilica di San Paolo fuori le Mura, il coro ligneo della basilica di San Giovanni in Laterano e l'organo della chiesa di Sant'Ignazio di Loyola.
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La più affascinante guida illustrata alla necropoli sotto la basilica vaticana è la seguente:
Pietro Zander, "La Necropoli sotto la Basilica di San Pietro in Vaticano", Fabbrica di San Pietro ed Elio de Rosa editore, Roma, 2007, pp. 136.
Le visite guidate agli scavi si effettuano ogni giorno dalle ore 9 alle 18, ad esclusione della domenica e dei giorni festivi in Vaticano.
Per la particolare collocazione del sito nei sotterranei della basilica e per le sue ridotte dimensioni è consentito l’accesso agli scavi solo a un limitato numero di persone di età superiore ai quindici anni.
L’autorizzazione alla visita va richiesta alla Fabbrica di San Pietro per fax (+39.0669873017) o per e-mail (scavi@fsp.va), indicando il numero delle persone, la lingua, le date disponibili e un recapito per la risposta.
L’emergenza educativa è emergenza della Chiesa
Intervista al Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica
CITTÀ DEL VATICANO, martedì, 3 giugno 2008 (ZENIT.org).- L’emergenza educativa è un’emergenza per l’opera di evangelizzazione della Chiesa, afferma in questa intervista rilasciata a ZENIT l’Arcivescovo Jean-Louis Bruguès, nominato di recente Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica.
Monsignor Bruguès è nato il 22 novembre 1943 a Bagnères-de-Bigorre (diocesi di Tarbes e Lourdes). Dopo essersi laureato in Economia e Diritto è entrato nell’Ordine dei Predicatori nel 1968.
Ha ricevuto la laurea “honoris causa” dall’Aquinas Institute of Theology dell’Università di Saint-Louis (Stati Uniti), nel 2002. Giovanni Paolo II lo ha nominato Vescovo di Angers il 20 marzo del 2000, mentre Benedetto XVI lo ha chiamato a collaborare con lui alla Santa Sede, il 10 novembre scorso.
Come descriverebbe la gioventù di oggi?
Monsignor Bruguès: Abbiamo la fortuna di poter contare su una gioventù che io qualificherei straordinaria. È generosa. È una minoranza, è vero, se si guardano alle cifre complessive, ma ha volontà. Sa di non sapere, dal punto di vista della cultura cristiana; si rende conto che il contenuto della fede gli è familiare fino a un certo punto, ma vuole imparare!
Per questo motivo le catechesi riscuotono un grande successo presso i giovani, siano essi adolescenti o più grandi, studenti o giovani professionisti. E a me questi giovani aiutano a compiere un atto di fede nel futuro della Chiesa, anche qui, in una società in via di rapida secolarizzazione.
Ogni anno, nel mese di luglio, vado a Lourdes con seicento adolescenti. Quando tenevo le catechesi i giovani venivano a centinaia e talvolta superavano il migliaio. Abbiamo fatto una festa della catechesi e sono venuti in settemila. Evidentemente i numeri non dicono tutto. Il titolo dell’incontro era: “Questo futuro da amare” e l’obiettivo era riconciliare i nostri cristiani, i nostri battezzati, con il loro futuro.
In Francia si è appena svolto un grande dibattito sulle catechesi e le scuole cattoliche. Qual è la sua posizione e le sue riflessioni su questo tema?
Monsignor Bruguès: La situazione della scuola cattolica si differenzia molto tra un Paese e l’altro. Mi limito alla Francia ricordando un ulteriore dato: nella mia diocesi l’insegnamento cattolico riguarda il 41% dei giovani. Quasi uno su due. Quando si dice che la Chiesa non ha contatto con i giovani, evidentemente non si conosce la realtà, perché nel nostro ambiente ha la possibilità di rivolgersi quasi a un giovane su due.
Cosa facciamo di fronte a questa opportunità? Questa è la domanda con cui ci confrontiamo. Oggi, sulla scuola cattolica, è in corso un dibattito che ritengo interessante, utile, anche se talvolta viene fatto a colpi di cannone; un dibattito che ci obbliga a ricordare a noi stessi, Vescovi, sacerdoti, direttori dei centri, professori che cos’è una scuola cattolica.
Anzitutto possiamo dire che il termine “cattolico” ha in sé due significati. Cattolico vuol dire universale e pertanto i nostri centri devono avere l’impegno di aprirsi a chi bussa alla porta, soprattutto a chi si trova in condizioni sociali meno favorevoli. Cattolico, per un secondo verso, significa anche confessione di una fede. Una scuola cattolica quindi è una scuola aperta in cui la cultura che viene insegnata è orientata alla confessione di una specifica fede.
Come si possono articolare queste due dimensioni della scuola cattolica?
Monsignor Bruguès: Tra queste due definizioni del termine cattolico - universalità e specificità - esiste, è sempre esistita, una tensione che io trovo salutare. Il pericolo vero sarebbe di voler sopprimere uno dei due significati, con lo scopo di eliminare questa tensione.
Se si vuole eliminare la dimensione universale, si fa della scuola cattolica una scuola di una comunità particolare e, in certi casi, una scuola ghetto. Se si elimina la dimensione della confessione della fede, si fa della scuola cattolica una scuola come le altre, senza un carattere proprio. Se si aprono tutte le finestre di una casa, si ottiene una corrente d’aria ma non si riesce a lavorare. Per questo sono faziosamente favorevole a questa tensione.
Nella pratica che cosa implica questo?
Monsignor Bruguès: Le faccio un esempio concreto. Quando sono arrivato alla diocesi mi sono reso conto che, quando i genitori venivano ad iscrivere i figli in un istituto cattolico, il Direttore diceva loro che in quella scuola si faceva una proposta di fede, una proposta catechetica. I genitori erano liberi di accettare o di rifiutare. Cosa succedeva se rifiutavano? Niente. Non se ne faceva nulla. La scelta era: catechesi o nulla.
Io credo che questo non sia un buon modo di presentare la questione e pertanto abbiamo intrapreso un’esperienza di cui sono molto contento e anche molto fiero. Abbiamo iniziato a costruire un ciclo di cultura cristiana. Non dico religiosa, ma cristiana.
In cosa consiste questa proposta di cultura cristiana?
Monsignor Bruguès: Con gli strumenti più moderni abbiamo creato una pedagogia, una metodologia, per l’insegnamento della cultura cristiana che, molto ben realizzata a livello tecnico, piace moltissimo ai bambini. Nella metà dei centri scolastici della nostra diocesi la cultura cristiana è quindi obbligatoria per tutti. Se i genitori vogliono iscrivere i loro figli alla scuola, sanno da subito che ci sarà un insegnamento vivo della cultura cristiana. Ma non è una catechesi. Per chi invece lo desidera, esiste anche una proposta catechetica. La nostra proposta quindi non è più “o-o”, ma è “e-e”!
Ciò che constatiamo è che questo insegnamento della cultura cristiana è vissuto da molti come un primo annuncio della fede, al punto che il numero dei bambini che si iscrivono alla catechesi è aumentato di un terzo. Vorrei che questa esperienza fosse maggiormente conosciuta e riconosciuta, e - perché no - diffusa, tanto più che le diocesi di Angers e di Nantes, che si sono associate, hanno creato con il libro di testo “Anne e Leo giornalisti” uno strumento straordinario.
Questo è un esempio che dimostra che è possibile vivere in modo molto proficuo questa tensione fra l’universalità e la specificità della scuola cattolica.
Lei ha parlato di questi ambiti in cui si è riusciti ad incidere, come quello della scuola cattolica. Nel suo nuovo incarico lei ha anche i seminari. Quale può essere in Occidente la politica per i seminari, di fronte al calo delle vocazioni?
Monsignor Bruguès: Non so se sia giusto elaborare una politica al vertice e dire: ecco qua ciò che si deve fare a tutti i livelli. Io farei piuttosto il percorso inverso: cosa avviene alla base?
Nella mia esperienza di religioso, di professore e di Vescovo posso dire che Dio chiama oggi nella stessa misura in cui chiamava prima. Per esempio, in questo momento, ho una quindicina di ragazzi che sono venuti ad incontrarsi con me - non so se prima si faceva così - e hanno detto al Vescovo di avere delle domande. Il più giovane ha 14 anni e il più grande sui 22 o 23. Pertanto, Dio chiama.
D’altra parte è vero, e io ci credo, che esiste una stretta relazione tra il numero delle vocazioni e il numero dei praticanti. Dio chiama questo popolo, i servitori, perché ne ha bisogno. Per me quindi la questione non è la scarsità di vocazioni, ma lo scarso sostegno, lo scarso accompagnamento. Ed è da qui che arrivano le difficoltà: non è facile trovare una comunità cristiana che sostenga veramente queste vocazioni e che accompagni passo dopo passo il giovane che si senta chiamato, anche se, evidentemente, all’inizio la certezza non c’è.
Come può la Chiesa aiutare i giovani a rispondere alla chiamata di Dio?
Monsignor Bruguès: Un numero significativo di vocazioni si perde sul campo. Una comunità ha sempre i sacerdoti che si merita. Un esempio recente: un sacerdote viene da me per dirmi che ha raggiunto l’età della pensione e che ha deciso di ritirarsi. Nel colloquio gli chiedo: “non c’è stato mai un giovane che è venuto a trovarla?”. “Sì, sì, c’è stato uno di recente, di 22 anni, con studi di musicologia...”. E questo giovane, la cui madre faceva parte dell’EAP (Equipe di animazione parrocchiale), aveva colto l’occasione, una domenica in cui il parroco era stato invitato a casa, per dire alla famiglia che stava pensando di farsi sacerdote.
La madre allora va su tutte le furie e gli dice: “È una strada senza uscita, spero che tu non lo faccia”. E passa il resto del pranzo a dissuadere il figlio. Responsabile dell’EAP! E il parroco era lì! Allora gli ho chiesto: “E lei cosa le ha detto?”. “Niente”. È l’esempio di una comunità che non si fa carico della chiamata che Dio rivolge a uno dei suoi giovani.
Come si può favorire questa presa di coscienza?
Monsignor Bruguès: I metodi sono diversi. Conosco parrocchie in cui si prega per le vocazioni. E' un buon mezzo ma bisognerebbe sensibilizzare, responsabilizzare, le comunità parrocchiali e le famiglie, perché veramente si accolga come un dono, una grazia e - perché no - come un onore, la chiamata che può essere rivolta a uno dei suoi giovani. E poi bisogna utilizzare tutti i mezzi per accompagnare il giovane.
In parte per rispondere a tale questione ho creato quest’anno, nella mia diocesi, delle case per studenti. In queste tre case, per ora, risiedono ventisette giovani, che sono responsabili di esse. Hanno tutti i giorni un tempo di preghiera e ricevono un insegnamento esplicitamente cristiano. Questo vuol dire che, parallelamente alla formazione professionale che ricevono nelle università, acquisiscono una formazione cristiana. Alcuni di loro si fanno delle domande di tipo vocazionale. Lì trovano l’ambiente e i direttori spirituali di cui hanno bisogno. Di questi ventisette, quattro mi hanno detto che stanno pensando di farsi sacerdoti o religiosi. Queste prime tre case accolgono solo ragazzi, ma ho lanciato - anche se spetterà al mio successore - la creazione di case per ragazze.
"L'effetto Lucifero" di Philip Zimbardo studia gli automatismi della violenza - Come si diventa cattivi
di Oddone Camerana
Cattivi si diventa o lo si è? Per essere meno generici, la domanda dovrebbe essere se persecutori, aguzzini, vessatori, torturatori o mele marce di un sistema si nasce o si diventa. La risposta è che, salvo casi eccezionali, lo si diventa. Ma in che modo? La stessa domanda vale per la bontà. E la risposta è che buoni si diventa o lo si può diventare. Anche qui, per essere più specifici, la domanda dovrebbe essere se e come si diventa soccorritori, disobbedienti all'ingiustizia imposta, difensori e anche eroi generosi, se questo comporta la rinuncia a vantaggi, a sicurezze e al cosiddetto quieto vivere.
A queste e a molte domande inerenti al bene e al male procurato al prossimo risponde il libro di Philip Zimbardo L'effetto Lucifero (Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008, pagine 733, euro 34,80). Scritto da un docente di psicologia sociale all'Università di Stanford in California - in quanto tale chiamato a testimoniare come perito nei processi di Abu Ghraib - il testo in questione ha del romanzesco. Presentandosi infatti come la cronologia di un esperimento sui comportamenti carcerari, rivela la avvenuta, clamorosa e riconosciuta conclusione fallimentare dell'esperimento stesso. Ricavandolo poi dalla realtà dei fatti, l'autore formula il nucleo della teoria sull'origine della malvagità delle persone, proprietà da riconoscersi non tanto in una ipotetica inclinazione di tipo lombrosiano delle persone quanto nelle situazioni in cui le medesime si vengono a trovare. Sennonché questo vale in parte, come vedremo, anche nel caso opposto della bontà o del bene.
Allo scopo di studiare il modo in cui, in quanto crogiuolo di trasformazioni psicosociali, la detenzione cambia le persone, nell'agosto del 1971 Zimbardo lancia il suo progetto di simulazione che consiste nell'invitare, in locali appositamente attrezzati e dietro compenso, due gruppi di studenti selezionati della facoltà di psicologia disposti a sottoporsi alla prova di interpretare rispettivamente la parte di guardie carcerarie e di detenuti. Durata dell'esperimento, due settimane. Il tempo ritenuto necessario per mettere a confronto gli effetti, su ciascuno dei volontari, delle forze cosiddette situazionali dell'ambiente similcarcerario con quelli delle tendenze disposizionali.
È evidente come l'intento di superare il limite degli studi criminologici tradizionali, statici e inadatti a rappresentare la dinamica reale dei comportamenti, abbia ispirato lo schema della ricerca, una simulazione del vero copiata in seguito dalla serie dei reality show televisivi che tanto discusso successo hanno avuto anche in Europa.
Attuati così gli arresti a sorpresa degli aderenti all'iniziativa e avviata la settimana con tanto di riprese televisive, il progetto prende corpo. I detenuti imparano i loro numeri di matricola che sostituiscono i loro nomi e infilano i loro camici umilianti. Le guardie indossano le loro divise e, nascondendo lo sguardo dietro occhiali specchianti, brandiscono i loro manganelli e alzano la voce. Prendono così vita i frequenti riti delle "conte", momento privilegiato e temuto che stimola ogni sorta di vessazione verbale e non, prontamente accompagnata dalle classiche punizioni - flessioni e piegamenti e altri esercizi faticosi - a ogni minimo errore.
Ci vuole poco a capire come la descrizione giorno per giorno dell'esperimento, descrizione che occupa da sola una buona metà del testo, sia la cronaca di una inaspettata discesa agli inferi. Discesa piena di suspense conoscitiva nei riguardi degli automatismi di prepotenza attivati dalla semplice assunzione del ruolo di guardia carceraria, nel caso di queste ultime, e della perdita progressiva di identità, come dell'autocolpevolizzazione strisciante e della creazione della vittima, nel caso dei detenuti.
Fatto sta che cedendo all'inattesa esplosione della violenza e alla richiesta di qualcuno dei detenuti di abbandonare il progetto, al venerdì della prima settimana, Zimbardo si sente obbligato a sospenderlo dichiarandolo chiuso. Entrato anche lui nel ruolo del ricercatore, aveva perso di vista le conseguenze dell'effetto Lucifero che lo aveva intaccato. E, ravvedutosi in tempo, chiede pubblicamente scusa prima che la situazione degeneri ulteriormente.
A cose fatte e senza che Zimbardo dia loro pubblicazione, i risultati dell'esperimento diventano un caso di studio. Circolano negli ambienti universitari di quegli anni, aggiungendosi ad altri risultati di esperimenti dello stesso genere. Altre simulazioni di situazioni di stress, di obbedienza, di sottomissione e altri casi di giuochi di ruolo, i quali nel loro insieme rispondono alla fame di dati e misure così visceralmente pragmatica e propria della cultura nordamericana.
Ma allo scoppio della seconda guerra in Iraq, a seguito delle rivelazioni di quanto succede nei centri di detenzione di Guantanamo e poi della diffusione delle fotografie delle torture inflitte ai prigionieri di guerra nelle carceri di Abu Ghraib, ecco che, chiamato nel frattempo dal Congresso americano in quanto perito, Zimbardo sente il bisogno di riprendere i risultati del suo esperimento di Stanford del 1971 e, insieme ad altri, di confrontarli con quelli reali emersi a Guantanamo e Abu Ghraib, traendone le conclusioni. Nasce così L'effetto Lucifero, un poderoso studio sulle influenze perverse indotte sui comportamenti umani dai sistemi di appartenenza, individuati e individuabili, questi, in eserciti o corpi di polizia e altre organizzazioni dello stesso genere.
Laddove formazione, procedure e controlli non vigilano sul rispetto della dignità umana e sulla moderazione della durezza imposta dal ruolo, ecco che quest'ultimo scivola facilmente nell'abuso. Situazioni di stress come guerra, combattimento, azione di antiterrorismo, interrogatori, pressioni dall'alto, nonché l'uso di divise, mascheramenti, linguaggi che deformano la realtà o la ricreano secondo la visione di un sistema di potere come quello imposto da sette e confraternite, o che facilitano la deindividualizzazione degli affiliati, tutto ciò concorre a intossicare un ambiente dato, facilitando forme di arbitrio e di disimpegno morale. Nulla di nuovo considerando l'effetto anonimato, già garantito in passato dai metodi arcaici di lapidazione - dove ogni pietra, ma nessuna in particolare, era quella omicida - o dai metodi più vicini a noi impiegati dai plotoni di esecuzione dove tutti i fucili sparano, ma nessuno sa quale sia quello non caricato a salve.
Accettazione degli addetti e paura di insicurezza diventano così le grandi matrici del sadismo collettivo. Ma attenzione: dare peso nella generazione di abusi, torture e vessazioni, come fa Zimbardo, al potere del ruolo, della situazione e del sistema di appartenenza degli autori degli abusi stessi non vuole discolpare gli autori. Vuole piuttosto smascherare la tendenza della scienza criminale che preferisce affidarsi alla teoria delle "mele marce" trascurando il "cesto" di omertà in cui le mele stesse sono marcite, vero responsabile della putrefazione dei frutti insieme a chi ne ha intrecciato le fibre. Queste in sintesi le conclusioni a cui arriva Zimbardo dopo aver scavato in una montagna di dati messi in luce, tra cui e per esempio la serie delle impressionanti direttive studiate da psichiatri esperti in vulnerabilità e fornite per preparare i detenuti agli interrogatori senza che ne rimangano tracce corporali.
Ci troviamo qui a procedere su un terreno scabroso, quello su cui è cresciuta l'ipotesi che nei campi di sterminio poté più l'obbedienza ai superiori dell'antisemitismo di origine, ipotesi suffragata dalla nota definizione della banalità del male. L'evangelista che nel corso della passione di Gesù riporta la celebre frase: "Mi hanno odiato senza ragione" (Giovanni, 15, 25) aveva capito prima della Arendt la potenza degli aguzzini che, obbedendo ai superiori, agiscono in un contesto di assoluta ordinarietà e normalità, e fanno il loro mestiere. Meno banale e meno ordinaria è invece la ribellione al male. Intesa come bene, la ribellione e la resistenza all'ingiustizia rivelano la natura del bene come conquista e non come cosa data o entità fissa e chiusa in sé.
Se il bene esiste come azione e solo nella relazione col prossimo, Zimbardo ne esplora i confini nel capitolo finale dedicato all'eroismo inteso come generosità che si oppone all'inerzia al male e alla gran macchina di formazione della paura e dell'illusione della sicurezza. Bene è rinunciare a vivere come in uno zoo e togliere gli occhiali scuri e le maschere che assicurano l'anonimato.
È tornare a dare importanza ai peccati veniali come spargere voci e fare dispetti che indicano la disponibilità alla violenza. Il giusto e il disobbediente civile non fanno pettegolezzi, non ridono di barzellette razziste e non si macchiano di piccole prepotenze. È il loro modo di tagliare sul nascere ogni compromissione con l'ordinarietà del male. Sennonché dalla tenebra dell'istituzione carceraria la realtà dimenticata della compromissione dello Stato con la violenza non smette di lanciare i suoi messaggi desolati. La delega a questa massima istituzione civile resta un fatto fondativo. Nessuna nozione di limite, nessuna garanzia dei diritti umani, nessuna convenzione di Ginevra riesce a dissolvere il compromesso con la violenza se il legame arcaico con il sacro della violenza non viene spezzato del tutto.
È il concetto stesso di delega che parla la lingua di una violenza come destino e che arma le parole di giuristi e legislatori i quali al momento della paura - oggi si chiama terrore - trovano l'ascolto necessario per consentire allo Stato di agire al di sopra della legge e ricevere poteri eccezionali delegati. Legittimati, ma non legittimi.
È il lato oscuro della legge, sul quale prosperano i facilitatori del male, i fabbricanti di "cesti" che fanno marcire anche le mele buone, fino a che a sbarrare loro la strada non trovano le mele eroiche.
(©L'Osservatore Romano - 4 giugno 2008)
Albacete: «Anche i non cattolici conquistati da lui»
Avvenire, 4 giugno 2008
DI CRISTIANA CARICATO
«Non credo sia possibile un giudizio definitivo sul viaggio: molto dipenderà dalla Chiesa americana. Da come i sacerdoti, i vescovi e gli altri responsabili della pastorale sapranno portare al popolo americano il messaggio di Benedetto XVI». Si astiene da un bilancio monsignor Lorenzo Albacete, teologo americano tra i più noti oltreoceano, editorialista del New York Times e attento osservatore di tutto ciò che fermenta nella cultura a stelle e strisce. «Il Papa è venuto e ha rivolto una proposta molto chiara agli Stati Uniti: Cristo nostra speranza – ci dice nella sua casa di Yonkers nell’hinterland newyorkese –. Non solo discorsi ma una testimonianza vissuta personalmente, attraverso i suoi gesti e i problemi evidenziati. Ora tutto è rimandato alla libertà dei singoli».
Che impatto ha avuto il «personaggio » Ratzinger sugli americani?
Molto positivo. Non era conosciuto, sebbene avesse visitato più volte gli Usa. Molti avevano di lui un’idea negativa: enforcer dell’ortodossia morale e dottrinale, un Papa incapace di gesti comunicativi, e soprattutto un «tedesco»... Ora tutto ciò appartiene al passato. Benedetto XVI ha conquistato fiducia e consensi soprattutto tra i non cattolici. Quanti nei mesi scorsi avevano mostrato atteggiamenti ostili, alla fine hanno dovuto riconoscere che le loro aspettative erano infondate e hanno dichiarato apertamente la loro stima per il Papa. Credo sia splendido.
Benedetto XVI ha dichiarato da subito di essere affascinato dalla cultura americana, soprattutto dal rapporto tra fede e vita pubblica.
Il Papa è stato molto molto chiaro nel sottolineare la dimensione positiva dell’esperimento americano, soprattutto nelle relazioni tra le religioni e lo Stato, nei rapporti Chiesa-laicità. Negli Stati Uniti questa sperimentazione ci ha condotti a una forma di «secolarizzazione» considerata positiva. Ratzinger, che pure non è molto incline ad apprezzare il termine «secolarizzazione», ha compreso come questa forma particolare abbia aiutato la Chiesa statunitense rendendola libera di rivolgere una proposta autentica alla gente. Durante il viaggio il Papa ha potuto toccare le diverse e principali anime della spiritualità americana. Certo ha anche messo in guardia da un nuovo processo di secolarizzazione che sta già invadendo l’Europa e che rischia di invadere anche gli Usa.
Qual è il rischio che corre il cattolicesimo americano?
Negli Stati Uniti è molto complicato trovare la risposta alla domanda: dov’è Gesù? Ci sono tanti, troppi Gesù e la verità non è facile da trovare. Per trovare la verità bisogna aprirsi alla categoria della possibilità e anche da noi la mentalità relativistica ha travolto la cultura cattolica, giungendo a una separazione netta tra fede e ragione. Quando ciò accade la realtà diviene incomprensibile alla ragione e la fede è sminuita a buona disposizione etico-morale. Il problema è qui, il Papa l’ha intuito subito. Ma spera anche che la religiosità americana sia abbastanza forte da resistere a questa «secolarizzazione relativistica».
Ma la complessità del pensiero ratzingeriano può essere compresa fino in fondo dagli americani?
Sebbene la stragrande maggioranza non sia in grado di cogliere a fondo tutte le sfumature del suo pensiero, i più sono stati conquistati dalla sua testimonianza. Ha pronunciato discorsi e compiuto gesti che l’America voleva sentire e vedere.
La visita a Ground Zero è stata il momento in cui si è avvicinato di più al sentire americano?
Sì, all’America di ieri e anche a quella contemporanea. Un momento davvero commovente. L’11 settembre è un’esperienza comunitaria che il popolo americano non potrà mai dimenticare e rimarrà come qualcosa di profondamente misterioso. E allora vedere il Papa sul luogo del crollo delle Twin Towers, portare Cristo a Ground Zero, senza parole ma solo con i gesti... Dopo tutto, lui ha insistito più volte che il cristianesimo è un avvenimento, accade nell’individualità di un incontro umano. Ed è questo che abbiamo visto più volte nei giorni della sua visita. Parole date per interpretare il senso dell’incontro, l’esperienza concreta di Cristo che dobbiamo continuare.
Nel corso del viaggio il Papa è tornato più volte sulla questione degli abusi sessuali compiuti sui minori: una ferita ancora aperta per la Chiesa americana...
Tutto ciò era essenziale. Anzi proprio in questo potremmo trovare il significato dell’intera visita. Tutti aspettavamo che il Papa avrebbe detto qualcosa a riguardo: ma nessuno immaginava la profondità né la ripetizione insistente delle sue parole. E poi quell’incontro con le vittime degli abusi è stato qualcosa di completamente inatteso. L’intera vicenda era stata per la Chiesa cattolica un disastro, non tanto sul piano economico ma a livello d’intimità col clero; io stesso provavo difficoltà ad andare in giro in talare. Era venuta meno la fiducia tra fedeli e sacerdoti, quel rapporto d’umanità viva che si instaura tra un prete e i suoi parrocchiani. Con lo scandalo c’è stata una rottura violentissima dei normali rapporti ecclesiali; una situazione devastante che ha lasciato profonde ferite.
Inaspettato è stato anche il discorso all’Onu. Non ha toccato punti concreti all’ordine del giorno nell’agenda internazionale ma la questione dei principi fondamentali. Anche questo un discorso che dovrà essere compreso fino in fondo?
Dovrebbe essere letto e studiato più a fondo. Non so chi davvero lo farà a livello di comunità internazionale... Quanti seguono da sempre Ratzinger non potevano immaginare che avrebbe fatto nessun altro tipo di discorso. Basti pensare alle sue discussioni con Flores D’Arcais sui diritti fondamentali. Ricordo che in uno di quei dibattiti lui chiese all’intellettuale italiano se credeva davvero ci fossero diritti umani e quegli rispose: «No, ci sono diritti civili». Replicò Ratzinger: «Non lo posso accettare, i diritti civili non bastano, io ho attraversato il nazismo, ho vissuto e so cosa questo significhi e comporti». È sempre sorprendente come la verità trovi la sua forza dietro il dramma vissuto da un uomo impegnato a difendere i diritti umani e non in uno Stato che dovrebbe garantirli perché ne ha l’autorità.
Il noto teologo Usa: «La preghiera a Ground Zero e l’incontro con le vittime degli abusi i momenti più intensi della visita del Papa»