Nella rassegna stampa di oggi
1) Famiglia sotto attacco Ue, così ci si può difendere
2) Quelle dell’Economist sono le critiche di chi vuole un’Italia debole, di Renato Farina
3) Ecco i principi su cui si basa il sistema sanitario lombardo
4) «I pazienti si fidano del no profit cattolico»
ANALISI Il Trattato di Lisbona e la giurisprudenza lasciano troppi margini di incertezza
Famiglia sotto attacco Ue, così ci si può difendere
La costituzionalista Marta Cartabia mette in evidenza i nodi critici su matrimonio e famiglia lasciati aperti dalla Ue. E indica quali margini abbiano governo e Parlamento per porre un argine all’invasione di competenze e allo stravolgimento dei modelli
Avvenire, 13 giugno 2008
In molti Paesi dell’Europa dei 27 ha già ottenuto l’approvazione parlamentare, in altri la procedura è ancora in corso. L’Irlanda è l’unico ad averlo reso oggetto di un accesissimo referendum di cui oggi sono attesi i risultati. Anche in Italia presto sarà discusso, visto che il presidente del Senato Schifani mercoledì ha assegnato il disegno di legge di ratifica ed esecuzione alla commissione Esteri di palazzo Madama. Firmato nella capitale portoghese il 13 dicembre 2007 dai capi di Stato e di governo degli Stati membri, il Trattato di Lisbona modifica il trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea, attualmente in vigore. Un passo importante per il futuro dell’Europa, che però non manca di qualche lato oscuro. Ad esempio, per le implicazioni che potrebbe avere sul diritto di famiglia, come ci spiega Marta Cartabia, ordinario di diritto costituzionale all’università di Milano Bicocca.
Professoressa, non abbiamo sempre detto che in materia di diritto di famiglia l’Unione europea non ha alcuna competenza?
Infatti è così. Per comprenderlo bisogna anzitutto ricordare un principio basilare che regge i rapporti tra l’Unione europea e gli Stati: l’Unione europea agisce soltanto nei settori in cui gli stati le hanno ceduto le loro competenze; viceversa, dove i trattati non affidano nessun compito alle istituzioni dell’Unione, lì le materie rimangono nelle competenze statali. Per quanto riguarda la famiglia, le istituzioni europee non hanno mai ricevuto una competenza e dunque questo settore è, in linea di principio, di spettanza di ciascuno Stato.
Questa materia non è mai stata attribuita alle istituzioni europee, perché troppo diversificate sono le tradizioni costituzionali nazionali in materia di famiglia e non c’è spazio per un’armonizzazione. Ad esempio, gli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione italiana non permettono il riconoscimento del matrimonio omosessuale, che invece esiste in altri Stati europei.
Le cose però non sono così semplici, perché la vita sociale non si presta ad essere suddivisa a compartimenti stagni e dunque ci sono alcune competenze delle isti- tuzioni europee che debordano nel diritto di famiglia e lo influenzano….
Questo accade già ora ad esempio quando le norme europee si occupano della libertà di circolazione dei lavoratori comunitari ed extracomunitari e stabiliscono i principi per la riunificazione familiare: le istituzioni europee agiscono nell’ambito della competenza 'libertà di circolazione dei lavoratori' che è stata loro attribuita, ma finiscono anche per influenzare il concetto di 'famiglia', che invece dovrebbe rimanere nelle competenze degli stati. Lo stesso accade per le direttive in materia di antidiscriminazione. Ancor di più accadrà con l’attribuzione del valore giuridico alla Carta dei diritti dell’Unione europea, che è uno degli effetti più rilevanti che si avranno con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Fino ad oggi, infatti, la Carta non aveva alcun valore giuridico vincolante, sebbene nella pratica fosse già applicato dalle Corti.
Quindi con l’approvazione del Trattato di Lisbona la Carta dei diritti dell’Unione europea diventerà vincolante. Qualcosa allora potrebbe cambierà nel diritto di famiglia?
La Carta dei diritti si occupa del diritto di sposarsi ed è scritta in modo tale da consentire il matrimonio omosessuale. Ciò non significa, naturalmente, che da essa discenderà un obbligo per gli Stati di approvarlo. Tuttavia, anche se le sue disposizioni finali dicono esplicitamente che i diritti protetti nella Carta non devono ampliare le competenze dell’Unione (e quindi lasciare il diritto di famiglia di competenza degli Stati, ndr), è difficile pensare che questo non accada. Inevitabilmente succederà che l’articolo 9 della Carta dei diritti sul diritto di sposarsi favorirà gli interventi dei giudici europei a favore del riconoscimento del matrimonio omosessuale. Ci sono molti segnali in questo senso sia nella giurisprudenza della Corte di giustizia di Lussemburgo, sia in quella della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo.
Non ci sono spazi di manovra per evitare che sia così?
Sì, e infatti il Regno unito e la Polonia hanno firmato una dichiarazione con la quale si esclude che la Carta dei diritti possa essere applicabile in sede giudiziaria nei loro Paesi. Anche l’Italia avrebbe potuto aderire a questa dichiarazione a suo tempo.
Ora è troppo tardi.
Cosa possono e devono fare, dunque, le istituzioni italiane di fronte alla invadenza del diritto europeo in materia di famiglia?
Se le nostre istituzioni vorranno mantenere i loro poteri in materia di diritto di famiglia e preservare la famiglia così come protetta dalla Costituzione italiana, gli strumenti non mancano. Il governo e il Parlamento italiano possono utilizzare i poteri che vengono loro riconosciuti dai protocolli sul principio di sussidiarietà per far valere, in sede di elaborazione delle norme europee, gli eventuali vizi di incompetenza delle azioni europee. In tal modo si possono fermare i progetti normativi che si occupano indebitamente della famiglia prima della loro entrata in vigore; inoltre le misure europee potranno essere impugnate eventualmente davanti alla Corte di giustizia.
In concreto quali sono gli strumenti a disposizione del Parlamento?
C’è una specifica norma – l’articolo 81 del trattato di Lisbona – che consente a ogni Parlamento nazionale di esercitare un potere di veto riguardo ai progetti di legislazione europea che hanno implicazioni transnazionali sul diritto di famiglia. Basterebbe, dunque, una presa di posizione anche del solo Parlamento italiano per fermare l’azione europea in materia di famiglia. Dunque se è vero che c’è una spiccata tendenza da parte delle istituzioni europee ad entrare nel delicato settore della famiglia, soprattutto per quanto riguarda i matrimoni omosessuali – come dimostra la sentenza della Corte di giustizia del 1 aprile 2008 che ha imposto alla Germania di attribuire la pensione di reversibilità alle coppie omosessuali legate da unione civile registrata – è anche vero che i nostri politici e i nostri organi giurisdizionali non sono condannati ad attendere inerti i cambiamenti che l’Europa tende a portare avanti. Gli strumenti per far sentire la voce dell’Italia ci sono: tutto dipende dalla loro responsabilità e dalla loro capacità di difendere le ragioni della famiglia nelle sedi europee.
Ilaria Nava
Quelle dell’Economist sono le critiche di chi vuole un’Italia debole
Renato Farina13/06/2008
Autore(i): Renato Farina. Pubblicato il 13/06/2008 – IlSussidiario.net
L’Economist ieri ha attaccato il clima politico di dialogo instauratosi in Italia tra maggioranza e opposizione, criticando Veltroni per indurlo a mutare rotta. Il settimanale britannico conferma così la sua natura di organo ufficioso di una potenza straniera con foschi disegni sull’Italia. Ha una singolare capacità di attrazione e di ispirazione tra gli adepti alla religione giacobina che vorrebbe dare tutto il potere ai giudizi e ai finanzieri internazionali.
E dire che gli asini parlano di interferenze vaticane, allorché il Papa e i vescovi esprimono giudizi su questioni essenziali riguardo alla vita umana, all’educazione e alla famiglia. Costoro – ahimè presenti anche sordamente nel Popolo della libertà e nella Lega - dimenticano che la Chiesa è per sua natura e per evidenza storica non una forza esterna ma addirittura intima alla coscienza e all’esperienza del nostro popolo. Il giudizio di Benedetto XVI sull’attuale stato della politica in Italia, espresso con la parola “gioia”, è oggi fondamentale per capire come quello che sta accadendo nel nostro Paese non è semplicemente una faccenda di bon ton, o una tattica propagandistica, o il risultato di simmetrici meschini interessi di destra e sinistra, ma corrisponde alle esigenze di una risposta alle emergenze educative ed esistenziali denunciate dal medesimo Papa e dal presidente Napolitano oltre che da personalità sensibili al destino del nostro popolo e della sua gioventù. L’Economist non vuole, non ama questa collaborazione tra famiglie spirituali e politiche diverse e anche in contrasto su cento cose, ma d’accordo sulle due o tre cose senza cui la barca va a fondo mentre i suoi ospiti cercano di affogarsi reciprocamente.
Contrastare questo clima, che non è affatto inciucesco ma semplicemente responsabile, è deleterio non solo per i lavori del parlamento ma per i riflessi sulla vita comune degli italiani. La guerra civile verbale e mentale ha segnato il passo: trovare nella cosiddetta autorevole stampa straniera i cultori nostalgici di un’epoca di delegittimazione reciproca tra avversari è una scoperta amara ma non proprio sorprendente.
Uno si domanda: perché? Basta fare quattro passi indietro. Inizi degli anni ’90. Allora come oggi l’Economist applica la sua sempiterna gerarchia di valori: sono bravi e buoni quanti demoliscono le strutture economiche e le certezze ideali del nostro popolo, creando demoralizzazione e sfinimento. Quindici anni fa l’Economist aveva per corrispondente da Roma Tana De Zulueta, sostiene l’antipolitica, ed è ascoltatissimo dai quotidiani come Corriere, Repubblica e Stampa. Appoggia senza se e senza ma l’azione di Di Pietro e di Mani pulite. Dopo qualche anno troveremo la De Zulueta in Senato con l’Ulivo, sempre in prima linea nella decorticazione morale dell’avversario. La Zulueta si è spostata rapidamente sulle posizioni giustizialiste alla Travaglio, per finire poi non rieletta quest’anno nella Sinistra avversa a Veltroni, a D’Alema e al Pd. La linea dell’Economist è in modo meno rupestre la stessa di Di Pietro. Impedire che ci sia pace in Italia. Insomma: l’Economist ha per filosofia una morale identica agli interessi della finanza internazionale, con base a Londra ma con importanti sodali a Milano e Roma. Essa vuole un’Italia debole e in caduta libera per candidare, come unico soggetto politico capace di risanare l’economia e di restituire credibilità al governo, la grande finanza e i suoi professori e tecnici.
L’Economist accusa per questo motivo Veltroni di “opposizione fantasma”, di essere troppo “carino” con Berlusconi. Non vuole tanto costringerlo a cambiare posizione, ma sfiduciarlo come traditore del patto e da cui nacque il Partito democratico e che ebbe in De Benedetti il socio fondatore. Non a caso viene attaccato anche Rutelli. Nel concreto oggi l’ideale sarebbe stato, anche sul prestito all’Alitalia, l’ostruzionismo insultante praticato dall’Italia dei Valori di Di Pietro. Chiari gli interessi: azzoppare l’Italia costringendo Alitalia a chiudere i battenti. Come al solito usando un piglio da colonizzatori in divisa kaki che vogliono insegnarci la morale per derubarci meglio.
Ecco i principi su cui si basa il sistema sanitario lombardo
Antonello Zangrandi13/06/2008
Autore(i): Antonello Zangrandi. Pubblicato il 13/06/2008 – IlSussidiario.net
Valutazione e controllo sono alla base di qualsiasi sistema professionale. Il cambiamento del sistema lombardo in questi anni è stato formidabile. Ecco alcuni dati, in sintesi, degli ultimi 10 anni:
- riduzione dei ricoveri ordinari (da 1,7 milioni a 1,5 milioni), che significa maggiore appropriatezza di erogazione dei servizi;
- mantenimento del numero di casi e del numero delle giornate di day hospital (tra 450 e 500mila casi all’anno per un milione di accessi circa);
- riduzione delle degenze medie (da 8,7 a 7,6 giornate), che significa maggiore capacità di risposta ai bisogni;
- passaggio della chirurgia poco complessa dal ricovero alla day surgey, con beneficio dei pazienti che possono essere assistiti a casa;
- riduzione dei ricoveri ordinari inappropriati, secondo quanto definito a livello nazionale (riduzione da oltre 2 milioni di giornate di degenza ospedaliera inappropriate a meno di 400 mila);
- creazione dello spazio per i bisogni nuovi di assistenza di una società che diventa più anziana, con cure palliative (oggi il 25% dei decessi di tumore è in reparti di cure palliative con oltre 300 letti attivi e programmi di estensione del servizio a livello domiciliare) e riabilitazione: in 10 anni si è passati da 1,5 a 2,2 milioni di giornate, pari al 60% in più.
Tutto questo peraltro non ha generato deficit, ma un effettivo equilibrio di bilancio. Questo cambiamento è stato sicuramente costruito su due capisaldi: il primo è la libertà di scelta, che significa di fatto promuovere una “gara” tra le strutture, soprattutto dove esistono molteplici strutture erogatrici di prestazioni; il secondo è la sussidiarietà, intesa come spazio alle iniziative del privato profit e non profit.
Questo cambiamento così forte si è basato sulla capacità dei soggetti privati, ma anche dei soggetti pubblici: questi ultimi, in questi anni, hanno profondamente modificato la loro capacità di offerta, le modalità di erogazione delle cure, la loro qualità, e anche i costi di produzione (forse questi non ancora a sufficienza).
In questo contesto così ricco e pieno di opportunità il ruolo di valutazione e controllo è fondante.
Ma cosa significa valutare? Innanzi tutto occorre sempre ricordare che i sistemi sanitari e le strutture che erogano prestazioni sanitarie sono per loro natura organizzazioni complesse. Il tema della valutazione in sanità è di conseguenza un’attività complessa. A livello internazionale si sono sviluppate metodologie e standard di riferimento basandosi sui quali sono possibili confronti. Peraltro occorre superare questa difficoltà perché è estremamente importante la valutazione delle strutture sanitarie al fine di mantenere una pressione positiva sull’organizzazione e uscire dall’autoreferenzialità.
In questa direzione la Regione Lombardia ha iniziato a sviluppare, in questi ultimi anni, un sistema di valutazione delle strutture sanitarie. Dapprima ha definito i requisiti per l’accreditamento regionale, poi ha introdotto gli standard della norma ISO. Infine, nell’ultima fase, ha iniziato ad utilizzare gli standard Joint Commission International, l’ente accreditante più grande al mondo, per valutare le strutture ospedaliere e le ASL. Il processo è agli inizi e gli standard introdotti sono solamente alcuni (accesso, diritti dei pazienti, continuità delle cure, gestione delle risorse umane, gestione delle informazioni, gestione e miglioramento della qualità e sicurezza dei pazienti). Sicuramente la specificità degli standard e il metodo di verifica degli stessi sul campo sono punti di forza che dovrebbero consentire un miglioramento del sistema stesso.
Occorre percorrere questa strada della valutazione fino in fondo. Di seguito tre proposte per valorizzare la ricchezza del cambiamento in questo momento.
1. Il tema del controllo non può essere solo esterno (fatto da funzionari) ma deve vedere i medici in primo piano. I professionisti devono svolgere effettivamente un’ opera di valutazione delle performance qualitative. Occorre una responsabilità professionale diffusa nelle strutture, atte a generare un clima positivo sotto il profilo professionale. La pura autoreferenzialità non paga: statistiche sulle attività svolte, valutazioni comparative a livello nazionale e internazionale sulle performance, accettazione di un sistema di qualificazione professionale come avviene in altri Paesi, sono la base fondamentale di una professione matura e qualitativa.
2. Il ruolo del paziente, l’informazione messa a disposizione del paziente, un effettivo “consenso informato” possono giocare un ruolo positivo rendendo maggiormente consapevole il paziente. Nell’ambito di questi ruoli già oggi presenti all’interno dell’ospedale, l’ufficio per le relazioni con il pubblico è anche organizzazione di difesa del cittadino e del paziente e può giocare un ruolo di controllo sociale e di segnalazione di comportamenti potenzialmente problematici.
3. Infine la valutazione nel merito è effettuata da un terzo soggetto che, in modo sistematico, con standard di riferimento specifico e con grande professionalità, possa verificare i comportamenti effettivamente riscontrati. Questo assume una grande utilità non solo per i pazienti, ma anche per i professionisti, che possono confrontarsi con colleghi che portano criteri di riferimento intenzionalmente riconosciuti.
La sussidiarietà è innanzitutto una responsabilità per tutti i soggetti (chi programma, chi gestisce e chi valuta): questa è la sfida di maturità che il sistema sanitario lombardo ora deve vincere.
La pessima situazione delle infrastrutture italiane e il tradimento delle generazioni future
Roberto Zucchetti13/06/2008
Autore(i): Roberto Zucchetti. Pubblicato il 13/06/2008 – IlSussidiario.net
Unioncamere, nella sesta Giornata dell’Economia, ha anticipato la diffusione di alcuni dati del rapporto sul mercato delle opere pubbliche in Italia, curato dal Cresme. In esso si evidenzia come "il ritardo infrastrutturale italiano è noto, da qualsiasi punto lo si guardi. Non è forse noto il fatto che questo ritardo è fortemente cresciuto in questi ultimi 15 anni, ma anche negli ultimi 5 anni".
Prendendo ad esempio la rete autostradale, un settore nel quale non abbiamo l’impressione di essere così drammaticamente arretrati, come invece nelle ferrovie o nei porti - nel 1980 avevamo una rete più estesa della Francia e lunga tre volte quella della Spagna. Oggi la rete francese supera la nostra del 65% e quella spagnola ci supera addirittura del 75%! Non solo: tra il 2000 ed il 2005 in Italia abbiamo aperto 64 chilometri di autostrade, contro i 1.035 della Francia e i 2.383 della Spagna.
Dati altrettanto sconcertanti sono quello relativi alla rete ferroviaria ad Alta Velocità. La Francia possiede infatti ben 1.893 Km di linee ad alta velocità, seguita dalla Spagna con 1.552 Km, dalla Germania con 1.300 Km; mentre l’Italia, con soli 580 Km, possiede attualmente una dotazione superiore solamente a quella del Belgio (120), e del Regno Unito (113). Il ritardo dell’Italia rispetto ai principali paesi europei diventa poi imbarazzante riferendoci alla rete delle metropolitane: nel nostro Paese i km di binari presenti su tutto il territorio sono 130, quando Madrid, da sola, ne ha 227, Parigi 211, Berlino 152, Stoccolma 100, Barcellona 87, per non parlare dei 408 km di Londra.
Questo continuo arretramento nella dotazione infrastrutturale deve essere motivo di grande preoccupazione, soprattutto in un momento come questo, nel quale comincia ad essere evidente che il rapido processo di globalizzazione non lascerà inalterati gli equilibri internazionali esistenti, ma sarà in grado di portare profondi e rapidi sconvolgimenti. L’Italia si trova al centro di grandi e crescenti flussi fisici di merci. Si potrebbe essere tentati di ritenere questo un fatto secondario: si argomenta spesso che le attività a maggiore valore aggiunto sono i servizi e le componenti “soft” dell’economia e che, quindi, la presenza di rilevanti flussi di merci appare un elemento di degrado ambientale, di disturbo, che impedisce, anziché favorire, lo sviluppo d’attività ad elevato valore aggiunto. Le esperienze degli operatori che noi rappresentiamo e gli studi che abbiamo sviluppato smentiscono nettamente questa ipotesi: i sistemi “regionali” più forti sono caratterizzati da grandi dimensioni e da elevata accessibilità passeggeri e merci, soprattutto di lunga e lunghissima distanza. Esistono, ovviamente, nicchie di eccellenza, piccoli sistemi locali in grado di primeggiare in qualche aspetto, dall’arte all’innovazione, ma non riescono ad avere la massa critica per salire ai vertici della gerarchia e quindi per attrarre e conservare le funzioni più elevate: ricerca scientifica, progettazione e design, finanza e governo dei processi complessi. La rigidità delle reti fisiche condiziona quindi la conformazione delle reti immateriali e le relazioni di trasporto costituiscono il presupposto necessario per sviluppare relazioni culturali, rapporti di scambio e alleanze politiche.
La globalizzazione richiede al nostro Paese di disporre di una grande accessibilità a scala planetaria e per questo è essenziale che esso si doti rapidamente di quelle infrastrutture che consentono l’arrivo ed il transito dei grandi flussi di passeggeri e merci. Discutendo e decidendo sull’assetto della portualità italiana, sulle nuove dorsali ferroviarie o sul futuro degli aeroporti non si deve dimenticare che è in gioco la collocazione dell’Italia nella competizione mondiale, oggi più che mai aperta. Eppure, pur all’interno di questo contesto, c’è chi continua a sostenere l’inutilità delle nuove infrastrutture, anzi la loro dannosità. Anche autorevoli economisti dimostrano, conti alla mano, che le grandi infrastrutture non sono economicamente convenienti e non superano il vaglio di severe analisi costi benefici. Tanto per citare un recente intervento, posiamo riferirci a “Una grande opera tutta da valutare" di Paolo Beria e Marco Ponti (http://www.lavoce.info , 27.05.2008). In questo articolo viene presentata un’analisi “costi-benefici” relativa all’Alta Velocità tra Roma e Napoli, che perviene alle seguenti conclusioni. "Applicando il saggio sociale di sconto ufficiale per l’Italia del 5 per cento, una vita tecnica molto lunga (trenta anni), e un valore residuo elevato (il 50 per cento), il valore attuale netto economico (Vane) per la collettività risulta pari a circa – 2,8 miliardi di euro: una clamorosa perdita di benessere collettivo, dato il grandissimo squilibrio tra costi e benefici sociali che emerge da questi calcoli". L’applicazione di un tasso di sconto del 5% può sembrare un dettaglio tecnico, peraltro in linea con le indicazioni della guida ufficiale per la certificazione degli investimenti, adottata dai Nuclei Regionali di Valutazione e Verifica degli investimenti pubblici. Una tale scelta, però, porta a sottovalutare enormemente i benefici che saranno ottenuti dalle generazioni future. Non a caso il 5% è il tasso di riferimento nella finanza privata: esso abbraccia l’arco temporale di una generazione (25 anni), valutando meno del 33% i benefici ottenuti oltre questo orizzonte temporale.
Come mostra il grafico, questo criterio valuta i benefici della generazione successiva a circa il 15% del loro effettivo valore e trascura quasi totalmente quelli delle generazioni ancora successive. Nessuna grande opera infrastrutturale risponde a questi criteri: se i nostri avi li avessero adottati, non avremmo oggi la galleria del Sempione o quella del Frejus. Anche in questo dato, apparentemente così tecnico, ma così influente nelle decisioni di investimento, si riafferma la drammatica miopia del nostro Paese, sempre più concentrato sulla gestione del presente e disinteressato della sorte delle generazioni future.
La linea blu segna il Valore Attuale Netto di un beneficio futuro. Con il passare del tempo (spostandosi verso la destra dell’asse delle ascisse) un beneficio sempre pari a 100 viene via via “deprezzato”. Il beneficio pari a 100 percepito da una persona che vivrà fra 25 anni viene valutato solo 37. Quello percepito da una persona che vivrà fra 50 anni intorno a 5 e pressoché nullo quello percepito da una persona che ne potrà beneficiare tra oltre 75 anni.
LA SANITÀ CHE FUNZIONA
«I pazienti si fidano del no profit cattolico»
L’apporto degli ospedali retti da religiosi è d’eccellenza, eppure le istituzioni stentano a riconoscerlo. Betori: fanno servizio pubblico
Avvenire, 13 giugno 2008
DA ROMA GIANNI SANTAMARIA
La sanità no profit di ispirazione cattolica è una risorsa al servizio di tutti. Ma le istituzioni stentano a riconoscerla pienamente – anche se il loro apporto valoriale e di eccellenza è fuori discussione – in uno scenario in cui il privato prende piede, come ha rivelato una ricerca (vedi articolo a fianco) presentata ieri al convegno Il no profit nell’assistenza ospedaliera in Italia. L’appuntamento per un confronto sulla materia è stato organizzato ieri al Gemelli dalla Cei, dall’Università Cattolica, dall’Associazione religiosa istituti socio sanitari (Aris ) e dall’Università Luiss.
Oggi, passati trent’anni dalla legge 833, che nel 1978 istituiva il Servizio sanitario nazionale – l’occasione per celebrare il convegno – il mondo cattolico è, come allora «in prima linea», ha sottolineato nel suo saluto il segretario della Cei, monsignor Giuseppe Betori. Con una serie di istituti che pur ecclesiali, «si pongono però nell’ottica del servizio pubblico». Però, «sappiamo tutti come i mutamenti dello scenario economico e le riforme legislative successive al 1978 hanno por- tato le strutture sanitarie cattoliche a una situazione di crisi economica». Che è inversamente proporzionale al grado di fiducia di cui gode tra i cittadini «per la qualità delle prestazioni erogate», senza però che ciò si traduca «nel pieno riconoscimento della loro funzione pubblica e delle conseguenti indennità da parte delle Regioni ». Eppure l’«ospedalità di matrice ecclesiale», ha sottolineato Betori, nella sua «plurisecolare storia» ha dato un «contributo rilevante sia culturale sia operativo all’affermazione del diritto alla salute per tutti», sancito dalla carta Costitutzionale nel 1948.
Si è detto contento di partecipare a un convegno di quel no profit che è «lontanissimo dai sospetti sul privato non virtuoso che aleggiano in questi giorni ». Così si è espresso il sottosegreta- rio alla Salute Ferruccio Fazio, riferendosi alle vicende della clinica milanese su cui ieri ha riferito in Senato e per le quali si è detto «scosso», invitando a distinguere il buon privato e il buon pubblico da ciò che non lo è. Il rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi ha inquadrato il no profit cattolico non solo come supplenza alle carenze del welfare statale. Esso «non solo porta i suoi valori, ma anche rigore, efficienza e qualche caso esemplare ». Per l’ex preside di Scienze politiche la salute è tema politico per eccellenza, poiché su di essa «si gioca il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione». Infine. l’invito a non aggiungere all’emergenza educativa, anche una «emergenza salute».
A dare plastica rappresentazione alle difficoltà, ma anche a una «scelta significativa e coraggiosa» ci ha pensato fratel Mario Bonora, presidente dell’Aris: 241 istituti di vario tipo per un totale di 27mila posti letto e 10mila assistiti, che svolgono il 70% di tutte le prestazioni riabilitative. C’è una crisi di vocazioni che si intreccia con quella economica, ha sottolineato con un esempio: «Per ogni suora che viene a mancare bisogna assumere tre operatori». Poi, non ci sono agevolazioni contrattuali, non ripianamenti di deficit. C’è, invece, il paradosso di essere sottoposti a tetti per le prestazioni rimborsabili, ma con l’obbligo a effettuarne lo stesso, anche se eccedenti. Bonora ha parlato di «grave ingiustizia », perché non si tratta della «Chiesa che vuole privilegi, questa è una bufala, noi vogliamo ciò che la legge ci riconosce ». Cioè «trattamento paritario, che oggi di fatto non esiste».
Al convegno hanno partecipato, oltre a medici ed economisti, anche il noepresidente della Commissione Cei per il servizio della carità e la salute, il vescovo di Lodi Giuseppe Merisi e il direttore dell’ufficio nazionale di settore, don Andrea Manto. Quest’ultimo ha inserito il convegno in una più ampia riflessione che la Cei sta conducendo. E ha ricordato l’importanza del principio di sussidiarietà, al quale le strutture cattoliche danno corpo nello scenario di un federalismo che sta diventano sempre più incisivo.
1) Famiglia sotto attacco Ue, così ci si può difendere
2) Quelle dell’Economist sono le critiche di chi vuole un’Italia debole, di Renato Farina
3) Ecco i principi su cui si basa il sistema sanitario lombardo
4) «I pazienti si fidano del no profit cattolico»
ANALISI Il Trattato di Lisbona e la giurisprudenza lasciano troppi margini di incertezza
Famiglia sotto attacco Ue, così ci si può difendere
La costituzionalista Marta Cartabia mette in evidenza i nodi critici su matrimonio e famiglia lasciati aperti dalla Ue. E indica quali margini abbiano governo e Parlamento per porre un argine all’invasione di competenze e allo stravolgimento dei modelli
Avvenire, 13 giugno 2008
In molti Paesi dell’Europa dei 27 ha già ottenuto l’approvazione parlamentare, in altri la procedura è ancora in corso. L’Irlanda è l’unico ad averlo reso oggetto di un accesissimo referendum di cui oggi sono attesi i risultati. Anche in Italia presto sarà discusso, visto che il presidente del Senato Schifani mercoledì ha assegnato il disegno di legge di ratifica ed esecuzione alla commissione Esteri di palazzo Madama. Firmato nella capitale portoghese il 13 dicembre 2007 dai capi di Stato e di governo degli Stati membri, il Trattato di Lisbona modifica il trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea, attualmente in vigore. Un passo importante per il futuro dell’Europa, che però non manca di qualche lato oscuro. Ad esempio, per le implicazioni che potrebbe avere sul diritto di famiglia, come ci spiega Marta Cartabia, ordinario di diritto costituzionale all’università di Milano Bicocca.
Professoressa, non abbiamo sempre detto che in materia di diritto di famiglia l’Unione europea non ha alcuna competenza?
Infatti è così. Per comprenderlo bisogna anzitutto ricordare un principio basilare che regge i rapporti tra l’Unione europea e gli Stati: l’Unione europea agisce soltanto nei settori in cui gli stati le hanno ceduto le loro competenze; viceversa, dove i trattati non affidano nessun compito alle istituzioni dell’Unione, lì le materie rimangono nelle competenze statali. Per quanto riguarda la famiglia, le istituzioni europee non hanno mai ricevuto una competenza e dunque questo settore è, in linea di principio, di spettanza di ciascuno Stato.
Questa materia non è mai stata attribuita alle istituzioni europee, perché troppo diversificate sono le tradizioni costituzionali nazionali in materia di famiglia e non c’è spazio per un’armonizzazione. Ad esempio, gli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione italiana non permettono il riconoscimento del matrimonio omosessuale, che invece esiste in altri Stati europei.
Le cose però non sono così semplici, perché la vita sociale non si presta ad essere suddivisa a compartimenti stagni e dunque ci sono alcune competenze delle isti- tuzioni europee che debordano nel diritto di famiglia e lo influenzano….
Questo accade già ora ad esempio quando le norme europee si occupano della libertà di circolazione dei lavoratori comunitari ed extracomunitari e stabiliscono i principi per la riunificazione familiare: le istituzioni europee agiscono nell’ambito della competenza 'libertà di circolazione dei lavoratori' che è stata loro attribuita, ma finiscono anche per influenzare il concetto di 'famiglia', che invece dovrebbe rimanere nelle competenze degli stati. Lo stesso accade per le direttive in materia di antidiscriminazione. Ancor di più accadrà con l’attribuzione del valore giuridico alla Carta dei diritti dell’Unione europea, che è uno degli effetti più rilevanti che si avranno con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Fino ad oggi, infatti, la Carta non aveva alcun valore giuridico vincolante, sebbene nella pratica fosse già applicato dalle Corti.
Quindi con l’approvazione del Trattato di Lisbona la Carta dei diritti dell’Unione europea diventerà vincolante. Qualcosa allora potrebbe cambierà nel diritto di famiglia?
La Carta dei diritti si occupa del diritto di sposarsi ed è scritta in modo tale da consentire il matrimonio omosessuale. Ciò non significa, naturalmente, che da essa discenderà un obbligo per gli Stati di approvarlo. Tuttavia, anche se le sue disposizioni finali dicono esplicitamente che i diritti protetti nella Carta non devono ampliare le competenze dell’Unione (e quindi lasciare il diritto di famiglia di competenza degli Stati, ndr), è difficile pensare che questo non accada. Inevitabilmente succederà che l’articolo 9 della Carta dei diritti sul diritto di sposarsi favorirà gli interventi dei giudici europei a favore del riconoscimento del matrimonio omosessuale. Ci sono molti segnali in questo senso sia nella giurisprudenza della Corte di giustizia di Lussemburgo, sia in quella della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo.
Non ci sono spazi di manovra per evitare che sia così?
Sì, e infatti il Regno unito e la Polonia hanno firmato una dichiarazione con la quale si esclude che la Carta dei diritti possa essere applicabile in sede giudiziaria nei loro Paesi. Anche l’Italia avrebbe potuto aderire a questa dichiarazione a suo tempo.
Ora è troppo tardi.
Cosa possono e devono fare, dunque, le istituzioni italiane di fronte alla invadenza del diritto europeo in materia di famiglia?
Se le nostre istituzioni vorranno mantenere i loro poteri in materia di diritto di famiglia e preservare la famiglia così come protetta dalla Costituzione italiana, gli strumenti non mancano. Il governo e il Parlamento italiano possono utilizzare i poteri che vengono loro riconosciuti dai protocolli sul principio di sussidiarietà per far valere, in sede di elaborazione delle norme europee, gli eventuali vizi di incompetenza delle azioni europee. In tal modo si possono fermare i progetti normativi che si occupano indebitamente della famiglia prima della loro entrata in vigore; inoltre le misure europee potranno essere impugnate eventualmente davanti alla Corte di giustizia.
In concreto quali sono gli strumenti a disposizione del Parlamento?
C’è una specifica norma – l’articolo 81 del trattato di Lisbona – che consente a ogni Parlamento nazionale di esercitare un potere di veto riguardo ai progetti di legislazione europea che hanno implicazioni transnazionali sul diritto di famiglia. Basterebbe, dunque, una presa di posizione anche del solo Parlamento italiano per fermare l’azione europea in materia di famiglia. Dunque se è vero che c’è una spiccata tendenza da parte delle istituzioni europee ad entrare nel delicato settore della famiglia, soprattutto per quanto riguarda i matrimoni omosessuali – come dimostra la sentenza della Corte di giustizia del 1 aprile 2008 che ha imposto alla Germania di attribuire la pensione di reversibilità alle coppie omosessuali legate da unione civile registrata – è anche vero che i nostri politici e i nostri organi giurisdizionali non sono condannati ad attendere inerti i cambiamenti che l’Europa tende a portare avanti. Gli strumenti per far sentire la voce dell’Italia ci sono: tutto dipende dalla loro responsabilità e dalla loro capacità di difendere le ragioni della famiglia nelle sedi europee.
Ilaria Nava
Quelle dell’Economist sono le critiche di chi vuole un’Italia debole
Renato Farina13/06/2008
Autore(i): Renato Farina. Pubblicato il 13/06/2008 – IlSussidiario.net
L’Economist ieri ha attaccato il clima politico di dialogo instauratosi in Italia tra maggioranza e opposizione, criticando Veltroni per indurlo a mutare rotta. Il settimanale britannico conferma così la sua natura di organo ufficioso di una potenza straniera con foschi disegni sull’Italia. Ha una singolare capacità di attrazione e di ispirazione tra gli adepti alla religione giacobina che vorrebbe dare tutto il potere ai giudizi e ai finanzieri internazionali.
E dire che gli asini parlano di interferenze vaticane, allorché il Papa e i vescovi esprimono giudizi su questioni essenziali riguardo alla vita umana, all’educazione e alla famiglia. Costoro – ahimè presenti anche sordamente nel Popolo della libertà e nella Lega - dimenticano che la Chiesa è per sua natura e per evidenza storica non una forza esterna ma addirittura intima alla coscienza e all’esperienza del nostro popolo. Il giudizio di Benedetto XVI sull’attuale stato della politica in Italia, espresso con la parola “gioia”, è oggi fondamentale per capire come quello che sta accadendo nel nostro Paese non è semplicemente una faccenda di bon ton, o una tattica propagandistica, o il risultato di simmetrici meschini interessi di destra e sinistra, ma corrisponde alle esigenze di una risposta alle emergenze educative ed esistenziali denunciate dal medesimo Papa e dal presidente Napolitano oltre che da personalità sensibili al destino del nostro popolo e della sua gioventù. L’Economist non vuole, non ama questa collaborazione tra famiglie spirituali e politiche diverse e anche in contrasto su cento cose, ma d’accordo sulle due o tre cose senza cui la barca va a fondo mentre i suoi ospiti cercano di affogarsi reciprocamente.
Contrastare questo clima, che non è affatto inciucesco ma semplicemente responsabile, è deleterio non solo per i lavori del parlamento ma per i riflessi sulla vita comune degli italiani. La guerra civile verbale e mentale ha segnato il passo: trovare nella cosiddetta autorevole stampa straniera i cultori nostalgici di un’epoca di delegittimazione reciproca tra avversari è una scoperta amara ma non proprio sorprendente.
Uno si domanda: perché? Basta fare quattro passi indietro. Inizi degli anni ’90. Allora come oggi l’Economist applica la sua sempiterna gerarchia di valori: sono bravi e buoni quanti demoliscono le strutture economiche e le certezze ideali del nostro popolo, creando demoralizzazione e sfinimento. Quindici anni fa l’Economist aveva per corrispondente da Roma Tana De Zulueta, sostiene l’antipolitica, ed è ascoltatissimo dai quotidiani come Corriere, Repubblica e Stampa. Appoggia senza se e senza ma l’azione di Di Pietro e di Mani pulite. Dopo qualche anno troveremo la De Zulueta in Senato con l’Ulivo, sempre in prima linea nella decorticazione morale dell’avversario. La Zulueta si è spostata rapidamente sulle posizioni giustizialiste alla Travaglio, per finire poi non rieletta quest’anno nella Sinistra avversa a Veltroni, a D’Alema e al Pd. La linea dell’Economist è in modo meno rupestre la stessa di Di Pietro. Impedire che ci sia pace in Italia. Insomma: l’Economist ha per filosofia una morale identica agli interessi della finanza internazionale, con base a Londra ma con importanti sodali a Milano e Roma. Essa vuole un’Italia debole e in caduta libera per candidare, come unico soggetto politico capace di risanare l’economia e di restituire credibilità al governo, la grande finanza e i suoi professori e tecnici.
L’Economist accusa per questo motivo Veltroni di “opposizione fantasma”, di essere troppo “carino” con Berlusconi. Non vuole tanto costringerlo a cambiare posizione, ma sfiduciarlo come traditore del patto e da cui nacque il Partito democratico e che ebbe in De Benedetti il socio fondatore. Non a caso viene attaccato anche Rutelli. Nel concreto oggi l’ideale sarebbe stato, anche sul prestito all’Alitalia, l’ostruzionismo insultante praticato dall’Italia dei Valori di Di Pietro. Chiari gli interessi: azzoppare l’Italia costringendo Alitalia a chiudere i battenti. Come al solito usando un piglio da colonizzatori in divisa kaki che vogliono insegnarci la morale per derubarci meglio.
Ecco i principi su cui si basa il sistema sanitario lombardo
Antonello Zangrandi13/06/2008
Autore(i): Antonello Zangrandi. Pubblicato il 13/06/2008 – IlSussidiario.net
Valutazione e controllo sono alla base di qualsiasi sistema professionale. Il cambiamento del sistema lombardo in questi anni è stato formidabile. Ecco alcuni dati, in sintesi, degli ultimi 10 anni:
- riduzione dei ricoveri ordinari (da 1,7 milioni a 1,5 milioni), che significa maggiore appropriatezza di erogazione dei servizi;
- mantenimento del numero di casi e del numero delle giornate di day hospital (tra 450 e 500mila casi all’anno per un milione di accessi circa);
- riduzione delle degenze medie (da 8,7 a 7,6 giornate), che significa maggiore capacità di risposta ai bisogni;
- passaggio della chirurgia poco complessa dal ricovero alla day surgey, con beneficio dei pazienti che possono essere assistiti a casa;
- riduzione dei ricoveri ordinari inappropriati, secondo quanto definito a livello nazionale (riduzione da oltre 2 milioni di giornate di degenza ospedaliera inappropriate a meno di 400 mila);
- creazione dello spazio per i bisogni nuovi di assistenza di una società che diventa più anziana, con cure palliative (oggi il 25% dei decessi di tumore è in reparti di cure palliative con oltre 300 letti attivi e programmi di estensione del servizio a livello domiciliare) e riabilitazione: in 10 anni si è passati da 1,5 a 2,2 milioni di giornate, pari al 60% in più.
Tutto questo peraltro non ha generato deficit, ma un effettivo equilibrio di bilancio. Questo cambiamento è stato sicuramente costruito su due capisaldi: il primo è la libertà di scelta, che significa di fatto promuovere una “gara” tra le strutture, soprattutto dove esistono molteplici strutture erogatrici di prestazioni; il secondo è la sussidiarietà, intesa come spazio alle iniziative del privato profit e non profit.
Questo cambiamento così forte si è basato sulla capacità dei soggetti privati, ma anche dei soggetti pubblici: questi ultimi, in questi anni, hanno profondamente modificato la loro capacità di offerta, le modalità di erogazione delle cure, la loro qualità, e anche i costi di produzione (forse questi non ancora a sufficienza).
In questo contesto così ricco e pieno di opportunità il ruolo di valutazione e controllo è fondante.
Ma cosa significa valutare? Innanzi tutto occorre sempre ricordare che i sistemi sanitari e le strutture che erogano prestazioni sanitarie sono per loro natura organizzazioni complesse. Il tema della valutazione in sanità è di conseguenza un’attività complessa. A livello internazionale si sono sviluppate metodologie e standard di riferimento basandosi sui quali sono possibili confronti. Peraltro occorre superare questa difficoltà perché è estremamente importante la valutazione delle strutture sanitarie al fine di mantenere una pressione positiva sull’organizzazione e uscire dall’autoreferenzialità.
In questa direzione la Regione Lombardia ha iniziato a sviluppare, in questi ultimi anni, un sistema di valutazione delle strutture sanitarie. Dapprima ha definito i requisiti per l’accreditamento regionale, poi ha introdotto gli standard della norma ISO. Infine, nell’ultima fase, ha iniziato ad utilizzare gli standard Joint Commission International, l’ente accreditante più grande al mondo, per valutare le strutture ospedaliere e le ASL. Il processo è agli inizi e gli standard introdotti sono solamente alcuni (accesso, diritti dei pazienti, continuità delle cure, gestione delle risorse umane, gestione delle informazioni, gestione e miglioramento della qualità e sicurezza dei pazienti). Sicuramente la specificità degli standard e il metodo di verifica degli stessi sul campo sono punti di forza che dovrebbero consentire un miglioramento del sistema stesso.
Occorre percorrere questa strada della valutazione fino in fondo. Di seguito tre proposte per valorizzare la ricchezza del cambiamento in questo momento.
1. Il tema del controllo non può essere solo esterno (fatto da funzionari) ma deve vedere i medici in primo piano. I professionisti devono svolgere effettivamente un’ opera di valutazione delle performance qualitative. Occorre una responsabilità professionale diffusa nelle strutture, atte a generare un clima positivo sotto il profilo professionale. La pura autoreferenzialità non paga: statistiche sulle attività svolte, valutazioni comparative a livello nazionale e internazionale sulle performance, accettazione di un sistema di qualificazione professionale come avviene in altri Paesi, sono la base fondamentale di una professione matura e qualitativa.
2. Il ruolo del paziente, l’informazione messa a disposizione del paziente, un effettivo “consenso informato” possono giocare un ruolo positivo rendendo maggiormente consapevole il paziente. Nell’ambito di questi ruoli già oggi presenti all’interno dell’ospedale, l’ufficio per le relazioni con il pubblico è anche organizzazione di difesa del cittadino e del paziente e può giocare un ruolo di controllo sociale e di segnalazione di comportamenti potenzialmente problematici.
3. Infine la valutazione nel merito è effettuata da un terzo soggetto che, in modo sistematico, con standard di riferimento specifico e con grande professionalità, possa verificare i comportamenti effettivamente riscontrati. Questo assume una grande utilità non solo per i pazienti, ma anche per i professionisti, che possono confrontarsi con colleghi che portano criteri di riferimento intenzionalmente riconosciuti.
La sussidiarietà è innanzitutto una responsabilità per tutti i soggetti (chi programma, chi gestisce e chi valuta): questa è la sfida di maturità che il sistema sanitario lombardo ora deve vincere.
La pessima situazione delle infrastrutture italiane e il tradimento delle generazioni future
Roberto Zucchetti13/06/2008
Autore(i): Roberto Zucchetti. Pubblicato il 13/06/2008 – IlSussidiario.net
Unioncamere, nella sesta Giornata dell’Economia, ha anticipato la diffusione di alcuni dati del rapporto sul mercato delle opere pubbliche in Italia, curato dal Cresme. In esso si evidenzia come "il ritardo infrastrutturale italiano è noto, da qualsiasi punto lo si guardi. Non è forse noto il fatto che questo ritardo è fortemente cresciuto in questi ultimi 15 anni, ma anche negli ultimi 5 anni".
Prendendo ad esempio la rete autostradale, un settore nel quale non abbiamo l’impressione di essere così drammaticamente arretrati, come invece nelle ferrovie o nei porti - nel 1980 avevamo una rete più estesa della Francia e lunga tre volte quella della Spagna. Oggi la rete francese supera la nostra del 65% e quella spagnola ci supera addirittura del 75%! Non solo: tra il 2000 ed il 2005 in Italia abbiamo aperto 64 chilometri di autostrade, contro i 1.035 della Francia e i 2.383 della Spagna.
Dati altrettanto sconcertanti sono quello relativi alla rete ferroviaria ad Alta Velocità. La Francia possiede infatti ben 1.893 Km di linee ad alta velocità, seguita dalla Spagna con 1.552 Km, dalla Germania con 1.300 Km; mentre l’Italia, con soli 580 Km, possiede attualmente una dotazione superiore solamente a quella del Belgio (120), e del Regno Unito (113). Il ritardo dell’Italia rispetto ai principali paesi europei diventa poi imbarazzante riferendoci alla rete delle metropolitane: nel nostro Paese i km di binari presenti su tutto il territorio sono 130, quando Madrid, da sola, ne ha 227, Parigi 211, Berlino 152, Stoccolma 100, Barcellona 87, per non parlare dei 408 km di Londra.
Questo continuo arretramento nella dotazione infrastrutturale deve essere motivo di grande preoccupazione, soprattutto in un momento come questo, nel quale comincia ad essere evidente che il rapido processo di globalizzazione non lascerà inalterati gli equilibri internazionali esistenti, ma sarà in grado di portare profondi e rapidi sconvolgimenti. L’Italia si trova al centro di grandi e crescenti flussi fisici di merci. Si potrebbe essere tentati di ritenere questo un fatto secondario: si argomenta spesso che le attività a maggiore valore aggiunto sono i servizi e le componenti “soft” dell’economia e che, quindi, la presenza di rilevanti flussi di merci appare un elemento di degrado ambientale, di disturbo, che impedisce, anziché favorire, lo sviluppo d’attività ad elevato valore aggiunto. Le esperienze degli operatori che noi rappresentiamo e gli studi che abbiamo sviluppato smentiscono nettamente questa ipotesi: i sistemi “regionali” più forti sono caratterizzati da grandi dimensioni e da elevata accessibilità passeggeri e merci, soprattutto di lunga e lunghissima distanza. Esistono, ovviamente, nicchie di eccellenza, piccoli sistemi locali in grado di primeggiare in qualche aspetto, dall’arte all’innovazione, ma non riescono ad avere la massa critica per salire ai vertici della gerarchia e quindi per attrarre e conservare le funzioni più elevate: ricerca scientifica, progettazione e design, finanza e governo dei processi complessi. La rigidità delle reti fisiche condiziona quindi la conformazione delle reti immateriali e le relazioni di trasporto costituiscono il presupposto necessario per sviluppare relazioni culturali, rapporti di scambio e alleanze politiche.
La globalizzazione richiede al nostro Paese di disporre di una grande accessibilità a scala planetaria e per questo è essenziale che esso si doti rapidamente di quelle infrastrutture che consentono l’arrivo ed il transito dei grandi flussi di passeggeri e merci. Discutendo e decidendo sull’assetto della portualità italiana, sulle nuove dorsali ferroviarie o sul futuro degli aeroporti non si deve dimenticare che è in gioco la collocazione dell’Italia nella competizione mondiale, oggi più che mai aperta. Eppure, pur all’interno di questo contesto, c’è chi continua a sostenere l’inutilità delle nuove infrastrutture, anzi la loro dannosità. Anche autorevoli economisti dimostrano, conti alla mano, che le grandi infrastrutture non sono economicamente convenienti e non superano il vaglio di severe analisi costi benefici. Tanto per citare un recente intervento, posiamo riferirci a “Una grande opera tutta da valutare" di Paolo Beria e Marco Ponti (http://www.lavoce.info , 27.05.2008). In questo articolo viene presentata un’analisi “costi-benefici” relativa all’Alta Velocità tra Roma e Napoli, che perviene alle seguenti conclusioni. "Applicando il saggio sociale di sconto ufficiale per l’Italia del 5 per cento, una vita tecnica molto lunga (trenta anni), e un valore residuo elevato (il 50 per cento), il valore attuale netto economico (Vane) per la collettività risulta pari a circa – 2,8 miliardi di euro: una clamorosa perdita di benessere collettivo, dato il grandissimo squilibrio tra costi e benefici sociali che emerge da questi calcoli". L’applicazione di un tasso di sconto del 5% può sembrare un dettaglio tecnico, peraltro in linea con le indicazioni della guida ufficiale per la certificazione degli investimenti, adottata dai Nuclei Regionali di Valutazione e Verifica degli investimenti pubblici. Una tale scelta, però, porta a sottovalutare enormemente i benefici che saranno ottenuti dalle generazioni future. Non a caso il 5% è il tasso di riferimento nella finanza privata: esso abbraccia l’arco temporale di una generazione (25 anni), valutando meno del 33% i benefici ottenuti oltre questo orizzonte temporale.
Come mostra il grafico, questo criterio valuta i benefici della generazione successiva a circa il 15% del loro effettivo valore e trascura quasi totalmente quelli delle generazioni ancora successive. Nessuna grande opera infrastrutturale risponde a questi criteri: se i nostri avi li avessero adottati, non avremmo oggi la galleria del Sempione o quella del Frejus. Anche in questo dato, apparentemente così tecnico, ma così influente nelle decisioni di investimento, si riafferma la drammatica miopia del nostro Paese, sempre più concentrato sulla gestione del presente e disinteressato della sorte delle generazioni future.
La linea blu segna il Valore Attuale Netto di un beneficio futuro. Con il passare del tempo (spostandosi verso la destra dell’asse delle ascisse) un beneficio sempre pari a 100 viene via via “deprezzato”. Il beneficio pari a 100 percepito da una persona che vivrà fra 25 anni viene valutato solo 37. Quello percepito da una persona che vivrà fra 50 anni intorno a 5 e pressoché nullo quello percepito da una persona che ne potrà beneficiare tra oltre 75 anni.
LA SANITÀ CHE FUNZIONA
«I pazienti si fidano del no profit cattolico»
L’apporto degli ospedali retti da religiosi è d’eccellenza, eppure le istituzioni stentano a riconoscerlo. Betori: fanno servizio pubblico
Avvenire, 13 giugno 2008
DA ROMA GIANNI SANTAMARIA
La sanità no profit di ispirazione cattolica è una risorsa al servizio di tutti. Ma le istituzioni stentano a riconoscerla pienamente – anche se il loro apporto valoriale e di eccellenza è fuori discussione – in uno scenario in cui il privato prende piede, come ha rivelato una ricerca (vedi articolo a fianco) presentata ieri al convegno Il no profit nell’assistenza ospedaliera in Italia. L’appuntamento per un confronto sulla materia è stato organizzato ieri al Gemelli dalla Cei, dall’Università Cattolica, dall’Associazione religiosa istituti socio sanitari (Aris ) e dall’Università Luiss.
Oggi, passati trent’anni dalla legge 833, che nel 1978 istituiva il Servizio sanitario nazionale – l’occasione per celebrare il convegno – il mondo cattolico è, come allora «in prima linea», ha sottolineato nel suo saluto il segretario della Cei, monsignor Giuseppe Betori. Con una serie di istituti che pur ecclesiali, «si pongono però nell’ottica del servizio pubblico». Però, «sappiamo tutti come i mutamenti dello scenario economico e le riforme legislative successive al 1978 hanno por- tato le strutture sanitarie cattoliche a una situazione di crisi economica». Che è inversamente proporzionale al grado di fiducia di cui gode tra i cittadini «per la qualità delle prestazioni erogate», senza però che ciò si traduca «nel pieno riconoscimento della loro funzione pubblica e delle conseguenti indennità da parte delle Regioni ». Eppure l’«ospedalità di matrice ecclesiale», ha sottolineato Betori, nella sua «plurisecolare storia» ha dato un «contributo rilevante sia culturale sia operativo all’affermazione del diritto alla salute per tutti», sancito dalla carta Costitutzionale nel 1948.
Si è detto contento di partecipare a un convegno di quel no profit che è «lontanissimo dai sospetti sul privato non virtuoso che aleggiano in questi giorni ». Così si è espresso il sottosegreta- rio alla Salute Ferruccio Fazio, riferendosi alle vicende della clinica milanese su cui ieri ha riferito in Senato e per le quali si è detto «scosso», invitando a distinguere il buon privato e il buon pubblico da ciò che non lo è. Il rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi ha inquadrato il no profit cattolico non solo come supplenza alle carenze del welfare statale. Esso «non solo porta i suoi valori, ma anche rigore, efficienza e qualche caso esemplare ». Per l’ex preside di Scienze politiche la salute è tema politico per eccellenza, poiché su di essa «si gioca il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione». Infine. l’invito a non aggiungere all’emergenza educativa, anche una «emergenza salute».
A dare plastica rappresentazione alle difficoltà, ma anche a una «scelta significativa e coraggiosa» ci ha pensato fratel Mario Bonora, presidente dell’Aris: 241 istituti di vario tipo per un totale di 27mila posti letto e 10mila assistiti, che svolgono il 70% di tutte le prestazioni riabilitative. C’è una crisi di vocazioni che si intreccia con quella economica, ha sottolineato con un esempio: «Per ogni suora che viene a mancare bisogna assumere tre operatori». Poi, non ci sono agevolazioni contrattuali, non ripianamenti di deficit. C’è, invece, il paradosso di essere sottoposti a tetti per le prestazioni rimborsabili, ma con l’obbligo a effettuarne lo stesso, anche se eccedenti. Bonora ha parlato di «grave ingiustizia », perché non si tratta della «Chiesa che vuole privilegi, questa è una bufala, noi vogliamo ciò che la legge ci riconosce ». Cioè «trattamento paritario, che oggi di fatto non esiste».
Al convegno hanno partecipato, oltre a medici ed economisti, anche il noepresidente della Commissione Cei per il servizio della carità e la salute, il vescovo di Lodi Giuseppe Merisi e il direttore dell’ufficio nazionale di settore, don Andrea Manto. Quest’ultimo ha inserito il convegno in una più ampia riflessione che la Cei sta conducendo. E ha ricordato l’importanza del principio di sussidiarietà, al quale le strutture cattoliche danno corpo nello scenario di un federalismo che sta diventano sempre più incisivo.