venerdì 27 giugno 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) "La Chiesa obbedisce a Gesù. Non possiamo cambiare nulla"
2) Bernanos Elogio dei miserabili - Sessant’anni fa, il 5 luglio 1948, moriva l’autore dei «Dialoghi delle Carmelitane». Qui pubblichiamo un testo poco noto, dedicato ai poveri, che avrebbe dovuto costituire il prologo di una Vita di Gesù
3) L'eterno ritorno del lodo: dal Foglio del 27 giugno 2003
4) Avvicinare gli oranghi all’uomo e annullare lo «specifico», di Marina Corradi
5) A lezione da Paolo Maestro del dialogo autentico perché non celava le differenze
6) «Così la famiglia è facilmente ricattabile» - Il cardinale Bagnasco: «Quando perde la serenità economica è anche esposta al pericolo della sua tenuta complessiva»


"La Chiesa obbedisce a Gesù. Non possiamo cambiare nulla"
di Andrea Tornielli
Momsignor Fisichella: "Tante persone si rivolgono a noi per chiedere che questa situazione evolva, non è in nostro potere. Ma nonostante tutto siamo comunque vicini a chi ha scelto altre strade"

«Non possiamo cambiare l’insegnamento di Gesù, ma siamo vicini ai divorziati risposati che soffrono per l’esclusione dall’eucaristia».
Monsignor Rino Fisichella, rettore della pontificia università Lateranense, teologo, da pochi giorni anche presidente della Pontificia Accademia per la vita, conosce bene il problema della comunione ai divorziati anche in rapporto alla politica, perché in questi anni, da vescovo, non ha mai smesso di fare pure il cappellano di Montecitorio.
Che cosa pensa della richiesta del premier Berlusconi di rivedere il divieto di ricevere l’eucaristia da parte dei divorziati risposati?
«Il presidente pone una domanda che ci pongono in tanti che si trovano nella sua stessa situazione. Tante persone si rivolgono a noi chiedendo le ragioni di questa esclusione e anche all’ultimo Sinodo sull’eucaristia, celebrato nell’ottobre 2005, si è parlato di questo argomento...».
Per concludere, però, con il divieto che permane...
«La Chiesa obbedisce ai comandi del Signore. Noi non possiamo cambiare ciò che Gesù ha detto e cioè che la famiglia è composta da un uomo e una donna uniti per amore in un vincolo matrimoniale che dura tutta la vita. Non è in nostro potere di cambiare questo mandato del Signore».
Converrà che si tratta di una decisione pesante per la vita di chi crede e ha alle spalle situazioni matrimoniali difficili.
«Ci sono cristiani che capiscono le ragioni di questa scelta e, pur con dolore, non si avvicinano all’eucaristia, accettandola. Ci sono altri cristiani che non la comprendono e che chiedono venga modificato l’atteggiamento della Chiesa».
E a questi ultimi che cosa risponde?
«A questi come a quelli rispondo innanzitutto che condivido la loro sofferenza. Dico che si devono sentire accolti dalla comunità cristiana e che la comunità cristiana deve impegnarsi maggiormente per accoglierli e far sentire questa accoglienza. Anche se non possono ricevere l’eucaristia, essi fanno parte della Chiesa, sono chiamati a vivere la celebrazione domenicale, sono chiamati a leggere la Sacra Scrittura per comprenderne l’insegnamento. Sono chiamati a partecipare alla vita ecclesiale».
Un’indicazione più concreta? Davvero non ci sono speranze?
«Le ripeto che la Chiesa obbedisce ai comandi del Signore, ci sono insegnamenti che non abbiamo il potere di modificare o di adattare. Mi permetto però di dare un suggerimento, che è quello della condivisione della carità».
Che cosa significa?
«È un episodio significativo tratto dalla vita del filosofo Blaise Pascal, che personalmente mi ha sempre commosso. Nell’ultima fase della sua esistenza, Pascal era molto ammalato e non poteva ricevere l’eucaristia. Chiese allora di poter condividere la sorte dei poveri e volle essere ricoverato in un ospedale dei diseredati, per essere vicino a loro e compartecipe delle loro sofferenze. Non glielo accordarono. Allora Pascal chiese e ottenne di avere un povero vicino al suo letto. Perché in quel povero egli vedeva Gesù Cristo e si sentiva in comunione con lui. Ecco, dobbiamo essere in grado di far comprendere ai divorziati risposati che la Chiesa è loro vicina, che il non potersi accostare all’eucaristia non deve significare un’esclusione dalla vita della comunità, che la condivisione della carità è un modo attraverso il quale possono sentirsi in comunione con i fratelli».
Lei esclude che in futuro possa esserci qualche cambiamento al riguardo?
«Non ci saranno cambiamenti perché, come ho spiegato, anche la Chiesa deve obbedire a un comando ricevuto. Anche il Papa e i vescovi devono obbedire».
il Giornale domenica 22 giugno 2008


IL TESTAMENTO DEL GRANDE SCRITTORE CATTOLICO
Bernanos Elogio dei miserabili - Sessant’anni fa, il 5 luglio 1948, moriva l’autore dei «Dialoghi delle Carmelitane». Qui pubblichiamo un testo poco noto, dedicato ai poveri, che avrebbe dovuto costituire il prologo di una Vita di Gesù
di Georges Bernanos

Vorrei scrivere questo libro per i più miserabili degli uomini. Vorrei anche scriverlo nel loro linguaggio, ma questo non mi è permesso. Non si può imitare né la miseria né il linguaggio della miseria. Bisognerebbe essere un miserabile per partecipare senza sacrilegio al sacramento della miseria.
Cristo è venuto in questo mondo, e vi è venuto per tutti, e non solamente per i miserabili. Intorno alla sua mangiatoia, si sono visti i Pastori e i Magi ma né i Pastori né i Magi erano dei miserabili. È possibile che il buon Ladrone lo fosse, ma non se siamo sicuri.
Contrariamente a quel che credono i moralisti, la vera miseria non sfocia nel crimine, essa non ha esito né nel male né nel bene, la vera miseria non ha esito. La vera miseria ha esito solo in Dio.
La miseria non ha via d’uscita che in Dio, ma essa non vuole via d’uscita. Essa si chiude su di sé. Essa è murata, come l’Inferno. Bisogna tuttavia che la cristianità vi discenda. Per tutto il tempo che noi tollereremo un inferno in questo mondo, saremo forzati ad attendere a casa nostra il regno di Dio.
L’inferno di questo mondo è l’inferno stesso. Ne è l’atrio e il serraglio. Satana è il dispensatore delle ricchezze, ma il tesoro di Mammona è vuoto. È nell’inaccessibile fondo della miseria che Satana si è trincerato, per la confusione e la costernazione dei ricchi stessi. L’oro non è che un simulacro, un’impostura, una trappola di colui che si dice l’idolo del mondo. Mentre l’umanità guarda volare le mosche, non vede restringersi il cerchio dell’orizzonte, discende nella miseria, è aspirata dalla miseria. Il potere della miseria non si giudica dal numero dei miserabili, cioè dal numero d’uomini che mancano assolutamente del necessario. È possibile che la società moderna la finisca con la povertà, forse soltanto eliminando a ogni generazione i nati poveri, gli inadatti, gli inadattabili, con una regolamentazione delle nascite e una stretta selezione. Io non credo per niente che riducendo il numero dei poveri si riduca al tempo stesso quello dei miserabili. Io penso al contrario che il misericordioso sacerdozio della povertà fu precisamente stabilito in questo mondo per riscattarlo dalla miseria, dalla feroce e contagiosa disperazione dei miserabili. Se noi potessimo disporre di qualche mezzo per scoprire la speranza come il rabdomante scopre l’acqua sotterranea, è avvicinando dei poveri che noi vedremo torcersi tra le nostre dita la bacchetta di nocciolo.
La povertà non è un uomo che manca, per stato, del necessario, è un uomo che vive poveramente, secondo l’immemoriale tradizione della povertà, che vive giorno per giorno, del lavoro delle sue mani, che mangia nella mano di Dio, secondo la vecchia tradizione popolare. Egli vive non solo dell’opera delle sue mani, ma anche della fraternità degli altri poveri, delle mille piccole risorse della povertà, del previsto e dell’imprevisto. I poveri hanno il segreto della speranza...
Nei suoi romanzi l’eterna lotta fra bene e male
Ricorre quest’anno il sessantesimo anniversario della morte del grande scrittore cattolico francese Georges Bernanos: morì infatti a Parigi il 5 luglio 1948. Bernanos era nato a Parigi nel 1888: la sua educazione profondamente religiosa lo fece avvicinare prima ai circoli cattolico­nazionalisti dell’Action Française, da cui si staccò nel 1932. Ha esordito con il romanzo Sotto il sole di Satana e Nuova storia di Mouchette. La fama gli venne con il Diario di un parroco di campagna, da cui fu tratto un noto film di Robert Bresson (foto a fianco): la storia di un giovane sacerdote, minato da un male incurabile, nominato parroco di Ambricourt; egli annota in un diario le vicende della lotta quotidiana contro l’indifferenza e l’ostilità dei suoi parrocchiani. Il parroco riuscirà a redimere molte di queste anime. Le sue ultime parole prima di spegnersi, benedetto da un vecchio compagno di seminario, lo spretato Dupréty, esprimono la gioia finalmente conquistata: 'Che importa? Tutto è grazia'. Nel 1934-37 fu in Spagna. Il libro che ne scaturì, I grandi cimiteri sotto la luna, è un’aspra requisitoria contro il franchismo. Allo scoppio della seconda guerra mondiale era in Brasile, dove svolse attività giornalistica a favore della Francia libera.
Tornato in Francia pubblicò Monsieur Ouine. Postume sono uscite varie opere, tra cui il dramma Dialoghi delle carmelitane e numerosi scritti di carattere etico e politico. I romanzi di Bernanos sono l’occasione di rappresentare violenti conflitti spirituali, in uno stile realistico e visionario che dà sorprendente grandezza ai personaggi più umili. Ha una visione drammatica delle coscienze individuali, spesso ritratte tra purezza e degradazione; tema di fondo è la ricerca della santità, che i suoi eroi raggiungono al termine di una lotta dove il male sembra fino all’ultimo avere la meglio sul bene. Il testo che qui pubblichiamo è tratto dal volume di Albert Béguin, il suo principale biografo e critico, Bernanos par lui- même, uscito nel 1961 e mai tradotto in Italia. Sono le uniche pagine esistenti della Vie de Jésus, che Bernanos iniziò in Brasile nel 1943 e che non portò mai a compimento.
Del testo si parla anche nel volume Quasi una vita di Gesù curato da Marco Ballarini per le edizioni San Paolo nel 1998. (R.A.)
Avvenire 22-6-2008


Nelle memorie di Vàclav Havel
L'origine morale della vera politica

di Claudio Toscani
"Mi fa piacere che questo mio curioso libretto giunga in mano al lettore italiano - scrive Vàclav Havel, ex presidente della Repubblica Ceca, introducendosi da sé - perché credo vi troverà qualcosa di interessante. Non ho voluto né potuto scrivere vere e proprie memorie, ma ho sentito che, dopo tutto ciò che ho vissuto, dovevo presentare al pubblico una specie di bilancio".
È la prima frase di Un uomo al Castello (Treviso, Santi Quaranta, 2008, pagine 336, euro 15) singolare collage di passi e passaggi di vita, documenti, pensieri, interviste, riflessioni sulla costituzione e sui tanti negoziati presieduti o impersonati, sui fatti politici di alcuni decenni di storia mondiale e, in definitiva, su tutto quanto si può immaginare debba essere fatto per costituire, dal nulla, una democrazia. E poco più avanti aggiunge: "Sono convinto che non riusciremo mai a costruire uno Stato democratico e di diritto, se non costruiremo del contempo uno Stato umano, morale, spirituale, culturale".
Nato a Praga nel 1936 in una famiglia di imprenditori medio borghesi, vissuta l'infanzia in discreto benessere, nel 1948, al colpo di stato comunista per cui la Cecoslovacchia entra nell'orbita sovietica, Havel resta, con la famiglia, espropriato di tutto e solo negli anni Sessanta - cioè alle prime rappresentazioni delle sue opere teatrali - la sua vita riprende un decente livello.
Tale situazione dura i due decenni successivi quando, pur essendo perseguitato come autore proibito e persino incarcerato per lunghi periodi, gode di entrate derivate da pubblicazione di suoi testi all'estero. Nel 1977, decidendo con altri attivisti di chiedere pubblicamente alle autorità il rispetto dei diritti umani e civili garantiti dagli Accordi di Helsinki, fonda il movimento "Charta 77" ("Comunità libera informale e aperta di uomini di diverse convinzioni, religioni, professioni, legati dalla volontà di operare insieme e individualmente per il rispetto dei diritti umani").
Fino al crollo del regime nel novembre 1989, Havel è uno dei leader del dissenso centroeuropeo, grazie alla sua capacità di analisi, di mediazione e all'intelligenza politica con cui coordina le tante iniziative sue e del gruppo. Ma la notorietà internazionale non gli risparmia lunghi periodi di carcere che ne minano tra l'altro la salute. Dopo la caduta del comunismo seguìta alle manifestazioni di piazza del novembre 1989 (la cosiddetta "Rivoluzione di Velluto"), il 29 dicembre dello stesso anno viene eletto presidente della Cecoslovacchia. Riconfermato dopo le prime elezioni libere, alla separazione del Paese tra le due repubbliche Ceca e Slovacca, Havel sarà per altre due volte presidente della prima.
Nella sua fitta bibliografia creativa, già nel 1986 appariva un Interrogatorio a distanza, un libro simile a quello che ci giunge oggi (in realtà risalente al 2006), questo attualissimo Un uomo al Castello che, s'è detto, è strutturato come compendio d'appunti di lavoro e di vita che non risparmiano giudizi schietti sui politici ai vertici del potere mondiale, da Bush a Clinton, da Gorbaciov a Putin, da Köhl a Blair, riservando una particolare ammirazione a Giovanni Paolo ii.
Seguono così risposte politiche riguardo alla situazione interna e internazionale, lacerti di vita, anni di carcere, esami di coscienza e programmi ideologici, depressioni, esaltazioni e reazioni. Sopra ogni proposito e ogni intento brilla comunque un credo: "Ritengo che l'ordine morale sia superiore all'ordine legislativo, politico ed economico e che questi ultimi dovrebbero procedere dal primo, senza cercare sotterfugi per scansare gli imperativi. Credo anche che l'ordine morale abbia il proprio radicamento metafisico nell'infinito e nell'eterno".
Con il linguaggio della letteratura e del teatro (toccando i generi del grottesco e dell'assurdo, ma anche dell'umorismo nero, per smascherare senza pietà gli slogan ideologici, i fattori disumanizzanti e i meccanismi sociali nocivi alla patria e all'umanità), Havel aveva trattato temi in apparenza astratti o metatemporali, ma in realtà di spinosa attualità. Protagonista e osservatore critico di ciò che stava avvenendo nell'Est europeo e nelle avvisaglie d'una "gran brutta fine", come lui stesso diceva, mostrava apertamente il timore che il completo disfacimento morale dei regimi comunisti inibisse per sempre il ritorno delle libertà politiche e della coscienza nel suo Paese ma anche nel mondo.
Una cosa gli sembrava, e gli sembra tuttora, certa: l'origine morale di ogni autentica politica, il significato dei valori e delle misure etiche in tutte le sfere della vita collettiva, quella economica inclusa. Per questo insiste nel chiarire che ciascuno di noi deve tentare di scoprire o riscoprire in sé, se non di coltivare intenzionalmente e pubblicamente, una "responsabilità superiore", pena un'inevitabile "grandiosa e quasi accecante esplosione dei peggiori comportamenti umani".
Cinque anni fa, allargandosi da quindici a venticinque membri, l'Unione Europea accoglieva in sé diversi Stati postcomunisti, in tal modo avvicinandosi a realizzare una delle tante speranze di quelle "rivoluzioni di velluto" che si erano diffuse in Europa centro-orientale e alle quali Havel stesso aveva collaborato. Ora, caduti nella "pattumiera della storia" (parole sue), sia muro di Berlino che cortina di ferro, altre vestigia dell'era sovietica restano saldamente al loro posto, come sospese nel tempo, tenendo genti e menti ancora a battersi in solitudine sociale e politica.
È per questo che Vàclav Havel non ha esitato ad accettare per più volte l'incarico di presidente, lui che tutta la vita si era trovato in continuo confronto con il potere vantando un'assoluta indipendenza. Ma in questi casi si era sentito "trascinato dall'essere", come dire "strumento dell'epoca", dentro un vortice di irresistibile irruenza che lo costringeva a fare ciò che era necessario. Dice di non aver avuto scelta, e c'è da crederci, se alla resa dei fatti la storia stava correndo avanti anche attraverso di lui, guidando le sue azioni. Rifiutare sarebbe stata una incomprensibile fuga, se non un chiaro tradimento. Aiutare il suo Paese nella transizione dal totalitarismo alla democrazia, dalla posizione di satellite all'indipendenza, dall'economia centralizzata all'economia di mercato, non era pensabile se non per linee desideranti e di troppo alta aspirazione. Eppure successe.
Intervenendo però, dopo i primi esaltanti anni e alcune positive sorprese della storia, tutt'altri tempi (pochi gli accordi comuni e prove coerenti di sempre minor conto), ecco giorni di duro lavoro quotidiano, nude contraddizioni e scoperte divergenze d'interessi (disincanto politico, contingenze sempre più ardue e concause mondiali).
Questo libro, il libro di un uomo nel "Castello" del massimo potere, che sente di dovere ai suoi concittadini una parola chiara su "dove" si trova e su "cosa" intende fare, come vede il suo Paese, il suo futuro e per quali cause intende battersi, è il frutto di una intenzione prima che politica, morale. O sarebbe meglio dire, nel suo preciso caso, politica e morale assieme.
Nel citato Meditazioni estive, Havel si chiedeva come costruire uno "Stato spirituale", non essendo possibile proclamarlo né per legge, né per ordine, né per costituzione. Nel libro d'oggi ci mette al corrente che non avendo persi quell'intento e quell'impegno, ci documenta di un lavoro lunghissimo, interminabile, concreto e ideale assieme, fatto di interrogativi incessanti e di esami diuturni, cui scienza e tecnica, specializzazione e professionalità, non sono bastate. E noi leggiamo: nessuna battaglia da quattro soldi, nessuna piccineria, nessuna aprioristica mancanza di fiducia, nessun risparmio di generosità, nessuna paura degli altri, né del peso di alcuna responsabilità. In primo piano, comunque, quei valori dell'anima che poi in pratica diventano programmi, visioni, convinzioni, persuasioni, utopia creativa e, infine, moralità politica (i valori di una "libera volontà" sentita e vissuta come la più misteriosa ma anche la più vera delle opere di Dio nell'uomo).
(©L'Osservatore Romano - 27 giugno 2008)


27 giugno 2008
L'eterno ritorno del lodo: dal Foglio del 27 giugno 2003
Liberali con un nemico: la legge
Non è la prima volta che i cosiddetti liberali confidano nella Corte costituzionale per affermare il primato della toga sulla politica. Sbagliando.
Dal Foglio del 27 giugno 2003
Diceva John Locke, teorico del diritto naturale e dei limiti dello Stato, che quando tutto è compromesso, quando l’individuo proprietario vede ergersi la minaccia di un potere che contrasta con la sua libertà originaria, non resta che “l’appello al cielo”. Questo appello celeste è la metafora della ribellione o rivoluzione nel linguaggio di uno splendido filosofo liberale. I liberali d’oggidì se la cavano con molto meno, confidano in un ricorso alla Corte costituzionale per liberarsi di quel lodo Maccanico di cui parlano come di una spregevole legge fabbricata da una spregiudicata maggioranza parlamentare per motivi assolutamente abietti, che compromettono il principio secondo cui la legge è uguale per tutti. L’illustre costituzionalista Gustavo Zagrebelsky argomenta in modo sofisticato contro l’invadenza della macchina legislativa, capace ormai di sovrapporsi al quadro di valori costituzionali che dovrebbe reggere e giustificare la produzione delle leggi, di questi tempi asservite all’ultimo interesse personale promosso dalla politica. Giuseppe D’Avanzo, invece di Antigone, tira in ballo con fervore più giornalistico Jean-Jacques Rousseau e la dittatura giacobina della volontà generale: il Cav. è come Saint Just e la sua una rivoluzione sanguinaria contro l’Ancien Régime delle toghe e dei parrucconi. L’avvocato Rossi, Guido Rossi, critica il principio di maggioranza. La dottoressa Boccassini, liberale anche lei ma più modestamente, la mette sul piano funzionale e personale, e si sente doppiamente offesa dalla legge, come persona e come funzione dello Stato.
Noi marxisti o ex marxisti, che oltre a picchiarci con i fratelli in camicia nera come D’Alema, abbiamo cercato di imparare qualcosa dall’esperienza, se non dai libri, convivemmo per anni con l’idea del diritto sostanziale. Ma non potevamo sapere che quel modello nichilista fondato sulla lotta di classe piuttosto che sulla tradizione o sulla rivelazione, a marxismo tramontato, sarebbe risuscitato in casa dei liberali e dei magistrati della Repubblica. Chi lo desidera può bene occuparsi della verifica, noi troviamo più interessante cercare di capire come possa un establishment tanto sicuro di sé e tanto compassato passare così facilmente, e così in fretta, dal “controllo di legalità”, il grande mito giustizialista degli anni Novanta, alla diffidenza verso la legge e alla ribellione verso chi detiene il potere di votarla e di promulgarla, Parlamento e presidente della Repubblica. Studieremo ancora, visto che i fratelli in camicia nera non ci sono più, e cercheremo di capire meglio. Intanto ci piacerebbe sapere se le idee sulla lotta dello jus eterno contro la fragile lex, che appartengono a un futuro presidente della Corte costituzionale, influenzeranno o no il suo giudizio togato sul lodo Maccanico. Se il professor Zagrebelsky ci usasse la cortesia di dircelo, gliene saremmo grati. Così, per ragioni di studio.


NUOVA RIVOLUZIONE SPAGNOLA: IL PROGETTO GRANDI PRIMATI
Avvenire, 27 giugno 2008
MARINA CORRADI
Avvicinare gli oranghi all’uomo e annullare lo «specifico»
L a magna charta degli oranghi potrebbe essere la nuova rivoluzione della Spagna di Zapatero. La Commissione ambiente del Parlamento ha approvato a larga maggioranza, escluso solo il Partito popolare, una risoluzione che invita il governo ad aderire entro quattro mesi al 'Progetto Grandi Primati', iniziativa internazionale tendente appunto a riconoscere il diritto alla vita e alla libertà alle scimmie antropoidi (orangutan, scimpanzé, gorilla e bonobo, per la precisione). Il Governo spagnolo dovrà farsi promotore del Progetto presso la Ue.
Forse è una giornata storica. La comunità dei soggetti aventi diritto ai Diritti dell’uomo si amplia alle scimmie.
Con cui, ci ricordano illustri scienziati a partire da Umberto Veronesi, condividiamo oltre il 95 per cento del patrimonio genetico. Si potrebbe discutere sulle differenze derivanti da quel 5% di Dna diverso, tale che – almeno così pare a noi ignoranti – un orango non è esattamente un uomo. Ma potrebbe essere una discussione oziosa. Il punto è un altro.
Il punto è che, come ha detto Joaquin Arujo, il presidente del Progetto Grandi Primati, «in fondo siamo tutti grandi scimmie». Cioè la tendenza in realtà non è la 'promozione' degli animali a uno status e a una tutela umana, quanto la negazione di una fondamentale differenza, e la sostanziale equiparazione del bonobo all’homo sapiens.
È questo che inquieta, nella rivoluzione di Madrid. Si trattasse solo di imporre rispetto della vita per gli oranghi, beh, d’accordo, al massimo ricordando che milioni di uomini muoiono di fame. Si trattasse solo di difendere gli scimpanzé, se ne potrebbe approfittare per spezzare una lancia anche per gli embrioni di uomo che vengono pure in Spagna clonati «a fine terapeutico» o selezionati per avere un figlio sano. E magari per quei bambini al settimo mese di gravidanza abortiti in alcune cliniche catalane, nella tacita indifferenza delle autorità. Insomma, la battaglia per la tutela del primate, in sé, potrebbe tornare utile per chiedere un po’ di rispetto anche per l’uomo.
Ma il fatto è che, a sentire il leader del Progetto Grandi Primati, la prospettiva spagnola è altra: «in fondo, siamo tutti grandi scimmie». Siamo tutti animali. Il punto qualificante allora di questa rivoluzione a prima vista folkloristica, è una cosa seria: è la negazione della differenza e della unicità dell’uomo nel creato. C’era una volta un uomo fatto «a immagine e somiglianza» di Dio, e per questo, nella concezione ebraico cristiana che ha fondato l’Occidente, degno di un assoluto rispetto e titolare di libertà inalienabili. Ma se, nella dittatura del relativismo, si afferma l’idea che siamo tutti scimpanzé, il principio potrebbe avere qualche ricaduta sgradevole. Qualche svista o fastidiosa dimenticanza sul rispetto dell’uomo. Per esempio, la magna charta dei gorilla lodevolmente esclude che si possano fare sui primati ricerche scientifiche che possono arrecare danno. Domanda: e le sperimentazioni dei farmaci oggi testati su questi animali, come avverranno? Sugli uomini magari – volontari, certo, estratti in quel Terzo Mondo che per mangiare si vende anche un rene. Se «siamo tutti grandi scimmie», l’orango vale quanto un poveraccio del Bangladesh. E, vogliamo parlare di clonazione cosiddetta terapeutica? Se passasse universalmente il Progetto Grandi Scimmie, gli embrioni di gorilla sarebbero naturalmente tutelati. Quelli di uomo, no.
È la consueta contraddizione di un ecologismo disposto a tutto per i pinguini, ma stranamente ostile all’uomo. Ostile a quel 5 per cento di Dna diverso, a quell’irriducibile fattore di libertà e coscienza che è l’uomo. L’idea di fondo non è la tutela dell’orango. L’idea di fondo è negare l’uomo.


A lezione da Paolo Maestro del dialogo autentico perché non celava le differenze
Accanto all’intelligenza, alla cultura e allo slancio apostolico, in lui c’era tanta simpatia. «Mi sorprende la sua capacità di legarsi rapidamente alle persone che si trovava accanto Amici o nemici, umili o potenti»

Avvenire, 27 giugno 2008
DI EDOARDO CASTAGNA
Accanto all’intelligenza, alla cul­tura e allo slancio missionario, nel cittadino Gaio Giulio Paolo doveva esserci anche un’altra dote: la simpatia. « Quello che mi sorprende, nel­la vita di Paolo, è la sua straordinaria ca­pacità di legarsi rapidamente alle perso­ne che si trovava accanto. Amici o nemi­ci, umili o potenti » . La storica Marta Sor­di – docente emerita di Storia greca e Sto­ria romana presso l’Università Cattolica di Milano, massima esperta dell’epoca dell’Apostolo delle genti – descrive Pao­lo nella sua concretezza, lo riporta sulle strade polverose dell’Anatolia, dove la sua missione mosse i primi, decisivi pas­si. Una lettura umana che, alla vigilia del­l’apertura dell’Anno Paolino, dona ancor maggiore risalto all’originalità e all’at­tualità della sua opera, capace ancora og­gi di indicare strade concrete da percor­rere nel confronto tra i cristiani e tutti gli uomini. « La sua capacità di stringere a­micizia era davvero eccezionale. Lo si ve­de fin dall’incontro con il proconsole di Cipro, Sergio Paolo, che ebbe un ruolo fondamentale nel determinare il cam­mino della sua predicazione. Il legame con l’apostolo fu talmente stretto che Paolo lasciò il suo vecchio cognomen,
Saul, per adottare quello dell’amico. Era un uomo dalle doti umane straordina­rie, che si accompagnavano a quelle in­tellettuali, allo spessore teologico » .
In effetti, l’importanza del suo pensiero e della sua opera è tale che talvolta si sente indicare in Paolo, e non in Gesù, il vero fondatore del cristianesimo...
« Sì, tra i non cristiani ricorre la tesi che Paolo sarebbe andato al di là dei comandi di Cristo, annunciando il Vangelo al mon­do intero e non solo agli Ebrei, fondan- do concretamente il cristianesimo. Que­sto non è vero. Non è vero storicamente, perché era stato Pietro a convertire per primo un pagano. E non è vero nemme­no teologicamente, perché in fondo Pao­lo non fece che ripetere quello che ave­va fatto Gesù Cristo stesso. Inizialmente predicava solo agli Ebrei, nelle sinago­ghe; fu Sergio Paolo a ' costringerlo', in un certo senso, a predicare il Vangelo tra i pagani, consigliandogli di andare ad An­tiochia di Pisidia e da lì iniziare la predi­cazione nell’Asia interna » .
L’itinerario paolino determinò in qual­che modo anche il suo modo di rivolgersi al « pubblico » ?
« In tutta la sua prima missio­ne, da Antiochia a Listri a Ico­nio, percorse la via Sebaste, costruita da Augusto e lungo la quale si allineavano colonie romane dalla popolazione composita: Greci, Romani, E­brei, gli indigeni Licaoni e Ga­lati. Paolo adottò lo stesso cri­terio che inizialmente aveva seguito Ge­sù: prima predicava agli ebrei, ottenen­do la conversione di alcuni e il rifiuto di altri; poi si rivolgeva ai pagani » .
In che modo affrontava il dialogo con quanti ancora non conoscevano il Van­gelo?
« Sceglieva l’impostazione più adatta al suo uditorio. Quando predicava agli E­brei, nelle sinagoghe, partiva dalla storia d’Israele, poi richiamava i profeti e infi­ne giungeva a Cristo- Messia, compi­mento delle profezie attraverso la resur­rezione. Con i pagani, sia quelli un po’ rozzi dell’Asia interna sia quelli colti e raffinati di Atene, Corinto ed Efeso, a­dottava invece un’altra tecnica. L’impo­stazione rimaneva uguale, cambiavano i riferimenti: qui muoveva dal Dio creato­re del mondo, comprensibile anche dai pagani politeisti, dall’ordine naturale delle stagioni e degli spazi, e quindi ap­prodava al Dio benefattore dell’umanità, che si è rivelato in Cristo. Anche qui, con sfumature: mentre nel ' discorso dell’A­reopago' ateniese citava i filosofi stoici, in Licaonia puntava su una più diretta osservazione della verità naturale » .
Un’altra lezione di dialogo, di capacità di confrontarsi con interlocutori diffe­renti?
« Certamente. E infatti anche a Roma fu in stretti rapporti con gli ambienti stoi­ci, che nell’Urbe erano attenti soprattut­to al versante morale dello stoicismo: la
gravitas, l’autocontrollo, la virtù erano tutti valori compatibili con l’antica tra­dizione romana. Anche per questo ri­tengo probabile che l’epistolario tra Se­neca e Paolo sia autentico » .
Sul quale, tuttavia, permangono molti dubbi...
« In effetti, anch’io inizialmente ero scet­tica. Poi però mi sono resa conto che sa­rebbe del tutto verosimile. Scartate due lettere, sicuramente apocrife, le dodici rimanenti coincidono come datazione – dal 58 al 62 – e come contenuti. Seneca restò un pagano, ma tra lui e Paolo e­merge una grande stima reciproca; il fi­losofo romano mostra di conoscere e ap­prezzare gli scritti paolini, e in effetti du­rante la prima prigionia romana, quan­do Seneca governava l’impero insieme ad Afranio Burro, l’apostolo godette di grande libertà, ricevendo e predicando nonostante avesse sempre un pretoria­no accanto a sé. Ci sono altri dettagli, nel­l’epistolario, che fanno propendere per l’autenticità – certe differenze stilistiche, certe reticenze spiegabili soltanto se si considerano le lettere composte proprio in quegli anni –, ma ciò che interessa sot­tolineare è come in effetti Paolo avesse saputo suscitare la simpatia di un auto­re pagano, che i cristiani sentivano vici­no dal punto di vista della moralità » .
Qual era quindi l’aspetto più « moder­no » dell’approccio paolino?
« Era un grande comunicatore, una per­sona di estrema duttilità e capace di ac­costarsi a tutti i ceti sociali. Sapeva par­lare ai semplici, e sapeva parlare ai po­tenti. E non solo: sapeva stringere ami­cizie, anche con le persone a prima vista più distanti: i magistrati greci di Efeso, il proconsole romano di Cipro, ma anche l’umile centurione che lo scortava a Ro­ma, o il suo carceriere a Filippi » .
Allora perché la sua predicazione era spesso accompagnata da conflitti?
« È vero: quando arriva Paolo, scoppia il contrasto. Qui c’è tutta la differenza del suo stile rispetto a Pietro, molto più cauto e pru­dente.
Tra Pietro e Paolo non c’era­no differenze teo­logiche; in questo andavano perfet­tamente d’accor­do, tant’è vero che Pietro, nella sua seconda let­tera, ricorda ' il nostro carissimo fratello Paolo'. Certo, poi mette in guardia i suoi interlocutori sulla sua fi­nezza, sul suo essere così... complicato. Non c’è stato mai stato scontro teologi­co tra i due, ma solo una diversa tecnica pastorale » .
Che cosa insegna a noi, oggi?
« A non fuggire lo scontro, a non temer­lo. Ai nostri giorni sarebbe certamente tra quelli che, nel mezzo del confronto più ecumenico, decidono di affrontare i problemi, anche i più controversi. Con i pagani Paolo attacca, e converte; predi­cava perfino ai pretoriani che lo pianto­navano: soldati scelti, coloro che ac­compagnavano l’imperatore in prima li­nea in battaglia! Insomma, ci insegna co­me va affrontato il dialogo: senza aver paura di mettere in evidenza i punti di di­vergenza, così da ottenere un’adesione convinta, o un rifiuto. È un dialogo in of­fensiva, insomma, non sulla difensiva. Oggi molti confondono il dialogo con un ' calar le braghe' che deve arrivare a tut­ti i costi a un accordo, invece Paolo ci in­segna una linea opposta: non nasconde­re niente, e affrontare apertamente la possibilità di un rifiuto » .


«Così la famiglia è facilmente ricattabile» - Il cardinale Bagnasco: «Quando perde la serenità economica è anche esposta al pericolo della sua tenuta complessiva»
Avvenire, 27 giugno 2008
DA GENOVA ADRIANO TORTI
L’ indebitamento per l’acquisto della casa, l’aumento del lavoro precario, bassi salari per le giovani generazioni, la diffusione esponenziale del gioco d’azzardo, il ricorso sempre più massiccio all’acquisto a rate sono, per l’arcivescovo di Genova e presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, le cause principali dell’impoverimento e del sovra indebitamento delle famiglie. Un indebitamento che porta, non di rado, le famiglie a cadere nelle mani degli usurai. E, come ha ricordato Bagnasco, «quando la famiglia è posta sotto attacco dal punto di vista della sua serenità economica, è pure esposta al pericolo della sua tenuta complessiva».
Tra le principali cause del perdurare di questa situazione, il porporato ha citato, insieme a una situazione economica stagnante, la diffusione di una mentalità consumistica sempre più esasperata, con il ricorso sempre più massiccio all’acquisto a rate, e un’ottica prevalentemente individualistica.
Parlando ieri mattina a Genova in occasione dell’assemblea annuale della Consulta nazionale antiusura 'Giovanni Paolo II', che si è svolta presso il santuario di Nostra Signora della Guardia, Bagnasco ha affermato che nell’economia contemporanea «i mutui a tasso variabile sono la regola», il lavoro, «quando addirittura non è scomparso», è sempre più precario, mentre i bassi salari per le giovani generazioni «impediscono di progettare un sereno futuro familiare».
Sono tutte situazioni che, ha aggiunto, «mettono a dura prova la famiglia oggi» al punto da renderla «facilmente ricattabile». Il cardinale ha poi parlato degli «esuberi umani», coloro che non hanno «visibilità sociale». A questo riguardo ha ricordato come sia in aumento 'la forbice' «tra il privilegio eccezionale di pochi e l’ordinaria indigenza di tanti che perdono progressivamente il loro potere d’acquisto e la loro visibilità sociale». Sono le tante famiglie che vivono sempre più in precarietà economica. «Si va dalle spese superflue per consumi non strettamente necessari - ha spiegato l’arcivescovo della Lanterna - alle spese mediche, dall’aumento del costo della vita che ha ridotto la possibilità di accantonare il reddito, all’investimento per avvio di attività economica». Tutti questi fattori, ha continuato Bagnasco - portano le famiglie «a una certa forma di povertà che paradossalmente diventa il target ideale per quanti intendono lucrare su questa forma di debolezza che diventa facilmente ricattabile». Un ricatto che spesso coincide con il fenomeno dell’usura che «non sempre è un fenomeno necessariamente mafioso», anzi, altre volte «prende corpo nelle relazioni di vicinanza parentale e amicale e genera una sorta di 'struttura di peccato' che mette insieme l’usuraio e l’usurato, il carnefice e la vittima». L’usura, inoltre, «non è riconducibile a un’area geografica particolare, ma presenta una diffusione omogenea su tutto il territorio nazionale».
Tra le varie cause della precaria situazione di numerose famiglie italiane e del loro conseguente indebitamento, inoltre, il cardinale Bagnasco ha messo in evidenza la diffusione dell’acquisto a rate, secondo il modello del «comprare oggi e pagare domani», un modo di pagamento diffuso che «le moderne tecniche pubblicitarie esasperano, inducendo ad acquisti senza coperture». Coloro che sono maggiormente esposti sono «le giovani generazioni», per le quali è invece necessario «un investimento educativo di lungo periodo, che ridia al tempo prima ancora che al denaro la priorità nelle evidenze etiche». In quest’ottica, fondamentale diventa l’educazione dei giovani. «L’educazione - ha affermato - è il miglior investimento di una società, occorre aver pazienza e lungimiranza, ma educare paga, e ripaga chi investe in essa in termini umani, ideali e materiali».
Concludendo il suo ragionamento, il cardinale Bagnasco ha poi affermato che è necessario tenere a mente «tre atteggiamenti spirituali che bisogna far crescere se si vuol recidere la serie delle radici culturali che producono certi fenomeni desolanti sul piano sociale ed economico: la gratuità, la sobrietà e la solidarietà».
Deleteri gli acquisti a rate, «dovuti a una mentalità consumistica» ed esasperati dalla pubblicità