giovedì 26 giugno 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Medjugorje: Messaggio di Maria S.S. del 25 giugno 2008
2) La vera libertà è dire "sì" a Dio, afferma il Papa Presentando la figura di San Massimo il Confessore
3) Benedetto XVI presenta la figura di San Massimo il Confessore
4) Vittadini: la carta vincente dell’Expo è la forza del nostro progetto culturale
5) Il mal di vivere si vince con la libertà, di Davide Rondoni
6) L’audacia delle cose semplici. Gattuso ha provato a dirle, di Marina Corradi
7) Stevenson e la misericordia


Medjugorje: Messaggio di Maria S.S. del 25 giugno 2008
Cari figli, anche oggi con grande gioia nel mio cuore vi invito a seguirmi e ad ascoltare i miei messaggi. Siate gioiosi portatori della pace e dell’amore in questo mondo senza pace. Io sono con voi e vi benedico tutti con mio Figlio Gesù Re della pace. Grazie per aver risposto alla mia chiamata.


La vera libertà è dire "sì" a Dio, afferma il Papa Presentando la figura di San Massimo il Confessore
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 25 giugno 2008 (ZENIT.org).- La vera libertà è dire "sì" a Dio, anche se molte volte si pensa il contrario, ha spiegato Benedetto XVI.
E' questa la consegna che ha lasciato ai 15.000 fedeli che hanno partecipato questo mercoledì mattina all'udienza generale, dedicata a presentare la figura di San Massimo, monaco del VI secolo, eroico "confessore" della fede nella volontà umana e divina di Gesù.
La sua opposizione all'eresia del monotelismo - che riconosce in Cristo solo una volontà, quella divina, negando quella umana - scatenò le ire dell'imperatore Costante II, che cercò con ogni mezzo di fargli cambiare idea.
Massimo fu sottoposto a un estenuante processo anche se aveva superato gli ottant'anni; venne condannato, insieme a due compagni, alla mutilazione della lingua e della mano destra per impedire loro di parlare e di scrivere. Il monaco morì due anni dopo, il 13 agosto 662.
La dura vita che sopportò fa sì che il suo pensiero si identifichi soprattutto con il dramma di Gesù al Getsemani, ha spiegato il Papa ai pellegrini.
"In questo dramma dell'agonia di Gesù, dell'angoscia della morte, della opposizione tra la volontà umana di non morire e la volontà divina che si offre alla morte, in questo dramma del Getsemani si realizza tutto il dramma umano, il dramma della nostra redenzione".
Il Papa ha riassunto con queste parole la lezione di San Massimo: "Adamo (e Adamo siamo noi stessi) pensava che il 'no' fosse l'apice della libertà. Solo chi può dire 'no' sarebbe realmente libero; per realizzare realmente la sua libertà, l'uomo deve dire 'no' a Dio".
"Questa tendenza la portava in se stessa anche la natura umana di Cristo, ma l'ha superata, perché Gesù ha visto che non il 'no' è il massimo della libertà".
"Il massimo della libertà è il 'sì', la conformità con la volontà di Dio. Solo nel 'sì' l'uomo diventa realmente se stesso; solo nella grande apertura del 'sì', nella unificazione della sua volontà con quella divina, l'uomo diventa immensamente aperto, diventa 'divino'".
Il desiderio di Adamo, ha osservato, era "essere come Dio", "cioè essere completamente libero. Ma non è divino, non è completamente libero l'uomo che si chiude in sé stesso; lo è uscendo da sé, è nel 'sì' che diventa libero".
"Questo è il dramma del Getsemani: non la mia volontà, ma la tua. Trasferendo la volontà umana nella volontà divina, è così che nasce il vero uomo, così siamo redenti".
In questa lezione di Massimo, ha concluso il Pontefice, vediamo che "è veramente in questione tutto l'essere umano; sta qui l'intera questione della nostra vita".
L'intervento del Papa fa parte del ciclo di catechesi che sta offrendo il mercoledì sulle grandi figure della storia della Chiesa.


Benedetto XVI presenta la figura di San Massimo il Confessore
Intervento in occasione dell'udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 25 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'intervento pronunciato questo mercoledì mattina da Benedetto XVI in occasione dell'udienza generale, dedicata a presentare la figura di San Massimo il Confessore.


* * *
Cari fratelli e sorelle,
vorrei presentare oggi la figura di uno dei grandi Padri della Chiesa di Oriente del tempo tardivo. Si tratta di un monaco, san Massimo, che meritò dalla Tradizione cristiana il titolo di Confessore per l'intrepido coraggio con cui seppe testimoniare - "confessare" - anche con la sofferenza l'integrità della sua fede in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, Salvatore del mondo. Massimo Nacque in Palestina, la terra del Signore, intorno al 580. Fin da ragazzo fu avviato alla vita monastica e allo studio delle Scritture, anche attraverso le opere di Origene, il grande maestro che già nel terzo secolo era giunto a "fissare" la tradizione esegetica alessandrina.
Da Gerusalemme, Massimo si trasferì a Costantinopoli, e da lì, a causa delle invasioni barbariche, si rifugiò in Africa. Qui si distinse con estremo coraggio nella difesa dell'ortodossia. Massimo non accettava alcuna riduzione dell'umanità di Cristo. Era nata la teoria secondo cui in Cristo vi sarebbe solo una volontà, quella divina. Per difendere l'unicità della sua persona, negavano in Lui una vera e propria volontà umana. E, a prima vista, potrebbe apparire anche una cosa buona che in Cristo ci sia una sola volontà. Ma san Massimo capì subito che ciò avrebbe distrutto il mistero della salvezza, perché una umanità senza volontà, un uomo senza volontà non è un vero uomo, è un uomo amputato. Quindi l'uomo Gesù Cristo non sarebbe stato un vero uomo, non avrebbe vissuto il dramma dell'essere umano, che consiste proprio nella difficoltà di conformare la volontà nostra con la verità dell'essere. E così san Massimo afferma con grande decisione: la Sacra Scrittura non ci mostra un uomo amputato, senza volontà, ma un vero uomo completo: Dio, in Gesù Cristo, ha realmente assunto la totalità dell'essere umano - ovviamente eccetto il peccato - quindi anche una volontà umana. E la cosa, detta così, appare chiara: Cristo o è o non è uomo. Se è uomo, ha anche una volontà. Ma nasce il problema: non si finisce così in una sorta di dualismo? Non si arriva ad affermare due personalità complete: ragione, volontà, sentimento? Come superare il dualismo, conservare la completezza dell'essere umano e tuttavia tutelare l'unità della persona di Cristo, che non era schizofrenico. E san Massimo dimostra che l'uomo trova la sua unità, l'integrazione di se stesso, la sua totalità non in se stesso, ma superando se stesso, uscendo da se stesso. Così, anche in Cristo, uscendo da se stesso, l'uomo trova in Dio, nel Figlio di Dio, se stesso. Non si deve amputare l'uomo per spiegare l'Incarnazione; occorre solo capire il dinamismo dell'essere umano che si realizza solo uscendo da se stesso; solo in Dio troviamo noi stessi, la nostra totalità e completezza. Così si vede che non l'uomo che si chiude in sé è uomo completo, ma l'uomo che si apre, che esce da se stesso, diventa completo e trova se stesso proprio nel Figlio di Dio, trova la sua vera umanità. Per san Massimo questa visione non rimane una speculazione filosofica; egli la vede realizzata nella vita concreta di Gesù, soprattutto nel dramma del Getsemani. In questo dramma dell'agonia di Gesù, dell'angoscia della morte, della opposizione tra la volontà umana di non morire e la volontà divina che si offre alla morte, in questo dramma del Getsemani si realizza tutto il dramma umano, il dramma della nostra redenzione. San Massimo ci dice, e noi sappiamo che questo è vero: Adamo (e Adamo siamo noi stessi) pensava che il "no" fosse l'apice della libertà. Solo chi può dire "no" sarebbe realmente libero; per realizzare realmente la sua libertà, l'uomo deve dire "no" a Dio; solo così pensa di essere finalmente se stesso, di essere arrivato al culmine della libertà. Questa tendenza la portava in se stessa anche la natura umana di Cristo, ma l'ha superata, perché Gesù ha visto che non il "no" è il massimo della libertà. Il massimo della libertà è il "sì", la conformità con la volontà di Dio. Solo nel "sì" l'uomo diventa realmente se stesso; solo nella grande apertura del "sì", nella unificazione della sua volontà con quella divina, l'uomo diventa immensamente aperto, diventa "divino". Essere come Dio era il desiderio di Adamo, cioè essere completamente libero. Ma non è divino, non è completamente libero l'uomo che si chiude in sé stesso; lo è uscendo da sé, è nel "sì" che diventa libero; e questo è il dramma del Getsemani: non la mia volontà, ma la tua. Trasferendo la volontà umana nella volontà divina, è così che nasce il vero uomo, così siamo redenti. Questo, in brevi parole, è il punto fondamentale di quanto voleva dire san Massimo, e vediamo che qui è veramente in questione tutto l'essere umano; sta qui l'intera questione della nostra vita. San Massimo aveva già problemi in Africa difendendo questa visione dell'uomo e di Dio; poi fu chiamato a Roma. Nel 649 prese parte attiva al Concilio Lateranense, indetto dal Papa Martino I a difesa delle due volontà di Cristo, contro l'editto dell'imperatore, che - pro bono pacis - proibiva di discutere tale questione. Il Papa Martino dovette pagare caro il suo coraggio: benché malandato in salute, venne arrestato e tradotto a Costantinopoli. Processato e condannato a morte, ottenne la commutazione della pena nel definitivo esilio in Crimea, dove morì il 16 settembre 655, dopo due lunghi anni di umiliazioni e di tormenti.
Poco tempo più tardi, nel 662, fu la volta di Massimo, che - opponendosi anche lui all'imperatore - continuava a ripetere: "E' impossibile affermare in Cristo una sola volontà!" (cfr PG 91, cc. 268-269). Così, insieme a due suoi discepoli, entrambi chiamati Anastasio, Massimo fu sottoposto a un estenuante processo, benché avesse ormai superato gli ottant'anni di età. Il tribunale dell'imperatore lo condannò, con l'accusa di eresia, alla crudele mutilazione della lingua e della mano destra - i due organi mediante i quali, attraverso le parole e gli scritti, Massimo aveva combattuto l'errata dottrina dell'unica volontà di Cristo. Infine il santo monaco, così mutilato, venne esiliato nella Colchide, sul Mar Nero, dove morì, sfinito per le sofferenze subite, all'età di 82 anni, il 13 agosto dello stesso anno 662.
Parlando della vita di Massimo, abbiamo accennato alla sua opera letteraria in difesa dell'ortodossia. Ci siamo riferiti in particolare alla Disputa con Pirro, già patriarca di Costantinopoli: in essa egli riuscì a persuadere l'avversario dei suoi errori. Con molta onestà, infatti, Pirro concludeva così la Disputa: "Chiedo scusa per me e per quelli che mi hanno preceduto: per ignoranza siamo giunti a questi assurdi pensieri e argomentazioni; e prego che si trovi il modo di cancellare queste assurdità, salvando la memoria di quelli che hanno errato" (PG 91, c. 352). Ci sono poi giunte alcune decine di opere importanti, tra le quali spicca la Mistagoghía, uno degli scritti più significativi di san Massimo, che raccoglie in sintesi ben strutturata il suo pensiero teologico.
Quello di san Massimo non è mai un pensiero solo teologico, speculativo, ripiegato su se stesso, perché ha sempre come punto di approdo la concreta realtà del mondo e della sua salvezza. In questo contesto, nel quale ha dovuto soffrire, non poteva evadere in affermazioni filosofiche solo teoriche; doveva cercare il senso del vivere, chiedendosi: chi sono io, che cosa è il mondo? All'uomo, creato a sua immagine e somiglianza, Dio ha affidato la missione di unificare il cosmo. E come Cristo ha unificato in se stesso l'essere umano, nell'uomo il Creatore ha unificato il cosmo. Egli ci ha mostrato come unificare nella comunione di Cristo il cosmo e così arrivare realmente a un mondo redento. A questa potente visione salvifica fa riferimento uno dei più grandi teologi del secolo ventesimo, Hans Urs von Balthasar, che - "rilanciando" la figura di Massimo - definisce il suo pensiero con l'icastica espressione di Kosmische Liturgie, "liturgia cosmica". Al centro di questa solenne "liturgia" rimane sempre Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. L'efficacia della sua azione salvifica, che ha definitivamente unificato il cosmo, è garantita dal fatto che egli, pur essendo Dio in tutto, è anche integralmente uomo - compresa anche l'"energia" e la volontà dell'uomo.
La vita e il pensiero di Massimo restano potentemente illuminati da un immenso coraggio nel testimoniare l'integrale realtà di Cristo, senza alcuna riduzione o compromesso. E così appare chi è veramente l'uomo, come dobbiamo vivere per rispondere alla nostra vocazione. Dobbiamo vivere uniti a Dio, per essere così uniti a noi stessi e al cosmo, dando al cosmo stesso e all'umanità la giusta forma. L'universale "sì" di Cristo, ci mostra anche con chiarezza come dare il collocamento giusto a tutti gli altri valori. Pensiamo a valori oggi giustamente difesi quali la tolleranza, la libertà, il dialogo. Ma una tolleranza che non sapesse più distinguere tra bene e male diventerebbe caotica e autodistruttiva. Così pure: una libertà che non rispettasse la libertà degli altri e non trovasse la comune misura delle nostre rispettive libertà, diventerebbe anarchia e distruggerebbe l'autorità. Il dialogo che non sa più su che cosa dialogare diventa una chiacchiera vuota. Tutti questi valori sono grandi e fondamentali, ma possono rimanere veri valori soltanto se hanno il punto di riferimento che li unisce e dà loro la vera autenticità. Questo punto di riferimento è la sintesi tra Dio e cosmo, è la figura di Cristo nella quale impariamo la verità di noi stessi e impariamo così dove collocare tutti gli altri valori, perché scopriamo il loro autentico significato. Gesù Cristo è il punto di riferimento che dà luce a tutti gli altri valori. Questa è il punto di arrivo della testimonianza di questo grande Confessore. E così, alla fine, Cristo ci indica che il cosmo deve divenire liturgia, gloria di Dio e che la adorazione è l'inizio della vera trasformazione, del vero rinnovamento del mondo.
Perciò vorrei concludere con un brano fondamentale delle opere di san Massimo: "Noi adoriamo un solo Figlio, insieme con il Padre e con lo Spirito Santo, come prima dei tempi, così anche ora, e per tutti i tempi, e per i tempi dopo i tempi. Amen!" (PG 91, c. 269).
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in varie lingue. In Italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale benevenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto il gruppo della Piccola Missione per i Sordomuti e quello del Complesso Penitenziario di Sollicciano. Cari amici, vi ringrazio per la vostra visita e invoco su ciascuno di voi la continua assistenza divina per un fecondo itinerario di fedeltà al Vangelo. Con grande affetto saluto ora il folto gruppo della Famiglia Orionina, gioiosamente radunata attorno al Vicario di Cristo per celebrare la festa del Papa. L'inaugurazione della statua del vostro Fondatore costituisca, per tutti i suoi figli spirituali, un rinnovato stimolo a proseguire sul cammino tracciato da san Luigi Orione specialmente per portare al Successore di Pietro - come diceva lui stesso - "i piccoli, le classi umili, i poveri operai e i reietti della vita che sono i più cari a Cristo e i veri tesori della Chiesa di Gesù Cristo".
Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Celebreremo domenica la solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. L'esempio e la costante protezione di queste colonne della Chiesa sostengano voi, cari giovani, nello sforzo di seguire Cristo; aiutino voi, cari malati, nel vivere con pazienza e serenità la vostra situazione; spingano voi, cari sposi novelli, a testimoniare nella vostra famiglia e nella società l'adesione coraggiosa agli insegnamenti evangelici.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


Vittadini: la carta vincente dell’Expo è la forza del nostro progetto culturale
Giorgio Vittadini26/06/2008
Autore(i): Giorgio Vittadini. Pubblicato il 26/06/2008 – IlSussidiario.net
La nutrizione, un problema sul breve periodo
La questione importante su cui vorrei soffermarmi è il contenuto dell’Expo: “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Se non centriamo l’argomento, è poi difficile che la gente decida di venire all’evento.
Quando abbiamo curato il numero di Atlantide, in novembre, abbiamo tenuto conto delle preoccupazioni e del modo di interpretare il problema che era tipico di quel periodo: clima, energia, ambiente, disuguaglianze. Intendo dire che il grande tema dell’alimentazione era vissuto allora in una prospettiva di lunghissimo periodo. Ora, a sette mesi di distanza, il tema è completamente diverso: la grande esplosione del problema alimentare in relazione ai problemi energetici ha fatto sì che il tema “Nutrire il pianeta energia per la vita” assumesse una prospettiva di breve periodo, dovuta alla presenza di un problema attualmente irrisolto. Come fare in modo che il cibo serva tutto il mondo, in un momento in cui nel brevissimo periodo è venuto meno e possono scatenarsi rivoluzioni enormi? È una situazione drammatica, perché la “chiave” del problema non è in mano a nessuno.
Nel momento in cui avanza l’idea di sopperire alla crisi energetica con prodotti che vengono dall’agricoltura, è evidente che si viene a creare un’antinomia clamorosa. È un problema culturale che dobbiamo affrontare, e che io voglio mettere in rilievo. Organizzare l’Expo senza affrontare questo tema sarebbe come comprare un’enciclopedia in cui c’è tutto, metterla in libreria, e poi accorgersi che non si sa nulla. È dunque necessario centrare il tema culturale.
Perché è fallito il convegno della Fao
Come risolvere il problema? Il recente convegno della Fao ha dimostrato che questi temi non possono più essere affrontati come si è fatto fino ad ora. Gli Stati non sono in grado da soli e con i modelli econometrici di affrontare queste sfide. Il clamoroso fallimento del vertice Fao indica che il problema non si risolve perché sette, otto, o cento capi di Stato si incontrano, o perché c’è un modello interpretativo. Resta vero che l’Expo non deve “risolvere” questo problema; ma deve comunque fornire un’interpretazione culturale. Non possono, ripeto, essere gli Stati a farlo, né può nascere dai modelli dei grandi economisti, che sono magari perfetti ma non tengono dentro le cose che accadono.
Chiamare a raccolta le good practices di tutto il mondo
Qual è allora il compito dell’Expo? Qui viene fuori l’idea di sussidiarietà. C’è qualcuno che in giro per il mondo ha cominciato sul piano tecnologico, culturale, economico, ad affrontare il problema e a mostrarci qualcosa di significativo? Il premio Nobel Yunus, ideatore del microcredito, ha mostrato che si possono affrontare problemi di tipo economico con modelli non strettamente egoistici. Il microcredito non risolve i problemi del mondo, ma è una piccola esperienza significativa.
È una grande chiamata alle armi. L’Expo deve chiamare a raccolta le good practices di tutto il mondo, perché solo così si può capire che su 7 miliardi di persone, ce ne possono esser 100 milioni che possono provare ad affrontare la crisi. Un’Expo non è una rassegna dispersiva, e neanche un teorema; può essere l’esposizione di progetti, modi che raccontano e fanno vedere a tutti come si sta affrontando il problema. Quando si parla di sussidiarietà gli Stati devono essere molto più “forti”, perché si è molto più forti nel catalogare delle esperienze, che non nel fare tutto in casa. Ci vuole un forte soggetto culturale che sappia dire a tutti “venite a raccontare le vostre esperienze”, dalla multinazionale al piccolo esperimento sociale in un paese del Terzo mondo. Questo secondo me è il punto in cui si vice la battaglia culturale; ed è quello che dice sempre il sindaco Moratti, parlando di un centro per lo sviluppo in cui ci siano esperienze positive da tutto il mondo. Potremo vedere allora qualcosa di diverso dallo schema Fao: non qualcosa che pretende di risolvere i problemi, ma che dà una spinta.
Il modello “misto” italiano
L’Italia è un Paese fatto per questo: è il Paese del “misto”, del pubblico-privato, del grande-piccolo, dell’imprenditoria diffusa e delle realtà sociali. Un Paese centralizzato non può affrontare queste cose, può farlo invece un paese diversificato, “geneticamente” vario, che ha la biodiversità umana e imprenditoriale capace di dare mille soluzioni. Ecco perchè possiamo essere interessanti per molti Paesi, perché questi grandi problemi non si affrontano né con lo statalismo né con la multinazionale. Come diceva D’Alema, è il nostro stesso modello, ancor prima di entrare in “campo”, ad essere interessante. Abbiamo la potenzialità culturale per affrontare questa sfida. Poi, per farlo, bisogna essere insieme: dividersi su questo non ha senso, e soprattutto ci impedirebbe di portare a termine il progetto.
Partiamo dalla nostra tradizione culturale
Secondo me per rilanciare l’Italia bisogna crederci. E bisogna credere nel modello costruito, che è il modello chiave dell’Expo. Il nostro modello è: persona, società civile, economica, mondo relazionale. E Stato come somma di questo. Ma molti non ci credono, o dicono di non crederci. L’Italia si rilancia solo se si crede in questa tradizione che è anche la chiave per aprirsi agli altri. Se si ha una coscienza di quel che c’è qua, allora si può attrarre da fuori.
Ora, il tema dell’Expo è l’alimentazione: quindi questo soggetto, che è fatto di persona, realtà sociale ed economica, d’impresa ed ente pubblico, deve essere in grado di aprire il dialogo su questo argomento, attraendo la gente che ha lo stesso interesse. Questo è il modo per vincere la scommessa. Se non c’è questo, avremo cose raffazzonate e non avremo nessuno, neanche i nostri connazionali. La questione fondamentale oggi è la presa di conoscenza di questa forza culturale che è multipartisan, multiprofessionale, multisoggetto; una cosa simile funziona se ci sono le Università, le realtà sociali, il turismo.
Da questo punto di vista, il comitato organizzatore deve essere capace di operare come quando bisogna ottenere l’accreditamento, ed è quindi necessario che ci sia un alto livello di qualità. Dovranno esserci, ad esempio, 500 operatori turistici che fanno la loro offerta, e non un solo operatore in un regime di monopolio. Ci dovranno essere molte proposte culturali create nei vari paesi.
Concludo dicendo che sono un grande ammiratore dell’illuminismo lombardo, perché, invece di tagliare le testa, ha preso i lumi francesi insieme a tantissima gente diversa: socialisti ante litteram, liberali ante litteram, cattolici. Li ha messi insieme e ha creato una realtà pluralista. Questo illuminismo lombardo è nato in luoghi come i caffé, punti in cui si è cominciato a dialogare. È importante che nell’Expo ci siano punti del genere, dove si dialoga e si comincia a raccontare. Secondo me l’illuminismo del 2000 potrebbe essere utile anche per l’Expo.


LA ROBA SPUNTA CON LA NOIA
IL MAL DI VIVERE SI VINCE CON LA LIBERTÀ
DAVIDE RONDONI
Ora i dati raccontano di una valan­ga. Il consumo di droga, nel mon­do e anche nel nostro Paese, sta cam­biando e aumentando. Cambiano i ti­pi, e cambia la percezione del fenome­no specie tra i più giovani: non più una strana trasgressione ma una delle tan­te opportunità offerte dalla vita-mer­cato senza limiti. Una valanga di droga facilmente reperibile, consumabile, su cui nemmeno più agiscono il fascino o la dissuasione di un divieto. Quasi fos­se una specie di ansiolitico. Di leggero farmaco contro il mal di vivere, o sem­plicemente un passatempo. Una va­langa di droga che circola liberamente rendendo quasi ridicolo il dibattito sul­la liberalizzazione. È già un fenomeno libero. Perché è talmente voluto che nessuna legge ne può impedire il dila­gare. I liberalizzatori otterrebbero solo l’entrata dello Stato tra gli attori che lu­crano sul commercio facile e capillare che già avviene sotto i nostri occhi. Co­me se lo Stato decidendo di fare soldi sul veleno che i nostri ragazzi si buttano in corpo presumesse così di abbattere un mercato che è già così dilagante, così pervasivo (e a prezzi sensibilmente di­minuiti).
No, non sarà nessuna liberalizzazione – come non è stato nei Paesi che l’han­no adottata – a fermare questa valanga. Che è una valanga di soldi mossa da u­na valanga di noia. Lo sapeva e scrive­va il grande Charles Baudelaire, nel suo scritto contro l’hashish: i governi che vogliano controllare bene i propri go­vernati facilitino il consumo delle dro­ghe. Perché la droga è un veleno per la volontà, per la libertà, e dunque al di là delle infinite disquisizioni su quanto minano fisicamente chi le consuma, so­no di fatto un veleno per la parte più importante dell’uomo. Che non è il pol­mone, ma la libertà. Cosa interessa sa­pere se una certa erba fa male a livello dieci o cento? Il problema è la malattia della libertà che la droga provoca e di cui è segno in una società come la nostra. Si richiama il fatto che in taluni popoli antichi o remoti l’uso di certe droghe è consueto. Bene, ma vogliamo vedere quale era il livello di civiltà, di assoluti­smo e di scarsa libertà in quei popoli, ol­tre alle condizioni dure di vita. A que­sta valanga cosa opporre? Le leggi de­vono fare quel che possono. Ostacola­re, con minore ipocrisia possibile, at­taccare i nodi dove si fanno i miliardi sulla pelle della gente, lontano o vicino. Ma la valanga della noia e della man­canza di libertà potrà essere contrasta­ta solo da uomini non annoiati e non noiosi. E da uomini per i quali il gusto della libertà è più forte di qualsiasi sbal­lo. Già raccontai su queste colonne co­me in una grande scuola, chiedendo ai trecento ragazzi che erano seduti ad a­scoltare una lettura di poesie di indi­carmi il nome di una persona libera, di un adulto che ai loro occhi fosse esem­pio di libertà, non ottenni alcuna ri­sposta. Un popolo che si sente schiavo, che ha dentro il cuore il sapore di ferro delle sbarre, una folla di giovani che non trova da alcuna parte il sapore dell’in­finito ne cercherà qualche scadente e avvelenata imitazione. Un tempo lo fa­cevano pensando così di infrangere chissà che tabù, con l’acido senso di u­na sfida al luogo comune. Ora il luogo comune è pieno di fumo. È saturo di mille diverse droghe. E non resta nem­meno più, all’annoiato attuale, il gusto patetico della infrazione. È solo noia che segue a noia. E questo come avevano capito Baudelaire e anche il nostro Pa­vese è l’inizio della fine del mondo. Che non finirà in uno schianto, ma in una la­gna. Quella lagna della vita che la dro­ga, truffando le menti e i cuori, promette di interrompere e invece radica e diffon­de nell’animo e per le strade.
I numeri della valanga sono impressio­nanti. Danno il ritratto di una genera­zione ammalata nella libertà. Questo dato non sfugga a coloro che preten­dono di analizzare i vari generi di de­grado, compreso quello economico.


E PAZIENZA SE IL CHIERICO MICHELE SERRA HA MOSTRATO DI NON GRADIRE
L’audacia delle cose semplici. Gattuso ha provato a dirle

26 giugno 2008
MARINA CORRADI
« L e nozze omosessuali non mi trovano d’accordo. Per me le nozze sono tra un uomo e una donna. Io credo nella famiglia. E se credi nella famiglia e nella tua religione, non puoi essere d’accordo. Poi, siamo nel 2008, e ognuno fa quello che vuole » . Così ha detto Rino Gattuso, in una conferenza stampa alla vigilia di Italia- Spagna in cui i cronisti si sono divertiti a provocare su Zapatero e unioni gay il coriaceo milanista. Gattuso, che è di Corigliano Calabro e ha una faccia come quella di mille suoi conterranei emigrati in tutto il mondo, ha dato una risposta semplice: per me, le nozze sono tra un uomo e una donna. Ma è audace, di questi tempi, dire una cosa semplice. L’Arcigay risentita ha annunciato che avrebbe tifato per la Spagna, e pazienza. Poi dalle colonne di
Repubblica è giunta – breve, ironica – l’inevitabile ammonizione di Michele Serra. « I soldi – ha commentato grave Serra – non bastano a emancipare lo spirito, e dunque l’opinione di Gattuso rimane solidamente nell’alveo dell’eterna ingenuità popolare » . Per poi concludere: volendo, con tutti i soldi che Gattuso guadagna potrebbe comprarsi qualche giornale, e « addirittura » qualche libro in grado di spiegargli « come stanno le cose » . « Come stanno le cose » : che, naturalmente, stanno in un solo modo, e cioè quello condiviso da Michele Serra. Si legga qualche libro, quel calciatore ignorante, legga i giornali – Repubblica,
possibilmente. C’è tutto un modo di essere di certi intellettuali in quelle dieci righe. Un uomo, a domanda, civilmente risponde: per la mia storia e la mia religione, il matrimonio è fra un uomo e una donna. Si può non essere d’accordo.
Replicare invece « leggiti qualche libro » , « impara come stanno le cose » , sembra fare riferimento a una verità oggettiva, a un dogma. Le cose « stanno » in un modo, e Gattuso, affetto da « eterna ingenuità popolare » , colpevolmente lo ignora. Sotto la spocchia da maestro in cattedra di Serra emerge una nota aspra da chierico del politicamente corretto, che bacchetta chi devia dall’obbligatorio comune sentire. In realtà, un sondaggio fra gli italiani rivelerebbe che in moltissimi, pure nel rispetto per gli omosessuali, si riconoscono nella cosa semplice detta dal calciatore della nazionale: « Per me, le nozze sono fra un uomo e una donna » .
Tuttavia, nei media parla una classe di giornalisti e intellettuali che non proviene da questa cultura popolare, o la ha abbandonata – anche perché il vento soffiava in un’altra direzione. Così che leggendo certi quotidiani, ascoltando la radio, sembra spesso che l’Italia sia in preda a un’ansia di zapaterizzazione repressa da oscure forze clericali. Ma la « cosa semplice » detta da Gattuso è la stessa che – pure nella tolleranza e nel rispetto delle ' differenze' - direbbero i più degli italiani. « Popolari » forse, probabilmente non lettori chic e dunque non edotti su « come stanno le cose » ; tuttavia – diciamolo – la grande maggioranza. ( D’altronde, benché desueto, non è stato ancora abrogato un certo articolo della Costituzione, numero 29 ci pare, che « riconosce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio » ). Si riproduce in Italia un ' gioco' mediatico che già è stato analizzato negli Usa: c’è una disparità culturale, religiosa e anche economica fra il media system e la popolazione, per cui spesso la realtà rappresentata dai giornali non è quella del Paese. E un calciatore di Corigliano Calabro, scampato grazie ai piedi ( e alla testa) al destino di tanta della sua gente, se tuttavia la pensa ancora come dalle sue parti incappa nella rampogna del catechista del pensiero corretto obbligatorio.


Stevenson e la misericordia
Avvenire, 26 giugno 2008
DI FULVIO PANZERI
È la storia di un rapporto conflittuale con il padre, per affermare la sua li­bertà di scelta, la sua volontà di corri­spondere al proprio destino, quella che le­ga la ricerca religiosa del grande Robert Luis Stevenson, un aspetto senz’altro poco noto della sua biografia che ora viene riper­corso in un libro che raccoglie le sue lettere (e sono veramente molte) in cui Stevenson stesso spiega, come in un’autobiografia spirituale, il suo rapporto con la fede. Il ti­tolo del libro, edito da Archinto (pag. 184, euro 15,00), è assai emblematico in questo senso: Non sono un miscredente. Indicativo in quanto Stevenson rivendica a sé non la possibilità di essere ateo, come gli viene in­vece rinfacciato dal padre, quando viene a conoscenza delle idee del figlio (come si evince dalla lettera tratta dal libro che qui sotto pubbli­chiamo) ma quella di una di­versa visione del cristianesi­mo, l’immagine cioè di un Dio che non vede nell’esi­stenza dell’uomo solo il ca­stigo e la dannazione, ma che conduce soprattutto alla felicità. È una fedeltà ai prin­cipi originari del Vangelo che rivendica Stevenson: «Il prin­cipio di una ricompensa ha ucciso da tem­po il senso della pietà; e neppure la felicità, eterna e terrena che sia, rappresenta più u­na ricompensa per gli esseri umani. La feli­cità è una sosta al margine della strada, l’a­nima dell’uomo è il viaggio; siamo nati per lottare e assaporare il gusto della vita nei tentativi che facciamo e negli ostacoli che ci si oppongono».
È proprio per questo 'gusto della vita' che Stevenson rifiuta e si oppone alle gerarchie ecclesiastiche della Chiesa d’Inghilterra e il conflitto con il padre, fervente religioso, ne diventa l’emblema. Fin da giovane, rifiu­tando di intraprendere la strada dei maschi di famiglia, tutti ingegneri progettisti e co­struttori di fari, è molto chiaro con il padre: vuol diventare «uno scrittore, e niente al­tro ». Le reazioni del genitore sono già allora molto dure e la sua durezza diventerà an­cora più ferma quando verrà a conoscenza del suo modo di pensare sulla religione, creando in Stevenson un senso di rimorso: «Che dannazione sono per i miei genitori!
Mio padre mi ha detto: 'Hai fatto della mia vita un fallimento totale'. Mia madre mi ha detto: 'Questa è la peggior disgrazia che mi sia piombata addosso'». Lui non riesce a capire e in una lettera si difende, spiega le sue ragioni: «Naturalmente mio padre sta soffrendo le pene dell’inferno, ma che ci posso fare? Com’è che non capiscono che non sto giocando a fare il dissacratore scanzonato? Io non sono (come mi chia­mano) un irresponsabile miscredente. Ho una fede profonda quanto la loro, ma per­segue ragioni opposte: io sono, credo, one­sto quanto loro in ciò che difendo. Non ho maturato le mie convinzioni affrettatamen­te... Non credo proprio di meritare il mar­chio di 'orribile ateo' e ti confesso di non poter proprio mandar giù il proposito di mio padre di invocare con la preghiera continue afflizioni sul mio capo».
È un giovanissimo Stevenson quello che scrive, perché queste lettere coprono quasi per intero l’arco della vita di Stevenson, dall’adolescenza fino al settembre 1894, pochi mesi prima della morte improvvisa a cinquantaquattro anni, a causa dell’enne­sima e fatale emorragia polmonare, nella piantagione acquistata nell’isola di Samoa, fra gli indigeni e i cannibali della «tragica giungla». Una scelta questa che è ancora u­na volta in contraddizione e disubbidien­zia con quelli che erano i voleri del padre su di lui, che mai lo avrebbe voluto vedere lontano da casa. Invece quando il padre muore lui sceglierà di abbandonare l’In­ghilterra per la lontana Polinesia. E anche da qui, da questo angolo isolato del mon­do, le riflessioni sulla fede si fanno strin­genti. Nell’ultima lettera spiega che nonostante rifiuti il valore delle «chiese», crede «anima e corpo in un Dio, e in un Dio giusto: cosa voglia da me e con quale metro mi giudicherà, non lo so, né ri­tengo sia mio compito inda­gare, certo come sono della sua giustizia». È un aspetto che ha già sottolineato scri­vendo alla madre. Le dice che una volta abbracciata la fede che è il Vangelo è com­pito di ciascuno scoprire ciò che è giusto, cercare di metterlo in pratica e se si fallisce, in questo, cioè nell’azione «Cristo ci dice di sperare». E aggiunge: «Ciò che è necessario alla moralità sta nella mi­sericordia, che dovrebbe scaturire, per sua stessa natura, dalla dottrina fondamentale: la fede. Se si è certi che Dio, alla lunga, sarà misericordioso, allora si può essere felici, e quando si è felici, di sicuro, si è buoni».
Luciana Pirè, che ha curato egregiamente questo gran libro, scrive: «L’essere religioso per Louis non implica sottomissione a ge­rarchie e norme, ma definisce un’ansia di risposta agli eterni interrogativi sul destino degli esseri umani e un profondo desiderio di riscatto.... Essere religiosi significa in­nanzi tutto, esserci per gli altri».
In queste pagine va in scena la lotta col padre, che lo trattava da ateo, e si fa spazio una visione del rapporto fra Dio e l’uomo nel segno della felicità