Nella rassegna stampa di oggi:
1) Europa: la temiamo o la vogliamo ospitale?
2) Le troppe generalizzazioni sul sistema sanitario lombardo
3) Il “freno” dei sindacati italiani nel pubblico impiego
4) APATIA NON TOLLERABILE - SE QUESTA SORTE FOSSE TOCCATA AI NOSTRI EMIGRANTI
Europa: la temiamo o la vogliamo ospitale?
Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
lunedì 16 giugno 2008
A seguito dell’articolo «Dopo il “NO” irlandese momento difficile per l’Europa» pubblicato, qui su CulturaCattolica.it sabato 14 giugno, avendo ricevuto non poche telefonate e soprattutto e-mail, volentieri cerco di rispondere a richieste ed obiezioni, se don Gabriele Mangiarotti riterrà di pubblicare queste note.
Vi prego però di lasciarmi comunicare un’impressione amara provata venerdì sera vedendo ed ascoltando il TG2: prima notizia il pareggio della nazionale agli europei, circa 10 minuti (per un telegiornale un’eternità) poi la politica interna, poi le “morti bianche” - giusto - poi altre notizie di cronaca italiana (nera e rosa,... non ricordo) quindi, dopo oltre venti minuti, la notizia del “no” irlandese, seguita da un’inquadratura del Presidente Barroso mentre il cronista riferiva la Sua dichiarazione circa la necessità di continuare con le ratifiche. Un amico giornalista ha detto che la scaletta dei TG e dei GR rispecchia gli interessi degli ascoltatori rilevati in base agli indici di ascolto. Interessi, aggiungo io, alimentati anche dai media. Non so se proprio così, sarà, ma allora non lamentiamoci se il nostro Paese sta accingendosi a ratificare il Trattato di Lisbona per via parlamentare, dopo che un altro Paese dell’Unione lo ha respinto, nell’indifferenza generale;... in fondo si tratta solo del nostro futuro, e soprattutto del destino dei nostri figli!
Ma ora le risposte, se ne sono capace, alle domande ed alle obiezioni ricevute, che raggrupperei così:
Che cosa è il Trattato di Lisbona? Ricordiamo tutti, credo, che il documento varato dalla Convenzione europea presieduta da Giscard d’Estaing, dopo un anno di lavoro, la bozza di Trattato costituzionale firmato solennemente a Roma dai 27 Paesi membri, in fase di ratifica è stato respinto da due Paesi, Francia e Olanda, chiamati ad esprimersi con referendum popolare. Decaduto questo documento, le regole di funzionamento dell’Unione continuavano ad essere quelle del trattato di Nizza del febbraio 2001, quando l’Unione europea era di 15 Stati membri. Non sfugge a nessuno che così la vita delle Istituzioni è macchinosa e spesso inconcludente, che il metodo per assumere decisioni è farraginoso e spesso inefficace, lasciando spazio ad iniziative autonome ed incontrollate di Funzionari faziosi. Dopo un lungo periodo di indecisioni ed incertezze e quattro anni di faticose trattative si è giunti a formalizzare un nuovo Trattato assai più snello del precedente, che è stato sottoscritto dai Capi di Stato e di Governo di 27 Paesi in occasione di una Conferenza intergovernativa svoltasi a Lisbona nel dicembre del 2007. Non è un documento semplice perché frutto di un faticoso compromesso tra Paesi grandi e piccoli, tra esigenze a volte contrastanti, tra culture differenti; compromesso raggiunto anche grazie al forte impegno personale del Canceliere tedesco, la signora Angela Merkel. Molto più breve del precedente trattato costituzionale riguarda essenzialmente le regole di funzionamento dell’UE, il metodi per assumere le decisioni, e le materie non più soggette all’unanimità. Volendo contrastare l’idea di Europa super - stato che si sovrappone e prevale sugli Stati membri, sono stati ad esempio eliminati la bandiera, l’inno e la festa europea. Il Trattato fa esplicito riferimento alla Carta dei diritti fondamentali, rendendola vincolante per i Paesi che avendolo sottoscritto ratificheranno il Trattato; posizione alla quale si sono opposte Inghilterra e Polonia, dichiarando che la Carta non prevarrà sulle rispettive Legislazioni nazionali.
La Carta dei diritti fondamentali, proclamata nel dicembre 2000, si compone di 54 articoli suddivisi in sette capitoli: Dignità, Libertà, Uguaglianza, Solidarietà, Cittadinanza, Giustizia e Disposizioni finali. Oltre a ritenerlo un testo ambiguo perché volutamente consente interpretazioni diverse ed a volte antitetiche, come molti autorevoli Osservatori anch’io ritengo che non se ne sentisse in alcun modo la necessità, perché ai nostri fondamenti costituzionali e giuridici era sufficiente la Dichiarazione universale dei diritti umani, proclamata solennemente dall’ONU nel dicembre del 1948; documento storico, prodotto sull’onda dell’indignazione per le atrocità commesse durante la seconda guerra mondiale; la Dichiarazione fa parte dei documenti di base delle Nazioni Unite.
Perché il mancato rispetto delle religioni, e del cristianesimo in particolare, sarebbe una causa non secondaria del fallimento dell’Europa? Credo per due ragioni fondamentali. Nelle diverse Istituzioni dell’Unione, spessissimo si afferma che la presenza di diverse culture è la ricchezza dell’Europa, e quindi vanno preservate e protette, in particolare quelle delle minoranze. Affermazione credo più che condivisibile. Ma allora vanno preservate e protette tutte: se una viene osteggiata e si cerca di impedirle di concorrere, alla pari con le altre, alla determinazione del bene comune, allora la posizione è falsa, ed è orientata alla discriminazione e alla marginalizzazione di ciò che non si condivide, e quindi porta alla disgregazione. Mi permetto notare che coloro che più avversano di fatto la libertà di religione, di pensiero e di manifestazione del pensiero, sono proprio quelli che accusano i cristiani di discriminazione quasi sempre per motivi totalmente infondati.
Credo però che ci sia un’altra ragione ancor più decisiva. Che cosa è l’Europa? Che cosa definisce l’Europa? Geograficamente sappiamo che la si definisce come una penisola dell’immensa Asia.
In senso geografico, oltre che geologico, l’Europa è una penisola, parte occidentale dell’Eurasia. Il nome Europa viene dal greco, significa “grandi occhi”, ed è una figura della mitologia. I cretesi chiamarono Europa le terre a nord della loro isola, e in epoca greca e romana era un termine geografico indefinito, una terra a nord del Mediterraneo di cui non si conoscevano i confini settentrionali.
Da questo punto di vista diventa quindi difficile individuare e definire una specificità continentale. Sono comunque terre abitate da popolazioni diverse per razza, tradizioni e storia. Difficile, se non arbitrario, perciò anche parlare di identità etnica, di etnia europea. Ma allora che cosa contraddistingue quella realtà che convenzionalmente chiamiamo “Europa”? La cultura che l’ha unificata; e non vi è dubbio alcuno che dall’Atlantico agli Urali, dal Mediterraneo all’oceano Artico, sia la cultura cristiana che si è innestata sulla cultura greco romana. Dalla penisola iberica alle steppe della Russia, dalla Grecia alla Scandinavia questo è ciò che nei secoli ha consolidato l’identità europea. Se non ci fosse questa storia e questa cultura resterebbe solo una triste storia, di guerre di rivalità e di tentativi egemonici, di violenze inaudite. La cultura cristiana ha costruito nei secoli l’Europa di oggi - questo è un fatto, non un’opinione - e ha dato all’Europa quell’idea di uomo, di dignità dell’uomo, che i Paesi in via di sviluppo, oggi ci chiedono di esportare, di portare loro (!): e lo chiedono all’Europa e non ad altre realtà o ad altri popoli; per questo guardano con speranza all’unità europea! Ma se si trascura, o se si pretende di annullare la cultura cristiana cosa resta dell’Europa. Nel migliore dei casi un’area di mercanti, fin quando resteranno in pace tra loro. Piaccia o no, questa è la verità riscontrabile, verificabile. Basta ripercorrere la storia, e leggere l’attualità.
Perché questo attacco alla Chiesa cattolica? Non ho dubbi: perché è la voce più autorevole e popolare che contrasta la deriva relativista, che riafferma l’esistenza di una verità da proporre a tutti senza imporla a nessuno, a cui fare riferimento per un’ordinata convivenza civile nel rispetto reciproco. Ma questo è contrario al concetto di « quel che pare e piace », oggi dominante, e quindi va zittito e combattuto. Sua Eccellenza Monsignor Luigi Negri lo ha ribadito recentemente in modo efficacissimo:
Troverete tanto odio perché l’uomo in questo tempo ha una terribile volontà di odio verso Cristo e verso la Chiesa: dalla banalizzazione dei grandi suggerimenti morali, all’attacco indiscriminato alla vita, alla dignità, al diritto che gli uomini hanno di vivere in modo dignitoso, libero e intelligente. Tutto questo è sotto tiro: la società si vanta di stare compiendo l’ultimo e più blasfemo tentativo di negare la presenza di Cristo e la tradizione che da Cristo ha influito nella vita del nostro popolo... Siate baldanzosi, non per la vostra forza, ma baldanzosi in colui e per colui che vi dà forza... chiedete alla Madonna che vi aiuti a fare questo miracolo, come in qualche modo ha aiutato suo Figlio a fare il miracolo.
Michele mi ha scritto: Io l’Europa non la voglio. Non questa. Smettete anche voi cattolici di rammaricarvi, di parlare di giorno triste per l’Europa. Ma che gioco fate?
Grazie per il messaggio molto franco e sentito.
Anch’io questa Europa non la voglio: voglio l’Europa di De Gasperi, di Adenauer e di Schumann. Voglio l’Europa: percorrendo a ritroso la storia prima del 1948 quando si trovano oltre sessant’anni di pace? Quando? Questi, ed altri, sono fatti non opinioni. Supponendo che si debba sempre agire di rimessa e non prendere in mano il proprio destino cercando di costruirlo come lo si vorrebbe, siamo sicuri che richiudendoci nel nostro angolo di mondo saremmo al sicuro? Non ha mai verificato che molte forze dichiaratamente ostili alla Chiesa, sventolando il falso alibi della laicità e della tolleranza, hanno smesso di combattere platealmente la Chiesa in Italia, perché lo stanno facendo in Europa? Se ci richiudessimo, secondo Lei starebbero buoni? Secondo Lei saremmo al riparo dai tentativi di azzeramento dei “principi non negoziabili”? Io non lo credo: i tentativi, oltre che dall’Europa, dove continuerebbero ugualmente, riprenderebbero con maggior forza anche da casa nostra, dall’Italia. E allora? « Voi siete nel mondo, ma non siete del mondo.» Siamo nel mondo, che non è più solo l’Italia, è molto più grande, e non bisogna aver paura. Forse per troppo tempo, per motivi che meriterebbero approfondimento, abbiamo giocato di rimessa, in difesa; perché non prendere l’iniziativa, ben sapendo che abbiamo una visione giusta da proporre: ignorarla abbiamo visto dove ha portato sin qui. Perché stigmatizzare Zapatero, e non invece impedire che Zapatero esporti in Europa le distorsioni che ha procurato al suo Paese, che sono un male oggettivo per l’uomo perché sono contrarie alla verità, che non imponiamo a nessuno, ma che c’è e noi la diciamo con chiarezza. Siamo nel mondo; ma questo non vuol dire che dobbiamo restarci da ingenui, ma con sano realismo, pur rivolgendo altrove la nostra speranza proprio perché non siamo del mondo. A solo titolo di esempio: dovremmo “pianificare” l’inserimento di persone affidabili nelle Istituzioni, come altri fanno! Accettiamo senza paura ciò che di bene e di vero c’è nelle altre culture, ma offriamo senza riserve, con la forza dell’evidenza, ciò che sappiamo esserci di buono e di vero nella nostra visione dell’uomo e della società. Il vero problema sono quelle semplici parole - con la forza dell’evidenza - dobbiamo imparare a rendere ragione della nostra speranza. A renderla evidente e ragionevole all’uomo di oggi. Senza illusioni, ricordando ciò che ha detto Mons. Negri, ma anche senza reticenze o alibi; non possiamo rinunciare a dire con umiltà, ma con fermezza la buona notizia, la “buona novella”. non possiamo rinunciare né in Italia né in Europa.
Le troppe generalizzazioni sul sistema sanitario lombardo
Piero Micossi17/06/2008
Autore(i): Piero Micossi. Pubblicato il 17/06/2008 – IlSussidiario.net
Riflettendo sul caso S. Rita, sulle modalità con cui è stato affrontato dai media e sull’impatto generato nell’opinione pubblica, sorgono naturali domande sulla gravità dei fatti, almeno così come sono stati presentati, dubbi sulla efficacia del sistema dei controlli, sulla deontologia professionale dei medici e del personale non medico coinvolti, sulla accettabilità di strumenti contrattuali che premiano unicamente i volumi di produzione.
La prima riflessione riguarda tuttavia il processo di generalizzazione che è stato compiuto in questo caso, assimilando tutto il sistema di erogazione privato ai possibili comportamenti criminali di alcuni. Il velo ideologico continua ad annebbiare la mente dei molti moralisti che in casi come questi brandiscono la ghigliottina della condanna preventiva collettiva e senza appello.
Vale dunque la pena di ricordare che le organizzazioni complesse non sono mai interpretabili seguendo ragionamenti logici astratti che prescindano dai comportamenti concreti degli uomini, dall’ambiente culturale e morale in cui lavorano, dalla natura e dalla struttura delle loro motivazioni. Del resto, un anno fa le ispezioni ordinate dal Ministro della salute Turco, mostrarono una condizione di rilevante degrado strutturale e organizzativo, tanto che si stimarono carenze di requisiti di accreditamento gravi in almeno il 50% delle strutture pubbliche esaminate. Eppure nessuno mise in discussione l’intero sistema di erogazione pubblica delle prestazioni. Non credo di fare un’affermazione temeraria, dicendo che si decise di attenuare dinnanzi all’opinione pubblica risultati e conseguenze di quella indagine, a protezione dei valori universali rappresentati dal servizio sanitario pubblico.
Alcuni fatti non sono tuttavia negabili.
L’introduzione del processo di aziendalizzazione del nostro SSN deciso nel 1992 al governo Amato dopo la crisi finanziaria che ci portò fuori dal sistema monetario europeo nel settembre dello stesso anno, fu dettato alla necessità di rendere accettabilmente funzionante un sistema che aveva prodotto gravi livelli di inefficienza, liste di attesa insopportabili per il pubblico, disimpegno professionale.
La scelta della regione Lombardia fu quella di adottare un approccio già introdotto dal governo Tatcher (mantenuto in vita dai due governi Blair), che consisteva nel creare una competizione regolata fra soggetti pubblici e privati, per stimolare maggior efficienza e maggiore attenzione delle organizzazioni sanitarie alle esigenze dei consumatori. In Lombardia questa scelta fu rafforzata dalla introduzione del principio di libertà di scelta, che consentì ai cittadini di scegliere professionisti e luogo di cura.
Questa scelta ha portato alla crescita nel sistema lombardo di alcune strutture sanitarie private che oggi rappresentano motivo di orgoglio per tutto il paese, investimenti in ricerca scientifica e tecnologia avanzata, sviluppo di un sistema di offerta che è oggi uno dei migliori in Europa. Il tentativo di gettare con l’acqua sporca anche il bambino, va dunque respinto, per non ritornare alla stagione antecedente il 1992 e per non disperdere il patrimonio di cultura, tecnologia, professionalità che abbiamo accumulato in questi anni.
Certamente, l’esperienza internazionale e quella italiana confermano che i sistemi di remunerazione delle prestazioni basate sulle unità di prodotto posso generare offerta in eccesso di quanto necessario e comportamenti professionali di selezione dei pazienti. È compito del processo di vigilanza e degli strumenti contrattuali prevenire ed eliminare dal sistema tali deviazioni.
Il sistema dei controlli lombardo riesce oggi ad esaminare circa il 6% di tutte le cartelle cliniche (più di quanto venga fatto nella maggioranza delle altre regioni italiane), utilizzando in aggiunta strumenti di bench marking, sull’andamento globale della produzione di servizi, che sono in grado di mettere in evidenza processi distorsivi. Sono tuttavia emersi negli ultimi anni episodi in cui tutto questo non è stato capace di prevenire comportamenti opportunistici e cattive pratiche professionali.
Le ragioni di ciò sono di duplice natura, una istituzionale ed una contrattuale.
La ragione istituzionale risiede nell’impianto giuridico del nostro sistema sanitario, per cui chi effettua le scelte di programmazione, è anche responsabile del sistema di controllo e di gran parte del sistema di erogazione. Dato che i sistemi sanitari sono sistemi all’interno dei quali si confrontano interessi rilevanti (dei consumatori, dei dipendenti, della burocrazia, della politica), si determina facilmente l’indebolimento del sistema di controllo da un lato, lo stabilirsi di relazioni improprie fra ambienti politici e organizzazioni di erogazione pubbliche e private dall’altro. Questo è ormai sotto gli occhi di tutti e richiede il taglio di questo nodo con l’istituzione di un sistema di controllo che sia trasparente, terzo e indipendente da chi svolge le funzioni di programmazione ed anche da chi svolge le funzioni di erogazione delle prestazioni. Purtroppo in Italia i gruppi dirigenti sono portatori di una cultura istituzionale che sembra avere dimenticato la fondamentale lezione sulla separazione dei poteri (su cui si fonda l’esperienza democratica europea ed americana) e continuano ad affrontare problemi di questa natura sulla base del giudizio morale (pubblico è buono, privato è cattivo o viceversa) e non sulla base di una cultura giuridica che sia capace di fondare, nel riconoscimento del fisiologico contrapporsi degli interessi, un appropriato sistema di bilanciamento (checks and balances).
La seconda questione sulla quale occorre intervenire è quella contrattuale.
Occorre prendere atto del fatto che contratti che premiano le strutture di erogazione e i medici sulla base del fatturato, incoraggiano comportamenti opportunistici e portano alla moltiplicazione delle prestazioni. Questo non avviene nei paesi in cui l’acquirente delle prestazioni è un soggetto terzo rispetto alla pubblica amministrazione (fondi, assicurazioni, mutue, dei quali sarebbe auspicabile l’introduzione anche in Italia) e in cui gli ordini professionali vigilano sulle deontologia dei propri associati con maggiore efficacia. Sul versante dei soggetti erogatori il nostro sistema di remunerazione delle prestazioni incoraggia lo sviluppo di volumi di prestazioni crescenti a discapito del miglioramento di efficienza, mentre sul versante dei medici si incoraggiano pratiche che estendono l’indicazione agli interventi, certamente avvalendosi di argomenti culturali e scientifici, ma altrettanto certamente portando il cuore e la mente là dove risiede il portafoglio.
I sistemi di controllo di qualità introdotti nel nostro sistema sanitario (Iso 9000 e sue varianti, JCI, altri) sono inefficaci nel valutare l’appropriatezza delle indicazioni alle procedure, né si può pensare che le organizzazioni preposte ai controlli siano in grado di entrare nel merito professionale della scelta medica, se non in casi di palese violazione della ragionevolezza.
Va tuttavia osservato che gli ordini dei medici e tutti gli altri ordini professionali accessori, proliferati nel rapporto patologico fra gruppi di interessi e Parlamento, non hanno mostrato alcuna capacità né alcun interesse nel vincolare i propri associati a comportamenti deontologicamene corretti, assecondando nei fatti la progressiva perdita di capacità di giudizio e di responsabilità.
Occorre ora modificare questa situazione prevedendo vincoli ai contratti stipulabili fra organizzazioni degli erogatori e professionisti medici, imponendo il rapporto di impiego (pena la non compliance ai requisiti di accreditamento) e vietando forma di incentivazione che rendano la parte variabile eccedente il 10 o ilo 20% della remunerazione totale. Questo per rendere il lavoro professionale del medico più libero nel giudizio e non soggetto al conflitto fra interesse economico e deontologia professionale. I nuovi contratti dovrebbero inoltre contenere obbligatoriamente dichiarazioni e vincoli sulla qualità e sulla appropriatezza delle prestazioni ed essere oggetto di approvazione formale o in sede ordinistica o in sede di agenzia di controllo della qualità. Le remunerazione dei medici e dei manager della sanità dovrebbero essere inoltre soggette a pubblicazione periodica e consultabili dai cittadini.
Per quanto attiene invece ai contratti fra pubblica amministrazione e soggetti erogatori, dovrebbero essere utilizzati standard di bench marking sulla produttività della unità operative, per definire budget tali da garantire efficienza organizzativa, ma evitando di generare pressioni all’incremento dei volumi che espongano a comportamenti opportunistici.
Una considerazione infine sulla gogna mediatica cui sono stati esposti in questa vicenda gli operatori professionali, con la pubblicazione di intercettazioni che hanno indotto a ritenere criminali anche comportamenti che certamente non lo sono, quale l’uso di porzioni di un tipo di legamento o di un altro per effettuare un intervento ortopedico. La mancanza di riservatezza e qualche spregiudicatezza nell’utilizzo delle intercettazioni produce anche danno alla credibilità della magistratura, e questo non è nell’interesse né de cittadini né delle istituzioni.
Il “freno” dei sindacati italiani nel pubblico impiego
Roberto Albonetti17/06/2008
Autore(i): Roberto Albonetti. Pubblicato il 17/06/2008 – IlSussidiario.net
Il ruolo del sindacato è quello di difendere gli interessi dei lavoratori, cercando di ottenere condizioni di lavoro migliori e salari più giusti. La loro organizzazione è libera, come sancito dall’art. 39 della Costituzione. In uno Stato democratico non potrebbe essere altrimenti e anche i distacchi sindacali nel settore pubblico, inseriti nell’operazione trasparenza del Ministro Brunetta, sono un diritto riconosciuto, non un abuso.
Nessuno vuole dimenticare i meriti storici delle lotte dei lavoratori. Ma chiedersi quale utilità rivestano i 700mila delegati sindacali, che costano alle casse nazionali quasi due miliardi di euro, è un diritto della collettività. Scoprire che all’Inps esistono un comitato che si occupa della pesca in acqua dolce e un secondo comitato che si dedica a quella in acqua salata lascia giustamente interdetti. Così come stupisce che l’Alitalia sull’orlo del fallimento potesse permettersi di finanziare un comitato per scegliere i nomi dei nuovi aerei della compagnia.
Ma più che pubblicare i nomi dei sindacalisti o i numeri dei permessi, cedendo a istinti forcaioli poco edificanti, occorre analizzare e intervenire su ciò che da tempo ormai paralizza il sistema pubblico. Si tratta di un insieme di veti incrociati, che fanno del sindacato un freno alla crescita, impegnato più a difendere una serie di privilegi storici che gli interessi di chi lavora. E anche la base lo sa bene, dal momento che solo un lavoratore su venti si sente rappresentato dal sindacato e che il 50% degli iscritti è costituito da pensionati. Ma nella pubblica amministrazione, ancora oggi una roccaforte sindacale, consigli, commissioni e comitati doppi o inutili continuano a moltiplicarsi.
Non si tratta solo di uno spreco di risorse, ma di un sintomo grave di anarchia decisionale. Troppo spesso dietro alla parola “governance” si nasconde un accavallarsi disordinato di piccoli e grandi consigli, che spartiscono fondi pubblici, senza però assumersi la responsabilità delle decisioni prese.
Una leadership politica forte è la premessa per far funzionare la nostra pubblica amministrazione, cioè per aprirla alla società, al mercato, alla concorrenza. Chi ha ricevuto da parte dei cittadini il compito di governare deve dialogare con tutte le forze sociali, ma non può lasciare che la concertazione si sostituisca alla responsabilità politica delle istituzioni. Altrimenti continueranno a prodursi decisioni irrazionali di cui nessuno è disposto a rendere conto.
APATIA NON TOLLERABILE - SE QUESTA SORTE FOSSE TOCCATA AI NOSTRI EMIGRANTI
Avvenire, 17 giugno 2008
GIORGIO PAOLUCCI
Il bollettino di morte stavolta è più pesante del solito. Le fonti che hanno divulgato l’ultima tragedia del mare parlano di quaranta vittime e cento dispersi in seguito al naufragio di un’imbarcazione diretta dalle coste libiche all’Italia. Per quanti vengono classificati come «dispersi », peraltro, c’è poco da sperare, visto che il fatto risale al 7 giugno. Eppure, per loro come per migliaia di altri che si avventurano sulle fragili imbarcazioni che sfidano le onde del Mediterraneo, quello era il viaggio della speranza. Come lo era per coloro che giacciono da mesi, da anni, sui fondali di questo e di altri mari, che nessuno troverà mai e nessuno potrà mai contare. Come lo era per quelli che due giorni fa sono annegati al largo di Malta e per i ventisei che ieri si sono salvati aggrappandosi alle reti per la cattura dei tonni. E ancora, per coloro che in questi giorni sono approdati a Lampedusa. Tutti nostri fratelli nella comune umanità. Ad essi ci unisce molto più di quanto sembra dividerci. E se fossimo noi al posto loro? Se fosse capitato ai nostri cari, quando nei decenni passati si avvicinavano alle coste delle Americhe o dell’Australia? C’è in giro un’apatia, un’indifferenza (se tale è) che ci atterriscono. Non siamo più italiani fregandocene degli altri, lo siamo di meno.
Ciò che sta accadendo nelle acque del Mediterraneo è la conferma, sonante e tragica, di quanto sia velleitario qualsiasi tentativo di affrontare l’emergenza sbarchi in maniera unilaterale, e di come il «concerto» transnazionale rappresenti, più che un’opzione tra le tante, la strada maestra da battere. L’Unione Europea sembra muoversi in questa direzione, anche se con colpevole ritardo rispetto ai campanelli d’allarme che da anni e in più occasioni erano suonati. Nel pacchetto di provvedimenti che viene presentato oggi a Bruxelles si ribadisce l’urgenza di aumentare la collaborazione tra Ue e Paesi terzi per la gestione dei confini. E si sottolinea la necessità di rendere più efficace l’attività di Frontex, l’agenzia che gestisce la cooperazione internazionale alle frontiere esterne e che presiede ai pattugliamenti nel Mediterraneo.
Per prevenire le tragedie del mare, uno dei nodi più difficili da affrontare è certamente quello relativo all’ondivago atteggiamento della Libia, da cui proviene la maggior parte di coloro che sono diretti verso l’Europa. Atteggiamento che oscilla tra la colpevole assenza nei controlli delle proprie coste – un «avvertimento » inviato agli europei sugli effetti destabilizzanti che potrebbe avere la marea umana pronta a riversarsi sul Vecchio continente – e il pugno di ferro usato per respingere nel deserto gli africani che cercano di entrare in territorio libico, trampolino verso quel Nord del mondo in cui sognano di entrare. Vedremo se, durante il semestre di presidenza francese, un decisonista come Sarkozy riuscirà a mettere alle strette Gheddafi, che peraltro proprio nei giorni scorsi ha respinto al mittente l’ipotesi di Unione euromediterranea a cui Parigi lavora da tempo. Certo è che senza il coinvolgimento dei Paesi di partenza – non solo la Libia – ogni provvedimento è destinato all’inefficacia. Un coinvolgimento che non può essere di natura meramente poliziesca, ma deve comprendere quelle politiche di cooperazione allo sviluppo che sono quantomai necessarie per provare a ridurre gli squilibri economico-sociali tra le due rive del Mediterraneo.
Molto da progettare, molto da realizzare, dunque. Ma queste sono le ore della pietà. Le ore in cui unirsi al dolore di quanti piangono i loro morti. Che sono un po’ anche nostri, perché quanto è accaduto in quelle acque non può lasciarci indifferenti. Sono le ore in cui unirsi alla preghiera ecumenica in memoria delle vittime dei viaggi verso l’Europa. promossa per giovedì prossimo a Roma da Caritas, Fondazione Migrantes e Comunità di Sant’Egidio insieme ad altre associazioni. Preghiamo, affidando le vittime di questa ennesima tragedia alla misericordia di Colui che li ha già abbracciati.
1) Europa: la temiamo o la vogliamo ospitale?
2) Le troppe generalizzazioni sul sistema sanitario lombardo
3) Il “freno” dei sindacati italiani nel pubblico impiego
4) APATIA NON TOLLERABILE - SE QUESTA SORTE FOSSE TOCCATA AI NOSTRI EMIGRANTI
Europa: la temiamo o la vogliamo ospitale?
Autore: Salina, Giorgio Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
lunedì 16 giugno 2008
A seguito dell’articolo «Dopo il “NO” irlandese momento difficile per l’Europa» pubblicato, qui su CulturaCattolica.it sabato 14 giugno, avendo ricevuto non poche telefonate e soprattutto e-mail, volentieri cerco di rispondere a richieste ed obiezioni, se don Gabriele Mangiarotti riterrà di pubblicare queste note.
Vi prego però di lasciarmi comunicare un’impressione amara provata venerdì sera vedendo ed ascoltando il TG2: prima notizia il pareggio della nazionale agli europei, circa 10 minuti (per un telegiornale un’eternità) poi la politica interna, poi le “morti bianche” - giusto - poi altre notizie di cronaca italiana (nera e rosa,... non ricordo) quindi, dopo oltre venti minuti, la notizia del “no” irlandese, seguita da un’inquadratura del Presidente Barroso mentre il cronista riferiva la Sua dichiarazione circa la necessità di continuare con le ratifiche. Un amico giornalista ha detto che la scaletta dei TG e dei GR rispecchia gli interessi degli ascoltatori rilevati in base agli indici di ascolto. Interessi, aggiungo io, alimentati anche dai media. Non so se proprio così, sarà, ma allora non lamentiamoci se il nostro Paese sta accingendosi a ratificare il Trattato di Lisbona per via parlamentare, dopo che un altro Paese dell’Unione lo ha respinto, nell’indifferenza generale;... in fondo si tratta solo del nostro futuro, e soprattutto del destino dei nostri figli!
Ma ora le risposte, se ne sono capace, alle domande ed alle obiezioni ricevute, che raggrupperei così:
Che cosa è il Trattato di Lisbona? Ricordiamo tutti, credo, che il documento varato dalla Convenzione europea presieduta da Giscard d’Estaing, dopo un anno di lavoro, la bozza di Trattato costituzionale firmato solennemente a Roma dai 27 Paesi membri, in fase di ratifica è stato respinto da due Paesi, Francia e Olanda, chiamati ad esprimersi con referendum popolare. Decaduto questo documento, le regole di funzionamento dell’Unione continuavano ad essere quelle del trattato di Nizza del febbraio 2001, quando l’Unione europea era di 15 Stati membri. Non sfugge a nessuno che così la vita delle Istituzioni è macchinosa e spesso inconcludente, che il metodo per assumere decisioni è farraginoso e spesso inefficace, lasciando spazio ad iniziative autonome ed incontrollate di Funzionari faziosi. Dopo un lungo periodo di indecisioni ed incertezze e quattro anni di faticose trattative si è giunti a formalizzare un nuovo Trattato assai più snello del precedente, che è stato sottoscritto dai Capi di Stato e di Governo di 27 Paesi in occasione di una Conferenza intergovernativa svoltasi a Lisbona nel dicembre del 2007. Non è un documento semplice perché frutto di un faticoso compromesso tra Paesi grandi e piccoli, tra esigenze a volte contrastanti, tra culture differenti; compromesso raggiunto anche grazie al forte impegno personale del Canceliere tedesco, la signora Angela Merkel. Molto più breve del precedente trattato costituzionale riguarda essenzialmente le regole di funzionamento dell’UE, il metodi per assumere le decisioni, e le materie non più soggette all’unanimità. Volendo contrastare l’idea di Europa super - stato che si sovrappone e prevale sugli Stati membri, sono stati ad esempio eliminati la bandiera, l’inno e la festa europea. Il Trattato fa esplicito riferimento alla Carta dei diritti fondamentali, rendendola vincolante per i Paesi che avendolo sottoscritto ratificheranno il Trattato; posizione alla quale si sono opposte Inghilterra e Polonia, dichiarando che la Carta non prevarrà sulle rispettive Legislazioni nazionali.
La Carta dei diritti fondamentali, proclamata nel dicembre 2000, si compone di 54 articoli suddivisi in sette capitoli: Dignità, Libertà, Uguaglianza, Solidarietà, Cittadinanza, Giustizia e Disposizioni finali. Oltre a ritenerlo un testo ambiguo perché volutamente consente interpretazioni diverse ed a volte antitetiche, come molti autorevoli Osservatori anch’io ritengo che non se ne sentisse in alcun modo la necessità, perché ai nostri fondamenti costituzionali e giuridici era sufficiente la Dichiarazione universale dei diritti umani, proclamata solennemente dall’ONU nel dicembre del 1948; documento storico, prodotto sull’onda dell’indignazione per le atrocità commesse durante la seconda guerra mondiale; la Dichiarazione fa parte dei documenti di base delle Nazioni Unite.
Perché il mancato rispetto delle religioni, e del cristianesimo in particolare, sarebbe una causa non secondaria del fallimento dell’Europa? Credo per due ragioni fondamentali. Nelle diverse Istituzioni dell’Unione, spessissimo si afferma che la presenza di diverse culture è la ricchezza dell’Europa, e quindi vanno preservate e protette, in particolare quelle delle minoranze. Affermazione credo più che condivisibile. Ma allora vanno preservate e protette tutte: se una viene osteggiata e si cerca di impedirle di concorrere, alla pari con le altre, alla determinazione del bene comune, allora la posizione è falsa, ed è orientata alla discriminazione e alla marginalizzazione di ciò che non si condivide, e quindi porta alla disgregazione. Mi permetto notare che coloro che più avversano di fatto la libertà di religione, di pensiero e di manifestazione del pensiero, sono proprio quelli che accusano i cristiani di discriminazione quasi sempre per motivi totalmente infondati.
Credo però che ci sia un’altra ragione ancor più decisiva. Che cosa è l’Europa? Che cosa definisce l’Europa? Geograficamente sappiamo che la si definisce come una penisola dell’immensa Asia.
In senso geografico, oltre che geologico, l’Europa è una penisola, parte occidentale dell’Eurasia. Il nome Europa viene dal greco, significa “grandi occhi”, ed è una figura della mitologia. I cretesi chiamarono Europa le terre a nord della loro isola, e in epoca greca e romana era un termine geografico indefinito, una terra a nord del Mediterraneo di cui non si conoscevano i confini settentrionali.
Da questo punto di vista diventa quindi difficile individuare e definire una specificità continentale. Sono comunque terre abitate da popolazioni diverse per razza, tradizioni e storia. Difficile, se non arbitrario, perciò anche parlare di identità etnica, di etnia europea. Ma allora che cosa contraddistingue quella realtà che convenzionalmente chiamiamo “Europa”? La cultura che l’ha unificata; e non vi è dubbio alcuno che dall’Atlantico agli Urali, dal Mediterraneo all’oceano Artico, sia la cultura cristiana che si è innestata sulla cultura greco romana. Dalla penisola iberica alle steppe della Russia, dalla Grecia alla Scandinavia questo è ciò che nei secoli ha consolidato l’identità europea. Se non ci fosse questa storia e questa cultura resterebbe solo una triste storia, di guerre di rivalità e di tentativi egemonici, di violenze inaudite. La cultura cristiana ha costruito nei secoli l’Europa di oggi - questo è un fatto, non un’opinione - e ha dato all’Europa quell’idea di uomo, di dignità dell’uomo, che i Paesi in via di sviluppo, oggi ci chiedono di esportare, di portare loro (!): e lo chiedono all’Europa e non ad altre realtà o ad altri popoli; per questo guardano con speranza all’unità europea! Ma se si trascura, o se si pretende di annullare la cultura cristiana cosa resta dell’Europa. Nel migliore dei casi un’area di mercanti, fin quando resteranno in pace tra loro. Piaccia o no, questa è la verità riscontrabile, verificabile. Basta ripercorrere la storia, e leggere l’attualità.
Perché questo attacco alla Chiesa cattolica? Non ho dubbi: perché è la voce più autorevole e popolare che contrasta la deriva relativista, che riafferma l’esistenza di una verità da proporre a tutti senza imporla a nessuno, a cui fare riferimento per un’ordinata convivenza civile nel rispetto reciproco. Ma questo è contrario al concetto di « quel che pare e piace », oggi dominante, e quindi va zittito e combattuto. Sua Eccellenza Monsignor Luigi Negri lo ha ribadito recentemente in modo efficacissimo:
Troverete tanto odio perché l’uomo in questo tempo ha una terribile volontà di odio verso Cristo e verso la Chiesa: dalla banalizzazione dei grandi suggerimenti morali, all’attacco indiscriminato alla vita, alla dignità, al diritto che gli uomini hanno di vivere in modo dignitoso, libero e intelligente. Tutto questo è sotto tiro: la società si vanta di stare compiendo l’ultimo e più blasfemo tentativo di negare la presenza di Cristo e la tradizione che da Cristo ha influito nella vita del nostro popolo... Siate baldanzosi, non per la vostra forza, ma baldanzosi in colui e per colui che vi dà forza... chiedete alla Madonna che vi aiuti a fare questo miracolo, come in qualche modo ha aiutato suo Figlio a fare il miracolo.
Michele mi ha scritto: Io l’Europa non la voglio. Non questa. Smettete anche voi cattolici di rammaricarvi, di parlare di giorno triste per l’Europa. Ma che gioco fate?
Grazie per il messaggio molto franco e sentito.
Anch’io questa Europa non la voglio: voglio l’Europa di De Gasperi, di Adenauer e di Schumann. Voglio l’Europa: percorrendo a ritroso la storia prima del 1948 quando si trovano oltre sessant’anni di pace? Quando? Questi, ed altri, sono fatti non opinioni. Supponendo che si debba sempre agire di rimessa e non prendere in mano il proprio destino cercando di costruirlo come lo si vorrebbe, siamo sicuri che richiudendoci nel nostro angolo di mondo saremmo al sicuro? Non ha mai verificato che molte forze dichiaratamente ostili alla Chiesa, sventolando il falso alibi della laicità e della tolleranza, hanno smesso di combattere platealmente la Chiesa in Italia, perché lo stanno facendo in Europa? Se ci richiudessimo, secondo Lei starebbero buoni? Secondo Lei saremmo al riparo dai tentativi di azzeramento dei “principi non negoziabili”? Io non lo credo: i tentativi, oltre che dall’Europa, dove continuerebbero ugualmente, riprenderebbero con maggior forza anche da casa nostra, dall’Italia. E allora? « Voi siete nel mondo, ma non siete del mondo.» Siamo nel mondo, che non è più solo l’Italia, è molto più grande, e non bisogna aver paura. Forse per troppo tempo, per motivi che meriterebbero approfondimento, abbiamo giocato di rimessa, in difesa; perché non prendere l’iniziativa, ben sapendo che abbiamo una visione giusta da proporre: ignorarla abbiamo visto dove ha portato sin qui. Perché stigmatizzare Zapatero, e non invece impedire che Zapatero esporti in Europa le distorsioni che ha procurato al suo Paese, che sono un male oggettivo per l’uomo perché sono contrarie alla verità, che non imponiamo a nessuno, ma che c’è e noi la diciamo con chiarezza. Siamo nel mondo; ma questo non vuol dire che dobbiamo restarci da ingenui, ma con sano realismo, pur rivolgendo altrove la nostra speranza proprio perché non siamo del mondo. A solo titolo di esempio: dovremmo “pianificare” l’inserimento di persone affidabili nelle Istituzioni, come altri fanno! Accettiamo senza paura ciò che di bene e di vero c’è nelle altre culture, ma offriamo senza riserve, con la forza dell’evidenza, ciò che sappiamo esserci di buono e di vero nella nostra visione dell’uomo e della società. Il vero problema sono quelle semplici parole - con la forza dell’evidenza - dobbiamo imparare a rendere ragione della nostra speranza. A renderla evidente e ragionevole all’uomo di oggi. Senza illusioni, ricordando ciò che ha detto Mons. Negri, ma anche senza reticenze o alibi; non possiamo rinunciare a dire con umiltà, ma con fermezza la buona notizia, la “buona novella”. non possiamo rinunciare né in Italia né in Europa.
Le troppe generalizzazioni sul sistema sanitario lombardo
Piero Micossi17/06/2008
Autore(i): Piero Micossi. Pubblicato il 17/06/2008 – IlSussidiario.net
Riflettendo sul caso S. Rita, sulle modalità con cui è stato affrontato dai media e sull’impatto generato nell’opinione pubblica, sorgono naturali domande sulla gravità dei fatti, almeno così come sono stati presentati, dubbi sulla efficacia del sistema dei controlli, sulla deontologia professionale dei medici e del personale non medico coinvolti, sulla accettabilità di strumenti contrattuali che premiano unicamente i volumi di produzione.
La prima riflessione riguarda tuttavia il processo di generalizzazione che è stato compiuto in questo caso, assimilando tutto il sistema di erogazione privato ai possibili comportamenti criminali di alcuni. Il velo ideologico continua ad annebbiare la mente dei molti moralisti che in casi come questi brandiscono la ghigliottina della condanna preventiva collettiva e senza appello.
Vale dunque la pena di ricordare che le organizzazioni complesse non sono mai interpretabili seguendo ragionamenti logici astratti che prescindano dai comportamenti concreti degli uomini, dall’ambiente culturale e morale in cui lavorano, dalla natura e dalla struttura delle loro motivazioni. Del resto, un anno fa le ispezioni ordinate dal Ministro della salute Turco, mostrarono una condizione di rilevante degrado strutturale e organizzativo, tanto che si stimarono carenze di requisiti di accreditamento gravi in almeno il 50% delle strutture pubbliche esaminate. Eppure nessuno mise in discussione l’intero sistema di erogazione pubblica delle prestazioni. Non credo di fare un’affermazione temeraria, dicendo che si decise di attenuare dinnanzi all’opinione pubblica risultati e conseguenze di quella indagine, a protezione dei valori universali rappresentati dal servizio sanitario pubblico.
Alcuni fatti non sono tuttavia negabili.
L’introduzione del processo di aziendalizzazione del nostro SSN deciso nel 1992 al governo Amato dopo la crisi finanziaria che ci portò fuori dal sistema monetario europeo nel settembre dello stesso anno, fu dettato alla necessità di rendere accettabilmente funzionante un sistema che aveva prodotto gravi livelli di inefficienza, liste di attesa insopportabili per il pubblico, disimpegno professionale.
La scelta della regione Lombardia fu quella di adottare un approccio già introdotto dal governo Tatcher (mantenuto in vita dai due governi Blair), che consisteva nel creare una competizione regolata fra soggetti pubblici e privati, per stimolare maggior efficienza e maggiore attenzione delle organizzazioni sanitarie alle esigenze dei consumatori. In Lombardia questa scelta fu rafforzata dalla introduzione del principio di libertà di scelta, che consentì ai cittadini di scegliere professionisti e luogo di cura.
Questa scelta ha portato alla crescita nel sistema lombardo di alcune strutture sanitarie private che oggi rappresentano motivo di orgoglio per tutto il paese, investimenti in ricerca scientifica e tecnologia avanzata, sviluppo di un sistema di offerta che è oggi uno dei migliori in Europa. Il tentativo di gettare con l’acqua sporca anche il bambino, va dunque respinto, per non ritornare alla stagione antecedente il 1992 e per non disperdere il patrimonio di cultura, tecnologia, professionalità che abbiamo accumulato in questi anni.
Certamente, l’esperienza internazionale e quella italiana confermano che i sistemi di remunerazione delle prestazioni basate sulle unità di prodotto posso generare offerta in eccesso di quanto necessario e comportamenti professionali di selezione dei pazienti. È compito del processo di vigilanza e degli strumenti contrattuali prevenire ed eliminare dal sistema tali deviazioni.
Il sistema dei controlli lombardo riesce oggi ad esaminare circa il 6% di tutte le cartelle cliniche (più di quanto venga fatto nella maggioranza delle altre regioni italiane), utilizzando in aggiunta strumenti di bench marking, sull’andamento globale della produzione di servizi, che sono in grado di mettere in evidenza processi distorsivi. Sono tuttavia emersi negli ultimi anni episodi in cui tutto questo non è stato capace di prevenire comportamenti opportunistici e cattive pratiche professionali.
Le ragioni di ciò sono di duplice natura, una istituzionale ed una contrattuale.
La ragione istituzionale risiede nell’impianto giuridico del nostro sistema sanitario, per cui chi effettua le scelte di programmazione, è anche responsabile del sistema di controllo e di gran parte del sistema di erogazione. Dato che i sistemi sanitari sono sistemi all’interno dei quali si confrontano interessi rilevanti (dei consumatori, dei dipendenti, della burocrazia, della politica), si determina facilmente l’indebolimento del sistema di controllo da un lato, lo stabilirsi di relazioni improprie fra ambienti politici e organizzazioni di erogazione pubbliche e private dall’altro. Questo è ormai sotto gli occhi di tutti e richiede il taglio di questo nodo con l’istituzione di un sistema di controllo che sia trasparente, terzo e indipendente da chi svolge le funzioni di programmazione ed anche da chi svolge le funzioni di erogazione delle prestazioni. Purtroppo in Italia i gruppi dirigenti sono portatori di una cultura istituzionale che sembra avere dimenticato la fondamentale lezione sulla separazione dei poteri (su cui si fonda l’esperienza democratica europea ed americana) e continuano ad affrontare problemi di questa natura sulla base del giudizio morale (pubblico è buono, privato è cattivo o viceversa) e non sulla base di una cultura giuridica che sia capace di fondare, nel riconoscimento del fisiologico contrapporsi degli interessi, un appropriato sistema di bilanciamento (checks and balances).
La seconda questione sulla quale occorre intervenire è quella contrattuale.
Occorre prendere atto del fatto che contratti che premiano le strutture di erogazione e i medici sulla base del fatturato, incoraggiano comportamenti opportunistici e portano alla moltiplicazione delle prestazioni. Questo non avviene nei paesi in cui l’acquirente delle prestazioni è un soggetto terzo rispetto alla pubblica amministrazione (fondi, assicurazioni, mutue, dei quali sarebbe auspicabile l’introduzione anche in Italia) e in cui gli ordini professionali vigilano sulle deontologia dei propri associati con maggiore efficacia. Sul versante dei soggetti erogatori il nostro sistema di remunerazione delle prestazioni incoraggia lo sviluppo di volumi di prestazioni crescenti a discapito del miglioramento di efficienza, mentre sul versante dei medici si incoraggiano pratiche che estendono l’indicazione agli interventi, certamente avvalendosi di argomenti culturali e scientifici, ma altrettanto certamente portando il cuore e la mente là dove risiede il portafoglio.
I sistemi di controllo di qualità introdotti nel nostro sistema sanitario (Iso 9000 e sue varianti, JCI, altri) sono inefficaci nel valutare l’appropriatezza delle indicazioni alle procedure, né si può pensare che le organizzazioni preposte ai controlli siano in grado di entrare nel merito professionale della scelta medica, se non in casi di palese violazione della ragionevolezza.
Va tuttavia osservato che gli ordini dei medici e tutti gli altri ordini professionali accessori, proliferati nel rapporto patologico fra gruppi di interessi e Parlamento, non hanno mostrato alcuna capacità né alcun interesse nel vincolare i propri associati a comportamenti deontologicamene corretti, assecondando nei fatti la progressiva perdita di capacità di giudizio e di responsabilità.
Occorre ora modificare questa situazione prevedendo vincoli ai contratti stipulabili fra organizzazioni degli erogatori e professionisti medici, imponendo il rapporto di impiego (pena la non compliance ai requisiti di accreditamento) e vietando forma di incentivazione che rendano la parte variabile eccedente il 10 o ilo 20% della remunerazione totale. Questo per rendere il lavoro professionale del medico più libero nel giudizio e non soggetto al conflitto fra interesse economico e deontologia professionale. I nuovi contratti dovrebbero inoltre contenere obbligatoriamente dichiarazioni e vincoli sulla qualità e sulla appropriatezza delle prestazioni ed essere oggetto di approvazione formale o in sede ordinistica o in sede di agenzia di controllo della qualità. Le remunerazione dei medici e dei manager della sanità dovrebbero essere inoltre soggette a pubblicazione periodica e consultabili dai cittadini.
Per quanto attiene invece ai contratti fra pubblica amministrazione e soggetti erogatori, dovrebbero essere utilizzati standard di bench marking sulla produttività della unità operative, per definire budget tali da garantire efficienza organizzativa, ma evitando di generare pressioni all’incremento dei volumi che espongano a comportamenti opportunistici.
Una considerazione infine sulla gogna mediatica cui sono stati esposti in questa vicenda gli operatori professionali, con la pubblicazione di intercettazioni che hanno indotto a ritenere criminali anche comportamenti che certamente non lo sono, quale l’uso di porzioni di un tipo di legamento o di un altro per effettuare un intervento ortopedico. La mancanza di riservatezza e qualche spregiudicatezza nell’utilizzo delle intercettazioni produce anche danno alla credibilità della magistratura, e questo non è nell’interesse né de cittadini né delle istituzioni.
Il “freno” dei sindacati italiani nel pubblico impiego
Roberto Albonetti17/06/2008
Autore(i): Roberto Albonetti. Pubblicato il 17/06/2008 – IlSussidiario.net
Il ruolo del sindacato è quello di difendere gli interessi dei lavoratori, cercando di ottenere condizioni di lavoro migliori e salari più giusti. La loro organizzazione è libera, come sancito dall’art. 39 della Costituzione. In uno Stato democratico non potrebbe essere altrimenti e anche i distacchi sindacali nel settore pubblico, inseriti nell’operazione trasparenza del Ministro Brunetta, sono un diritto riconosciuto, non un abuso.
Nessuno vuole dimenticare i meriti storici delle lotte dei lavoratori. Ma chiedersi quale utilità rivestano i 700mila delegati sindacali, che costano alle casse nazionali quasi due miliardi di euro, è un diritto della collettività. Scoprire che all’Inps esistono un comitato che si occupa della pesca in acqua dolce e un secondo comitato che si dedica a quella in acqua salata lascia giustamente interdetti. Così come stupisce che l’Alitalia sull’orlo del fallimento potesse permettersi di finanziare un comitato per scegliere i nomi dei nuovi aerei della compagnia.
Ma più che pubblicare i nomi dei sindacalisti o i numeri dei permessi, cedendo a istinti forcaioli poco edificanti, occorre analizzare e intervenire su ciò che da tempo ormai paralizza il sistema pubblico. Si tratta di un insieme di veti incrociati, che fanno del sindacato un freno alla crescita, impegnato più a difendere una serie di privilegi storici che gli interessi di chi lavora. E anche la base lo sa bene, dal momento che solo un lavoratore su venti si sente rappresentato dal sindacato e che il 50% degli iscritti è costituito da pensionati. Ma nella pubblica amministrazione, ancora oggi una roccaforte sindacale, consigli, commissioni e comitati doppi o inutili continuano a moltiplicarsi.
Non si tratta solo di uno spreco di risorse, ma di un sintomo grave di anarchia decisionale. Troppo spesso dietro alla parola “governance” si nasconde un accavallarsi disordinato di piccoli e grandi consigli, che spartiscono fondi pubblici, senza però assumersi la responsabilità delle decisioni prese.
Una leadership politica forte è la premessa per far funzionare la nostra pubblica amministrazione, cioè per aprirla alla società, al mercato, alla concorrenza. Chi ha ricevuto da parte dei cittadini il compito di governare deve dialogare con tutte le forze sociali, ma non può lasciare che la concertazione si sostituisca alla responsabilità politica delle istituzioni. Altrimenti continueranno a prodursi decisioni irrazionali di cui nessuno è disposto a rendere conto.
APATIA NON TOLLERABILE - SE QUESTA SORTE FOSSE TOCCATA AI NOSTRI EMIGRANTI
Avvenire, 17 giugno 2008
GIORGIO PAOLUCCI
Il bollettino di morte stavolta è più pesante del solito. Le fonti che hanno divulgato l’ultima tragedia del mare parlano di quaranta vittime e cento dispersi in seguito al naufragio di un’imbarcazione diretta dalle coste libiche all’Italia. Per quanti vengono classificati come «dispersi », peraltro, c’è poco da sperare, visto che il fatto risale al 7 giugno. Eppure, per loro come per migliaia di altri che si avventurano sulle fragili imbarcazioni che sfidano le onde del Mediterraneo, quello era il viaggio della speranza. Come lo era per coloro che giacciono da mesi, da anni, sui fondali di questo e di altri mari, che nessuno troverà mai e nessuno potrà mai contare. Come lo era per quelli che due giorni fa sono annegati al largo di Malta e per i ventisei che ieri si sono salvati aggrappandosi alle reti per la cattura dei tonni. E ancora, per coloro che in questi giorni sono approdati a Lampedusa. Tutti nostri fratelli nella comune umanità. Ad essi ci unisce molto più di quanto sembra dividerci. E se fossimo noi al posto loro? Se fosse capitato ai nostri cari, quando nei decenni passati si avvicinavano alle coste delle Americhe o dell’Australia? C’è in giro un’apatia, un’indifferenza (se tale è) che ci atterriscono. Non siamo più italiani fregandocene degli altri, lo siamo di meno.
Ciò che sta accadendo nelle acque del Mediterraneo è la conferma, sonante e tragica, di quanto sia velleitario qualsiasi tentativo di affrontare l’emergenza sbarchi in maniera unilaterale, e di come il «concerto» transnazionale rappresenti, più che un’opzione tra le tante, la strada maestra da battere. L’Unione Europea sembra muoversi in questa direzione, anche se con colpevole ritardo rispetto ai campanelli d’allarme che da anni e in più occasioni erano suonati. Nel pacchetto di provvedimenti che viene presentato oggi a Bruxelles si ribadisce l’urgenza di aumentare la collaborazione tra Ue e Paesi terzi per la gestione dei confini. E si sottolinea la necessità di rendere più efficace l’attività di Frontex, l’agenzia che gestisce la cooperazione internazionale alle frontiere esterne e che presiede ai pattugliamenti nel Mediterraneo.
Per prevenire le tragedie del mare, uno dei nodi più difficili da affrontare è certamente quello relativo all’ondivago atteggiamento della Libia, da cui proviene la maggior parte di coloro che sono diretti verso l’Europa. Atteggiamento che oscilla tra la colpevole assenza nei controlli delle proprie coste – un «avvertimento » inviato agli europei sugli effetti destabilizzanti che potrebbe avere la marea umana pronta a riversarsi sul Vecchio continente – e il pugno di ferro usato per respingere nel deserto gli africani che cercano di entrare in territorio libico, trampolino verso quel Nord del mondo in cui sognano di entrare. Vedremo se, durante il semestre di presidenza francese, un decisonista come Sarkozy riuscirà a mettere alle strette Gheddafi, che peraltro proprio nei giorni scorsi ha respinto al mittente l’ipotesi di Unione euromediterranea a cui Parigi lavora da tempo. Certo è che senza il coinvolgimento dei Paesi di partenza – non solo la Libia – ogni provvedimento è destinato all’inefficacia. Un coinvolgimento che non può essere di natura meramente poliziesca, ma deve comprendere quelle politiche di cooperazione allo sviluppo che sono quantomai necessarie per provare a ridurre gli squilibri economico-sociali tra le due rive del Mediterraneo.
Molto da progettare, molto da realizzare, dunque. Ma queste sono le ore della pietà. Le ore in cui unirsi al dolore di quanti piangono i loro morti. Che sono un po’ anche nostri, perché quanto è accaduto in quelle acque non può lasciarci indifferenti. Sono le ore in cui unirsi alla preghiera ecumenica in memoria delle vittime dei viaggi verso l’Europa. promossa per giovedì prossimo a Roma da Caritas, Fondazione Migrantes e Comunità di Sant’Egidio insieme ad altre associazioni. Preghiamo, affidando le vittime di questa ennesima tragedia alla misericordia di Colui che li ha già abbracciati.