mercoledì 25 giugno 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa: la Parola di Dio, "parola di vita" in un mondo in frantumi - In una lettera all'Assemblea della Federazione Biblica Cattolica in Tanzania
2) Lettera del Papa all'Assemblea della Federazione Biblica Cattolica in Tanzania
3) Il Sacro Cuore e la Vandea
4) I diritti umani universali al vaglio della ragione e dell’esperienza
5) Diritti umani: non cediamo al relativismo, torniamo al pluralismo
6) Confermato l'arresto al primario della Santa Rita, ma sui decessi la "causalità è da dimostrare", dal Foglio.it
7) Un premio per fare i genitori Specchio di una società in declino
8) Roccella: siamo in piena sintonia (riferito alla lettera aperta di Scienza & Vita)



Il Papa: la Parola di Dio, "parola di vita" in un mondo in frantumi - In una lettera all'Assemblea della Federazione Biblica Cattolica in Tanzania
di Mirko Testa
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 24 giugno 2008 (ZENIT.org).- La Parola di Dio è “la parola di vita che la Chiesa deve offrire a un mondo in frantumi”, ha affermato Benedetto XVI in una lettera inviata ai partecipanti alla VII Assemblea generale della Federazione Biblica Cattolica in corso in questi giorni in Tanzania.
Nella missiva il Papa ha preso spunto dal tema “La Parola di Dio. Fonte di riconciliazione, giustizia e pace” al centro dei lavori dell'incontro, che si celebra a Dar-es-Salaam, dal 24 giugno al 3 luglio, e che riunisce 230 esperti in pastorale biblica provenienti da oltre 80 paesi.
A questo proposito, ripetendo quanto già affermato nella solennità di Pentecoste di quest'anno, ha detto che “la comunità dei credenti può essere il lievito della riconciliazione, ma solo se 'resta docile allo Spirito e rende testimonianza al Vangelo, solo se porta la Croce come e con Gesù'”.
Il Papa ha poi espresso il proprio apprezzamento per il gesto di solidarietà e amicizia racchiuso nella scelta della Tanzania come luogo per lo svolgimento della Plenaria, anche in vista del Sinodo africano del prossimo anno.
Infatti, l'Assemblea generale risponde alla doppia urgenza di offrire un contributo al prossimo Sinodo sulla Parola di Dio, che si celebrerà il prossimo ottobre, ma anche di approfondire il dibattito in vista della II Assemblea speciale per l'Africa del Sinodo dei Vescovi, che si svolgerà in Vaticano dal 4 al 25 ottobre del 2009 sul tema: “La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace. 'Voi siete il sale della terra...Voi siete la luce del mondo'" (Mt 5,13.14).
E' inoltre la prima volta, nella sua quasi quarantennale storia, che l'organizzazione celebra in Africa una Assemblea plenaria, normalmente convocata ogni sei anni.
“Il cristianesimo – ha quindi sottolineato il Papa nella sua lettera – è la religione della Parola di Dio, 'non una parola scritta e muta, bensì incarnata e vivente'”.
Da qui ha poi rivolto un incoraggiamento “a continuare a far conoscere la profonda rilevanza delle Scritture per l'esperienza contemporanea dei cattolici e specialmente delle generazioni più giovani, ma anche a guidarli a interpretarle dalla prospettiva centrale di Cristo e del suo mistero pasquale”.
Ricordando la chiamata irrinunciabile alla “riconciliazione dei cristiani”, contenuta nell'Enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II, il Papa ha infine spronato i partecipanti all'incontro ad esser “sempre guidati dallo Spirito Santo nella forza unificatrice della Parola di Dio!”.
“Possano i popoli dell'Africa ricevere questo Verbo come la sorgente di riconciliazione e di giustizia dispensatrice di vita, e specialmente della pace autentica che viene solo dal Signore Risorto”, ha concluso.
La Federazione Biblica Cattolica, che oggi conta 328 membri ed è rappresentata in 133 Paesi, è stata istituita da Paolo VI nel 1969, per promuovere, sull'onda del Concilio Vaticano II, una maggiore coscienza sull’importanza della Sacra Scrittura a tutti i livelli della vita ecclesiale.
La Federazione aderisce al dialogo ecumenico e interconfessionale, promuove la tolleranza e il rispetto per le diverse culture e religioni ed è attivamente impegnata a favore della pace e della giustizia.
I suo impegni vanno dal campo della pastorale biblica, agli studi biblici, fino alla traduzione della Bibbia nelle lingue locali, ma anche del messaggio biblico nei contesti personali e comunitari della vita delle persone.



Il Papa all'Assemblea della Federazione Biblica Cattolica in Tanzania
CITTA' DEL VATICANO, martedì, 24 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la lettera inviata da Benedetto XVI ai partecipanti alla VII Assemblea generale della Federazione Biblica Cattolica, che si svolge in Tanzania dal 24 giugno al 3 luglio sul tema “La Parola di Dio. Fonte di riconciliazione, giustizia e pace”.
* * *
Al Reverendissimo
Vincenzo Paglia
Presidente della Federazione Biblica Cattolica
«State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace» (Ef 6, 14-15). Con queste parole dell'apostolo Paolo, sono lieto di salutare i delegati e tutti i partecipanti alla settima Assemblea Generale della Federazione Biblica Cattolica, che si celebra a Dar-es-Salaam dal 24 giugno al 3 luglio 2008, dedicata al tema: La Parola di Dio, fonte di riconciliazione, di giustizia e di pace. L'Assemblea Generale è sempre un'opportunità privilegiata per i membri della Federazione Biblica Cattolica per ascoltare insieme la Parola di Dio e rinnovare il loro servizio alla Chiesa, chiamata a proclamare il Vangelo della pace.
Il fatto che il vostro incontro si tenga a Dar-es-Salaam è un importante gesto di solidarietà con la Chiesa in Africa, ancor più in vista del Sinodo speciale per l'Africa del prossimo anno. È «dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo» (Gaudium et spes, n. 4). Il messaggio che portate a Dar-es-Salaam è chiaramente un messaggio di amore per la Bibbia e di amore per l'Africa. Il tema della vostra Assemblea generale attira l'attenzione su come la Parola di Dio può ripristinare l'umanità nella riconciliazione, nella giustizia e nella pace. È questa la parola di vita che la Chiesa deve offrire a un mondo in frantumi. «Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5, 20). Possa il continente africano stabilire il contesto per la lectio divina che vi assisterà in questi giorni e possano i vostri sforzi aiutare la Chiesa in Africa a «proseguire la sua missione evangelizzatrice, per attrarre i popoli del continente al Signore, insegnando loro ad osservare quanto Egli ha comandato (cfr Mt 28, 20)» (Ecclesia in Africa, n. 6)!
Il cristianesimo è la religione della Parola di Dio, «non una parola scritta e muta, bensì incarnata e vivente» (cfr San Bernardo, S. Missus est 4, 11 PL 183, 86). Solo Cristo, Verbo eterno del Dio vivente, attraverso lo Spirito Santo può aprire la nostra mente per comprendere le Scritture (cfr Lc 24, 15; Catechismo, n. 108). Vi incoraggio cordialmente non soltanto a continuare a far conoscere la profonda rilevanza delle Scritture per l'esperienza contemporanea dei cattolici e specialmente delle generazioni più giovani, ma anche a guidarli a interpretarle dalla prospettiva centrale di Cristo e del suo mistero pasquale.
La comunità dei credenti può essere il lievito della riconciliazione, ma solo se «resta docile allo Spirito e rende testimonianza al Vangelo, solo se porta la Croce come e con Gesù» (Omelia nella solennità di Pentecoste, 11 maggio 2008). A questo riguardo, desidero fare mia una riflessione del servo di Dio Papa Giovanni Paolo ii, il quale ha osservato: «Come, infatti, annunciare il Vangelo della riconciliazione, senza al contempo impegnarsi ad operare per la riconciliazione dei cristiani?» (Ut unum sint, n. 98). Lasciate che questa osservazione trovi la sua strada anche nelle vostre attività in questi giorni. Possano i vostri cuori essere sempre guidati dallo Spirito Santo nella forza unificatrice della Parola di Dio!
Tutti i cristiani sono chiamati a imitare l'apertura di Maria, che «accolse nel cuore e nel corpo il Verbo di Dio e portò la vita al mondo» (Lumen gentium, n. 53). Possano i popoli dell'Africa ricevere questo Verbo come la sorgente di riconciliazione e di giustizia dispensatrice di vita, e specialmente della pace autentica che viene solo dal Signore Risorto. Affidando alla stessa Vergine Maria, Sede della Sapienza, tutti coloro che sono riuniti per questa Assemblea Generale, imparto di cuore la mia Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 12 giugno 2008
Benedetto PP. XVI
[Traduzione a cura de “L'Osservatore Romano”]



Il Sacro Cuore e la Vandea
Un esempio eccezionale del significato sociale del culto del Sacro Cuore: la resistenza dei vandeani contro la Rivoluzione Francese.
Sin dagli inizi dell'insurrezione che contrappose, nel marzo 1793, la Vandea alla Rivoluzione, apparve sui petti dei contadini angioini il Sacro Cuore. Al nord della Loira, gli Chouan che prenderanno le armi in Bretagna, nel Maine e, più tardi, nella bassa-Normandia, adotteranno ugualmente il Sacro Cuore quale loro emblema.
Sul petto dei controrivoluzionari
«Continuate, dunque, voi che lo avete adottato, a onorarvi di questo marchio della vostra devozione al Sacro Cuore», grida il padre Marchais al suo gregge di La Chapelle du Genêt, nelle Mauges, nel suo discorso che pronunciò il 15 agosto 1793.
E per incoraggiare i suoi parrocchiani ad unire a questa devozione quella del Cuore Immacolato di Maria: «Vi troverete ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento, vale a dire la fermezza nella fede contro le terribili tempeste che la agitano, l'asilo e il riparo da tutte quelle tentazioni che potrebbero indebolirci, e infine la speranza, il progresso sensibile e in qualche modo, la certezza della nostra salvezza della quale il Cuore di Gesù è la sorgente e quello di Maria è il canale».
I vandeani e gli chouan avrebbero potuto scegliere un altro simbolo religioso in luogo del Sacro Cuore. La scelta che fecero in quella occasione sembrerebbe rispondere a due motivazioni di fondo. Da una parte, il Sacro Cuore è, per eccellenza, la devozione privilegiata del XVIII secolo. Dall'altra, nello sfoggiare il Sacro Cuore, i contadini dell'Ovest insorti manifestavano la loro fedeltà al voto di Luigi XVI di consacrare la Francia al Sacro Cuore, voto tardivo e incompiuto del quale i vandeani conoscevano l'esistenza sin dall'inverno 1792-1793.
La grande devozione in Francia
La devozione al Sacro Cuore ha conosciuto in Francia un grande sviluppo nel corso della seconda metà del XVIII secolo. Mai le parrocchie francesi avevano visto tante processioni e benedizioni del Santissimo Sacramento come durant il regno di Luigi XIV, Luigi XV e Luigi XVI.
Questa spiritualità deriva naturalmente da quel fervore eucaristico che è uno dei segni distintivi della Controriforma. Incoraggiato dalla spiritualità di san Francesco di Sales, il fervore eucaristico intende venerare il Sacrificio di Cristo, ricerca l'unione con Dio attraverso l'Amore
Si tratta di una risposta al giansenismo che allontana il peccatore dai sacramenti ai quali egli non è mai degno di avvicinarsi.
Nel 1670 san Giovanni Eudes aveva composto una messa e un uffizio al Sacro Cuore. Numerosi miracoli accrebbero la devozione al Sacro Cuore, a cominciare dalle visioni di Margherita Maria Alacoque a Paray-le-Monial. Gli Eudisti, le Visitandine, i seguaci di san Sulpicio, i Gesuiti e i Montfortani, incoraggiavano particolarmente questo tipo di devozione durante le missioni di predicazione che facevano di parrocchia in parrocchia, soprattutto nell'ovest della Francia.
Molte parrocchie delle diocesi di La Rochelle, di Luçon e di Saint-Malo furono profondamente colpite dalle prediche di Padre Luigi Maria Grignon di Montfort agli inizi del XVIII secolo.
Nel corso della prima metà del XVIII secolo si costituirono nel Regno 339 confraternite de Sacro Cuore. Con Luigi XV e Luigi XVI, mentre le élite, conquistate dagli ideali materialisti razionalisti dell'Illuminismo, mostravano sempr più apertamente la loro ostilità alla fede cattolic tradizionale, e mentre le popolazioni delle diocesi gianseniste di Champagne, de l'Île de France, de Gàtinais e dell'Orléanais si allontanavano dalla religione, il fervore eucaristico e radicato delle popolazioni rurali dell'Ovest, visitate continuamente dalle Missioni, restava estremamente vivo.
La Santa Sede e l'Assemblea del Clero lo incoraggiano. Il 1 settembre 1748, monsignor Durini, nunzio apostolico, celebra a Parigi, nella Chiesa di Saint-Sulpice, una festa solenne in onore del Sacro Cuore.
Il 1° luglio 1765, l'Assemblea del Clero raccomanderà di festeggiare il Sacro Cuore in ogni diocesi. Luigi XV e la Regina Maria Lesczynska daranno l'esempio. Il Re assisteva ogni domenica alla benedizione del Santissimo Sacramento. «Se si considerano il numero e il fervore dei devoti, il grande secolo eucaristico, risulta essere il XVIII», sottolinea lo storico Jean de Viguerie.
La sincera ma tarda decisione di Luigi XVI
A partire dal 1791, Luigi XVI è sempre più persuaso che per lui e per il suo popolo non esista altra fonte di salvezza al di fuori dell'intervento della Provvidenza. Egli si affida completamente a Dio, con uno spirito di sacrificio che lo accompagnerà sino alla morte. Per questo, probabilmente influenzato da Madame Elisabeth e dal suo confessore, padre François Hébert, egli redigerà, poco prima della battaglia del 10 agosto, una preghiera di consacrazione della Francia al Sacro Cuore.
Questo voto è al tempo stesso una preghiera, un atto di contrizione, un atto di speranza e un impegno assunto per il suo regno. Il re si impegna ad eliminare la Costituzione Civile del Clero, testo adottato nel 1790 dall'Assemblea Costituente con il quale la Chiesa gallicana si separava dalla Santa Sede.
Gli esemplari originali di questo voto sono andati perduti. L'esemplare posseduto da padre Hébert fu distrutto durante i massacri di settembre dei quali egli fu una delle vittime. Alcuni studiosi, basandosi sulla testimonianza di Pauline de Tourzel, ritengono che un secondo esemplare fu distrutto da Madame Elisabeth il 13 agosto 1792.
Malgrado tutto, grazie ad alcune copie, il voto di Luigi XVI si diffuse rapidamente tra le popolazioni dell'ovest della Francia. È stato forse diffuso dai padri eudisti, congregazione alla quale apparteneva padre Hébert? Si riscontra presso il popolo una fama paragonabile a quella goduta dal voto di Luigi XIII di consacrazione della Francia alla Madonna.
Nell'epoca del Terrore, durante le perquisizioni furono confiscati ai contadini esemplari a stampa di questo voto. Per questo motivo molte donne furono giudicate e condannate dal tribunale di Guérande proprio perché trovate in possesso di questo documento. Durante l'interrogatorio esse affermarono di averlo conosciuto grazie a "scritti pubblici" nel 1792.
La doppia fedeltà dei vandeani
L'esercito cattolico e reale della Vandea disponeva di una stamperia e di un giornale, il Bollettino degli Amici della Religione e della Monarchia. È possibile che questo Bollettino abbia contribuito a diffondere questo voto? Comunque siano andate le cose, nello scegliere il Sacro Cuore quale proprio emblema, i vandeani e gli chouan hanno chiaramente voluto manifestare la loro fedeltà al voto di Luigi XVI.
Nel discorso pronunciato il 15 agosto 1793, l'abate Marchais si felicita con i propri parrocchiani per aver accolto tale voto: «Poco dopo l'inizio di questa assemblea della quale egli è stata la vittima, vedendo svanire quei suoi progetti che non avevano altro fine se non la gloria del Signore, la sua religione, oltre che il maggior benessere del suo popolo (...), non trovando niente per mantenere né l'uno né l'altro; prevedendo fin da allora il male che ne sarebbe risultato e non trovando alcun rimedio sufficiente nelle risorse ordinarie della ragione, della giustizia e delle forze umane, questo principe, tanto religioso quanto sfortunato, non esiterà a domandare il soccorso del Cielo (...).
Deciderà di consacrarsi in una maniera particolare alla devozione del Sacro Cuore attraverso un voto formale che non ebbe la qualità di solenne e pubblico, ma che l'avrebbe dovuta avere in seguito, dal momento che egli aveva deciso di istituire una confraternita e una solenne festa sia per preservare se stesso e tutto il Regno dai mali che imperversavano, e sia per ricevere quelle consolazioni che sapeva di non poter trovare altrove».
La scelta del Sacrocro Cuore mostra bene da parte dei vandeani e degli chouan una doppia fedeltà, fedeltà a quel fervore eucaristico e radicato del quale si erano nutriti, grazie all'esempio dei propri padri e dei propri
nonni istruiti a loro volta per un secolo e mezzo dai missionari della Controriforma; fedeltà a quel voto tardivo e incompiuto di Luigi XVI da loro considerato un Martire della Fede.
Tale scelta mostra inoltre la natura del conflitto che oppose i vandeani alla Rivoluzione: resistenza alimentata dall'amore di Dio, come mostra la Pace di Bonchamps, contrapposta a quella furia di violenza descritta dallo storico Xavier Martin, resistenza romana contrapposta al gallicanismo della Costituzione civile del Clero; resistenza intrisa di spiritualità e trascendenza contrapposta al materialismo dell'Illuminismo e alla secolarizzazione rivoluzionaria. Tutto ciò contribuirà a fare della Vandea una anti-Rivoluzione.
RADICI CRISTIANE n. 35 - giugno 2008


I diritti umani universali al vaglio della ragione e dell’esperienza
Marta Cartabia25/06/2008
Autore(i): Marta Cartabia. Pubblicato il 25/06/2008 – IlSussidiario.net
Intorno al tema dei diritti umani si svolgono negli anni più recenti dibattiti almeno in parte contraddittori.
Da una parte, con insistenza crescente, singoli individui o gruppi organizzati avanzano richieste di tutela di “nuovi diritti”, quali aborto, eutanasia, matrimonio tra omosessuali, diritto alla procreazione, riconoscimento dell’identità “genere”, diritto ad ammalarsi, diritto a non nascere, diritti degli animali e così via.
D’altra parte, il terreno dei diritti umani è strenuamente difeso come possibilità di riconoscimento a ogni persona umana della sua innata dignità, qualunque sia la cultura di appartenenza, la religione, le tradizioni di vita sociale. Emblematico in questo senso è il discorso di Benedetto XVI all’Onu dello scorso 18 aprile, dove afferma, tra l’altro, che i diritti umani «si applicano ad ognuno in virtù della comune origine della persona, la quale rimane il punto più alto del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia. Tali diritti sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà».
I diritti umani fondamentali sono, dunque, teatro di nuove e in parte contraddittorie sfide. Sul piano giuridico si riscontra una forte accelerazione verso l’universalizzazione dei diritti fondamentali. Per altri aspetti però, paradossalmente, mai come oggi l’idea stessa dei diritti umani è stata posta radicalmente in discussione dalle critiche post-moderniste e relativiste.
La cultura multiculturalista non solo ha gettato un’ombra sulla possibilità stessa di riconoscere i diritti umani mettendone in discussione l’universalità, ma ha insinuato che i diritti umani costituiscono l’espressione pseudouniversale di ciò che in realtà nasconde una visione culturale parziale, tipicamente occidentale. I diritti umani sarebbero l’ultimo residuo dell’imperialismo occidentale che mortifica ogni espressione culturale non riconducibile a quella sviluppatasi sulle due sponde dell’Atlantico.
Queste critiche si alimentano di una tendenza messa bene in rilevo da Mary Ann Glendon (in L. Antonini (a cura di), Il traffico dei diritti insaziabili, Rubbettino, 2008 e in Tradizioni in subbuglio, Rubbettino, 2007). A partire dagli anni ’90, nota la studiosa di Harvard, le istituzioni dei diritti fondamentali facenti capo all’Onu hanno tradito lo spirito della Dichiarazione universale e sono state occupate da gruppi di pressione che hanno incominciato a promuovere una visione dei diritti umani parziale, espressione di una cultura iper-libertaria. E l’Europa, con le sue Corti e le sue agenzie dei diritti, sembra costituire inspiegabilmente un terreno particolarmente fertile per l’attecchire di questa visione e ne diventa a sua volta promotrice (su questo, volendo, il volume curato da chi scrive, I diritti in azione, Il Mulino, 2007).
Due sono i nodi culturali che determinano queste spinte contraddittorie.
Il primo nodo riguarda una questione antropologica. I cd. “nuovi diritti” si alimentano di una concezione in cui l’uomo è ridotto a pura capacità di autodeterminazione, volontà e libera scelta. L’uomo è inteso come individuo sciolto da ogni relazionalità, sociale e trascendente, e la sua unica capacità di espressione è individuata nella libertà, a sua volta ridotta a mera facoltà di scegliere. È così che si arriva persino ad affermare il “diritto a non nascere” o il “diritto a darsi la morte”, il cui effetto è la negazione del soggetto stesso. Fuori da una concezione creaturale in cui l’uomo è diretto rapporto con l’infinito, non si dà dignità umana e i diritti, anziché costituire la massima valorizzazione della persona, aprono la strada al suo annientamento.
Il secondo riguarda l’universalità dei diritti umani. L’idea stessa dei diritti umani si basa sulla possibilità di riconoscimento di un “evento dell’umano” o di “una struttura universale dell’esperienza umana”, dall’interno delle culture che si incontrano continuamente nel tessuto sociale (C. Di Martino, L’incontro e l’emergenza dell’umano, in J. Prades (a cura di), All’origine della diversità, Guerini, 2008]. D’altra parte, quella attuale è la stagione della proliferazione dei diritti, in cui si assiste alla tendenza ad imporre in termini di diritti universali preferenze e posizioni elaborate in un determinato ambito e in uno specifico contesto. Di qui l’urgenza che i diritti umani siano a loro volta sottoposti all’incessante vaglio critico della ragione e dell’esperienza, ovvero all’attento discernimento di cui parla Benedetto XVI nel discorso all’Onu, affinché attraverso di essi sia salvaguardato soltanto e tutto ciò che appartiene alla struttura originaria e universale dell’uomo.


Diritti umani: non cediamo al relativismo, torniamo al pluralismo
Int. a Augusto Barbera25/06/2008
Autore(i): Int. a Augusto Barbera. Pubblicato il 25/06/2008 – IlSussidiario.net
Professor Barbera, parlare di diritti vuol dire aprire il tema della libertà. Per esempio, nel dibattito attuale sui temi della famiglia tutta l’attenzione è incentrata sul riconoscimento di “nuovi diritti fondamentali”. Che cosa si può volere e fino a dove ci si può spingere nella rivendicazione di diritti individuali?
Un ordinamento, in quanto “sistema”, ha bisogno di legarsi a norme e valori fondanti che ne facciano da presupposto. Questo è chiaro. L’ordinamento è un sistema - al pari di un sistema del mondo fisico o biologico - e quindi sono delle regole che tengono insieme il sistema ed è, a sua volta, il sistema che dà senso alle regole. La prima questione riguarda dunque il “fondamento” dei diritti fondamentali.
Dobbiamo tener presente che stiamo parlando di categorie che si collocano all’interno del costituzionalismo liberal-democratico, che trae le proprie fondamenta dalle tre grandi rivoluzioni dell’Occidente: la rivoluzione inglese, la rivoluzione americana e la rivoluzione francese. Con la proclamazione dei diritti fondamentali, che inaugura con le tre rivoluzioni l’era del costituzionalismo, gli attributi - la sacertà e l’inviolabilità - che nelle epoche precedenti erano proprie del sovrano, vengono trasferiti nei diritti dell’uomo.
In questo modo la base dell’ordinamento - il fondamento del potere - diviene più laico, perde la sacralità originaria.
Nel potere certamente si è verificata un’eclissi del sacro, ma esso si è trasfuso nei diritti, non a caso definiti “sacri e inviolabili” (come la persona del Sovrano). Si tratta quindi di diritti assoluti e indisponibili. L’indisponibilità dà insieme forza e limite ai diritti: il diritto alla vita, ad esempio, esalta il valore della persona, ma di esso la persona non può disporne, non può privarsene (è un’affermazione non pacifica, ma devo essere breve). Quelli sono i pilastri su cui si costruisce l’unità dell’ordinamento. Ma come intendere questi pilastri: solo come libertà dallo Stato? Troppo poco, io credo. Per due motivi.
Quali?
Il primo motivo è che i diritti fondamentali non sono solo il modo per difendersi dal potere pubblico, ma sono anche lo strumento per dare fondamento al potere. Fondamento del potere più che limite del potere. E questo appare in modo più netto in riferimento alle dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo, che del costituzionalismo liberaldemocratico rappresentano la proiezione esterna. Non sono un mezzo per difendersi, ma un modo per costruire forme di organizzazione sovranazionale. Su di essi si costruiscono le organizzazioni delle Nazioni Unite e si legittima lo stesso uso della forza nei rapporti internazionali.
Ma siamo proprio sicuri che il costituzionalismo liberaldemocratico ha oggi tutte le riposte necessarie?
Rispondo parlando del secondo motivo. Sui diritti che hanno un contenuto “negativo” - libertà dallo Stato - il costituzionalismo ha da tempo le idee abbastanza chiare (libertà di espressione del pensiero, libertà di riunione, libertà di associazione, libertà religiosa, libertà di insegnamento, ecc.). Ma che dire di altre vere o pretese libertà? Esiste il diritto a disporre della propria vita e quindi a porre fine alla propria vita? Esiste un diritto a drogarsi? Fino a che punto può essere riconosciuto un diritto a disporre del proprio corpo? La prostituzione va solo tollerata o è esercizio di un diritto di libertà? Vi è chi sostiene, in nome di un fondamentalismo liberale, che in molti di questi casi siamo in presenza di diritti di libertà o addirittura di espressioni di “un generale diritto di libertà”. Le libertà - si aggiunge - possono ovviamente essere limitate purché volte a tutelare altre libertà. Sarebbero invece inammissibili quei limiti che fossero volti a tutelare lo stesso soggetto obbligato. Il che significa dire che quei diritti sono illimitati e disponibili. Allo stesso individuo spetterebbe dunque - da solo - decidere, ad esempio, se drogarsi o mutilarsi. A questo proposito mi ha molto impressionato sapere che nel multiculturale Canada - che aveva già riconosciuto la poligamia - si riconosca il diritto alla mutilazione genitale.
Può fare un altro esempio?
Il diritto ad assumere droghe: drogarsi significa esercitare una libertà o privarsi di una libertà? Dopo il referendum del 1993 sulla legge Iervolino-Vassalli (e nonostante le sanzioni amministrative nei confronti di chi assume sostanze stupefacenti, secondo il nuovo articolo 75 del D.P.R 309/390 introdotto con la legge 49/2006) drogarsi non è un reato. Quindi - si dice - è riconosciuta una libertà. Qui è l’errore: va invece distinto ciò che è penalmente lecito dall’esercizio di un diritto di libertà. Non tutto ciò che è lecito è espressione di un diritto di libertà. Se si trattasse di diritti di libertà non solo questi comportamenti non potrebbero essere puniti (talvolta è saggio non farlo), ma soprattutto non si potrebbero porre limiti a chi agevola l’esercizio di dette libertà. Perché allora punire lo spaccio?
Ma allora dove sta il punto? Dove finisce propriamente quello che la nostra Costituzione consente alla nostra libertà?
Dov’è scritto che il diritto alla vita, indubbiamente tutelato fra i diritti inviolabili di cui all’articolo 2 della Costituzione (anche se non espressamente previsto dalla Costituzione stessa), comporti anche il diritto costituzionalmente tutelato a disporre della propria vita?
Non credo che dietro questa lettura del sistema costituzionale delle libertà ci sia una concezione “proibizionista” o una concezione statalista “in cui l’individuo e la sua vita appartengono allo Stato”, c’è solo la convinzione che il nostro ordinamento non ispira i propri diritti a un radicalismo individualistico-radicale. Che le libertà - lo dice l’articolo 2 della Costituzione - sono strettamente legate alla responsabilità individuale. Si tratta di concezioni radicali delle libertà di fronte a cui il costituzionalismo non mi pare attrezzato.
Perché?
La spiegazione va trovata nel fatto che il costituzionalismo - frutto delle tre rivoluzioni di cui ho prima parlato - si è costruito come limite al potere assoluto, come, secondo la concezione liberale classica, “libertà da”. Ma fino a quando si rimane prigionieri di questa ottica non è possibile una risposta articolata a domande così impegnative.
Ma la rimozione degli impedimenti è un mezzo, non un fine. Libertà non è solo diritto “di ciascuno per sé”, ma modo per sviluppare e suscitare attorno a sé altre libertà; è “forza di emancipazione e di redenzione propria ed altrui”, per usare un’espressione di Guido de Ruggiero nel suo limpido “Corso di lezioni sulla Libertà”, del 1944-1945. La libertà è forza liberatrice, fiamma che accende altre fiamme, che porta l’individuo a espandersi e prodigarsi, non a chiudersi nel proprio guscio.
Lei sembra dire che occorre una concezione “positiva” di libertà, perché una concezione negativa si arena di fronte a ostacoli molto difficili da superare.
Libertà è assenza di limiti? È non subire limiti o è invece porsi dei limiti autonomamente? È una disciplina interiore che ci dà il dominio di sé e delle cose o un “diritto a volere liberamente” di un individuo ripiegato su se stesso? Non ci aiutano né le concezioni che puntano sulla “libertà da” né bastano quelle che fanno perno su un’astratta “libertà di”; ci aiuterebbe invece una concezione dell’individuo come persona capace di un agire finalizzato, cui spetta una “libertà per”. Il problema è la libertà per qualcosa, vale a dire lo sviluppo e la tutela della persona.
In questa situazione l’ordinamento che cosa può o deve fare? Comporre il contrasto tra opposte visioni e interessi?
Oggi le operazioni di balancing si complicano con il moltiplicarsi dei temi “eticamente sensibili”. In questi casi non si parte in astratto dal riconoscimento, o meno, di un diritto di libertà ma si guarda in concreto, e pragmaticamente, alle discipline concrete che tentano il bilanciamento fra i diversi valori in gioco: per esempio, fino a che punto può spingersi la libertà della ricerca e dove interviene il limite della dignità dell’embrione? Quali i limiti al diritto alla procreazione? Riconoscere i matrimoni fra omosessuali o limitarsi a tutelare le unioni civili? Fino a che punto può spingersi l’accanimento terapeutico? È consentito il testamento biologico?
Esiste una sorta di comune denominatore sul piano dei valori tra posizioni così diverse? Ciascuno lo vedrà come la rinuncia o come la minaccia all’integrità della propria visione culturale?
Bisogna trovare regole comuni. Il problema è che spesso manca alla comunità statale (anche a quelle più omogenee) un parametro comune su questi temi. Un parametro comune è invece possibile rinvenire all’interno di sistemi ideologici, siano essi religiosi, dottrinari, politici, vale a dire all’interno di ordinamenti parziali. Persino ciò che era comune ai Costituenti nel 1948 - il concetto di famiglia “naturale” - viene messo in discussione, ad esempio, per ciò che riguarda le convivenze etero od omosessuali. Ancor più di fronte al mistero della vita nessuno possiede la piena comprensione della verità, ma si contrappongono fedi diverse, o laiche o religiose. E non potrebbe essere diversamente laddove la scienza non è in grado di dare tutte le risposte necessarie. Lo abbiamo visto nel recente dibattito referendario sulla fecondazione medicalmente assistita.
Allora che cosa resta da fare?
Se queste concezioni non possono costituire un “bene comune” a tutte le componenti della società, bisogna trarne una conseguenza: salvare, nel dibattito su questi temi e nella conseguente disciplina normativa, ciò che invece bene comune è, vale a dire il pluralismo di dottrine, di idee, di stili di vita. Pluralismo non significa necessariamente relativismo, eclettismo, indifferentismo, ma coesistenza di verità parziali, di parziali comprensioni della verità, dialogo continuo fra posizioni etiche diverse. Per i singoli e per i gruppi - credenti e non credenti - può ben esistere una Verità - un fondamento dei fondamenti - che spiega l’insieme, ma l’umiltà di ciascuno dovrebbe poi portarlo a non ritenersi in grado di coglierla da solo, in modo autosufficiente, ma solo in relazione all’altro. Questo è un ulteriore argomento di riflessione. Qui mi limito a sottolineare che va riaffermata con orgoglio l’identità del costituzionalismo liberal-democratico, del costituzionalismo occidentale, ma senza voler utilizzare come una clava la nostra identità anche perché le nostre categorie, le categorie su cui abbiamo costruito i diritti di libertà, sono ancora sottoposte a una sfida: richiedono nuove elaborazioni, nuove proposte.


24 giugno 2008
Confermato l'arresto al primario della Santa Rita, ma sui decessi la "causalità è da dimostrare"
Pagina per pagina, la vera storia lombarda di una clinica mostrificata
Le trecento pagine dell'ordinanza di custodia cautelare lette con attenzione dal Foglio

Dal Foglio del 13 giugno 2008
Milano. Abbiamo letto con attenzione le trecento pagine dell’ordinanza di custodia cautelare contro i dirigenti e i medici della clinica privata Santa Rita e vorremmo provare a fare una battuta, a dire che d’ora in poi ci cureremo solo con i fiori di bach, ma è difficile in questo caso affidarsi al sarcasmo. Perché il quadro che emerge è piuttosto agghiacciante: una truffa ai danni della regione Lombardia con rimborsi illeciti per il biennio 2005-2006 che raggiunge la somma di 2,5 milioni di euro. Secondo la ricostruzione dell’accusa, il principale imputato, il dottor Brega Massone, primario del reparto di chirurgia toracica, avrebbe eseguito ottantotto interventi chirurgici non necessari, anzi, assolutamente ingiustificati dal quadro clinico dei pazienti. Così, si trovano casi di donne alle quali sono state asportate ghiandole mammarie anche se poi i noduli sono risultati benigni. Si trovano interventi invasivi, “aggressivi” – questo è il termine che usa l’accusa – su pazienti molto anziani e che in cinque occasioni si sono conclusi con il loro decesso (per questo, fra i reati contestati a Brega Massone c’è anche quello di omicidio volontario).
L’avvocato del primario, Giuseppe Cannella, minimizza: ritiene che le intercettazioni vadano ridimensionate perché sono state fatte quasi esclusivamente quando il suo cliente aveva già ricevuto l’avviso di garanzia. Cannella ammette in parte di avere fatto qualche pasticcio con le carte per i rimborsi del Drg, la somma rimborsata alla clinica per le prestazioni sanitarie, e dice al Foglio che a conti fatti “nei cinque interventi per i quali si ipotizza l’omicidio volontario, Brega avrebbe guadagnato solo poche migliaia di euro”. Ma a leggere le carte, ciò che emerge per tutti gli indagati è un’accusa molto grave, quasi una mercificazione dei corpi, soprattutto quelli dei pazienti anziani.
A leggere le intercettazioni, i medici indagati manifestano anche un involontario umorismo. Come quando parlano di un chiodo impiantato in un arto sbagliato estratto e reimpiantato senza sterilizzarlo. E il medico commenta: “Mica si poteva buttarlo via, siamo matti, costa 445 euro più iva (…)”. Giustificazione deontologica? Aggiunge il medico: “Ecco se il malato ha 90-95 anni ha una brevissima aspettativa di vita…”. “Eh, eh, eh”, se la ride il suo collega. Oppure davanti a un malato che era sul punto di morte e viene trasferito nel reparto ortopedico si commenta così: “Ha ottanta e passa anni e ha fatto la campagna di Russia, ma tutti devono vivere fino a centocinquanta anni?”. E ancora: Quando si tratta di un figlio di un paziente, infuriato perché ritiene che un intervento sia inutile, la conclusione è questa: “Allora lo portiamo in un altro ospedale”. Cose così, insomma. Nulla ovviamente che faccia ipotizzare omicidi premeditati, ma solo interessati, questo sì, ad accumulare in fretta i Drg. Dunque al semplice volume del fatturato, al punto da mettersi d’accordo su come modificare le cartelle cliniche di fronte a interventi sbagliati.
Certo, c’è anche qualcuno apparentemente onesto che distribuisce giudizi severi e riferendosi ai direttori sanitari dice: “Se si fanno lavorare i banditi, i truffatori, poi gli onesti ci vanno di mezzo”.
All’imputato principale, il primario Brega Massone, l’indagine giudiziaria dedica centocinquanta pagine. Brega, nel 2007, quando sa di essere indagato spiega la sua filosofia di cura e la mette così: “I Drg li troveranno pompati perché per un periodo le mammelle venivano messe come non si potevano mettere, ma la direzione sanitaria lo sapeva e adesso fanno tutti gli gnorri (…). Io pescavo dappertutto, da Lodi tiravo fuori fuori le mammelle, i polmoni dall’Oltrepò pavese. Pavia e Milano si prendono 800 euro per un polmone, cioè tu fai 15 polmoni o non puoi pagare l’equipe…”.
Ma alla fine, al di là della discussione politica, fra quelli che pensano che il sistema di accreditamento delle strutture private vada rivisto, e chi invece difende il modello sanitario lombardo, e ancora chi ritiene che invece l’inchiesta giudiziaria verrà strumentalizzata per contrastare il progetto federalista di Formigoni che vorrebbe destinare molti miliardi di euro alla sanità, pesano molto le parole del professor Sartori – direttore della divisione, docente di chirurgia toracica, consulente della procura – che ha concluso così: “Il dottor Brega Massone, con la collaborazione di Presicci, sembra avere una sola condotta: ‘Operare qualsiasi paziente gli capita a tiro indipendentemente dall’età e dagli esami clinici e radiologici che spesso non consulta e dei quali non tiene conto’”.
di Cristina Giudici


L’INIZIATIVA DEL PRIMO MINISTRO INGLESE GORDON BROWN
Un premio per fare i genitori Specchio di una società in declino

Avvenire, 25 giugno 2006
LUCETTA SCARAFFIA
I l primo ministro inglese Gordon Brown ha deciso di premiare con duecento sterline l’anno i genitori che vaccineranno i loro figli, li faranno leggere, insegneranno loro a essere educati e a mangiare cibi sani: visto il degrado socio-culturale delle classi subalterne in Gran Bretagna, si può considerare questa iniziativa come una misura di buon senso. Del resto, gli inglesi non sono stati i primi: su questa china li hanno preceduti i messicani e gli statunitensi, senza contare poi l’idea francese di premiare con biglietti gratuiti per il cinema gli studenti che frequentano le lezioni.
Quello che spaventa è lo stato di declino sociale e culturale che questi provvedimenti rivelano: in un certo senso, questo si può riassumere dicendo che nessuno fa più il suo dovere, e cioè che nelle società dei diritti i doveri sono completamente caduti in desuetudine, anche quelli di importanza primaria come educare i figli. I figli sono richiesti come un diritto, sono attesi come una fonte di felicità, come una acquisizione di piacere in più, e poi vengono abbandonati a se stessi quando la realtà si impone: allevarli è faticoso, educarli richiede attenzione, tempo, energia, e a volte non è per nulla gratificante.
Del resto, non dobbiamo stupirci di questa totale eclissi di quello che un tempo si chiamava 'senso del dovere', perché esso non è un istinto naturale, ma esiste solo se viene insegnato e se poi è coltivato al suo interno da una società che lo considera fattore essenziale alla costruzione di un contesto civile. Da decenni, nelle società occidentali, non è più così perché tutto, a cominciare dall’infanzia, deve essere insegnato come un piacere: la pedagogia, che si è mostruosamente ampliata, consiste in sostanza nel trasformare ogni tipo di apprendimento in un gioco gratificante. Naturalmente, questo è impossibile, e la differenza fra gli alunni si vede nella diversa capacità ad applicarsi che essi sanno adottare, frutto ovviamente, ormai, solo dell’educazione ricevuta in famiglia.
È difficile, quindi, pensare che persone abituate perfino a considerare un diritto il divertirsi a scuola - e se non accade è colpa dell’insegnante che non sa 'interessare' - sappiano poi assumersi i doveri che la vita impone loro, in primis quelli familiari.
Sarà necessario, quindi, un nuovo processo di disciplinamento sociale, come quello che, tra il Cinquecento e il Seicento, ha portato al costituirsi della famiglia europea nell’Europa della Riforma e della Controriforma: allora realizzato con la repressione, oggi con i 'premi'. Ma sarà poi veramente possibile radicare nuovamente il senso del dovere con i premi? Viene il fondato sospetto che il metodo scelto faccia parte proprio di quel male che vuole curare: anche qui, si vuole spingere le persone a un comportamento virtuoso dando loro delle gratificazioni, mentre è l’intero contesto culturale in cui vivono a richiedere delle modifiche sostanziali.
Forse il disastro sociale provocato dalla fine della famiglia tradizionale - quella fondata sul 'dovere', che aveva permesso la tenuta della società in momenti di grave crisi, e soprattutto l’ ascesa sociale delle classi subalterne, oggi inesistente - costringerà tutti a un esame di coscienza un po’ più serio di quello dei governanti che hanno pensato ai premi, e si tornerà a capire che la disciplina è indispensabile per preparare gli esseri umani a sostenere le loro responsabilità.


Roccella: siamo in piena sintonia
Avvenire, 25 giugno 2008
DA ROMA
« L e sollecitazioni dell’Associazione 'Scienza & Vi­ta' sulle priorità di una politica che tuteli la vita dal concepimento alla morte naturale, sono in li­nea con gli indirizzi programmatici del governo»: lo afferma il sottosegretario al Welfare, Eugenia Roccella, sottolineando che l’impegno dell’esecutivo è stato indicato dallo stesso pre­mier nel discorso d’insediamento: «varare un grande piano nazionale per la vita».
Secondo la Roccella, però, su molti dei punti critici indivi­duati dalla 'lettera aperta' «la situazione è già fortemente compromessa dal precedente governo: è ormai impossibile, per esempio, riattivare la minoranza europea di blocco che impediva il finanziamento alla ricerca sugli embrioni, dopo che nel 2006 il ministro Mussi ha ritirato la firma dell’Italia». Sugli altri temi, come le linee guida per la legge 40 e le politi­che di prevenzione dell’aborto, la Roccella assicura: «Siamo già al lavoro. In entrambi i casi, si tratta di interpretare e ap­plicare la legge con coerenza e rispetto». Dunque si dice cer­ta «che con l’Associazione il dialogo sarà continuo e proficuo». Anche il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, assi­cura che i punti che della lettera «sono coerenti» col pro­gramma col quale il Pdl «ha ottenuto la fiducia degli italia­ni ». Dunque le sollecitazioni di Scienza & Vita «rappresenta­no uno sprone prezioso perché governo e Parlamento con­tinuino a percorrere la strada intrapresa».
«Finora nessuno è passato dalle buone intenzioni ai fatti», so­stengono invece le parlamentari teodem del Pd Emanuela Baio e Paola Binetti, che dicendosi d’accordo con la 'lettera aperta' evidenziano che «servono scelte chiare e concrete del governo, a tutela della famiglia e della vita». L’auspicio è «che il governo predisponga davvero adeguate risorse per la pre­venzione dell’aborto», punto sul quale «c’è nel Parlamento un’ampia convergenza di vedute», come sulla priorità di e­stendere le cure palliative. Dunque le due esponenti del Pd aspettano «il governo con lo spirito di un dialogo costruttivo, ma anche con l’esigente opposizione di chi non si acconten­ta di slogan generici ma pretende fatti concreti». «Quanto mai opportuno» l’appello di Scienza & Vita, anche per Savino Pez­zotta,
Il sottosegretario Eugenia Roccella
presidente della 'Rosa per l’Italia' e deputato dell’U­nione di centro. «Ci richiama ad alcuni temi di fondo della bio­politica », spiega Pezzotta, sottolineando che «la tutela e la di­fesa della vita non possono mai essere accantonati o lasciati cadere nell’oblio. È bene pertanto che le questioni poste ven­gano affrontate con coerenza e con la necessaria determina­zione ». Ma la senatrice radicale, eletta nelle liste del Pd, Do­natella Poretti, non ha dubbi che le indicazioni di Scienza & Vita confermerebbero l’Italia «come fanalino di coda» su «ri­cerca scientifica» e «rispetto dei diritti degli individui». (P.L.F.)