Nella rassegna stampa di oggi:
1) Ecco come si distingue un cattolico in politica, di Giorgio Vittadini
2) Il Credo di Paolo VI. Chi lo scrisse e perché, di Sandro Magister
3) L’Osservatore Romano intervista Silvio Berlusconi
4) Orissa, i perseguitati di serie B
5) Dove portano le nuove linee guida sulla procreazione medicalmente assistita
Ecco come si distingue un cattolico in politica
Giorgio Vittadini06/06/2008
Autore(i): Giorgio Vittadini. Pubblicato il 06/06/2008 – IlSussidiario.net
Continua, praticamente senza soluzione di continuità, la discussione sul ruolo dei cattolici nella vita politica. Dopo le valutazioni sul loro peso nel nuovo governo, autorevoli esponenti dell’opposizione hanno più volte messo in guardia sul pericolo che la Chiesa si ponga come organizzazione in qualche modo al servizio del potere. Come spesso accade, il problema è un altro, non schematizzabile in questa rozza ottocentesca contrapposizione.
A chi è preoccupato per la presenza - scarsa o eccessiva, a seconda che la si guardi da destra o da sinistra - dei cattolici al potere, va ricordato quanto rispondeva don Giussani in un’intervista di Pierluigi Battista, su La Stampa del 1996. Alla domanda: «Ma lei si sente più garantito da un cristiano al governo?», il sacerdote milanese rispondeva: «No. Il problema è la sincera dedizione al bene comune e una competenza reale e adeguata. Ci può essere un cristiano ingolfato nei problemi ecclesiastici la cui onestà naturale e la cui competenza possono lasciare dubbi». Molti esempi in questi 60 anni di storia repubblicana lo dimostrano.
Dagli anni ’50 in poi molti cattolici, paradossalmente alleati di coloro che oggi hanno paura degli interventi della Chiesa, sono divenuti i più feroci assertori, anche nell’ultimo periodo, di uno statalismo “buono”, all’origine della gran parte dei mali attuali del nostro Paese. Ma allora, per evitare il rischio di un potere fine a se stesso, occorre rifugiarsi in uno spiritualismo disincarnato? Piuttosto, come ha detto il Pontefice all’assemblea generale della CEI, di fronte alla sfida del relativismo e del nichilismo che riguarda tutti, servono «educatori che sappiano essere testimoni credibili di quelle realtà e di quei valori su cui è possibile costruire sia l’esistenza personale sia progetti di vita comuni e condivisi». Il cristianesimo ha una reale incidenza storica quando è vissuto non come una ideologia teorica, ma come un’esperienza personale in cui si guardi e si segua la Presenza misteriosa e amica che abita la realtà. Chi vive così diventa utile a tutta la compagnia umana - come dimostra la storia del nostro Paese -, perché prende coscienza del desiderio di bene che alberga nel suo cuore, diviene capace di cogliere i veri bisogni di qualunque uomo, comincia a costruire opere che sono forme di vita nuova, sa chiedere alla politica di salvaguardare l’affermazione di quei valori che rendono più umana la convivenza di tutti. E se fa politica la rinnova, con pazienza, dal di dentro, in qualunque posizione di potere sia o qualunque compito abbia.
Il Credo di Paolo VI. Chi lo scrisse e perché
Anche la Chiesa ebbe il suo 1968, espresso ad esempio dal Catechismo olandese. La risposta di papa Montini fu il "Credo del popolo di Dio". Oggi si sa che a scriverlo fu il suo amico filosofo Jacques Maritain
di Sandro Magister
ROMA, 6 giugno 2008 – Alla fine di questo mese papa Benedetto XVI inaugurerà un anno giubilare dedicato all'apostolo Paolo, in occasione del secondo millennio della sua nascita. La celebrazione inizierà sabato 28, vigilia della festa del santo, e terminerà un anno dopo.
Quarant'anni fa, tra il 1967 e il 1968, papa Paolo VI fece qualcosa di simile. Dedicò un anno di celebrazioni agli apostoli Pietro e Paolo, in occasione del diciannovesimo centenario del loro martirio. Lo chiamò "Anno della Fede". E lo concluse in piazza San Pietro, il 30 giugno 1968, pronunciando una solenne professione di fede, il "Credo del popolo di Dio".
Il testo di questo Credo ricalcò quello formulato al Concilio di Nicea, che si recita in ogni messa. Ma con importanti complementi e sviluppi.
Come e perché nacque in Paolo VI l'idea di coronare l'Anno della Fede con la proclamazione del Credo del popolo di Dio? E come fu redatto quel testo?
La risposta a queste due domande è in un volume che uscirà presto in Francia, il VI tomo della "Correspondance" tra il teologo e cardinale svizzero Charles Journet e il filosofo francese Jacques Maritain, cioè le 303 lettere che i due si scambiarono tra il 1965 e il 1973.
Perché fu proprio Maritain a scrivere la traccia del Credo del popolo di Dio che poi Paolo VI pronunciò. Nel volume di prossima uscita saranno pubblicati i due testi a fronte, con evidenziate le poche varianti.
Intanto, però, il cardinale Georges Cottier – discepolo di Journet e teologo emerito della casa pontificia – ha già anticipato i retroscena di quel Credo al mensile internazionale "30 Giorni", che vi ha dedicato la copertina dell'ultimo numero.
* * *
Nel 1967 Maritain ha 85 anni. Vive a Tolosa, tra i Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld. Ha appena pubblicato "Le paysan de la Garonne", un'impietosa critica alla Chiesa postconciliare "inginocchiata al mondo".
Il 12 gennaio il cardinale Journet scrive a Maritain che incontrerà presto il papa, a Roma. Né l'uno né l'altro sanno che Paolo VI ha l'intenzione di indire l'Anno della Fede. Ma Maritain risponde a Journet confidandogli che da qualche giorno "un'idea mi è venuta in mente", che così descrive:
"Il Sovrano Pontefice rediga una professione di fede completa e dettagliata, nella quale sia esplicitato tutto ciò che è realmente contenuto nel Simbolo di Nicea. Questa sarà, nella storia della Chiesa, la professione di fede di Paolo VI".
Senza che Maritain gliel'abbia chiesto, Journet fotocopia la lettera del filosofo e la consegna al papa, quando lo incontra il 18 gennaio. In quell'occasione, Paolo VI chiede al teologo un giudizio sulla stato di salute della Chiesa: "Tragico", risponde Journet. Sia lui che il papa sono sotto choc per la pubblicazione avvenuta l'anno prima in Olanda, con la benedizione dei vescovi, di un nuovo Catechismo nientemeno "mirato a sostituire all'interno della Chiesa un'ortodossia a un'altra, un'ortodossia moderna all'ortodossia tradizionale" (così la commissione cardinalizia istituita da Paolo VI per esaminare quel Catechismo, di cui Journet fa parte).
Il 22 febbraio 1967 Paolo VI indice l'Anno della Fede. E due giorni dopo Maritain annota nel suo diario:
"È forse la preparazione per una professione di fede che lui stesso proclamerà?".
Quello stesso anno, dal 29 settembre al 29 ottobre, si riunisce a Roma il primo sinodo dei vescovi. Il rapporto finale della commissione dottrinale sottopone al papa la proposta di una dichiarazione sui punti essenziali della fede.
Il 14 dicembre Paolo VI riceve nuovamente il cardinale Journet. Questi ripresenta al papa l'idea di Maritain. E Paolo VI gli ricorda che già altri avevano suggerito, alla fine del Concilio Vaticano II, di promulgare un nuovo simbolo della fede. Lui stesso, il papa, aveva chiesto al famoso teologo domenicano Yves Congar di preparare un testo, che però non trovò soddisfacente, e accantonò.
Poi all'improvviso Paolo VI dice a Journet: "Preparatemi voi uno schema di ciò che voi pensate debba essere fatto".
Tornato in Svizzera, Journet riferisce la richiesta del papa a Maritain. E questi, all'inizio del nuovo anno, mentre è a Parigi, redige un progetto di professione di fede. Lo termina l'11 gennaio 1968 e il 20 lo invia a Journet. Che il giorno dopo lo trasmette a Paolo VI.
Dalla corrispondenza tra il teologo e il filosofo risulta che il testo elaborato da Maritain voleva essere soltanto una traccia che fosse d'aiuto a Journet. Ma è quest'ultimo che, di sua iniziativa, inoltra il testo al papa, senza aggiungervi nulla. A giudizio di Journet, in esso già trovavano risposta tutti i dubbi sollevati dal Catechismo olandese e da altri teologi contestatori su dogmi quali il peccato originale, la messa come sacrificio, la presenza reale di Cristo nell'eucaristia, la creazione dal nulla, il primato di Pietro, la verginità di Maria, l'immacolata concezione, l'assunzione.
Il 6 aprile arriva da Roma una lettera del teologo domenicano Benoît Duroux, consulente della congregazione per la dottrina della fede. Elogia il testo di Maritain e lo correda con alcuni commenti, che Journet interpreta come provenienti dallo stesso Paolo VI. Il quale a sua volta invia al cardinale un breve biglietto di ringraziamento.
Poi più nulla. Il 30 giugno 1968 Paolo VI pronuncia solennemente in piazza San Pietro il Credo del popolo di Dio. Maritain lo viene a sapere solo il 2 luglio, leggendo un giornale. Dalle citazioni, intuisce che il Credo pronunciato dal papa coincide ampiamente con la traccia scritta da lui.
E in effetti è così. Tra le poche variazioni, ce n'è una che riguarda gli ebrei e i musulmani.
In un passaggio, Maritain aveva citato esplicitamente la comune testimonianza che israeliti e islamici rendono all'unità di Dio insieme ai cristiani. Nel suo Credo, invece, Paolo VI rende grazie alla bontà divina per i "tanti credenti" che condividono con i cristiani la fede nel Dio unico, ma senza citare in forma esplicita l'ebraismo e l'islam.
Negli anni Cinquanta, Maritain fu vicino ad essere condannato dal Sant'Uffizio per il suo pensiero filosofico, sospettato di "naturalismo integrale". La condanna non scattò anche perché ne prese le difese Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, all'epoca sostituto segretario di stato, legato da lunga amicizia con il pensatore francese.
Il testo integrale del Credo del popolo di Dio pronunciato solennemente da Paolo VI il 30 giugno 1968, nella traduzione ufficiale in lingua italiana:
"Νοi crediamo in un solo Dio..."
Νοi crediamo in un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, Creatore delle cose visibili, come questo mondo ove trascorre la nostra vita fuggevole, delle cose invisibili quali sono i puri spiriti, chiamati altresì angeli, e Creatore in ciascun uomo dell'anima spirituale e immortale.
Νοi crediamo che questo unico Dio è assolutamente uno nella sua essenza infinitamente santa come in tutte le sue perfezioni: nella sua onnipotenza, nella sua scienza infinita, nella sua provvidenza, nella sua volontà e nel suo amore. Egli è Colui che è, com'egli stesso ha rivelato a Mosè; e egli è Amore, come ci insegna l'Apostolo Giovanni: cosicché questi due nomi, Essere e Amore, esprimono ineffabilmente la stessa realtà divina di colui, che ha voluto darsi a conoscere a noi, e che abitando in una luce inaccessibile è in se stesso al di sopra di ogni nome, di tutte le cose e di ogni intelligenza creata. Dio solo può darci la conoscenza giusta e piena di se stesso, rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo, alla cui eterna vita nοi siamo chiamati per grazia di lui a partecipare, quaggiù nell'oscurità della fede e, oltre la morte, nella luce perpetua, l'eterna vita. I mutui vincoli, che costituiscono eternamente le Tre Persone, le quali sono ciascuna l'unico e identico Essere divino, sono la beata vita intima di Dio tre volte santo, infinitamente al di là di tutto ciò che nοi possiamo concepire secondo l'umana misura. Intanto rendiamo grazie alla bontà divina per il fatto che moltissimi credenti possono attestare con nοi, davanti agli uomini, l'Unità di Dio, pur non conoscendo il mistero della Santissima Trinità.
Νοi dunque crediamo al Padre che genera eternamente il Figlio; al Figlio, Verbo di Dio, che è eternamente generato; allo Spirito Santo, Persona increata che procede dal Padre e dal Figlio come loro eterno Amore. In tal modo, nelle tre Persone divine, coeterne e coeguali, sovrabbondano e si consumano, nella sovreccellenza e nella gloria proprie dell'Essere increato, la vita e la beatitudine di Dio perfettamente uno; e sempre deve essere venerata l'Unità nella Trinità e la Trinità nell'Unità.
Noi crediamo in nostro signore Gesù Cristo, Figlio di Dio. Egli è il Verbo eterno, nato dal Padre prima di tutti i secoli, e al Padre consustanziale, homoousios to Patri; e per mezzo di lui tutto è stato fatto. Egli si è incarnato per opera dello Spirito Santo nel seno della Vergine Maria, e si è fatto uomo: eguale pertanto al Padre secondo la divinità, e inferiore al Padre secondo l'umanità, ed egli stesso uno, non per una qualche impossibile confusione delle nature, ma per l'unità della persona.
Egli ha dimorato in mezzo a noi, pieno di grazia e di verità. Egli ha annunciato e instaurato il Regno di Dio, e in sé ci ha fatto conoscere il Padre. Egli ci ha dato il suo comandamento nuovo, di amarci gli uni gli altri cοm'egli ci ha amato. Ci ha insegnato la via delle Beatitudini del Vangelo: povertà in spirito, mitezza, dolore sopportato nella pazienza, sete della giustizia, misericordia, purezza di cuore, volontà di pace, persecuzione sofferta per la giustizia. Egli ha patito sotto Ponzio Pilato, Agnello di Dio che porta sopra di sé i peccati del mondo, ed è morto per noi sulla Croce, salvandoci col suo sangue redentore. Egli è stato sepolto e, per suo proprio potere, è risorto nel terzo giorno, elevandoci con la sua Risurrezione alla partecipazione della vita divina, che è la vita della grazia. Egli è salito al cielo, e verrà nuovamente, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, ciascuno secondo i propri meriti; sicché andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all'Amore e alla Misericordia di Dio, e andranno nel fuoco inestinguibile coloro che fino all'ultimo vi hanno opposto il loro rifiuto. E il suo Regno non avrà fine.
Noi crediamo nello Spirito Santo, che è Signore e dona la vita; che è adorato e glorificato col Padre e col Figlio. Egli ci ha parlato per mezzo dei Profeti, ci è stato inviato da Cristo dopo la sua Risurrezione e la sua Ascensione al Padre; egli illumina, vivifica, protegge e guida la Chiesa, ne purifica i membri, purché non si sottraggano alla sua grazia. La sua azione, che penetra nell'intimo dell'anima, rende l'uomo capace di rispondere all'invito di Gesù: Siate perfetti com'è perfetto il Padre vostro celeste.
Noi crediamo che Maria è la Madre, rimasta sempre Vergine, del Verbo Incarnato, nostro Dio e Salvatore Gesù Cristο, e che, a motivo di questa singolare elezione, essa, in considerazione dei meriti di suo Figlio, è stata redenta in modo più eminente, preservata da ogni macchia del peccato originale e colmata del dono della grazia più che tutte le altre creature.
Associata ai misteri della Incarnazione e della Redenzione con un vincolo stretto e indissolubile, la Vergine Santissima, l'Immacolata, al termine della sua vita terrena è stata elevata in corpo e anima alla gloria celeste e configurata a suo Figlio risorto, anticipando la sorte futura di tutti i giusti; e noi crediamo che la Madre Santissima di Dio, nuova Eva, Madre della Chiesa, continua in cielo il suo ufficio materno riguardo ai membri di Cristo, cooperando alla nascita e allo sviluppo della vita divina nelle anime dei redenti.
Νοi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato: il che significa che la colpa originale da lui commessa ha fatto cadere la natura umana, comune a tutti gli uomini, in uno stato in cui essa porta le conseguenze di quella colpa, e che non è più lo stato in cui si trovava all'inizio nei nostri progenitori, costituiti nella santità e nella giustizia, e in cui l'uomo non conosceva né il male né la morte. È la natura umana così decaduta, spogliata della grazia che la rivestiva, ferita nelle sue proprie forze naturali e sottomessa al dominio della morte, che viene trasmessa a tutti gli uomini; ed è in tal senso che ciascun uomo nasce nel peccato. Νοi dunque professiamo, col Concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso con la natura umana, non per imitazione, ma per propagazione, e che esso è proprio a ciascuno.
Νοi crediamo che Nostro Signor Gesù Cristo mediante il Sacrificio della Croce ci ha riscattati dal peccato originale e da tutti i peccati personali commessi da ciascuno di noi, in maniera tale che, secondo la parola dell'Apostolo, là dove aveva abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia.
Noi crediamo in un solo battesimo, istituito da Nostro Signor Gesù Cristo per la remissione dei peccati. Il battesimo deve essere amministrato anche ai bambini che nοn hanno ancor potuto rendersi colpevoli di alcun peccato personale, affinché essi, nati privi della grazia soprannaturale, rinascano dall'acqua e dallo Spirito santo alla vita divina in Gesù Cristo.
Νοi crediamo nella Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, edificata da Gesù Cristo sopra questa pietra, che è Pietro. Essa è il Corpo mistico di Cristo, insieme società visibile, costituita di organi gerarchici, e comunità spirituale; essa è la Chiesa terrestre, Popolo di Dio pellegrinante quaggiù, e la Chiesa ricolma dei beni celesti; essa è il germe e la primizia del Regno di Dio, per mezzo del quale continuano, nella trama della storia umana, l'opera e i dolori della Redenzione, e che aspira al suo compimento perfetto al di là del tempo, nella gloria. Nel corso del tempo, il Signore Gesù forma la sua Chiesa mediante i Sacramenti, che emanano dalla sua pienezza. E con essi che la Chiesa rende i propri membri partecipi del mistero della Morte e della Risurrezione di Cristo, nella grazia dello Spirito Santo, che le dona vita e azione. Essa è dunque santa, pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia: appunto vivendo della sua vita, i suoi membri si santificano, come, sottraendosi alla sua vita, cadono nei peccati e nei disordini, che impediscono l'irradiazione della Sua Santità. Perciò la Chiesa soffre e fa penitenza per tali peccati, da cui ha il potere di guarire i suoi figli con il Sangue di Cristo ed il dono dello Spirito Santo.
Erede delle promesse divine e figlia di Abramo secondo lo Spirito, per mezzo di quell'Israele di cui custodisce con amore le sacre Scritture e venera i Patriarchi e i Profeti; fondata sugli Apostoli e trasmettitrice, di secolo in secolo, della loro parola sempre viva e dei loro poteri di Pastori nel Successore di Pietro e nei Vescovi in comunione con lui; costantemente assistita dallo Spirito Santo, la Chiesa ha la missione di custodire, insegnare, spiegare e diffondere la verità, che Dio ha manifestato in una maniera ancora velata per mezzo dei Profeti e pienamente per mezzo del Signore Gesù. Noi crediamo tutto ciò che è contenuto nella Parola di Dio, scritta o tramandata, e che la Chiesa propone a credere come divinamente rivelata sia con un giudizio solenne, sia con il magistero ordinarlo e universale. Νοi crediamo nell'infallibilità, di cui fruisce il Successore di Pietro, quando insegna ex cathedra come Pastore e Dottore di tutti i fedeli, e di cui è dotato altresì il Collegio dei Vescovi, quando esercita con lui il magistero supremo.
Noi crediamo che la Chiesa, che Gesù ha fondato e per la quale ha pregato, è indefettibilmente una nella fede, nel culto e nel vincolo della comunione gerarchica. Nel seno di questa Chiesa, sia la ricca varietà dei riti liturgici, sia la legittima diversità dei patrimoni teologici e spirituali e delle discipline particolari lungi dal nuocere alla sua unità, la mettono in maggiore evidenza.
Riconoscendo poi, al di fuori dell'organismo della Chiesa di Cristo, l'esistenza di numerosi elementi di verità e di santificazione che le appartengono in proprio e tendono all'unità cattolica, e credendo all'azione dello Spirito Santo che nel cuore dei discepoli di Cristo suscita l'amore per tale unità, noi nutriamo speranza che i cristiani, i quali non sono ancora nella piena comunione con l'unica Chiesa, si riuniranno un giorno in un solo gregge con un solo Pastore.
Noi crediamo che la Chiesa è necessaria alla salvezza, perché Cristo, che è il solo Mediatore e la sola via di salvezza, si rende presente per noi nel suo Corpo, che è la Chiesa. Ma il disegno divino della salvezza abbraccia tutti gli uomini: e coloro che, senza propria colpa, ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, ma cercano sinceramente Dio e sotto l'influsso della sua grazia si sforzano di compiere la sua volontà riconosciuta nei dettami della loro coscienza, anch'essi, in un numero che Dio solo conosce, possono conseguire la salvezza.
Νοi crediamo che la Messa, celebrata dal sacerdote che rappresenta la persona di Cristo in virtù del potere ricevuto nel sacramento dell'Ordine, e da lui offerta nel nome di Cristo e di membri del suo Corpo Mistico, è il Sacrificio del Calvario reso sacramentalmente presente sui nostri altari. Noi crediamo che, come il pane e il vino consacrati dal Signore nell'ultima Cena sono stati convertiti nel suo Corpo e nel suo Sangue che di lì a poco sarebbero stati offerti per noi sulla Croce, allo stesso modo il pane e il vino consacrati dal sacerdote sono convertiti nel Corpo e nel Sangue di Cristo gloriosamente regnante nel cielo; e crediamo che la misteriosa presenza del Signore, sotto quello che continua ad apparire come prima ai nostri sensi, è una presenza vera, reale e sostanziale.
Pertanto Cristo non può essere presente in questo Sacramento se non mediante la conversione nel suo Corpo della realtà stessa del pane e mediante la conversione nel suo Sangue della realtà stessa del vino, mentre rimangono immutate soltanto le proprietà del pane e del vino percepite dai nostri sensi. Tale conversione misteriosa è chiamata dalla Chiesa, in maniera assai appropriata, transustanziazione. Ogni spiegazione teologica, che tenti di penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in accordo con la fede cattolica deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva, indipendentemente dal nostro spirito, il pane e il vino han cessato di esistere dopo la consacrazione, sicché da quel momento sono il Corpo e il Sangue adorabili del Signore Gesù ad esser realmente dinanzi a noi sotto le specie sacramentali del pane e del vino, proprio come il Signore ha voluto, per donarsi a noi in nutri-mento e per associarci all'unità del suo Corpo Mistico.
L'unica ed indivisibile esistenza del Signore glorioso nel cielo non è moltiplicata, ma è resa presente dal sacramento nei numerosi luoghi della terra dove si celebra la Messa. Dopo il sacrificio, tale esistenza rimane presente nel Santo Sacramento, che è, nel tabernacolo, il cuore vivente di ciascuna delle nostre chiese. Ed è per noi un dovere dolcissimo onorare e adorare nell'Ostia Santa, che vedono i nostri occhi, il Verbo incarnato, che essi non posso no vedere e che, senza lasciare il cielo, si è reso presente dinanzi a noi.
Noi confessiamo che il Regno di Dio, cominciato quaggiù nella Chiesa di Cristo, non è di questo mondo, la cui figura passa; e che la sua vera crescita non può esser confusa con il progresso della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consiste nel conoscere sempre più profondamente le imperscrutabili ricchezze di Cristo, nello sperare sempre più fortemente i beni eterni, nel rispondere sempre più ardentemente all'amore di Dio, e nel dispensare sempre più abbondantemente la grazia e la santità tra gli uomini. Ma è questo stesso amore che porta la Chiesa a preoccuparsi costantemente del vero bene temporale degli uomini. Mentre non cessa di ricordare ai suoi figli che essi non hanno quaggiù stabile dimora, essa li spinge anche a contribuire – ciascuno secondo la propria vocazione ed i propri mezzi – al bene della loro città terrena, a promuovere la giustizia, la pace e la fratellanza tra gli uomini, a prodigare il loro aiuto ai propri fratelli, soprattutto ai più poveri e ai più bisognosi. L'intensa sollecitudine della Chiesa, Sposa di Cristo, per le necessità degli uomini, per le loro gioie e le loro speranze, i loro sforzi e i loro travagli, non è quindi altra cosa che il suo grande desiderio di esser loro presente per illuminarli con la luce di Cristo e adunarli tutti in lui, unico loro Salvatore. Tale sollecitudine non può mai significare che la Chiesa conformi se stessa alle cose di questo mondo, o che diminuisca l'ardore dell'attesa del suo Signore e del Regno eterno.
Noi crediamo nella vita eterna. Noi crediamo che le anime dl tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo, sia che debbano ancora esser purificate nel purgatorio, sia che dal momento in cui lasciano il proprio corpo siano accolte da Gesù in Paradiso, come egli fece per il Buon Ladrone, costituiscono il Popolo di Dio nell'aldilà della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della risurrezione, quando queste anime saranno riunite ai propri corpi.
Νοi crediamo che la moltitudine delle anime, che sono riunite intorno a Gesù ed a Maria in Paradiso, forma la Chiesa del cielo, dove esse nella beatitudine eterna vedono Dio così com'è e dove sono anche associate, in diversi gradi, con i santi Angeli al governo divino esercitato da Cristo glorioso, intercedendo per noi ed aiutando la nostra debolezza con la loro fraterna sollecitudine.
Noi crediamo alla comunione tra tutti i Fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la propria purificazione e dei beati del cielo, i quali tutti insieme formano una sola Chiesa; noi crediamo che in questa comunione l'amore misericordioso di Dio e dei suoi Santi ascolta costantemente le nostre preghiere, secondo la parola di Gesù: Chiedete e riceverete. E con la fede e nella speranza, noi attendiamo la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà.
Sia benedetto Dio santo, santo, santo. Amen.
Pronunciato davanti alla Basilica di San Pietro, il 30 giugno dell'anno 1968, sesto del Nostro Pontificato.
PAOLO PP. VI
L’Osservatore Romano intervista Silvio Berlusconi
«La Chiesa è una ricchezza.
Dialogo su ogni argomento»
«La Chiesa è una ricchezza per lo Stato, perciò il dialogo è aperto su ogni argomento. Solo un regime totalitario elimina il contributo della religione al dibattito pubblico...». È un passaggio dell'intervista che il presidente del Consiglio dei ministri italiano, Silvio Berlusconi, ha concesso a "L'Osservatore Romano" e alla Radio Vaticana, alla vigilia dell'udienza con Benedetto XVI.
La Chiesa è una ricchezza per lo Stato, perciò il dialogo è aperto su ogni argomento. Solo un regime totalitario elimina il contributo della religione al dibattito pubblico. È un passaggio dell'intervista che il presidente del Consiglio dei ministri italiano, Silvio Berlusconi, ha concesso a "L'Osservatore Romano" e alla Radio Vaticana, alla vigilia dell'udienza con Benedetto XVI. Si tratta della prima intervista realizzata congiuntamente dai due organi di informazione della Santa Sede a un presidente del Consiglio italiano. Berlusconi passa in rassegna diversi temi la cui urgenza è stata sottolineata anche dalle riflessioni dei vescovi italiani nella loro recente assemblea. Sui fenomeni, preoccupanti, di ribellione e insofferenza da parte della cittadinanza, in Italia come in Europa - ha detto Berlusconi - ci sono responsabilità e colpe dell'Unione europea, che non ha tenuto adeguatamente conto delle necessità degli Stati membri. Ma in Italia, ora, c'è bisogno soprattutto di collaborazione, per affrontare le grandi emergenze del Paese.
Presidente, sono molti i temi sul tappeto. Lasciamo sullo sfondo i temi del dibattito politico che troviamo trattati sui giornali e sui quali siamo tutti ampiamente informati. Focalizziamo, invece, il nostro colloquio su alcune grandi urgenze proposte dalla riflessione della Chiesa. Il primo è il rapporto tra Chiesa e Stato. Presidente Berlusconi, su quali temi è possibile dialogare e su quali, invece, è possibile trovare degli accordi?
Direi su tutti i temi, senza che ci siano limitazioni alcune. Quindi è possibile ogni dialogo su ogni argomento. La nostra Costituzione, la Costituzione italiana, è molto chiara a questo riguardo. Non ci possono essere preclusioni alla manifestazione di opinioni e di principi da parte di alcuno, e la Chiesa e le sue organizzazioni hanno tutto il diritto di esprimere le proprie valutazioni e lo Stato - lo Stato laico - poi esprimerà un suo giudizio e potrà servirsi e seguire queste valutazioni nella sua azione politica. Anche lo Stato, da parte sua, ha le sue forme di espressione della volontà che, in un regime democratico, avviene attraverso gli organi rappresentativi, i quali hanno un potere legiferante. Non c'è nessun dubbio che non ci siano limiti a questo potere, se non quelli espressi nella Costituzione. E questo è il fondamento che legittima, appunto, la laicità dello Stato; questo non esclude però che tutte le forze che operano nella società abbiano il diritto di esprimersi in funzione delle proprie convinzioni, che sono politiche ma che sono anche religiose o culturali o di impostazione economica e sociale. Io ritengo che sarebbe una perdita significativa di libertà, per lo Stato, escludere o soffocare la manifestazione di queste convinzioni, direi di qualsiasi convinzione. È tipico proprio di ogni totalitarismo di sopprimerle, ed è un dato storico che i regimi totalitari incominciano proprio con il soffocare la libertà di espressione da parte delle istituzioni religiose. Io sono convinto che proprio per la sua millenaria esperienza, per il suo contatto con tutte le fasce sociali, a cominciare dalle fasce sociali più deboli, la Chiesa rappresenti una ricchezza per lo Stato. Lo Stato, volendo essere e volendo restare laico, deve fuggire dal pericolo di diventare ideologico, di diventare settario e alla fine addirittura totalitario. Perciò, il dialogo che precede il rapporto tra Stato e Chiesa come organismi giuridici, è un dialogo assolutamente positivo, che risiede nella natura stessa della società e dimostra la libertà e la pluralità della società.
Presidente, la Chiesa insiste molto sul concetto di bene comune. In Italia, ma anche in Europa, ci sono segnali di inquietudine sociale, talvolta di ribellione, anche, alle decisioni istituzionali che arrivano fino anche all'intolleranza: pensiamo, ovviamente, al tema dei rifiuti in Italia e anche all'accoglienza degli immigrati. Secondo lei, le istituzioni nazionali ed europee, dove hanno sbagliato nell'azione politica, e come si può ricostruire il consenso sociale per il bene comune?
Intanto, credo che sia necessario fare una premessa. In Italia, i fenomeni di cui ha parlato hanno assunto connotati molto minori di quelli che si evidenziano in altri Paesi. Si connotano soprattutto come avvenimenti singoli, episodici e non certo di massa: penso al raffronto con quanto è accaduto nelle banlieues parigine, con certe tensioni che si sono create anche nelle città tedesche o anche in città britanniche. Detto questo, anche da noi esistono questi segnali che non vanno sottovalutati. E io direi che, soprattutto, non vanno sottovalutati i problemi che sono a monte di questi disagi, cioè le difficoltà economiche, i problemi occupazionali - in particolare per i giovani - le difficoltà di integrare il flusso massiccio di ospiti provenienti da altre nazioni con altre culture, con altre religioni, con i nostri cittadini. Sono questi tutti problemi che sono alla base, in Italia e in Europa, di quello che lei ha parlato disegnandolo come un "ribellismo" giovanile e, più in generale, di un nuovo egoismo, di un rinchiudersi in se stessi di fronte alle minacce esterne, vere o presunte che siano. Quindi, la politica del nostro Governo mira innanzitutto a tagliare alle radici queste motivazioni rilanciando l'economia, per creare un benessere più diffuso anche verso i nuovi cittadini, e costruendo una politica della sicurezza e dell'accoglienza che sappia coniugare la garanzia dei diritti con un rigoroso rispetto dei doveri. Credo, certo, che questo non basterà a sanare tutto, perché il disagio sociale è grande ed è una malattia che bisogna curare con un massiccio rilancio proprio dei valori morali e religiosi. Ma comunque, queste saranno le fondamenta necessarie per costruire una convivenza civile che metta ai margini le frange di ribellione collettiva e limiti nei singoli l'istinto di chiusura e di egoismo. Quanto poi su che cosa i governi o addirittura l'Unione europea abbiano sbagliato a questo riguardo, io non so darle ora una risposta documentata. L'Unione europea, secondo me, deve cambiare, perché oggi i cittadini di tutta Europa la sentono non come qualcosa che aiuta, ma come qualcosa che costringe i singoli Stati a tutta una serie di situazioni, di limitazioni che non vanno nella direzione del bene dei cittadini. Io credo che noi dobbiamo fare una profonda revisione del modo di agire dell'Europa. Ne ho parlato in questi giorni proprio con alcuni colleghi, con Sarkozy, con Rodríguez Zapatero, ne avevo parlato con Tony Blair e con altri, e sono tutti convinti che siamo di fronte alla necessità di una riflessione su ciò che l'Europa non ha fatto, su ciò che l'Europa ha fatto sbagliando, su ciò che l'Europa dovrà fare.
Di recente il Papa ha espresso ai vescovi italiani la sua gioia per il rinnovato clima politico che si respira in Italia. La riflessione che vorrei fare con lei è questa: che rapporti ci sono con l'opposizione, con l'opposizione parlamentare e - ci permetta una franchezza - vi parlate, al telefono, anche con Veltroni, con una certa regolarità?
C'è una certa regolarità di contatti con Veltroni e anche con altri esponenti dell'opposizione che, da parte nostra, è sempre stato un atteggiamento convinto. Siamo assolutamente aperti al confronto con gli altri, e li rispettiamo tutti, a partire da quelli che sono i meno fortunati. Questo, perciò, nella vita politica vale assolutamente nei confronti di tutti. Le dirò che poi, tra l'altro, abbiamo anche una maggiore facilità adesso, perché ali estreme della sinistra e della destra non sono presenti in Parlamento, quindi l'opposizione che troviamo in Parlamento dovrebbe essere - io spero che lo sia - una opposizione che pensa soprattutto al bene comune. Abbiamo cinque anni di lavoro di questo Governo e l'opposizione non penso che voglia tornare a essere quella che è stata in passato, durante il mio primo Governo, quella - cioè - che aspettava che noi prendessimo una decisione per dire che era sbagliata. Io credo che invece la situazione dell'Italia, i tanti momenti negativi che noi abbiamo ereditato, e che viviamo, siano tali da necessitare l'impegno di tutti, se vogliamo veramente riuscire a far rialzare l'Italia. In questi giorni, mi sono incontrato con dei leader europei e tutti si lamentavano di quello che stanno soffrendo tutti i Paesi d'Europa: l'alto prezzo del petrolio, delle altre materie prime, il fatto della competizione che ci viene imposta con prodotti che vengono dall'Oriente, dove il costo del lavoro è una frazione del costo che abbiamo noi, il fatto del prezzo del petrolio, l'ipervalutazione dell'euro, che rende difficilissime le nostre esportazioni ... A queste cose noi aggiungiamo altre cose che sono mali nostri e che purtroppo gli altri non hanno: l'eccessivo costo dello Stato, della pubblica amministrazione, che è circa il 50% di più di quello che costano gli altri Stati agli altri cittadini europei; il debito pubblico che qui è il più elevato, che ci fa spendere decine di miliardi in interessi passivi ogni anno; l'evasione eccessiva, che riguarda quasi il 20 per cento del nostro prodotto interno; l'energia, che paghiamo più di tutti gli altri Stati perché dobbiamo comprarla tutta all'estero; la carenza di infrastrutture, per non parlare poi della situazione tragica di Napoli, della Campania, che ci espone a un disastro per quanto riguarda anche le nostre esportazioni, del made in Italy, dell'alta tecnologia, dei nostri cibi pregiati, verso l'estero. Io credo che siamo di fronte a una situazione che tutti conoscono, e questa consapevolezza che sono sicuro sia in tutti, non possa che comportare un diverso atteggiamento anche nella lotta politica: che diventi meno lotta e diventi invece più considerazione dell'interesse comune.
Presidente, l'inquietudine sociale di cui parlavamo prima coinvolge indubbiamente anche la famiglia, sul piano economico. Le associazioni familiari chiedono da tempo sgravi familiari. Crede che questa sia una strada praticabile?
Guardi, noi lo abbiamo già praticata in due direzioni. La prima è quella di avere abolito l'imposta comunale sugli immobili sulla prima casa: e questo è un primo aiuto dato alle famiglie. Secondo, quello di avere abolito, praticamente ridotto moltissimo, quasi completamente, la tassazione di quel lavoro in più - gli straordinari - oppure di quegli stipendi e salari in più legati a premi di produttività. Con questo, credo, innovando e rivoluzionando il rapporto tra imprese e i loro collaboratori: si potrà da qui in avanti tenere fermo l'ammontare dello stipendio su cui grava una tassazione che, grosso modo, è intorno al 45-46 per cento, e lasciando ferma questa prima parte, fare incrementi di stipendio nella direzione di premi di produttività che saranno tassati soltanto per il 10 per cento. Questo credo che sarà un altro grande aiuto. Poi, di aiuti, ne abbiamo in programma tanti. Il primo, più importante, soprattutto per le famiglie numerose, sarebbe quello del quoziente familiare che già è una realtà - per esempio - in Francia: cioè, quando un capofamiglia singolo deve mantenere moglie e più figli, non ci sembra logico che, guadagnando la stessa somma, paghi le stesse imposte di un single. In Francia, per esempio - per fare un esempio concreto - chi guadagna 35.000 euro all'anno e ha a carico proprio la moglie e tre figli, praticamente non paga l'imposta personale mentre, invece, naturalmente, in Italia questa imposta arriva - mi sembra - a 5.600 euro. Ecco: questa è una cosa che noi abbiamo in mente e che sarà possibile se ci sarà uno sviluppo positivo dei conti pubblici nei nostri bilanci. Siamo impegnati a far sì che si risparmino molti soldi là dove le spese sono inutili, a evitare tutti gli sprechi, a limare i privilegi, a chiudere delle società che non portano nulla, a operare all'interno della pubblica amministrazione affinché tutti lavorino il giusto e chi non lavora possa essere anche allontanato. Insomma, è un lavoro non da poco; non è un lavoro immediato, breve. È un lavoro di medio periodo, però è il lavoro che noi ci stiamo accingendo a fare e nell'ambito della pubblica amministrazione, ha incominciato molto bene il nostro Gianni Letta.
Presidente, affrontiamo il tema dell'emergenza educativa. Di recente, in Italia, il cardinale Bagnasco ha richiamato l'attenzione su alcuni aspetti problematici dei media, soprattutto nella prospettiva dello sviluppo del digitale terrestre e anche della tv satellitare. Cosa ne pensa lei? E crede che sia possibile armonizzare le esigenze commerciali con le responsabilità che hanno oggi la radio, la televisione, in particolare la televisione nella formazione dell'individuo? Pensiamo, per esempio, alla Campania, dove c'è un'emergenza rifiuti: quanto sarebbe interessante educare i giovani, per esempio, all'educazione ecologica?
Non è necessario e interessante, è addirittura indispensabile. Tant'è vero che nel piano che sto mettendo a punto per risolvere questo problema dei rifiuti in Campania e a Napoli, una delle cose più importanti è la raccolta differenziata che verrà insegnata soprattutto nelle scuole, affinché gli stessi ragazzi possano, a casa loro, convincere padre e madre ad adeguarsi a quella che è una necessità affinché Napoli possa riportarsi a quel livello di civiltà che dovrebbe essere indispensabile per una città e che restituisca, tra l'altro, a Napoli lo splendore di città dell'arte quale essa è, in effetti. Perciò, è molto importante che la scuola educhi gli alunni al senso civico, al rispetto degli altri, anche attraverso questi comportamenti che riguardano fatti come la raccolta differenziata; ma è anche importante che i media si possano cimentare nella formazione dei giovani, ma direi anche di tutti i cittadini di qualsiasi età. Vede, qui c'è una carenza della nostra radio e della nostra televisione nazionale, che è pagata attraverso il canone e quindi con i soldi di tutti e che invece è diventata una televisione commerciale come le televisioni private, pur usufruendo - come ho appena detto - del canone da parte dei cittadini, di una tassa che i cittadini sono costretti a pagare. Vede, le funzioni della televisione privata, commerciale e della televisione pubblica dovrebbero essere assolutamente diverse. La televisione privata dovrebbe avere tra le sue funzioni quella di divertire, come seconda funzione quella di informare e soltanto successivamente, quella di formare. La televisione pubblica e la radio pubblica dovrebbero invece esattamente fare il contrario: dovrebbero avere come prima funzione quella di formare, poi quella di informare e infine, magari, anche quella di divertire. Pensate a quello che invece è la nostra televisione pubblica oggi: si vede che è esattamente come una televisione commerciale. Credo che dovremo introdurre un cambiamento se non globale, almeno limitato, destinando anche programmi di formazione, ma non nelle ore impossibili, oltre la mezzanotte, alla mattina prestissimo, eccetera: anche in ore centrali della giornata. E credo che questo, a Napoli, sia assolutamente indispensabile.
Passiamo a un tema internazionale: il vertice della Fao sull'emergenza alimentare sta terminando. Sono - siamo - tutti d'accordo nel combattere la fame nel mondo ma poi, quando si tratta di operare concretamente impegnando soldi ed energie, gli Stati un po' si defilano. Qual è la sua posizione e quella dell'Italia?
Io sono stato per qualche ora presidente dell'Assemblea dei 183 Paesi che sono venuti a Roma e ho fatto un intervento in apertura, molto breve, perché volevo inviare un messaggio molto conciso e preciso. Cioè: siamo arrivati al tempo dei fatti e non delle parole, perché la fame non può attendere, perché circa un miliardo di esseri umani certamente non comprende i giochi della grande politica, le logiche del mercato, le sottigliezze delle organizzazioni internazionali, ma hanno semplicemente fame e muoiono di fame. Perciò, il mio invito ai partecipanti del Congresso è stato questo: non dilungatevi sulle analisi storiche, sulle analisi accademiche! Trovate soluzioni concrete su cui impegnarvi, e decidete anche i tempi della loro realizzazione. Quindi, la lotta alla fame si divide oggi in due momenti: anzitutto l'emergenza, dovuta al fatto che alcuni Paesi che prima erano Paesi di auto-consumo, hanno incominciato, allontanandosi dalla povertà, a soddisfare i loro bisogni anche acquistando i beni alimentari all'estero, in testa a tutti la Cina e l'India, e la speculazione si è subito infilata in questo varco. Ora, per questo bisogna avere subito disponibilità finanziarie, bisogna attingere alle riserve disponibili per alleviare le situazioni più drammatiche, più disperate, e bisogna che i Paesi più ricchi mettano a disposizione maggiori risorse per fare fronte a questa situazione. E a questo proposito io ho detto: ma, non dobbiamo assistere senza fare nulla alla impennata dei prezzi! Se c'è qualcuno che deve pagare i prezzi in più, c'è anche qualcuno che incassa prezzi in più. E quindi, bisognerebbe chiedere agli Stati, dove ci sono i produttori che hanno queste utilità, di incassare questi utili e che il sovrapprezzo speculativo dei produttori venga destinato in parte ad aiuti immediati. La seconda fase è chiedere contributi da parte delle Nazioni Unite ai Paesi produttori di petrolio che incassano ogni giorno degli utili straordinari. Infine, e noi abbiamo tra l'altro dato anche il buon esempio, perché abbiamo portato da 60 milioni a 190 milioni il nostro contributo per il 2008, bisognerebbe che l'Europa - e di questo ho parlato con Rodríguez Zapatero e Sarkozy che si sono dichiarati d'accordo - non calcolasse nei deficit, quando noi presentiamo i bilanci, le somme che i singoli Stati potrebbero destinare all'aiuto alimentare. E se questo accadesse - io ne parlerò nel prossimo Consiglio europeo - noi e tutti gli altri Paesi potremmo aumentare immediatamente i nostri aiuti. Ma poi, c'è il futuro, e il futuro si risolve soltanto con una maggiore formazione, con una più ampia messa a disposizione delle varie tecnologie, con il ricorso all'Ogm in tutti i singoli Paesi, dove si deve arrivare a una possibilità di sopperire autonomamente alle proprie esigenze alimentari. Cioè: il futuro non è che nell'auto-produzione di ciascun Paese. Per fare questo, c'è un grande ostacolo ed è che molti di questi Paesi sono Paesi ancora non democratici. E soltanto la democrazia può consentire la libertà dei singoli, solo con la libertà i singoli possono mettere a frutto i loro talenti in ogni settore, quindi anche come imprenditori nell'agricoltura. E questo è il grande problema su cui dovrebbero ragionare e unirsi tutte le democrazie liberali del mondo per sviluppare tutte le azioni possibili affinché i Paesi che sono quelli più poveri, in cui esistono dittature e governi autocratici possano passare da questa situazione a una situazione di democrazia. Soltanto con la democrazia mondiale, di tutti i Paesi, potremmo avere in futuro una pace mondiale che dia veramente, a tutti i cittadini del mondo, la possibilità di guardare al futuro senza angoscia.
di Marco Bellizi e Luca Collodi
L'Osservatore Romano - 6 giugno 2008
Orissa, i perseguitati di serie B
di Giorgio Bernardelli
Mondo e Missione maggio 2008
"Nel villaggio il clima tra noi e gli indù era sempre stato buono. Li invitavamo alle nostre feste e noi partecipavamo alle loro. Ma adesso abbiamo tutti paura". Parla della sua Baminigam padre Santosh Kumar Singh, giovane prete dell’arcidiocesi di Chuttack e Bhubaneswar. Parla di un villaggio come tanti altri in questa zona dell’India Orientale. Un gruppo di case nella foresta che, all’improvviso, si trasforma nell’epicentro della più imponente ondata di violenze anti-cristiane degli ultimi anni.
È la storia di quanto avvenuto qui in Orissa a Natale. Con le scorribande dei fanatici indù dell’RSS che hanno lasciato dietro di sé sette morti e centinaia di case, chiese, scuole e dispensari bruciati nel distretto di Kandhamal. E in un clima di intimidazione che – a ormai diversi mesi di distanza – qui si tocca ancora con mano.
Ancora alla Domenica delle Palme, ad esempio, nel villaggio di Tyiangia, una folla istigata dai soliti noti si è radunata gridando slogan anti-cristiani. Le violenze sono state evitate solo perché il parroco ha deciso di annullare la processione.
Tutto è cominciato a Baminigam il 24 dicembre, vigilia di Natale. "Vuoi sapere come è andata davvero?", chiede subito padre Santosh. Ci tiene a raccontarlo. Perché di ricostruzioni dei fatti ne girano parecchie. E quella apparsa sui giornali indiani cita come scintilla l’aggressione contro lo swami Laxmananda Saraswati, un santone indù legato all’RSS che gira per l’Orissa per "riportare alle loro origini" i tribali convertitisi al cristianesimo.
"Non è così", ribatte padre Santosh. "Tutto è nato quando la mattina del 24 dicembre ci è stato revocato il permesso di celebrare in piazza il Natale. Sono arrivati i nostri negozianti e gli è stato detto che dovevano tornare a casa. Ci sarà stata anche tensione. Ma dalla foresta sono subito spuntati fuori duecento uomini armati di bastoni che hanno cominciato a distruggere e bruciare tutto".
Sono andate avanti quattro giorni queste violenze. Favorite da inspiegabili ritardi nell’intervento delle forze dell’ordine. Con i cristiani costretti a scappare nella foresta per sopravvivere, mentre le loro case continuavano a bruciare. Vi sono rimasti per giorni e notti, al freddo, nutrendosi di quello che trovavano. Finché, finalmente, le autorità locali hanno allestito delle tendopoli. E nel distretto di Kandhamal è tornata una calma carica di tensione e di grossi dubbi.
"Avevamo capito quello che stava per accadere", racconta mons. Raphael Cheenath, l’arcivescovo di Chuttack-Bhubaneswar, nel cui territorio si trova il distretto di Kandhamal. "Il 22 dicembre avevamo detto chiaramente alle autorità che per Natale temevamo di subire violenze. Loro ci avevano promesso protezione. Invece non hanno fatto proprio niente".
Incontro mons. Cheenath a Bhubaneswar, la capitale dell’Orissa. Il distretto di Kandhamal dista da qui cinque o sei ore di macchina nella foresta. Eppure in quei giorni la violenza è arrivata fino all’arcivescovado, con una bottiglia incendiaria lanciata contro l’ingresso. E non è un mistero per nessuno che le riunioni dell’RSS in cui si additano i cristiani come nemici avvengano anche in questa città di 800 mila abitanti. Ma, più dei conciliaboli segreti, sono le decisioni pubbliche a preoccupare l’arcivescovo. L’atteggiamento perlomeno ambiguo tenuto dal governo locale, guidato dal primo ministro Naveen Patnaik, alleato del BJP, il partito nazionalista indù.
"A febbraio – continua l’arcivescovo – proprio qui in Orissa c’è stato un attacco da parte dei guerriglieri maoisti. Hanno assaltato una caserma di polizia e ucciso alcuni agenti. Lo stato di emergenza è scattato immediatamente: nel giro di poche ore i militari sono arrivati in massa. A Natale, invece, – quando nel distretto di Kandhamal a subire le violenze erano i cristiani – ci sono voluti quattro giorni. Perché questa differenza di comportamento?".
Ma c’è anche il problema dell’assistenza alle vittime, ancora aperto. "Non permettono alle nostre organizzazioni di portare aiuti", denuncia mons. Cheenath. "Là c’è gente che ha perso tutto: hanno bruciato loro le case, sono rimasti con i vestiti che avevano addosso. Il governo ha promesso che provvederà, ma gli aiuti non arrivano. E la popolazione continua a soffrire".
Con le case, nel distretto di Kandhamal, è l’intero lavoro di trent’anni a essere andato distrutto: scuole, dispensari, centri di assistenza. Persino la casa dei Missionari della Carità, il ramo maschile dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta – che ospita lebbrosi e malati di tubercolosi –, è stata attaccata. Tutto è stato lasciato per ore a bruciare, mentre i cristiani scappavano nella foresta. E adesso si fa lezione sotto le tende. "Misereor" – l’organizzazione di solidarietà internazionale della Chiesa tedesca – si è fatta avanti per aiutare a ricostruire. Ma il governo dell’Orissa non dà i permessi. Allo stesso arcivescovo per 42 giorni è stata negata la possibilità di recarsi a visitare le comunità colpite.
"Ufficialmente – commenta monsignor Cheenath – ci dicono che è per motivi di sicurezza. Ma la verità è che vogliono ostacolare la presenza delle organizzazioni cristiane. Gli estremisti indù ci accusano di operare conversioni attraverso gli aiuti. Ma è un’accusa falsa: lo hanno visto tutti qui in Orissa nel 1999, quando c’è stato un tremendo ciclone. Furono duemila i nostri volontari mobilitati. E aiutarono tutti, senza distinzioni". Per sbloccare questa situazione è dovuta intervenire l’8 aprile la corte suprema indiana, con una sentenza che ha dichiarato illegittimo il divieto.
Nel guardare questa grande città, così uguale a tante altre, si fa fatica a credere che sia un covo di fanatici. "Sappiamo che molti indù sono contrari alle violenze", conferma l'arcivescovo. "Privatamente ci hanno anche espresso solidarietà. Però hanno paura di esporsi. E così questa campagna d’odio condotta dai fanatici sta producendo risultati. Ci dipingono come i nemici, dicono apertamente che vogliono distruggerci".
"Ma secondo lei da dove nasce tutto questo odio contro i cristiani?", gli chiedo.
"Sono convinto – risponde l’arcivescovo – che dietro all’estremismo religioso vi sia una motivazione più nascosta, che è di ordine sociale. Il vero problema non sono le conversioni, ma l’opera di promozione che negli ultimi 140 anni in Orissa i cristiani hanno compiuto a favore dei tribali e dei dalit, gli ultimi nella scala delle caste. Prima erano come schiavi. Adesso – almeno una parte di loro – studiano nelle nostre scuole, mettono in piedi attività nei villaggi, rivendicano i propri diritti. E chi – anche nell’India del boom economico – vuole mantenere intatta la vecchia divisione in caste, ha paura che acquistino troppa forza. L’Orissa di oggi è un laboratorio. In gioco c’è il futuro dei milioni di dalit e tribali che vivono in tutto il paese".
L’Orissa è come il nuovo laboratorio dei fondamentalisti: lo ripetono in tanti nella comunità cristiana. Perché è vero che questo è uno degli Stati più poveri del subcontinente. Però anche qui a Bhubaneswar qualcosa si sta muovendo. Esci dall’arcivescovado e ti imbatti nel Big Bazar, il nuovissimo centro commerciale in stile americano. L’aeroporto – come tutti gli scali indiani – è in espansione. E in città crescono le torri dei centri direzionali.
"Sembra incredibile, ma quando abbiamo aperto, vent’anni fa, qui intorno c’era ancora la giungla", racconta padre E. A. Augustine, direttore dello Xavier Insitute of Management, uno dei vanti della città. Una facoltà di economia dalla storia interessante: è frutto di un accordo tra il governo dell’Orissa e la locale Provincia dei gesuiti.
Anche in uno Stato come l'Orissa in cui vige la legge anti-conversione, dunque, non c’è alcuna difficiltà a intitolare a San Francesco Saverioun ente di diritto pubblico. Perché in India Xavier School è ovunque sinonimo di qualità. "Tutti vogliono le nostre strutture – continua padre Augustine –, ne riconoscono la qualità. A parte pochi fanatici, ci rispettano. Però noi non vogliamo essere un centro d’élite. Ad esempio, organizziamo anche corsi di management rurale, pensati specificamente per lo sviluppo dei villaggi".
E poi – sempre qui a Bhubaneswar – c’è l’altro volto della presenza dei gesuiti. Quello dello Human Life Center, con i suoi corsi popolari di inglese parlato per aiutare chi è emigrato in città dalle aree rurali. O i corsi di sartoria, di dattilografia, di informatica, per dare un’opportunità a chi non ne avrebbe altre. E poi le sette scuole aperte direttamente negli slum di Bhubaneswar. Perché il cambiamento deve arrivare anche lì.
L’impressione è che alla fine il vero problema stia proprio qui. La violenza in Orissa non è semplicemente l’eredità di un passato che l’India fa fatica a lasciarsi alle spalle. Lo scontro riguarda il presente e soprattutto il futuro del Paese. Riguarda una situazione sociale in cui quanti per secoli sono rimasti ai margini cominciano ad alzare la testa. E allora chi – al contrario – vuole mantenere lo status quo gioca la carta dell’identità minacciata.
C’è un importante appuntamento elettorale in vista: nel maggio del 2009 in India ci saranno le elezioni generali. Il BJP – il partito nazionalista indù, sconfitto nel 2004 dall’alleanza tra il Partito del Congresso e la sinistra – mira alla rivincita. E – come hanno dimostrato nel 2002 le violenze contro i musulmani in Gujarat – soffiare sulle tensioni tra gruppi religiosi è il modo più efficace per rafforzare le fila. "Non è un caso – sostiene padre Jimmy Dhabby, direttore a New Delhi dell’Indian Social Institute – che queste violenze contro i cristiani siano scoppiate poche settimane dopo la riconferma alla guida del Gujarat di Narendra Modi, uno degli esponenti di punta del BJP. E che siano avvenute proprio in Orissa, uno Stato dove nel 2009 si voterà anche per il governo locale".
È un gioco che – nonostante i fatti di Natale – a Bhubaneswar va avanti. Basta aprire l’edizione locale del quotidiano "The Indian Express" in un giorno qualunque per trovare dichiarazioni come questa, del leader del RSS K. S. Sudar-shan: "Sono molte le minacce che incombono sulla nazione: la violenza dei maoisti, la jihad islamica, le conversioni dei missionari cristiani. Dobbiamo unirci per reagire. Non aspettate che altri lo facciano per voi".
La stessa inchiesta promossa dal governo dell’Orissa per fare luce su quanto accaduto a Natale, sta procedendo con metodi alquanto discutibili. "Dopo mesi in cui non si era saputo più nulla – ha denunciato sul suo blog John Dayal, segretario generale dell’All India Christian Council – il giudice incaricato è arrivato senza preavviso nel distretto di Kandhamal. Ha interrogato le suore e i preti. Che sono rimasti a bocca aperta sentendosi domandare: Avete convertito qualcuno qui?". Come se l’oggetto dell’inchiesta fosse l’operato dei cristiani, non le violenze commesse dai fanatici indù.
Altro capitolo preoccupante è quello dei risarcimenti. "Finora non sono state ancora date indicazioni ufficiali – continua Dayal –, ma sui giornali abbiamo letto che mentre scuole, ostelli e dispensari potranno ricevere un contributo di 200 mila rupie (circa 5 mila dollari), le chiese e i conventi saranno esclusi da ogni risarcimento. Se ciò fosse sarebbe non solo sorprendente ma offensivo. Il principale obiettivo degli attacchi sono state proprio le chiese e i conventi. Escluderli non ha alcun senso".
Questa è l'aria che si respira oggi in Orissa. "Sotto la cenere cova una situazione esplosiva", denuncia Hemanl Naik, dell’Orissa Dalit Adivasi Action Net. "Da tempo i nazionalisti indù fanno campagne per 'riconvertire' i tribali cristiani. Non sono queste delle violazioni delle leggi anti-conversione? Perché non le applicano?".
Dopo tante persone uccise, dopo tante case e chiese cristiane bruciate una domanda si impone. Dove sta la differenza rispetto alle violenze islamiche in altre regioni, alle quali – giustamente – è riservato così tanto spazio sui media? E perché nessuno in Occidente alza la voce su ciò che accade nell'Orissa? A Pasqua la protesta dei cristiani davanti al parlamento a New Delhi non ha fatto notizia sui nostri giornali.
La risposta dell'arcivescovo Cheenath è amara: "L’India di oggi è un mercato che fa gola a tutti – spiega –. Ci sono grandi interessi economici, tutti vogliono avere buone relazioni con noi. In una situazione del genere ciò che accade alle minoranze non interessa a nessuno".
È un grido di dolore scomodo, quello che sale oggi dai cristiani dell’Orissa.
Dove portano le nuove linee guida sulla procreazione medicalmente assistita
Redazione06/06/2008
Autore(i): Redazione. Pubblicato il 06/06/2008 – IlSussidiario.net
Mentre nel nostro Paese ci si interrogava sulla composizione del nuovo Governo, si veniva a sapere che il ministro della Salute Livia Turco aveva modificato le linee guida della legge n. 40/2004 in materia di procreazione medicalmente assistita proprio alla vigilia del passaggio di consegne al nuovo esecutivo.
Val la pena di ripercorrere brevemente le tappe salienti della vicenda che ha suscitato non poco sconcerto in molti commentatori, esponenti della comunità scientifica ed operatori del diritto.
Nel novembre del 2004 una società che si occupa di procreazione medicalmente assistita aveva impugnato le linee guida in materia, emanate con decreto ministeriale del luglio dello stesso anno, davanti al TAR Lazio, che aveva respinto il ricorso con sentenza depositata nel maggio del 2005. Tuttavia il Consiglio di Stato aveva annullato la sentenza in questione per ragioni procedurali, rinviando nuovamente l’esame della vicenda al TAR Lazio. Quest’ultimo, con sentenza del gennaio di quest’anno emessa da una sezione diversa da quella che si era pronunciata in precedenza, ha annullato le linee guida nella parte in cui stabilivano che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro dovesse essere “di tipo osservazionale” (basata cioè sull’esame al microscopio di eventuali anomalie di sviluppo dell’embrione creato in vitro), in quanto tale previsione sarebbe in contrasto con il dettato della legge n. 40/2004. A questo punto il Ministro Turco, senza nemmeno attendere il passaggio in giudicato della sentenza e senza considerare che davanti alla Corte Costituzionale pende un giudizio di legittimità su altri aspetti della legge n. 40/2004 (che ovviamente potrebbe avere ripercussioni anche sulle linee guida), emanava “una versione aggiornata” delle linee guida stesse. Il relativo decreto ministeriale, adottato in data 11 aprile 2008 (due giorni prima delle elezioni!), veniva pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 30 aprile 2008. Si impongono a questo punto alcune considerazioni:
1) il TAR Lazio ha fondato la decisione di annullare parzialmente le linee guida sul rilievo che, se il legislatore ha previsto la possibilità di consentire interventi diagnostici sull’embrione per finalità di tutela dell’embrione stesso, tali interventi non potrebbero essere limitati alle indagini di tipo osservazionale. La legge n. 40/2004 sul punto prevede che «la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative». Ciò significa che l’indagine genetica preimpianto (caratterizzata dal prelievo di una cellula per esaminarla) è consentita solamente per tutelare la salute dell’embrione. Nella sentenza di reiezione del primo ricorso, il TAR Lazio aveva tuttavia rilevato che «non esistono ancora terapie geniche che permettano di curare un embrione malato», con la conseguenza che «la diagnosi preimpianto non potrebbe che concernere le sole qualità genetiche dello stesso embrione» e dunque, aggiungiamo noi, aprire il varco alla diagnosi preimpianto a finalità eugenetica, espressamente vietata dalla legge n. 40/2004. L’aver trascurato questo ordine di considerazioni rende la seconda pronuncia del TAR Lazio non condivisibile. Nell’interpretazione una norma non si può infatti prescindere dall’osservazione della realtà, tanto più quando si tratta di linee guida soggette ad un aggiornamento periodico (almeno ogni tre anni) «in rapporto all’evoluzione tecnico-scientifica», con la possibilità, secondo quanto rilevato dal TAR Lazio nella prima sentenza, che le stesse linee guida possano prevedere «in un più o meno prossimo futuro, l’indagine genetica a scopo terapeutico».
2) Come rilevato da alcuni autorevoli commentatori, tra i quali il Presidente Emerito della Corte Costituzionale Annibale Marini, il governo dimissionario può adottare solo ed esclusivamente atti di ordinaria amministrazione, ossia atti di fatto privi di discrezionalità. Il decreto ministeriale concernente le nuove linee guida certamente non rientra certamente in questa categoria di atti in quanto:
l’emanazione di linee guida su argomenti tanto sensibili non può mai essere considerata atto di ordinaria amministrazione, in quanto comunque espressione di un indirizzo politico-amministrativo del ministro;
la sentenza del TAR Lazio non era ancora passata in giudicato e avrebbe potuto pertanto essere eventualmente impugnata dal successore del ministro Turco e dalle altre parti del giudizio;
è pendente davanti alla Consulta una questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14 della legge n. 40/2004, sollevata dal TAR Lazio proprio con la sentenza alla quale il ministro Turco sostiene di aver dato esecuzione;
come si chiarirà tra poco, le nuove linee guida non hanno recepito “asetticamente” le indicazioni del TAR Lazio in tema di diagnosi preimpianto;
in ogni caso le nuove linee guida introducono previsioni che non trovano riscontro nella precedente formulazione delle stesse, come ad esempio la possibilità di accedere alle tecniche di fecondazione assistita per i portatori di patologie sessualmente trasmissibili.
3) Nelle nuove linee guida il ministro Turco ha eliminato le previsioni relative alle indagini di tipo osservazionale sugli embrioni quale unica possibile forma di intervento, senza introdurre disposizioni che disciplinino e limitino la possibilità di effettuare diagnosi preimpianto. Ha osservato autorevolmente su www.ilsussidiario.net il professor Francesco D’Agostino, presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica, che «poiché questa norma è stata cancellata, tutte le indagini a carico degli embrioni dovrebbero essere lecite e soprattutto dovrebbero essere leciti i test genetici. I test genetici sono ad alto rischio per la vita embrionale, mentre la diagnosi osservazionale non comporta rischi perché, di fatto, si tratta di mettere gli embrioni sotto il microscopio semplicemente per osservarli. I test genetici, invece, si svolgono prelevando una o più cellule dall'embrione per sottoporle ad analisi genetiche: questa pratica ha una percentuale di rischio e in un numero non raro di casi porta la morte degli embrioni. Questo è contro lo spirito della legge, che vuole garantire la nascita di tutti gli embrioni procreati in vitro. Un'ulteriore considerazione: una volta fatti i test genetici si vanifica l'indicazione, che pure formalmente rimane nelle linee guida, secondo la quale non si possono fare indagini prenatali a fini eugenetici. Questa dichiarazione rimane, ma diventa un flatus vocis: se un medico svolge un test genetico e riscontra un'anomalia a carico dell'embrione, anche un'anomalia pienamente compatibile con la vita, o addirittura una non-anomalia come l'indicazione del sesso dell'embrione, e se quindi la donna viene ad apprendere che l'embrione è del sesso che non desidera o comunque presenta un'anomalia di cui ella non si vuole far carico, proibirà, e può farlo, l'impianto degli embrioni nel proprio utero. Ma in questo modo si verifica obiettivamente una pratica di selezione eugenetica dei nascituri».
Questi possibili scenari nulla hanno a che vedere con quanto sancito nella sentenza del TAR Lazio, che comunque aveva ribadito la necessità che gli interventi diagnostici siano finalizzati esclusivamente alla tutela dell’embrione. Per queste ragioni si ritiene auspicabile che il nuovo ministro provveda a modificare le linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita.
Avv. Riccardo Marletta, membro del Consiglio Nazionale Libera Associazione Forense
1) Ecco come si distingue un cattolico in politica, di Giorgio Vittadini
2) Il Credo di Paolo VI. Chi lo scrisse e perché, di Sandro Magister
3) L’Osservatore Romano intervista Silvio Berlusconi
4) Orissa, i perseguitati di serie B
5) Dove portano le nuove linee guida sulla procreazione medicalmente assistita
Ecco come si distingue un cattolico in politica
Giorgio Vittadini06/06/2008
Autore(i): Giorgio Vittadini. Pubblicato il 06/06/2008 – IlSussidiario.net
Continua, praticamente senza soluzione di continuità, la discussione sul ruolo dei cattolici nella vita politica. Dopo le valutazioni sul loro peso nel nuovo governo, autorevoli esponenti dell’opposizione hanno più volte messo in guardia sul pericolo che la Chiesa si ponga come organizzazione in qualche modo al servizio del potere. Come spesso accade, il problema è un altro, non schematizzabile in questa rozza ottocentesca contrapposizione.
A chi è preoccupato per la presenza - scarsa o eccessiva, a seconda che la si guardi da destra o da sinistra - dei cattolici al potere, va ricordato quanto rispondeva don Giussani in un’intervista di Pierluigi Battista, su La Stampa del 1996. Alla domanda: «Ma lei si sente più garantito da un cristiano al governo?», il sacerdote milanese rispondeva: «No. Il problema è la sincera dedizione al bene comune e una competenza reale e adeguata. Ci può essere un cristiano ingolfato nei problemi ecclesiastici la cui onestà naturale e la cui competenza possono lasciare dubbi». Molti esempi in questi 60 anni di storia repubblicana lo dimostrano.
Dagli anni ’50 in poi molti cattolici, paradossalmente alleati di coloro che oggi hanno paura degli interventi della Chiesa, sono divenuti i più feroci assertori, anche nell’ultimo periodo, di uno statalismo “buono”, all’origine della gran parte dei mali attuali del nostro Paese. Ma allora, per evitare il rischio di un potere fine a se stesso, occorre rifugiarsi in uno spiritualismo disincarnato? Piuttosto, come ha detto il Pontefice all’assemblea generale della CEI, di fronte alla sfida del relativismo e del nichilismo che riguarda tutti, servono «educatori che sappiano essere testimoni credibili di quelle realtà e di quei valori su cui è possibile costruire sia l’esistenza personale sia progetti di vita comuni e condivisi». Il cristianesimo ha una reale incidenza storica quando è vissuto non come una ideologia teorica, ma come un’esperienza personale in cui si guardi e si segua la Presenza misteriosa e amica che abita la realtà. Chi vive così diventa utile a tutta la compagnia umana - come dimostra la storia del nostro Paese -, perché prende coscienza del desiderio di bene che alberga nel suo cuore, diviene capace di cogliere i veri bisogni di qualunque uomo, comincia a costruire opere che sono forme di vita nuova, sa chiedere alla politica di salvaguardare l’affermazione di quei valori che rendono più umana la convivenza di tutti. E se fa politica la rinnova, con pazienza, dal di dentro, in qualunque posizione di potere sia o qualunque compito abbia.
Il Credo di Paolo VI. Chi lo scrisse e perché
Anche la Chiesa ebbe il suo 1968, espresso ad esempio dal Catechismo olandese. La risposta di papa Montini fu il "Credo del popolo di Dio". Oggi si sa che a scriverlo fu il suo amico filosofo Jacques Maritain
di Sandro Magister
ROMA, 6 giugno 2008 – Alla fine di questo mese papa Benedetto XVI inaugurerà un anno giubilare dedicato all'apostolo Paolo, in occasione del secondo millennio della sua nascita. La celebrazione inizierà sabato 28, vigilia della festa del santo, e terminerà un anno dopo.
Quarant'anni fa, tra il 1967 e il 1968, papa Paolo VI fece qualcosa di simile. Dedicò un anno di celebrazioni agli apostoli Pietro e Paolo, in occasione del diciannovesimo centenario del loro martirio. Lo chiamò "Anno della Fede". E lo concluse in piazza San Pietro, il 30 giugno 1968, pronunciando una solenne professione di fede, il "Credo del popolo di Dio".
Il testo di questo Credo ricalcò quello formulato al Concilio di Nicea, che si recita in ogni messa. Ma con importanti complementi e sviluppi.
Come e perché nacque in Paolo VI l'idea di coronare l'Anno della Fede con la proclamazione del Credo del popolo di Dio? E come fu redatto quel testo?
La risposta a queste due domande è in un volume che uscirà presto in Francia, il VI tomo della "Correspondance" tra il teologo e cardinale svizzero Charles Journet e il filosofo francese Jacques Maritain, cioè le 303 lettere che i due si scambiarono tra il 1965 e il 1973.
Perché fu proprio Maritain a scrivere la traccia del Credo del popolo di Dio che poi Paolo VI pronunciò. Nel volume di prossima uscita saranno pubblicati i due testi a fronte, con evidenziate le poche varianti.
Intanto, però, il cardinale Georges Cottier – discepolo di Journet e teologo emerito della casa pontificia – ha già anticipato i retroscena di quel Credo al mensile internazionale "30 Giorni", che vi ha dedicato la copertina dell'ultimo numero.
* * *
Nel 1967 Maritain ha 85 anni. Vive a Tolosa, tra i Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld. Ha appena pubblicato "Le paysan de la Garonne", un'impietosa critica alla Chiesa postconciliare "inginocchiata al mondo".
Il 12 gennaio il cardinale Journet scrive a Maritain che incontrerà presto il papa, a Roma. Né l'uno né l'altro sanno che Paolo VI ha l'intenzione di indire l'Anno della Fede. Ma Maritain risponde a Journet confidandogli che da qualche giorno "un'idea mi è venuta in mente", che così descrive:
"Il Sovrano Pontefice rediga una professione di fede completa e dettagliata, nella quale sia esplicitato tutto ciò che è realmente contenuto nel Simbolo di Nicea. Questa sarà, nella storia della Chiesa, la professione di fede di Paolo VI".
Senza che Maritain gliel'abbia chiesto, Journet fotocopia la lettera del filosofo e la consegna al papa, quando lo incontra il 18 gennaio. In quell'occasione, Paolo VI chiede al teologo un giudizio sulla stato di salute della Chiesa: "Tragico", risponde Journet. Sia lui che il papa sono sotto choc per la pubblicazione avvenuta l'anno prima in Olanda, con la benedizione dei vescovi, di un nuovo Catechismo nientemeno "mirato a sostituire all'interno della Chiesa un'ortodossia a un'altra, un'ortodossia moderna all'ortodossia tradizionale" (così la commissione cardinalizia istituita da Paolo VI per esaminare quel Catechismo, di cui Journet fa parte).
Il 22 febbraio 1967 Paolo VI indice l'Anno della Fede. E due giorni dopo Maritain annota nel suo diario:
"È forse la preparazione per una professione di fede che lui stesso proclamerà?".
Quello stesso anno, dal 29 settembre al 29 ottobre, si riunisce a Roma il primo sinodo dei vescovi. Il rapporto finale della commissione dottrinale sottopone al papa la proposta di una dichiarazione sui punti essenziali della fede.
Il 14 dicembre Paolo VI riceve nuovamente il cardinale Journet. Questi ripresenta al papa l'idea di Maritain. E Paolo VI gli ricorda che già altri avevano suggerito, alla fine del Concilio Vaticano II, di promulgare un nuovo simbolo della fede. Lui stesso, il papa, aveva chiesto al famoso teologo domenicano Yves Congar di preparare un testo, che però non trovò soddisfacente, e accantonò.
Poi all'improvviso Paolo VI dice a Journet: "Preparatemi voi uno schema di ciò che voi pensate debba essere fatto".
Tornato in Svizzera, Journet riferisce la richiesta del papa a Maritain. E questi, all'inizio del nuovo anno, mentre è a Parigi, redige un progetto di professione di fede. Lo termina l'11 gennaio 1968 e il 20 lo invia a Journet. Che il giorno dopo lo trasmette a Paolo VI.
Dalla corrispondenza tra il teologo e il filosofo risulta che il testo elaborato da Maritain voleva essere soltanto una traccia che fosse d'aiuto a Journet. Ma è quest'ultimo che, di sua iniziativa, inoltra il testo al papa, senza aggiungervi nulla. A giudizio di Journet, in esso già trovavano risposta tutti i dubbi sollevati dal Catechismo olandese e da altri teologi contestatori su dogmi quali il peccato originale, la messa come sacrificio, la presenza reale di Cristo nell'eucaristia, la creazione dal nulla, il primato di Pietro, la verginità di Maria, l'immacolata concezione, l'assunzione.
Il 6 aprile arriva da Roma una lettera del teologo domenicano Benoît Duroux, consulente della congregazione per la dottrina della fede. Elogia il testo di Maritain e lo correda con alcuni commenti, che Journet interpreta come provenienti dallo stesso Paolo VI. Il quale a sua volta invia al cardinale un breve biglietto di ringraziamento.
Poi più nulla. Il 30 giugno 1968 Paolo VI pronuncia solennemente in piazza San Pietro il Credo del popolo di Dio. Maritain lo viene a sapere solo il 2 luglio, leggendo un giornale. Dalle citazioni, intuisce che il Credo pronunciato dal papa coincide ampiamente con la traccia scritta da lui.
E in effetti è così. Tra le poche variazioni, ce n'è una che riguarda gli ebrei e i musulmani.
In un passaggio, Maritain aveva citato esplicitamente la comune testimonianza che israeliti e islamici rendono all'unità di Dio insieme ai cristiani. Nel suo Credo, invece, Paolo VI rende grazie alla bontà divina per i "tanti credenti" che condividono con i cristiani la fede nel Dio unico, ma senza citare in forma esplicita l'ebraismo e l'islam.
Negli anni Cinquanta, Maritain fu vicino ad essere condannato dal Sant'Uffizio per il suo pensiero filosofico, sospettato di "naturalismo integrale". La condanna non scattò anche perché ne prese le difese Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, all'epoca sostituto segretario di stato, legato da lunga amicizia con il pensatore francese.
Il testo integrale del Credo del popolo di Dio pronunciato solennemente da Paolo VI il 30 giugno 1968, nella traduzione ufficiale in lingua italiana:
"Νοi crediamo in un solo Dio..."
Νοi crediamo in un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, Creatore delle cose visibili, come questo mondo ove trascorre la nostra vita fuggevole, delle cose invisibili quali sono i puri spiriti, chiamati altresì angeli, e Creatore in ciascun uomo dell'anima spirituale e immortale.
Νοi crediamo che questo unico Dio è assolutamente uno nella sua essenza infinitamente santa come in tutte le sue perfezioni: nella sua onnipotenza, nella sua scienza infinita, nella sua provvidenza, nella sua volontà e nel suo amore. Egli è Colui che è, com'egli stesso ha rivelato a Mosè; e egli è Amore, come ci insegna l'Apostolo Giovanni: cosicché questi due nomi, Essere e Amore, esprimono ineffabilmente la stessa realtà divina di colui, che ha voluto darsi a conoscere a noi, e che abitando in una luce inaccessibile è in se stesso al di sopra di ogni nome, di tutte le cose e di ogni intelligenza creata. Dio solo può darci la conoscenza giusta e piena di se stesso, rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo, alla cui eterna vita nοi siamo chiamati per grazia di lui a partecipare, quaggiù nell'oscurità della fede e, oltre la morte, nella luce perpetua, l'eterna vita. I mutui vincoli, che costituiscono eternamente le Tre Persone, le quali sono ciascuna l'unico e identico Essere divino, sono la beata vita intima di Dio tre volte santo, infinitamente al di là di tutto ciò che nοi possiamo concepire secondo l'umana misura. Intanto rendiamo grazie alla bontà divina per il fatto che moltissimi credenti possono attestare con nοi, davanti agli uomini, l'Unità di Dio, pur non conoscendo il mistero della Santissima Trinità.
Νοi dunque crediamo al Padre che genera eternamente il Figlio; al Figlio, Verbo di Dio, che è eternamente generato; allo Spirito Santo, Persona increata che procede dal Padre e dal Figlio come loro eterno Amore. In tal modo, nelle tre Persone divine, coeterne e coeguali, sovrabbondano e si consumano, nella sovreccellenza e nella gloria proprie dell'Essere increato, la vita e la beatitudine di Dio perfettamente uno; e sempre deve essere venerata l'Unità nella Trinità e la Trinità nell'Unità.
Noi crediamo in nostro signore Gesù Cristo, Figlio di Dio. Egli è il Verbo eterno, nato dal Padre prima di tutti i secoli, e al Padre consustanziale, homoousios to Patri; e per mezzo di lui tutto è stato fatto. Egli si è incarnato per opera dello Spirito Santo nel seno della Vergine Maria, e si è fatto uomo: eguale pertanto al Padre secondo la divinità, e inferiore al Padre secondo l'umanità, ed egli stesso uno, non per una qualche impossibile confusione delle nature, ma per l'unità della persona.
Egli ha dimorato in mezzo a noi, pieno di grazia e di verità. Egli ha annunciato e instaurato il Regno di Dio, e in sé ci ha fatto conoscere il Padre. Egli ci ha dato il suo comandamento nuovo, di amarci gli uni gli altri cοm'egli ci ha amato. Ci ha insegnato la via delle Beatitudini del Vangelo: povertà in spirito, mitezza, dolore sopportato nella pazienza, sete della giustizia, misericordia, purezza di cuore, volontà di pace, persecuzione sofferta per la giustizia. Egli ha patito sotto Ponzio Pilato, Agnello di Dio che porta sopra di sé i peccati del mondo, ed è morto per noi sulla Croce, salvandoci col suo sangue redentore. Egli è stato sepolto e, per suo proprio potere, è risorto nel terzo giorno, elevandoci con la sua Risurrezione alla partecipazione della vita divina, che è la vita della grazia. Egli è salito al cielo, e verrà nuovamente, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, ciascuno secondo i propri meriti; sicché andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all'Amore e alla Misericordia di Dio, e andranno nel fuoco inestinguibile coloro che fino all'ultimo vi hanno opposto il loro rifiuto. E il suo Regno non avrà fine.
Noi crediamo nello Spirito Santo, che è Signore e dona la vita; che è adorato e glorificato col Padre e col Figlio. Egli ci ha parlato per mezzo dei Profeti, ci è stato inviato da Cristo dopo la sua Risurrezione e la sua Ascensione al Padre; egli illumina, vivifica, protegge e guida la Chiesa, ne purifica i membri, purché non si sottraggano alla sua grazia. La sua azione, che penetra nell'intimo dell'anima, rende l'uomo capace di rispondere all'invito di Gesù: Siate perfetti com'è perfetto il Padre vostro celeste.
Noi crediamo che Maria è la Madre, rimasta sempre Vergine, del Verbo Incarnato, nostro Dio e Salvatore Gesù Cristο, e che, a motivo di questa singolare elezione, essa, in considerazione dei meriti di suo Figlio, è stata redenta in modo più eminente, preservata da ogni macchia del peccato originale e colmata del dono della grazia più che tutte le altre creature.
Associata ai misteri della Incarnazione e della Redenzione con un vincolo stretto e indissolubile, la Vergine Santissima, l'Immacolata, al termine della sua vita terrena è stata elevata in corpo e anima alla gloria celeste e configurata a suo Figlio risorto, anticipando la sorte futura di tutti i giusti; e noi crediamo che la Madre Santissima di Dio, nuova Eva, Madre della Chiesa, continua in cielo il suo ufficio materno riguardo ai membri di Cristo, cooperando alla nascita e allo sviluppo della vita divina nelle anime dei redenti.
Νοi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato: il che significa che la colpa originale da lui commessa ha fatto cadere la natura umana, comune a tutti gli uomini, in uno stato in cui essa porta le conseguenze di quella colpa, e che non è più lo stato in cui si trovava all'inizio nei nostri progenitori, costituiti nella santità e nella giustizia, e in cui l'uomo non conosceva né il male né la morte. È la natura umana così decaduta, spogliata della grazia che la rivestiva, ferita nelle sue proprie forze naturali e sottomessa al dominio della morte, che viene trasmessa a tutti gli uomini; ed è in tal senso che ciascun uomo nasce nel peccato. Νοi dunque professiamo, col Concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso con la natura umana, non per imitazione, ma per propagazione, e che esso è proprio a ciascuno.
Νοi crediamo che Nostro Signor Gesù Cristo mediante il Sacrificio della Croce ci ha riscattati dal peccato originale e da tutti i peccati personali commessi da ciascuno di noi, in maniera tale che, secondo la parola dell'Apostolo, là dove aveva abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia.
Noi crediamo in un solo battesimo, istituito da Nostro Signor Gesù Cristo per la remissione dei peccati. Il battesimo deve essere amministrato anche ai bambini che nοn hanno ancor potuto rendersi colpevoli di alcun peccato personale, affinché essi, nati privi della grazia soprannaturale, rinascano dall'acqua e dallo Spirito santo alla vita divina in Gesù Cristo.
Νοi crediamo nella Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, edificata da Gesù Cristo sopra questa pietra, che è Pietro. Essa è il Corpo mistico di Cristo, insieme società visibile, costituita di organi gerarchici, e comunità spirituale; essa è la Chiesa terrestre, Popolo di Dio pellegrinante quaggiù, e la Chiesa ricolma dei beni celesti; essa è il germe e la primizia del Regno di Dio, per mezzo del quale continuano, nella trama della storia umana, l'opera e i dolori della Redenzione, e che aspira al suo compimento perfetto al di là del tempo, nella gloria. Nel corso del tempo, il Signore Gesù forma la sua Chiesa mediante i Sacramenti, che emanano dalla sua pienezza. E con essi che la Chiesa rende i propri membri partecipi del mistero della Morte e della Risurrezione di Cristo, nella grazia dello Spirito Santo, che le dona vita e azione. Essa è dunque santa, pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia: appunto vivendo della sua vita, i suoi membri si santificano, come, sottraendosi alla sua vita, cadono nei peccati e nei disordini, che impediscono l'irradiazione della Sua Santità. Perciò la Chiesa soffre e fa penitenza per tali peccati, da cui ha il potere di guarire i suoi figli con il Sangue di Cristo ed il dono dello Spirito Santo.
Erede delle promesse divine e figlia di Abramo secondo lo Spirito, per mezzo di quell'Israele di cui custodisce con amore le sacre Scritture e venera i Patriarchi e i Profeti; fondata sugli Apostoli e trasmettitrice, di secolo in secolo, della loro parola sempre viva e dei loro poteri di Pastori nel Successore di Pietro e nei Vescovi in comunione con lui; costantemente assistita dallo Spirito Santo, la Chiesa ha la missione di custodire, insegnare, spiegare e diffondere la verità, che Dio ha manifestato in una maniera ancora velata per mezzo dei Profeti e pienamente per mezzo del Signore Gesù. Noi crediamo tutto ciò che è contenuto nella Parola di Dio, scritta o tramandata, e che la Chiesa propone a credere come divinamente rivelata sia con un giudizio solenne, sia con il magistero ordinarlo e universale. Νοi crediamo nell'infallibilità, di cui fruisce il Successore di Pietro, quando insegna ex cathedra come Pastore e Dottore di tutti i fedeli, e di cui è dotato altresì il Collegio dei Vescovi, quando esercita con lui il magistero supremo.
Noi crediamo che la Chiesa, che Gesù ha fondato e per la quale ha pregato, è indefettibilmente una nella fede, nel culto e nel vincolo della comunione gerarchica. Nel seno di questa Chiesa, sia la ricca varietà dei riti liturgici, sia la legittima diversità dei patrimoni teologici e spirituali e delle discipline particolari lungi dal nuocere alla sua unità, la mettono in maggiore evidenza.
Riconoscendo poi, al di fuori dell'organismo della Chiesa di Cristo, l'esistenza di numerosi elementi di verità e di santificazione che le appartengono in proprio e tendono all'unità cattolica, e credendo all'azione dello Spirito Santo che nel cuore dei discepoli di Cristo suscita l'amore per tale unità, noi nutriamo speranza che i cristiani, i quali non sono ancora nella piena comunione con l'unica Chiesa, si riuniranno un giorno in un solo gregge con un solo Pastore.
Noi crediamo che la Chiesa è necessaria alla salvezza, perché Cristo, che è il solo Mediatore e la sola via di salvezza, si rende presente per noi nel suo Corpo, che è la Chiesa. Ma il disegno divino della salvezza abbraccia tutti gli uomini: e coloro che, senza propria colpa, ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, ma cercano sinceramente Dio e sotto l'influsso della sua grazia si sforzano di compiere la sua volontà riconosciuta nei dettami della loro coscienza, anch'essi, in un numero che Dio solo conosce, possono conseguire la salvezza.
Νοi crediamo che la Messa, celebrata dal sacerdote che rappresenta la persona di Cristo in virtù del potere ricevuto nel sacramento dell'Ordine, e da lui offerta nel nome di Cristo e di membri del suo Corpo Mistico, è il Sacrificio del Calvario reso sacramentalmente presente sui nostri altari. Noi crediamo che, come il pane e il vino consacrati dal Signore nell'ultima Cena sono stati convertiti nel suo Corpo e nel suo Sangue che di lì a poco sarebbero stati offerti per noi sulla Croce, allo stesso modo il pane e il vino consacrati dal sacerdote sono convertiti nel Corpo e nel Sangue di Cristo gloriosamente regnante nel cielo; e crediamo che la misteriosa presenza del Signore, sotto quello che continua ad apparire come prima ai nostri sensi, è una presenza vera, reale e sostanziale.
Pertanto Cristo non può essere presente in questo Sacramento se non mediante la conversione nel suo Corpo della realtà stessa del pane e mediante la conversione nel suo Sangue della realtà stessa del vino, mentre rimangono immutate soltanto le proprietà del pane e del vino percepite dai nostri sensi. Tale conversione misteriosa è chiamata dalla Chiesa, in maniera assai appropriata, transustanziazione. Ogni spiegazione teologica, che tenti di penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in accordo con la fede cattolica deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva, indipendentemente dal nostro spirito, il pane e il vino han cessato di esistere dopo la consacrazione, sicché da quel momento sono il Corpo e il Sangue adorabili del Signore Gesù ad esser realmente dinanzi a noi sotto le specie sacramentali del pane e del vino, proprio come il Signore ha voluto, per donarsi a noi in nutri-mento e per associarci all'unità del suo Corpo Mistico.
L'unica ed indivisibile esistenza del Signore glorioso nel cielo non è moltiplicata, ma è resa presente dal sacramento nei numerosi luoghi della terra dove si celebra la Messa. Dopo il sacrificio, tale esistenza rimane presente nel Santo Sacramento, che è, nel tabernacolo, il cuore vivente di ciascuna delle nostre chiese. Ed è per noi un dovere dolcissimo onorare e adorare nell'Ostia Santa, che vedono i nostri occhi, il Verbo incarnato, che essi non posso no vedere e che, senza lasciare il cielo, si è reso presente dinanzi a noi.
Noi confessiamo che il Regno di Dio, cominciato quaggiù nella Chiesa di Cristo, non è di questo mondo, la cui figura passa; e che la sua vera crescita non può esser confusa con il progresso della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consiste nel conoscere sempre più profondamente le imperscrutabili ricchezze di Cristo, nello sperare sempre più fortemente i beni eterni, nel rispondere sempre più ardentemente all'amore di Dio, e nel dispensare sempre più abbondantemente la grazia e la santità tra gli uomini. Ma è questo stesso amore che porta la Chiesa a preoccuparsi costantemente del vero bene temporale degli uomini. Mentre non cessa di ricordare ai suoi figli che essi non hanno quaggiù stabile dimora, essa li spinge anche a contribuire – ciascuno secondo la propria vocazione ed i propri mezzi – al bene della loro città terrena, a promuovere la giustizia, la pace e la fratellanza tra gli uomini, a prodigare il loro aiuto ai propri fratelli, soprattutto ai più poveri e ai più bisognosi. L'intensa sollecitudine della Chiesa, Sposa di Cristo, per le necessità degli uomini, per le loro gioie e le loro speranze, i loro sforzi e i loro travagli, non è quindi altra cosa che il suo grande desiderio di esser loro presente per illuminarli con la luce di Cristo e adunarli tutti in lui, unico loro Salvatore. Tale sollecitudine non può mai significare che la Chiesa conformi se stessa alle cose di questo mondo, o che diminuisca l'ardore dell'attesa del suo Signore e del Regno eterno.
Noi crediamo nella vita eterna. Noi crediamo che le anime dl tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo, sia che debbano ancora esser purificate nel purgatorio, sia che dal momento in cui lasciano il proprio corpo siano accolte da Gesù in Paradiso, come egli fece per il Buon Ladrone, costituiscono il Popolo di Dio nell'aldilà della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della risurrezione, quando queste anime saranno riunite ai propri corpi.
Νοi crediamo che la moltitudine delle anime, che sono riunite intorno a Gesù ed a Maria in Paradiso, forma la Chiesa del cielo, dove esse nella beatitudine eterna vedono Dio così com'è e dove sono anche associate, in diversi gradi, con i santi Angeli al governo divino esercitato da Cristo glorioso, intercedendo per noi ed aiutando la nostra debolezza con la loro fraterna sollecitudine.
Noi crediamo alla comunione tra tutti i Fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la propria purificazione e dei beati del cielo, i quali tutti insieme formano una sola Chiesa; noi crediamo che in questa comunione l'amore misericordioso di Dio e dei suoi Santi ascolta costantemente le nostre preghiere, secondo la parola di Gesù: Chiedete e riceverete. E con la fede e nella speranza, noi attendiamo la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà.
Sia benedetto Dio santo, santo, santo. Amen.
Pronunciato davanti alla Basilica di San Pietro, il 30 giugno dell'anno 1968, sesto del Nostro Pontificato.
PAOLO PP. VI
L’Osservatore Romano intervista Silvio Berlusconi
«La Chiesa è una ricchezza.
Dialogo su ogni argomento»
«La Chiesa è una ricchezza per lo Stato, perciò il dialogo è aperto su ogni argomento. Solo un regime totalitario elimina il contributo della religione al dibattito pubblico...». È un passaggio dell'intervista che il presidente del Consiglio dei ministri italiano, Silvio Berlusconi, ha concesso a "L'Osservatore Romano" e alla Radio Vaticana, alla vigilia dell'udienza con Benedetto XVI.
La Chiesa è una ricchezza per lo Stato, perciò il dialogo è aperto su ogni argomento. Solo un regime totalitario elimina il contributo della religione al dibattito pubblico. È un passaggio dell'intervista che il presidente del Consiglio dei ministri italiano, Silvio Berlusconi, ha concesso a "L'Osservatore Romano" e alla Radio Vaticana, alla vigilia dell'udienza con Benedetto XVI. Si tratta della prima intervista realizzata congiuntamente dai due organi di informazione della Santa Sede a un presidente del Consiglio italiano. Berlusconi passa in rassegna diversi temi la cui urgenza è stata sottolineata anche dalle riflessioni dei vescovi italiani nella loro recente assemblea. Sui fenomeni, preoccupanti, di ribellione e insofferenza da parte della cittadinanza, in Italia come in Europa - ha detto Berlusconi - ci sono responsabilità e colpe dell'Unione europea, che non ha tenuto adeguatamente conto delle necessità degli Stati membri. Ma in Italia, ora, c'è bisogno soprattutto di collaborazione, per affrontare le grandi emergenze del Paese.
Presidente, sono molti i temi sul tappeto. Lasciamo sullo sfondo i temi del dibattito politico che troviamo trattati sui giornali e sui quali siamo tutti ampiamente informati. Focalizziamo, invece, il nostro colloquio su alcune grandi urgenze proposte dalla riflessione della Chiesa. Il primo è il rapporto tra Chiesa e Stato. Presidente Berlusconi, su quali temi è possibile dialogare e su quali, invece, è possibile trovare degli accordi?
Direi su tutti i temi, senza che ci siano limitazioni alcune. Quindi è possibile ogni dialogo su ogni argomento. La nostra Costituzione, la Costituzione italiana, è molto chiara a questo riguardo. Non ci possono essere preclusioni alla manifestazione di opinioni e di principi da parte di alcuno, e la Chiesa e le sue organizzazioni hanno tutto il diritto di esprimere le proprie valutazioni e lo Stato - lo Stato laico - poi esprimerà un suo giudizio e potrà servirsi e seguire queste valutazioni nella sua azione politica. Anche lo Stato, da parte sua, ha le sue forme di espressione della volontà che, in un regime democratico, avviene attraverso gli organi rappresentativi, i quali hanno un potere legiferante. Non c'è nessun dubbio che non ci siano limiti a questo potere, se non quelli espressi nella Costituzione. E questo è il fondamento che legittima, appunto, la laicità dello Stato; questo non esclude però che tutte le forze che operano nella società abbiano il diritto di esprimersi in funzione delle proprie convinzioni, che sono politiche ma che sono anche religiose o culturali o di impostazione economica e sociale. Io ritengo che sarebbe una perdita significativa di libertà, per lo Stato, escludere o soffocare la manifestazione di queste convinzioni, direi di qualsiasi convinzione. È tipico proprio di ogni totalitarismo di sopprimerle, ed è un dato storico che i regimi totalitari incominciano proprio con il soffocare la libertà di espressione da parte delle istituzioni religiose. Io sono convinto che proprio per la sua millenaria esperienza, per il suo contatto con tutte le fasce sociali, a cominciare dalle fasce sociali più deboli, la Chiesa rappresenti una ricchezza per lo Stato. Lo Stato, volendo essere e volendo restare laico, deve fuggire dal pericolo di diventare ideologico, di diventare settario e alla fine addirittura totalitario. Perciò, il dialogo che precede il rapporto tra Stato e Chiesa come organismi giuridici, è un dialogo assolutamente positivo, che risiede nella natura stessa della società e dimostra la libertà e la pluralità della società.
Presidente, la Chiesa insiste molto sul concetto di bene comune. In Italia, ma anche in Europa, ci sono segnali di inquietudine sociale, talvolta di ribellione, anche, alle decisioni istituzionali che arrivano fino anche all'intolleranza: pensiamo, ovviamente, al tema dei rifiuti in Italia e anche all'accoglienza degli immigrati. Secondo lei, le istituzioni nazionali ed europee, dove hanno sbagliato nell'azione politica, e come si può ricostruire il consenso sociale per il bene comune?
Intanto, credo che sia necessario fare una premessa. In Italia, i fenomeni di cui ha parlato hanno assunto connotati molto minori di quelli che si evidenziano in altri Paesi. Si connotano soprattutto come avvenimenti singoli, episodici e non certo di massa: penso al raffronto con quanto è accaduto nelle banlieues parigine, con certe tensioni che si sono create anche nelle città tedesche o anche in città britanniche. Detto questo, anche da noi esistono questi segnali che non vanno sottovalutati. E io direi che, soprattutto, non vanno sottovalutati i problemi che sono a monte di questi disagi, cioè le difficoltà economiche, i problemi occupazionali - in particolare per i giovani - le difficoltà di integrare il flusso massiccio di ospiti provenienti da altre nazioni con altre culture, con altre religioni, con i nostri cittadini. Sono questi tutti problemi che sono alla base, in Italia e in Europa, di quello che lei ha parlato disegnandolo come un "ribellismo" giovanile e, più in generale, di un nuovo egoismo, di un rinchiudersi in se stessi di fronte alle minacce esterne, vere o presunte che siano. Quindi, la politica del nostro Governo mira innanzitutto a tagliare alle radici queste motivazioni rilanciando l'economia, per creare un benessere più diffuso anche verso i nuovi cittadini, e costruendo una politica della sicurezza e dell'accoglienza che sappia coniugare la garanzia dei diritti con un rigoroso rispetto dei doveri. Credo, certo, che questo non basterà a sanare tutto, perché il disagio sociale è grande ed è una malattia che bisogna curare con un massiccio rilancio proprio dei valori morali e religiosi. Ma comunque, queste saranno le fondamenta necessarie per costruire una convivenza civile che metta ai margini le frange di ribellione collettiva e limiti nei singoli l'istinto di chiusura e di egoismo. Quanto poi su che cosa i governi o addirittura l'Unione europea abbiano sbagliato a questo riguardo, io non so darle ora una risposta documentata. L'Unione europea, secondo me, deve cambiare, perché oggi i cittadini di tutta Europa la sentono non come qualcosa che aiuta, ma come qualcosa che costringe i singoli Stati a tutta una serie di situazioni, di limitazioni che non vanno nella direzione del bene dei cittadini. Io credo che noi dobbiamo fare una profonda revisione del modo di agire dell'Europa. Ne ho parlato in questi giorni proprio con alcuni colleghi, con Sarkozy, con Rodríguez Zapatero, ne avevo parlato con Tony Blair e con altri, e sono tutti convinti che siamo di fronte alla necessità di una riflessione su ciò che l'Europa non ha fatto, su ciò che l'Europa ha fatto sbagliando, su ciò che l'Europa dovrà fare.
Di recente il Papa ha espresso ai vescovi italiani la sua gioia per il rinnovato clima politico che si respira in Italia. La riflessione che vorrei fare con lei è questa: che rapporti ci sono con l'opposizione, con l'opposizione parlamentare e - ci permetta una franchezza - vi parlate, al telefono, anche con Veltroni, con una certa regolarità?
C'è una certa regolarità di contatti con Veltroni e anche con altri esponenti dell'opposizione che, da parte nostra, è sempre stato un atteggiamento convinto. Siamo assolutamente aperti al confronto con gli altri, e li rispettiamo tutti, a partire da quelli che sono i meno fortunati. Questo, perciò, nella vita politica vale assolutamente nei confronti di tutti. Le dirò che poi, tra l'altro, abbiamo anche una maggiore facilità adesso, perché ali estreme della sinistra e della destra non sono presenti in Parlamento, quindi l'opposizione che troviamo in Parlamento dovrebbe essere - io spero che lo sia - una opposizione che pensa soprattutto al bene comune. Abbiamo cinque anni di lavoro di questo Governo e l'opposizione non penso che voglia tornare a essere quella che è stata in passato, durante il mio primo Governo, quella - cioè - che aspettava che noi prendessimo una decisione per dire che era sbagliata. Io credo che invece la situazione dell'Italia, i tanti momenti negativi che noi abbiamo ereditato, e che viviamo, siano tali da necessitare l'impegno di tutti, se vogliamo veramente riuscire a far rialzare l'Italia. In questi giorni, mi sono incontrato con dei leader europei e tutti si lamentavano di quello che stanno soffrendo tutti i Paesi d'Europa: l'alto prezzo del petrolio, delle altre materie prime, il fatto della competizione che ci viene imposta con prodotti che vengono dall'Oriente, dove il costo del lavoro è una frazione del costo che abbiamo noi, il fatto del prezzo del petrolio, l'ipervalutazione dell'euro, che rende difficilissime le nostre esportazioni ... A queste cose noi aggiungiamo altre cose che sono mali nostri e che purtroppo gli altri non hanno: l'eccessivo costo dello Stato, della pubblica amministrazione, che è circa il 50% di più di quello che costano gli altri Stati agli altri cittadini europei; il debito pubblico che qui è il più elevato, che ci fa spendere decine di miliardi in interessi passivi ogni anno; l'evasione eccessiva, che riguarda quasi il 20 per cento del nostro prodotto interno; l'energia, che paghiamo più di tutti gli altri Stati perché dobbiamo comprarla tutta all'estero; la carenza di infrastrutture, per non parlare poi della situazione tragica di Napoli, della Campania, che ci espone a un disastro per quanto riguarda anche le nostre esportazioni, del made in Italy, dell'alta tecnologia, dei nostri cibi pregiati, verso l'estero. Io credo che siamo di fronte a una situazione che tutti conoscono, e questa consapevolezza che sono sicuro sia in tutti, non possa che comportare un diverso atteggiamento anche nella lotta politica: che diventi meno lotta e diventi invece più considerazione dell'interesse comune.
Presidente, l'inquietudine sociale di cui parlavamo prima coinvolge indubbiamente anche la famiglia, sul piano economico. Le associazioni familiari chiedono da tempo sgravi familiari. Crede che questa sia una strada praticabile?
Guardi, noi lo abbiamo già praticata in due direzioni. La prima è quella di avere abolito l'imposta comunale sugli immobili sulla prima casa: e questo è un primo aiuto dato alle famiglie. Secondo, quello di avere abolito, praticamente ridotto moltissimo, quasi completamente, la tassazione di quel lavoro in più - gli straordinari - oppure di quegli stipendi e salari in più legati a premi di produttività. Con questo, credo, innovando e rivoluzionando il rapporto tra imprese e i loro collaboratori: si potrà da qui in avanti tenere fermo l'ammontare dello stipendio su cui grava una tassazione che, grosso modo, è intorno al 45-46 per cento, e lasciando ferma questa prima parte, fare incrementi di stipendio nella direzione di premi di produttività che saranno tassati soltanto per il 10 per cento. Questo credo che sarà un altro grande aiuto. Poi, di aiuti, ne abbiamo in programma tanti. Il primo, più importante, soprattutto per le famiglie numerose, sarebbe quello del quoziente familiare che già è una realtà - per esempio - in Francia: cioè, quando un capofamiglia singolo deve mantenere moglie e più figli, non ci sembra logico che, guadagnando la stessa somma, paghi le stesse imposte di un single. In Francia, per esempio - per fare un esempio concreto - chi guadagna 35.000 euro all'anno e ha a carico proprio la moglie e tre figli, praticamente non paga l'imposta personale mentre, invece, naturalmente, in Italia questa imposta arriva - mi sembra - a 5.600 euro. Ecco: questa è una cosa che noi abbiamo in mente e che sarà possibile se ci sarà uno sviluppo positivo dei conti pubblici nei nostri bilanci. Siamo impegnati a far sì che si risparmino molti soldi là dove le spese sono inutili, a evitare tutti gli sprechi, a limare i privilegi, a chiudere delle società che non portano nulla, a operare all'interno della pubblica amministrazione affinché tutti lavorino il giusto e chi non lavora possa essere anche allontanato. Insomma, è un lavoro non da poco; non è un lavoro immediato, breve. È un lavoro di medio periodo, però è il lavoro che noi ci stiamo accingendo a fare e nell'ambito della pubblica amministrazione, ha incominciato molto bene il nostro Gianni Letta.
Presidente, affrontiamo il tema dell'emergenza educativa. Di recente, in Italia, il cardinale Bagnasco ha richiamato l'attenzione su alcuni aspetti problematici dei media, soprattutto nella prospettiva dello sviluppo del digitale terrestre e anche della tv satellitare. Cosa ne pensa lei? E crede che sia possibile armonizzare le esigenze commerciali con le responsabilità che hanno oggi la radio, la televisione, in particolare la televisione nella formazione dell'individuo? Pensiamo, per esempio, alla Campania, dove c'è un'emergenza rifiuti: quanto sarebbe interessante educare i giovani, per esempio, all'educazione ecologica?
Non è necessario e interessante, è addirittura indispensabile. Tant'è vero che nel piano che sto mettendo a punto per risolvere questo problema dei rifiuti in Campania e a Napoli, una delle cose più importanti è la raccolta differenziata che verrà insegnata soprattutto nelle scuole, affinché gli stessi ragazzi possano, a casa loro, convincere padre e madre ad adeguarsi a quella che è una necessità affinché Napoli possa riportarsi a quel livello di civiltà che dovrebbe essere indispensabile per una città e che restituisca, tra l'altro, a Napoli lo splendore di città dell'arte quale essa è, in effetti. Perciò, è molto importante che la scuola educhi gli alunni al senso civico, al rispetto degli altri, anche attraverso questi comportamenti che riguardano fatti come la raccolta differenziata; ma è anche importante che i media si possano cimentare nella formazione dei giovani, ma direi anche di tutti i cittadini di qualsiasi età. Vede, qui c'è una carenza della nostra radio e della nostra televisione nazionale, che è pagata attraverso il canone e quindi con i soldi di tutti e che invece è diventata una televisione commerciale come le televisioni private, pur usufruendo - come ho appena detto - del canone da parte dei cittadini, di una tassa che i cittadini sono costretti a pagare. Vede, le funzioni della televisione privata, commerciale e della televisione pubblica dovrebbero essere assolutamente diverse. La televisione privata dovrebbe avere tra le sue funzioni quella di divertire, come seconda funzione quella di informare e soltanto successivamente, quella di formare. La televisione pubblica e la radio pubblica dovrebbero invece esattamente fare il contrario: dovrebbero avere come prima funzione quella di formare, poi quella di informare e infine, magari, anche quella di divertire. Pensate a quello che invece è la nostra televisione pubblica oggi: si vede che è esattamente come una televisione commerciale. Credo che dovremo introdurre un cambiamento se non globale, almeno limitato, destinando anche programmi di formazione, ma non nelle ore impossibili, oltre la mezzanotte, alla mattina prestissimo, eccetera: anche in ore centrali della giornata. E credo che questo, a Napoli, sia assolutamente indispensabile.
Passiamo a un tema internazionale: il vertice della Fao sull'emergenza alimentare sta terminando. Sono - siamo - tutti d'accordo nel combattere la fame nel mondo ma poi, quando si tratta di operare concretamente impegnando soldi ed energie, gli Stati un po' si defilano. Qual è la sua posizione e quella dell'Italia?
Io sono stato per qualche ora presidente dell'Assemblea dei 183 Paesi che sono venuti a Roma e ho fatto un intervento in apertura, molto breve, perché volevo inviare un messaggio molto conciso e preciso. Cioè: siamo arrivati al tempo dei fatti e non delle parole, perché la fame non può attendere, perché circa un miliardo di esseri umani certamente non comprende i giochi della grande politica, le logiche del mercato, le sottigliezze delle organizzazioni internazionali, ma hanno semplicemente fame e muoiono di fame. Perciò, il mio invito ai partecipanti del Congresso è stato questo: non dilungatevi sulle analisi storiche, sulle analisi accademiche! Trovate soluzioni concrete su cui impegnarvi, e decidete anche i tempi della loro realizzazione. Quindi, la lotta alla fame si divide oggi in due momenti: anzitutto l'emergenza, dovuta al fatto che alcuni Paesi che prima erano Paesi di auto-consumo, hanno incominciato, allontanandosi dalla povertà, a soddisfare i loro bisogni anche acquistando i beni alimentari all'estero, in testa a tutti la Cina e l'India, e la speculazione si è subito infilata in questo varco. Ora, per questo bisogna avere subito disponibilità finanziarie, bisogna attingere alle riserve disponibili per alleviare le situazioni più drammatiche, più disperate, e bisogna che i Paesi più ricchi mettano a disposizione maggiori risorse per fare fronte a questa situazione. E a questo proposito io ho detto: ma, non dobbiamo assistere senza fare nulla alla impennata dei prezzi! Se c'è qualcuno che deve pagare i prezzi in più, c'è anche qualcuno che incassa prezzi in più. E quindi, bisognerebbe chiedere agli Stati, dove ci sono i produttori che hanno queste utilità, di incassare questi utili e che il sovrapprezzo speculativo dei produttori venga destinato in parte ad aiuti immediati. La seconda fase è chiedere contributi da parte delle Nazioni Unite ai Paesi produttori di petrolio che incassano ogni giorno degli utili straordinari. Infine, e noi abbiamo tra l'altro dato anche il buon esempio, perché abbiamo portato da 60 milioni a 190 milioni il nostro contributo per il 2008, bisognerebbe che l'Europa - e di questo ho parlato con Rodríguez Zapatero e Sarkozy che si sono dichiarati d'accordo - non calcolasse nei deficit, quando noi presentiamo i bilanci, le somme che i singoli Stati potrebbero destinare all'aiuto alimentare. E se questo accadesse - io ne parlerò nel prossimo Consiglio europeo - noi e tutti gli altri Paesi potremmo aumentare immediatamente i nostri aiuti. Ma poi, c'è il futuro, e il futuro si risolve soltanto con una maggiore formazione, con una più ampia messa a disposizione delle varie tecnologie, con il ricorso all'Ogm in tutti i singoli Paesi, dove si deve arrivare a una possibilità di sopperire autonomamente alle proprie esigenze alimentari. Cioè: il futuro non è che nell'auto-produzione di ciascun Paese. Per fare questo, c'è un grande ostacolo ed è che molti di questi Paesi sono Paesi ancora non democratici. E soltanto la democrazia può consentire la libertà dei singoli, solo con la libertà i singoli possono mettere a frutto i loro talenti in ogni settore, quindi anche come imprenditori nell'agricoltura. E questo è il grande problema su cui dovrebbero ragionare e unirsi tutte le democrazie liberali del mondo per sviluppare tutte le azioni possibili affinché i Paesi che sono quelli più poveri, in cui esistono dittature e governi autocratici possano passare da questa situazione a una situazione di democrazia. Soltanto con la democrazia mondiale, di tutti i Paesi, potremmo avere in futuro una pace mondiale che dia veramente, a tutti i cittadini del mondo, la possibilità di guardare al futuro senza angoscia.
di Marco Bellizi e Luca Collodi
L'Osservatore Romano - 6 giugno 2008
Orissa, i perseguitati di serie B
di Giorgio Bernardelli
Mondo e Missione maggio 2008
"Nel villaggio il clima tra noi e gli indù era sempre stato buono. Li invitavamo alle nostre feste e noi partecipavamo alle loro. Ma adesso abbiamo tutti paura". Parla della sua Baminigam padre Santosh Kumar Singh, giovane prete dell’arcidiocesi di Chuttack e Bhubaneswar. Parla di un villaggio come tanti altri in questa zona dell’India Orientale. Un gruppo di case nella foresta che, all’improvviso, si trasforma nell’epicentro della più imponente ondata di violenze anti-cristiane degli ultimi anni.
È la storia di quanto avvenuto qui in Orissa a Natale. Con le scorribande dei fanatici indù dell’RSS che hanno lasciato dietro di sé sette morti e centinaia di case, chiese, scuole e dispensari bruciati nel distretto di Kandhamal. E in un clima di intimidazione che – a ormai diversi mesi di distanza – qui si tocca ancora con mano.
Ancora alla Domenica delle Palme, ad esempio, nel villaggio di Tyiangia, una folla istigata dai soliti noti si è radunata gridando slogan anti-cristiani. Le violenze sono state evitate solo perché il parroco ha deciso di annullare la processione.
Tutto è cominciato a Baminigam il 24 dicembre, vigilia di Natale. "Vuoi sapere come è andata davvero?", chiede subito padre Santosh. Ci tiene a raccontarlo. Perché di ricostruzioni dei fatti ne girano parecchie. E quella apparsa sui giornali indiani cita come scintilla l’aggressione contro lo swami Laxmananda Saraswati, un santone indù legato all’RSS che gira per l’Orissa per "riportare alle loro origini" i tribali convertitisi al cristianesimo.
"Non è così", ribatte padre Santosh. "Tutto è nato quando la mattina del 24 dicembre ci è stato revocato il permesso di celebrare in piazza il Natale. Sono arrivati i nostri negozianti e gli è stato detto che dovevano tornare a casa. Ci sarà stata anche tensione. Ma dalla foresta sono subito spuntati fuori duecento uomini armati di bastoni che hanno cominciato a distruggere e bruciare tutto".
Sono andate avanti quattro giorni queste violenze. Favorite da inspiegabili ritardi nell’intervento delle forze dell’ordine. Con i cristiani costretti a scappare nella foresta per sopravvivere, mentre le loro case continuavano a bruciare. Vi sono rimasti per giorni e notti, al freddo, nutrendosi di quello che trovavano. Finché, finalmente, le autorità locali hanno allestito delle tendopoli. E nel distretto di Kandhamal è tornata una calma carica di tensione e di grossi dubbi.
"Avevamo capito quello che stava per accadere", racconta mons. Raphael Cheenath, l’arcivescovo di Chuttack-Bhubaneswar, nel cui territorio si trova il distretto di Kandhamal. "Il 22 dicembre avevamo detto chiaramente alle autorità che per Natale temevamo di subire violenze. Loro ci avevano promesso protezione. Invece non hanno fatto proprio niente".
Incontro mons. Cheenath a Bhubaneswar, la capitale dell’Orissa. Il distretto di Kandhamal dista da qui cinque o sei ore di macchina nella foresta. Eppure in quei giorni la violenza è arrivata fino all’arcivescovado, con una bottiglia incendiaria lanciata contro l’ingresso. E non è un mistero per nessuno che le riunioni dell’RSS in cui si additano i cristiani come nemici avvengano anche in questa città di 800 mila abitanti. Ma, più dei conciliaboli segreti, sono le decisioni pubbliche a preoccupare l’arcivescovo. L’atteggiamento perlomeno ambiguo tenuto dal governo locale, guidato dal primo ministro Naveen Patnaik, alleato del BJP, il partito nazionalista indù.
"A febbraio – continua l’arcivescovo – proprio qui in Orissa c’è stato un attacco da parte dei guerriglieri maoisti. Hanno assaltato una caserma di polizia e ucciso alcuni agenti. Lo stato di emergenza è scattato immediatamente: nel giro di poche ore i militari sono arrivati in massa. A Natale, invece, – quando nel distretto di Kandhamal a subire le violenze erano i cristiani – ci sono voluti quattro giorni. Perché questa differenza di comportamento?".
Ma c’è anche il problema dell’assistenza alle vittime, ancora aperto. "Non permettono alle nostre organizzazioni di portare aiuti", denuncia mons. Cheenath. "Là c’è gente che ha perso tutto: hanno bruciato loro le case, sono rimasti con i vestiti che avevano addosso. Il governo ha promesso che provvederà, ma gli aiuti non arrivano. E la popolazione continua a soffrire".
Con le case, nel distretto di Kandhamal, è l’intero lavoro di trent’anni a essere andato distrutto: scuole, dispensari, centri di assistenza. Persino la casa dei Missionari della Carità, il ramo maschile dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta – che ospita lebbrosi e malati di tubercolosi –, è stata attaccata. Tutto è stato lasciato per ore a bruciare, mentre i cristiani scappavano nella foresta. E adesso si fa lezione sotto le tende. "Misereor" – l’organizzazione di solidarietà internazionale della Chiesa tedesca – si è fatta avanti per aiutare a ricostruire. Ma il governo dell’Orissa non dà i permessi. Allo stesso arcivescovo per 42 giorni è stata negata la possibilità di recarsi a visitare le comunità colpite.
"Ufficialmente – commenta monsignor Cheenath – ci dicono che è per motivi di sicurezza. Ma la verità è che vogliono ostacolare la presenza delle organizzazioni cristiane. Gli estremisti indù ci accusano di operare conversioni attraverso gli aiuti. Ma è un’accusa falsa: lo hanno visto tutti qui in Orissa nel 1999, quando c’è stato un tremendo ciclone. Furono duemila i nostri volontari mobilitati. E aiutarono tutti, senza distinzioni". Per sbloccare questa situazione è dovuta intervenire l’8 aprile la corte suprema indiana, con una sentenza che ha dichiarato illegittimo il divieto.
Nel guardare questa grande città, così uguale a tante altre, si fa fatica a credere che sia un covo di fanatici. "Sappiamo che molti indù sono contrari alle violenze", conferma l'arcivescovo. "Privatamente ci hanno anche espresso solidarietà. Però hanno paura di esporsi. E così questa campagna d’odio condotta dai fanatici sta producendo risultati. Ci dipingono come i nemici, dicono apertamente che vogliono distruggerci".
"Ma secondo lei da dove nasce tutto questo odio contro i cristiani?", gli chiedo.
"Sono convinto – risponde l’arcivescovo – che dietro all’estremismo religioso vi sia una motivazione più nascosta, che è di ordine sociale. Il vero problema non sono le conversioni, ma l’opera di promozione che negli ultimi 140 anni in Orissa i cristiani hanno compiuto a favore dei tribali e dei dalit, gli ultimi nella scala delle caste. Prima erano come schiavi. Adesso – almeno una parte di loro – studiano nelle nostre scuole, mettono in piedi attività nei villaggi, rivendicano i propri diritti. E chi – anche nell’India del boom economico – vuole mantenere intatta la vecchia divisione in caste, ha paura che acquistino troppa forza. L’Orissa di oggi è un laboratorio. In gioco c’è il futuro dei milioni di dalit e tribali che vivono in tutto il paese".
L’Orissa è come il nuovo laboratorio dei fondamentalisti: lo ripetono in tanti nella comunità cristiana. Perché è vero che questo è uno degli Stati più poveri del subcontinente. Però anche qui a Bhubaneswar qualcosa si sta muovendo. Esci dall’arcivescovado e ti imbatti nel Big Bazar, il nuovissimo centro commerciale in stile americano. L’aeroporto – come tutti gli scali indiani – è in espansione. E in città crescono le torri dei centri direzionali.
"Sembra incredibile, ma quando abbiamo aperto, vent’anni fa, qui intorno c’era ancora la giungla", racconta padre E. A. Augustine, direttore dello Xavier Insitute of Management, uno dei vanti della città. Una facoltà di economia dalla storia interessante: è frutto di un accordo tra il governo dell’Orissa e la locale Provincia dei gesuiti.
Anche in uno Stato come l'Orissa in cui vige la legge anti-conversione, dunque, non c’è alcuna difficiltà a intitolare a San Francesco Saverioun ente di diritto pubblico. Perché in India Xavier School è ovunque sinonimo di qualità. "Tutti vogliono le nostre strutture – continua padre Augustine –, ne riconoscono la qualità. A parte pochi fanatici, ci rispettano. Però noi non vogliamo essere un centro d’élite. Ad esempio, organizziamo anche corsi di management rurale, pensati specificamente per lo sviluppo dei villaggi".
E poi – sempre qui a Bhubaneswar – c’è l’altro volto della presenza dei gesuiti. Quello dello Human Life Center, con i suoi corsi popolari di inglese parlato per aiutare chi è emigrato in città dalle aree rurali. O i corsi di sartoria, di dattilografia, di informatica, per dare un’opportunità a chi non ne avrebbe altre. E poi le sette scuole aperte direttamente negli slum di Bhubaneswar. Perché il cambiamento deve arrivare anche lì.
L’impressione è che alla fine il vero problema stia proprio qui. La violenza in Orissa non è semplicemente l’eredità di un passato che l’India fa fatica a lasciarsi alle spalle. Lo scontro riguarda il presente e soprattutto il futuro del Paese. Riguarda una situazione sociale in cui quanti per secoli sono rimasti ai margini cominciano ad alzare la testa. E allora chi – al contrario – vuole mantenere lo status quo gioca la carta dell’identità minacciata.
C’è un importante appuntamento elettorale in vista: nel maggio del 2009 in India ci saranno le elezioni generali. Il BJP – il partito nazionalista indù, sconfitto nel 2004 dall’alleanza tra il Partito del Congresso e la sinistra – mira alla rivincita. E – come hanno dimostrato nel 2002 le violenze contro i musulmani in Gujarat – soffiare sulle tensioni tra gruppi religiosi è il modo più efficace per rafforzare le fila. "Non è un caso – sostiene padre Jimmy Dhabby, direttore a New Delhi dell’Indian Social Institute – che queste violenze contro i cristiani siano scoppiate poche settimane dopo la riconferma alla guida del Gujarat di Narendra Modi, uno degli esponenti di punta del BJP. E che siano avvenute proprio in Orissa, uno Stato dove nel 2009 si voterà anche per il governo locale".
È un gioco che – nonostante i fatti di Natale – a Bhubaneswar va avanti. Basta aprire l’edizione locale del quotidiano "The Indian Express" in un giorno qualunque per trovare dichiarazioni come questa, del leader del RSS K. S. Sudar-shan: "Sono molte le minacce che incombono sulla nazione: la violenza dei maoisti, la jihad islamica, le conversioni dei missionari cristiani. Dobbiamo unirci per reagire. Non aspettate che altri lo facciano per voi".
La stessa inchiesta promossa dal governo dell’Orissa per fare luce su quanto accaduto a Natale, sta procedendo con metodi alquanto discutibili. "Dopo mesi in cui non si era saputo più nulla – ha denunciato sul suo blog John Dayal, segretario generale dell’All India Christian Council – il giudice incaricato è arrivato senza preavviso nel distretto di Kandhamal. Ha interrogato le suore e i preti. Che sono rimasti a bocca aperta sentendosi domandare: Avete convertito qualcuno qui?". Come se l’oggetto dell’inchiesta fosse l’operato dei cristiani, non le violenze commesse dai fanatici indù.
Altro capitolo preoccupante è quello dei risarcimenti. "Finora non sono state ancora date indicazioni ufficiali – continua Dayal –, ma sui giornali abbiamo letto che mentre scuole, ostelli e dispensari potranno ricevere un contributo di 200 mila rupie (circa 5 mila dollari), le chiese e i conventi saranno esclusi da ogni risarcimento. Se ciò fosse sarebbe non solo sorprendente ma offensivo. Il principale obiettivo degli attacchi sono state proprio le chiese e i conventi. Escluderli non ha alcun senso".
Questa è l'aria che si respira oggi in Orissa. "Sotto la cenere cova una situazione esplosiva", denuncia Hemanl Naik, dell’Orissa Dalit Adivasi Action Net. "Da tempo i nazionalisti indù fanno campagne per 'riconvertire' i tribali cristiani. Non sono queste delle violazioni delle leggi anti-conversione? Perché non le applicano?".
Dopo tante persone uccise, dopo tante case e chiese cristiane bruciate una domanda si impone. Dove sta la differenza rispetto alle violenze islamiche in altre regioni, alle quali – giustamente – è riservato così tanto spazio sui media? E perché nessuno in Occidente alza la voce su ciò che accade nell'Orissa? A Pasqua la protesta dei cristiani davanti al parlamento a New Delhi non ha fatto notizia sui nostri giornali.
La risposta dell'arcivescovo Cheenath è amara: "L’India di oggi è un mercato che fa gola a tutti – spiega –. Ci sono grandi interessi economici, tutti vogliono avere buone relazioni con noi. In una situazione del genere ciò che accade alle minoranze non interessa a nessuno".
È un grido di dolore scomodo, quello che sale oggi dai cristiani dell’Orissa.
Dove portano le nuove linee guida sulla procreazione medicalmente assistita
Redazione06/06/2008
Autore(i): Redazione. Pubblicato il 06/06/2008 – IlSussidiario.net
Mentre nel nostro Paese ci si interrogava sulla composizione del nuovo Governo, si veniva a sapere che il ministro della Salute Livia Turco aveva modificato le linee guida della legge n. 40/2004 in materia di procreazione medicalmente assistita proprio alla vigilia del passaggio di consegne al nuovo esecutivo.
Val la pena di ripercorrere brevemente le tappe salienti della vicenda che ha suscitato non poco sconcerto in molti commentatori, esponenti della comunità scientifica ed operatori del diritto.
Nel novembre del 2004 una società che si occupa di procreazione medicalmente assistita aveva impugnato le linee guida in materia, emanate con decreto ministeriale del luglio dello stesso anno, davanti al TAR Lazio, che aveva respinto il ricorso con sentenza depositata nel maggio del 2005. Tuttavia il Consiglio di Stato aveva annullato la sentenza in questione per ragioni procedurali, rinviando nuovamente l’esame della vicenda al TAR Lazio. Quest’ultimo, con sentenza del gennaio di quest’anno emessa da una sezione diversa da quella che si era pronunciata in precedenza, ha annullato le linee guida nella parte in cui stabilivano che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro dovesse essere “di tipo osservazionale” (basata cioè sull’esame al microscopio di eventuali anomalie di sviluppo dell’embrione creato in vitro), in quanto tale previsione sarebbe in contrasto con il dettato della legge n. 40/2004. A questo punto il Ministro Turco, senza nemmeno attendere il passaggio in giudicato della sentenza e senza considerare che davanti alla Corte Costituzionale pende un giudizio di legittimità su altri aspetti della legge n. 40/2004 (che ovviamente potrebbe avere ripercussioni anche sulle linee guida), emanava “una versione aggiornata” delle linee guida stesse. Il relativo decreto ministeriale, adottato in data 11 aprile 2008 (due giorni prima delle elezioni!), veniva pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 30 aprile 2008. Si impongono a questo punto alcune considerazioni:
1) il TAR Lazio ha fondato la decisione di annullare parzialmente le linee guida sul rilievo che, se il legislatore ha previsto la possibilità di consentire interventi diagnostici sull’embrione per finalità di tutela dell’embrione stesso, tali interventi non potrebbero essere limitati alle indagini di tipo osservazionale. La legge n. 40/2004 sul punto prevede che «la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative». Ciò significa che l’indagine genetica preimpianto (caratterizzata dal prelievo di una cellula per esaminarla) è consentita solamente per tutelare la salute dell’embrione. Nella sentenza di reiezione del primo ricorso, il TAR Lazio aveva tuttavia rilevato che «non esistono ancora terapie geniche che permettano di curare un embrione malato», con la conseguenza che «la diagnosi preimpianto non potrebbe che concernere le sole qualità genetiche dello stesso embrione» e dunque, aggiungiamo noi, aprire il varco alla diagnosi preimpianto a finalità eugenetica, espressamente vietata dalla legge n. 40/2004. L’aver trascurato questo ordine di considerazioni rende la seconda pronuncia del TAR Lazio non condivisibile. Nell’interpretazione una norma non si può infatti prescindere dall’osservazione della realtà, tanto più quando si tratta di linee guida soggette ad un aggiornamento periodico (almeno ogni tre anni) «in rapporto all’evoluzione tecnico-scientifica», con la possibilità, secondo quanto rilevato dal TAR Lazio nella prima sentenza, che le stesse linee guida possano prevedere «in un più o meno prossimo futuro, l’indagine genetica a scopo terapeutico».
2) Come rilevato da alcuni autorevoli commentatori, tra i quali il Presidente Emerito della Corte Costituzionale Annibale Marini, il governo dimissionario può adottare solo ed esclusivamente atti di ordinaria amministrazione, ossia atti di fatto privi di discrezionalità. Il decreto ministeriale concernente le nuove linee guida certamente non rientra certamente in questa categoria di atti in quanto:
l’emanazione di linee guida su argomenti tanto sensibili non può mai essere considerata atto di ordinaria amministrazione, in quanto comunque espressione di un indirizzo politico-amministrativo del ministro;
la sentenza del TAR Lazio non era ancora passata in giudicato e avrebbe potuto pertanto essere eventualmente impugnata dal successore del ministro Turco e dalle altre parti del giudizio;
è pendente davanti alla Consulta una questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14 della legge n. 40/2004, sollevata dal TAR Lazio proprio con la sentenza alla quale il ministro Turco sostiene di aver dato esecuzione;
come si chiarirà tra poco, le nuove linee guida non hanno recepito “asetticamente” le indicazioni del TAR Lazio in tema di diagnosi preimpianto;
in ogni caso le nuove linee guida introducono previsioni che non trovano riscontro nella precedente formulazione delle stesse, come ad esempio la possibilità di accedere alle tecniche di fecondazione assistita per i portatori di patologie sessualmente trasmissibili.
3) Nelle nuove linee guida il ministro Turco ha eliminato le previsioni relative alle indagini di tipo osservazionale sugli embrioni quale unica possibile forma di intervento, senza introdurre disposizioni che disciplinino e limitino la possibilità di effettuare diagnosi preimpianto. Ha osservato autorevolmente su www.ilsussidiario.net il professor Francesco D’Agostino, presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica, che «poiché questa norma è stata cancellata, tutte le indagini a carico degli embrioni dovrebbero essere lecite e soprattutto dovrebbero essere leciti i test genetici. I test genetici sono ad alto rischio per la vita embrionale, mentre la diagnosi osservazionale non comporta rischi perché, di fatto, si tratta di mettere gli embrioni sotto il microscopio semplicemente per osservarli. I test genetici, invece, si svolgono prelevando una o più cellule dall'embrione per sottoporle ad analisi genetiche: questa pratica ha una percentuale di rischio e in un numero non raro di casi porta la morte degli embrioni. Questo è contro lo spirito della legge, che vuole garantire la nascita di tutti gli embrioni procreati in vitro. Un'ulteriore considerazione: una volta fatti i test genetici si vanifica l'indicazione, che pure formalmente rimane nelle linee guida, secondo la quale non si possono fare indagini prenatali a fini eugenetici. Questa dichiarazione rimane, ma diventa un flatus vocis: se un medico svolge un test genetico e riscontra un'anomalia a carico dell'embrione, anche un'anomalia pienamente compatibile con la vita, o addirittura una non-anomalia come l'indicazione del sesso dell'embrione, e se quindi la donna viene ad apprendere che l'embrione è del sesso che non desidera o comunque presenta un'anomalia di cui ella non si vuole far carico, proibirà, e può farlo, l'impianto degli embrioni nel proprio utero. Ma in questo modo si verifica obiettivamente una pratica di selezione eugenetica dei nascituri».
Questi possibili scenari nulla hanno a che vedere con quanto sancito nella sentenza del TAR Lazio, che comunque aveva ribadito la necessità che gli interventi diagnostici siano finalizzati esclusivamente alla tutela dell’embrione. Per queste ragioni si ritiene auspicabile che il nuovo ministro provveda a modificare le linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita.
Avv. Riccardo Marletta, membro del Consiglio Nazionale Libera Associazione Forense