Nella rassegna stampa di oggi:
1) LE PAROLE DEL PAPA all’Angelus di Domenica 1 giugno 2008
2) Parole di Benedetto XVI per la conclusione del mese mariano
3) Quel volto da sempre cercato che ci svela la verità, di Davide Rondoni
4) Sermonti, genetista “pentito”. «La scienza è contro l’uomo»
5) Il Papa non incontrerà Ahmadinejad: ha vinto la coerenza con i nostri valori e con i legittimi interessi di lungo termine, di Magdi Cristiano Allam
6) Lezioni per battere il tabù dello spinello, di Claudio Risè
LE PAROLE DEL PAPA
Richiamando il senso della festa che riassume «in sè il mistero della Incarnazione e della Redenzione» Ratzinger ha detto che Dio ha voluto entrare nei limiti della condizione umana
«Il cuore di Cristo fonte della speranza»
Domenica scorsa all’Angelus il Papa si è soffermato sulla devozione, tipica del mese di giugno, che «esprime in modo semplice e autentico la buona novella dell’amore»
Dedicato alla devozione al Cuore di Cristo l’Angelus guidato domenica da Benedetto XVI in piazza San Pietro. Di seguito le parole del Papa prima della preghiera mariana.
Cari fratelli e sorelle, nell’odierna domenica, che coincide con l’inizio di giugno, mi piace ricordare che questo mese è tradizionalmente dedicato al Cuore di Cristo, simbolo della fede cristiana particolarmente caro sia al popolo sia ai mistici e ai teologi, perché esprime in modo semplice e autentico la «buona novella» dell’amore, riassumendo in sé il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione. E venerdì scorso abbiamo celebrato la solennità del Sacro Cuore di Gesù, terza e ultima delle feste che fanno seguito al Tempo Pasquale, dopo la Santissima Trinità e il Corpus Domini. Questa successione fa pensare ad un movimento verso il centro: un movimento dello spirito che è Dio stesso a guidare. Dall’orizzonte infinito del suo amore, infatti, Dio ha voluto entrare nei limiti della storia e della condizione umana, ha preso un corpo e un cuore; così che noi possiamo contemplare e incontrare l’infinito nel finito, il Mistero invisibile e ineffabile nel Cuore umano di Gesù, il Nazareno. Nella mia prima enciclica sul tema dell’amore, il punto di partenza è stato proprio lo sguardo rivolto al costato trafitto di Cristo, di cui ci parla Giovanni nel suo Vangelo (cfr 19,37; Deus caritas est, 12). E questo centro della fede è anche la fonte della speranza nella quale siamo stati salvati, speranza che ho fatto oggetto della seconda enciclica.
Ogni persona ha bisogno di un «centro» della propria vita, di una sorgente di verità e di bontà a cui attingere nell’avvicendarsi delle diverse situazioni e nella fatica della quotidianità. Ognuno di noi, quando si ferma in silenzio, ha bisogno di sentire non solo il battito del proprio cuore, ma, più in profondità, il pulsare di una presenza affidabile, percepibile coi sensi della fede e tuttavia molto più reale: la presenza di Cristo, cuore del mondo. Invito pertanto ciascuno a rinnovare nel mese di giugno la propria devozione al Cuore di Cristo, valorizzando anche la tradizionale preghiera di offerta della giornata e tenendo presenti le intenzioni da me proposte a tutta la Chiesa.
Accanto al Sacro Cuore di Gesù, la liturgia ci invita a venerare il Cuore Immacolato di Maria. Affidiamoci sempre a Lei con grande confidenza. Vorrei invocare la materna intercessione della Vergine ancora una volta per le popolazioni della Cina e del Myanmar colpite dalle calamità naturali, e per quanti attraversano le tante situazioni di dolore, di malattia e di miseria materiale e spirituale che segnano il cammino dell’umanità.
Benedetto XVI
Parole di Benedetto XVI per la conclusione del mese mariano
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 1° giugno 2008 (ZENIT.org).- Riportiamo le parole che Benedetto XVI ha pronunciato questo sabato sera dopo la celebrazione a conclusione del mese mariano.
* * *
Cari fratelli e sorelle!
Concludiamo il mese di maggio con questo suggestivo incontro di preghiera mariana. Vi saluto con affetto e vi ringrazio della vostra partecipazione. Saluto, in primo luogo, il Signor Cardinale Angelo Comastri; con lui saluto gli altri Cardinali, Arcivescovi, Vescovi e sacerdoti, intervenuti a questa celebrazione serale. Estendo il mio saluto alle persone consacrate e a tutti voi, cari fedeli laici, che con la vostra presenza avete voluto rendere omaggio alla Vergine Santissima.
Celebriamo quest'oggi la festa della Visitazione della Beata Vergine e la memoria del Cuore Immacolato di Maria. Tutto pertanto ci invita a volgere lo sguardo con fiducia a Maria. A Lei, anche questa sera, ci siamo rivolti con l'antica e sempre attuale pia pratica del Rosario. Il Rosario, quando non è meccanica ripetizione di formule tradizionali, è una meditazione biblica che ci fa ripercorrere gli eventi della vita del Signore in compagnia della Beata Vergine, conservandoli, come Lei, nel nostro cuore. In tante comunità cristiane, durante il mese di maggio, esiste la bella consuetudine di recitare in modo più solenne il Santo Rosario in famiglia e nelle parrocchie. Ora, che termina il mese, non cessi questa buona abitudine; anzi prosegua con ancor maggiore impegno, affinché, alla scuola di Maria, la lampada della fede brilli sempre più nel cuore dei cristiani e nelle loro case.
Nell'odierna festa della Visitazione la liturgia ci fa riascoltare il brano del Vangelo di Luca, che racconta il viaggio di Maria da Nazareth alla casa dell'anziana cugina Elisabetta. Immaginiamo lo stato d'animo della Vergine dopo l'Annunciazione, quando l'Angelo partì da Lei. Maria si ritrovò con un grande mistero racchiuso nel grembo; sapeva che qualcosa di straordinariamente unico era accaduto; si rendeva conto che era iniziato l'ultimo capitolo della storia della salvezza del mondo. Ma tutto, intorno a Lei, era rimasto come prima e il villaggio di Nazareth era completamente ignaro di ciò che Le era accaduto.
Prima di preoccuparsi di se stessa, Maria pensa però all'anziana Elisabetta, che ha saputo essere in gravidanza avanzata e, spinta dal mistero di amore che ha appena accolto in se stessa, si mette in cammino "in fretta" per andare a portarle il suo aiuto. Ecco la grandezza semplice e sublime di Maria! Quando giunge alla casa di Elisabetta, accade un fatto che nessun pittore potrà mai rendere con la bellezza e la profondità del suo realizzarsi. La luce interiore dello Spirito Santo avvolge le loro persone. Ed Elisabetta, illuminata dall'Alto, esclama: "Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore" (Lc 1,42-45).
Queste parole potrebbero apparirci sproporzionate rispetto al contesto reale. Elisabetta è una delle tante anziane di Israele e Maria una sconosciuta fanciulla di uno sperduto villaggio della Galilea. Che cosa possono essere e che cosa possono fare in un mondo nel quale contano altre persone e pesano altri poteri? Tuttavia, Maria ancora una volta ci stupisce; il suo cuore è limpido, totalmente aperto alle luce di Dio; la sua anima è senza peccato, non appesantita dall'orgoglio e dall'egoismo. Le parole di Elisabetta accendono nel suo spirito un cantico di lode, che è un'autentica e profonda lettura "teologica" della storia: una lettura che noi dobbiamo continuamente imparare da Colei la cui fede è senza ombre e senza incrinature. "L'anima mia magnifica il Signore". Maria riconosce la grandezza di Dio. Questo è il primo indispensabile sentimento della fede; il sentimento che dà sicurezza all'umana creatura e la libera dalla paura, pur in mezzo alle bufere della storia.
Andando oltre la superficie, Maria "vede" con gli occhi della fede l'opera di Dio nella storia. Per questo è beata, perché ha creduto: per la fede, infatti, ha accolto la Parola del Signore e ha concepito il Verbo incarnato. La sua fede Le ha fatto vedere che i troni dei potenti di questo mondo sono tutti provvisori, mentre il trono di Dio è l'unica roccia che non muta e non cade. E il suo Magnificat, a distanza di secoli e millenni, resta la più vera e profonda interpretazione della storia, mentre le letture fatte da tanti sapienti di questo mondo sono state smentite dai fatti nel corso dei secoli.
Cari fratelli e sorelle! Torniamo a casa con il Magnificat nel cuore. Portiamo in noi i medesimi sentimenti di lode e di ringraziamento di Maria verso il Signore, la sua fede e la sua speranza, il suo docile abbandono nelle mani della Provvidenza divina. Imitiamo il suo esempio di disponibilità e generosità nel servire i fratelli. Solo, infatti, accogliendo l'amore di Dio e facendo della nostra esistenza un servizio disinteressato e generoso al prossimo, potremo elevare con gioia un canto di lode al Signore. Ci ottenga questa grazia la Madonna, che questa sera ci invita a trovare rifugio nel suo Cuore Immacolato.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
L’ANNUNCIO DEL PAPA: DAL 2010 NUOVA OSTENSIONE DELLA SINDONE
Quel volto da sempre cercato che ci svela la verità
Avvenire, 3 giugno 2008
DAVIDE RONDONI
N on c’è nulla come cercare quel volto.
Non c’è nulla come cercare il volto del destino. Cioè il volto profondo di quel che ci succede. Di quel che ci arriva addosso. Il suo volto, vogliamo sapere. Vogliamo vedere al fondo della vita che ci tocca di vivere, vita che con i suoi splendori e orrori a volte ci toglie il respiro, vedere che volto ci sia.
Vogliamo sapere se si tratta di un viso spento come un oblìo, un viso vuoto, che non ha nessun interesse per noi.
Un viso come uno sbadiglio. Come una statua impassibile. Vogliamo vedere se hanno ragione coloro che dicono che al fondo delle cose ci aspetta solo il buio e nessun volto. Oppure solo il ghigno di un fato che si prende gioco di noi.
Vogliamo sapere se nel fondo dei nostri giorni, dei nostri amori, dei nostri dolori c’è il viso di un 'ubriaco' come diceva un personaggio di Shakespeare.
O se invece c’è il viso della Sindone, quello di un Dio che ha amato l’uomo, noi, fino a patire. Un Dio che ha avuto passione per l’uomo. Da sempre, l’uomo ha cercato quel volto. Lo ha gridato il salmista. Lo cercavano i sapienti di ogni popolo, nei segni che sembrava lasciare tra fuochi e stelle, tra tempeste e aliti lievi del vento. Lo hanno cercato sempre gli uomini.
Immaginandolo nelle visioni, inseguendolo nelle altezze del pensiero e negli slanci pazienti delle arti. E anche il cosiddetto uomo moderno, o meglio ciò che certi maestri di epoche recenti hanno denominato tale, pur se fingeva di disinteressarsi di quel volto e di non cercarlo più, in realtà ha sempre alzato volti da guardare come se rappresentassero il suo destino. Come l’uomo di sempre. Abbiamo avuto le maschere a volte tragiche, a volte grottesche, quasi sempre cieche e sorde ai bisogni profondi della vita: le maschere del Potente, dell’Eroe, della Celebrità. In certi momenti il volto di un uomo si è immedesimato con il destino di un popolo, di una nazione, o di una rivoluzione. Lo hanno idolatrato. Ma ha lasciato spesso il vuoto, e spesso l’orrore dietro di sé. Invece il volto dell’uomo della Sindone chi è? Al di là delle diatribe tra filologi ed esperti, quel volto come fu allora per il volto di Cristo non vuole imporsi alla nostra attenzione, resta sempre in un suo velo di segreto. Perché occorre sempre cercare il volto di Cristo. Occorre sempre, per riconoscere veramente, anche una mossa della libertà, un rinnovarsi della domanda. Anche i suoi primi discepoli, che l’avevano davanti nelle colline, sulle rive del lago o anche ai tavoli di gente discutibile, lo fissavano per cercare di capire chi era veramente. Ogni volta capivano di più, e ogni volta dovevano chiederselo di più. Nel 2010 il Papa ci dona l’occasione per andare a vederne questo segno unico e misterioso. Per rinnovare ancora la ricerca di quel volto. Che è il volto della verità. La quale per i cristiani non è un discorso.
Non è nemmeno una cosa da 'spiegare' o di cui 'convincere' gli altri. La verità è il volto di un Dio appassionato, fino al dolore, alla nostra vita. Non si tratta per noi di sapere un discorso, una formula, o una bella frase. Si tratta della gioia di vederlo, e dell’opera di assomigliargli.
Sermonti, genetista “pentito”. «La scienza è contro l’uomo»
È uscito in questi giorni l’ultimo libro di Giuseppe Sermonti: “Una scienza senz’anima”. E non si può dire che Sermonti non sappia di cosa parla: genetista dal 1950, fondatore della genetica dei microrganismi produttori di antibiotici, scienziato di fama mondiale. Ma ghettizzato dalla corporazione dei colleghi, in quanto si è permesso di criticare il dogma evoluzionista…
Svuotata, astratta, insignificante. Senz'anima. Questo il quadro della scienza dei giorni nostri dipinto da Giuseppe Sermonti nel saggio intitolato, appunto, "Una scienza senz'anima", che esce oggi per Lindau (pp. 160, euro 14,5). E non si può dire che Sermonti non sappia di cosa parla: genetista dal 1950, fondatore della genetica dei microrganismi produttori di antibiotici, scienziato di fama mondiale. Ma ghettizzato dalla corporazione dei colleghi, in quanto si è permesso di criticare il dogma evoluzionista. Con questo saggio, Sermonti ci ammonisce dall'interno dell'impresa scientifica su dove conduce il suo culto acritico. Avvertendoci subito di un paradosso: con la scienza noi siamo di fronte a «qualche cosa che abbia tutte le proprietà per diventare utile, ma che sia nello stesso tempo del tutto privo di qualunque utilità». Essa infatti vive nel regno aureo e levigato della legge. È fatta di modelli matematici, che parlano di corpi, masse, velocità ideali. Che poi, per esempio in astronomia, la formula concretamente sia incarnata dalla Terra, dai pianeti, dal Sole, è secondario. Quello che conta è la legge. Come dice Sermonti, «la Terra non sarebbe meno casuale del sasso che Galileo avrebbe fatto cadere dal campanile di Pisa per misurare l'accelerazione di gravità». Quando lo scientifico diventa praticabile, si trasforma in tecnico: «Un missile è scientifico sinché (...) si dà a intendere che ha scopi di pura conoscenza. Diviene tecnico quando si viene a sapere che i suoi scopi sono militari o meteorologici». Distinzione, quella fra lo "scientifico" e il "tecnico", molto chiara ad esempio agli abitanti di Hiroshima e Nagasaki. Distinzione che porta lo studioso a dare un'ulteriore definizione di scienza: «Quella disciplina che impone a ogni cosa di rinunciare a un significato». Di mettere tra parentesi, cioè, il nostro mondo, caotico e carico di sfumature esistenziali, per occuparsi dei «puri concetti scientifici». È quello che Sermonti battezza «processo di distillazione», e che Max Weber aveva chiamato «disincantamento del mondo». Per cui la parola d'ordine è astrarre da ciò che per noi ha significato: rapporti, sofferenza, valori. Le cose che manipoliamo. Strumenti che hanno un nome, un uso, una storia sedimentata. E che diventano variabili di un'equazione. Ora, Sermonti evidentemente non vuol dire che la scienza non sia «reale». Il punto è che «questa realtà scientifica, che è ben registrata nelle sue leggi, nei suoi testi, poi non è che uno la incontra per la strada». La scienza si è fabbricata una "realtà" a suo uso e consumo. Esemplifica l'autore: «Allora ci sono, cerchiamo di capire, due modi della realtà: quella su cui sbatti il naso, e la legge della incompenetrabilità dei corpi che ratifica questo fenomeno. Qual è più reale? La prima realtà sembra invero un po' plebea, e la seconda sovrana». Il fatto è che questa supremazia è in realtà un trucco: «La scienza si serve di esperienze sue particolari, in uno spazio situato al di fuori del nostro territorio, e raggiungibile solo attraverso strumenti di registrazione, di elaborazione e di trasmissione. Uno spazio vietato al profano, dove tutto è trasfigurato e sono scomparsi luci, colori, profumi, sostanze». Lo stratagemma della scienza, tasto su cui aveva già battuto Paul Feyerabend, è semplice. Si tratta di scomporre l'abbondanza dell'essere in due sezioni: "apparenza" (il mondo in cui viviamo e ci affaccendiamo ogni giorno) e "realtà" (le leggi della scienza). Così la scienza ci espropria del nostro «vissuto», motivo per cui Sermonti non esita ad affibbiarle l'aggettivo «totalitaria». Totalitaria perché ci convice che quel mondo depurato e distillato è appunto la "realtà vera". E chi non lo comprende fa parte di quei "comuni mortali" con cui se la prendevano già filosofi antichi come Eraclito e Parmenide, veri avi degli scienziati, in quanto autori per primi della scissione realtà/apparenza. Lo studioso individua un antesignano ancora più arcaico: l'eroe tragico Prometeo. Colui che ruba il fuoco agli dèi e lo rende «strumento per il progresso dell'uomo», che da quel momento in poi può dare libero sfogo alla sua volontà di piegare la natura. L'«atto con cui si inaugura il regno della scienza» è quindi per Sermonti un «furto mitico». Da lì in poi è un'escalation verso l'attuale dominio della scienza. Sermonti nomina ad esempio la «dea Ragione illuminista», in nome della quale sono anche volate parecchie teste. Ma si potrebbero ricordare pure filosofi del Novecento come Rudolf Carnap, secondo cui solo gli enunciati scientifici hanno senso (e loro eredi in sedicesimi del Duemila alla Oddifreddi). Il culmine del processo è l'attuale «deificazione» della scienza, nuova religione razionalista e calcolante. Surrogato di Dio, avrebbe detto Nietzsche. Peccato, incalza Sermonti, che la scienza si fermi esattamente quando iniziano le «domande fondamentali». Puoi mappare finché vuoi nei suoi infinitesimi dettagli tutto il genoma umano, spunterà sempre quel fastidioso: «Che scopo ho per vivere?». La biologia tirerà in ballo la riproduzione della specie, al massimo l'istinto di conservazione. Affonda Sermonti: «Questo ragionamento non è molto consolante, e se qualcuno meditasse di farla finita con la vita non penso che ne verrebbe dissuaso». Testimonianza che la scienza manca clamorosamente quella che Heidegger chiamava «soglia dell'umano». Nel cosmo scientifico l'uomo è in cima alla scala evolutiva, una sorta di super-animale segnato da differenze di grado, quantitative con gli altri animali. Sparisce il salto qualitativo: il fatto che l'uomo sia l'unico preoccupato, minato alla radice dall'inquietudine, alla caccia di uno straccio di significato (Heidegger direbbe «interessato all'essere»). Per Sermonti questa falla è lampante nel caso dell'evoluzionismo: «All'evoluzionista le cose del mondo, animali e piante e uomini, non interessano per come sono». Infatti, «non è l'evoluzionismo che deve ingegnarsi a spiegarli, sono essi che devono collaborare a illustrare la teoria dell'evoluzione». La quale è data come schema generale, a cui tutto va piegato. In barba a Sir Karl Popper, per cui una teoria è scientifica se è potenzialmente falsificabile. Altrimenti è metafisica. O, appunto, scienza divinizzata. Quindi, che fare di fronte ad essa? Sermonti, scienziato ma non adepto della religione scientista, evoca una strada: «E allora a noi non resta che proporre, se la scienza vuol essere una via verso la realtà, che essa cessi questo atteggiamento da Stato totalitario, rinunzi a disporsi di fronte alla natura come chi stia completando una conquista militare, e si presenti con tutto un altro abito, come qualcosa di simile a una poesia, a una canzone, a un affresco, a una fiaba, che narrino della natura e alla natura si rivolgano perché presti loro ascolto». Da legge astratta a possibile "racconto" del mondo in mezzo ad altri racconti. Per cui «davanti alla scoperta, piuttosto che chiedersi "che uso posso farne (e a che prezzo posso venderla)?", si chieda lo scienziato "dove posso inserirla nel racconto che sto facendo del mondo?"». Così, forse, potrà recuperare anche l'anima.
di Giovanni Sallusti
LIBERO 30 maggio 2008
Il Papa non incontrerà Ahmadinejad: ha vinto la coerenza con i nostri valori e con i legittimi interessi di lungo termine
Dal sito www.magdiallam.it
Ma l'Occidente sbaglia continuando a immaginare che sarebbe possibile isolare il presidente nazi-islamico per continuare a fare affari con il regime teocratico che rappresenta la principale minaccia alla sicurezza mondiale
autore: Magdi Cristiano Allam (Corriere della Sera,1-6-08)
C’era una sola via d’uscita onesta e onorevole al profondo imbarazzo dell’Italia e del Vaticano alle richieste d’incontro avanzate dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, che arriverà a Roma su invito della Fao per la Conferenza internazionale sulla sicurezza alimentare che si terrà dal 3 al 5 giugno: non incontrarlo, coerentemente con quei valori assoluti, universali e trascendenti che sostanziano l’essenza della nostra umanità e che sono il fondamento della civiltà occidentale, nonché a salvaguardia di legittimi interessi nazionali e internazionali nel lungo termine. Bene hanno dunque fatto il papa Benedetto XVI e il premier Berlusconi.
E’ necessario guardare in faccia alla realtà di Ahmadinejad, che non è affatto un corpo estraneo o una scheggia impazzita del regime teocratico sciita, bensì parte integrante ed espressione autentica e legittimata dal voto popolare di una dittatura in cui la “Guida spirituale”, l’ayatollah Ali Khamenei, incarna i massimi poteri esecutivo, legislativo e giudiziario. Così come bisogna prendere atto che si tratta di una pia illusione, o meglio di una sfacciata ipocrisia, immaginare che si possa mantenere le distanze dalla persona di Ahmadinejad e contemporaneamente intensificare i rapporti economici e commerciali con l’Iran, considerando questo comportamento come dignitoso sul piano etico e pragmatico sul piano dell’interesse nazionale. Ebbene non è affatto così. Un simile atteggiamento è, da un lato, lesivo dei diritti fondamentali della persona e dei valori non negoziabili e, dall’altro, realizza tutt’al più l’interesse di breve termine di singole aziende, mentre complessivamente si traduce in un sostegno fattuale al regime che oggi rappresenta la principale minaccia alla sicurezza e alla stabilità internazionale.
Ecco perché noi abbiamo il diritto e il dovere di esigere da Ahmadinejad, quale condizione preliminare per stringergli la mano, che assuma formalmente una posizione congrua con i diritti inalienabili e i valori inviolabili, rassicurando il mondo intero che non intende essere un pericolo per l’insieme dell’umanità, cominciando ad ottemperare alle risoluzioni dell’Onu che ingiungono all’Iran di sospendere l’attività di arricchimento dell’uranio nella consapevolezza che sta perseguendo la costruzione della bomba atomica; dichiarando pubblicamente il rispetto della sacralità della vita, a cominciare dal riconoscimento del diritto di Israele all’esistenza e dalla condanna del terrorismo suicida ed omicida di Hamas, della Jihad Islamica, del Hezbollah e di Moqtada Al Sadr sostenuti e finanziati dall’Iran stesso; rispettando la libertà religiosa degli iraniani cessando la persecuzione dei cristiani e dei bahai e la condanna a morte dei musulmani che si convertono ad un’altra fede; rispettando la dignità della persona ponendo fine agli arresti, all’impiccagione e alla lapidazione degli omosessuali.
Immagino che molti di voi sorrideranno perché è del tutto evidente che Ahmadinejad non riconoscerà mai il diritto alla vita di Israele, non rinnegherà mai il terrorismo islamico, non rispetterà mai la libertà di fede e i diritti individuali degli omosessuali. Ma c’è poco da sorridere quando, dalla constatazione tragica dell’irremovibilità di Ahmadinejad su questioni cruciali che mettono a repentaglio la sorte del mondo intero, non pochi in Occidente e altrove s’illudono che scendere a patti con un regime che rappresenta il nuovo nazismo islamico, corrisponda a una scelta di realismo per mantenere, costi quel che costi, il filo del dialogo nella speranza che dopo Ahmadinejad qualcun altro possa apportare un cambiamento di fondo. Si evoca con nostalgia l’ex presidente Khatami, dimenticando che lui stesso, dopo due mandati con un amplissimo sostegno popolare, ammise il totale fallimento del tentativo di riformare dall’interno la teocrazia. Proprio l’esperienza di Khatami, che è un religioso, conferma che il regime degli ayatollah non è riformabile pena la sua dissoluzione. Si evoca con speranza il neo-presidente del Majlis, il parlamento iraniano, Ali Larijani, rimuovendo fin troppo rapidamente il fatto che anch’egli ha fallito quale negoziatore sulla crisi del nucleare perché le sue posizioni, al di là dei toni più pacati, sono simili a quelle di Ahmadinejad. Ebbene nell’attesa che un qualche evento imprevedibile possa portare ad un autentico cambiamento interno iraniano, ciò che dobbiamo fare per prevenire che i nuovi nazisti islamici minaccino il mondo intero è mostrare fermezza nella difesa dei nostri valori e dei nostri interessi.
Lezioni per battere il tabù dello spinello
L’Italia, con Malta, è ormai l’ultimo paese europeo in quanto lotta alla droga. Non siamo riusciti a diminuire i consumi, e neppure a rallentare i ritmi di incremento
di Claudio Risé
L’Italia, con Malta, è ormai l’ultimo paese europeo in quanto lotta alla droga. Non siamo riusciti a diminuire i consumi, e neppure a rallentare i ritmi di incremento.
I rapporti dell’Onu, e dell’Osservatorio europeo sulle droghe, hanno ripetutamente deplorato i nostri risultati. Di fronte allo sterile agitarsi dei nostri politici, che unici al mondo ancora dibattono se la cannabis faccia o no male, qualche preside ha lanciato un’idea: diamo la parola in classe ai drogati cronici.
È successo a Treviso, dopo la scoperta di collette in classe per i fondi per l’acquisto di spinelli. Undici ragazzi dai 16 ai 19 anni sono stati denunciati per detenzione e spaccio di droga, trenta sono stati segnalati in prefettura come assuntori abituali, due portati direttamente in comunità.
L’operazione «Zero in condotta» ha coinvolto liceo classico, scientifico, magistrali, scuola di recupero, e università. Era nata dopo qualche controllo prima delle gite scolastiche, in cui gli agenti avevano trovato di tutto, ma soprattutto hashish. «Fumiamo tutti», hanno dichiarato tranquillamente ragazzi e ragazze. I giovani raccontano che i professori non hanno mai parlato in classe dei danni della droga. Ha detto uno dei rappresentanti degli studenti: «La droga è uno dei tabù che ci sono a scuola, come la politica. I professori e i presidi ci dicono: ”non fatelo, sennò viene il cane antidroga”, mai: non fatelo perché vi fa male».
Eppure le grandi organizzazioni internazionali, a cominciare dall’Organizzazione mondiale della sanità, gli Istituti nazionali per la salute, come l’Istituto superiore di sanità in Italia o quelli di Francia, Inghilterra, Spagna, Olanda (paesi quanto mai liberali), hanno da tempo documentato i danni fisici e psichici della cannabis, che, soprattutto quando assunta già prima dei 15 anni, aumenta enormemente i rischi di psicosi o schizofrenia.
Psichiatria e neuroscienze di tutto il mondo hanno accuratamente documentato tutto, da tempo. Allora perché i «prof», come li chiamano tra l’affettuoso e il derisorio gli allievi, non ne parlano? Molti perché non hanno mai letto niente di serio e aggiornato in materia; molti perché, come appunto denunciano i ragazzi, considerano «il fumo» un tabù: sociale, politico, di costume. Parlarne male è considerato «politicamente scorretto», antiquato, bigotto; tutte cose temute dai «prof» che cercano soprattutto l’alleanza e la complicità coi ragazzi. Soprattutto, però, li obbligherebbe a informarsi prima, uscendo dai sentieri battuti dei luoghi comuni. Allora ecco la proposta del preside Otello Cegolon, dirigente dell’Istituto magistrale Duca degli Abruzzi di Treviso. «I giovani non conoscono la portata reale del danno. Portiamo allora nelle classi i drogati cronici, che facciano vedere ai ragazzi cosa producono le sostanze che prendono con tanta leggerezza».
Il preside pensa ai drogati di roba pesante, che, certo, forniscono testimonianze sconvolgenti. Ma, come hanno spiegato i maggiori psichiatri italiani, a cominciare da Giovanni Battista Cassano, fin dal 2001, i normali reparti di psichiatria si sono ormai riempiti, da anni, anche di consumatori di cannabis e amfetamine che, oltre a fornire oltre l’80% dei futuri acquirenti di cocaina ed eroina, trasformano gli adolescenti, in Italia come altrove (ma peggio che altrove, perché non hanno informazioni sui rischi) in pazienti psichiatrici.
Mettiamo dunque questi nuovi folli in cattedra a raccontare la loro esperienza. Rimedieranno al vuoto informativo dei professori troppo conformisti nei confronti della leggenda rosa delle droghe «buone».
Il Mattino di Napoli 2 giugno 2008
1) LE PAROLE DEL PAPA all’Angelus di Domenica 1 giugno 2008
2) Parole di Benedetto XVI per la conclusione del mese mariano
3) Quel volto da sempre cercato che ci svela la verità, di Davide Rondoni
4) Sermonti, genetista “pentito”. «La scienza è contro l’uomo»
5) Il Papa non incontrerà Ahmadinejad: ha vinto la coerenza con i nostri valori e con i legittimi interessi di lungo termine, di Magdi Cristiano Allam
6) Lezioni per battere il tabù dello spinello, di Claudio Risè
LE PAROLE DEL PAPA
Richiamando il senso della festa che riassume «in sè il mistero della Incarnazione e della Redenzione» Ratzinger ha detto che Dio ha voluto entrare nei limiti della condizione umana
«Il cuore di Cristo fonte della speranza»
Domenica scorsa all’Angelus il Papa si è soffermato sulla devozione, tipica del mese di giugno, che «esprime in modo semplice e autentico la buona novella dell’amore»
Dedicato alla devozione al Cuore di Cristo l’Angelus guidato domenica da Benedetto XVI in piazza San Pietro. Di seguito le parole del Papa prima della preghiera mariana.
Cari fratelli e sorelle, nell’odierna domenica, che coincide con l’inizio di giugno, mi piace ricordare che questo mese è tradizionalmente dedicato al Cuore di Cristo, simbolo della fede cristiana particolarmente caro sia al popolo sia ai mistici e ai teologi, perché esprime in modo semplice e autentico la «buona novella» dell’amore, riassumendo in sé il mistero dell’Incarnazione e della Redenzione. E venerdì scorso abbiamo celebrato la solennità del Sacro Cuore di Gesù, terza e ultima delle feste che fanno seguito al Tempo Pasquale, dopo la Santissima Trinità e il Corpus Domini. Questa successione fa pensare ad un movimento verso il centro: un movimento dello spirito che è Dio stesso a guidare. Dall’orizzonte infinito del suo amore, infatti, Dio ha voluto entrare nei limiti della storia e della condizione umana, ha preso un corpo e un cuore; così che noi possiamo contemplare e incontrare l’infinito nel finito, il Mistero invisibile e ineffabile nel Cuore umano di Gesù, il Nazareno. Nella mia prima enciclica sul tema dell’amore, il punto di partenza è stato proprio lo sguardo rivolto al costato trafitto di Cristo, di cui ci parla Giovanni nel suo Vangelo (cfr 19,37; Deus caritas est, 12). E questo centro della fede è anche la fonte della speranza nella quale siamo stati salvati, speranza che ho fatto oggetto della seconda enciclica.
Ogni persona ha bisogno di un «centro» della propria vita, di una sorgente di verità e di bontà a cui attingere nell’avvicendarsi delle diverse situazioni e nella fatica della quotidianità. Ognuno di noi, quando si ferma in silenzio, ha bisogno di sentire non solo il battito del proprio cuore, ma, più in profondità, il pulsare di una presenza affidabile, percepibile coi sensi della fede e tuttavia molto più reale: la presenza di Cristo, cuore del mondo. Invito pertanto ciascuno a rinnovare nel mese di giugno la propria devozione al Cuore di Cristo, valorizzando anche la tradizionale preghiera di offerta della giornata e tenendo presenti le intenzioni da me proposte a tutta la Chiesa.
Accanto al Sacro Cuore di Gesù, la liturgia ci invita a venerare il Cuore Immacolato di Maria. Affidiamoci sempre a Lei con grande confidenza. Vorrei invocare la materna intercessione della Vergine ancora una volta per le popolazioni della Cina e del Myanmar colpite dalle calamità naturali, e per quanti attraversano le tante situazioni di dolore, di malattia e di miseria materiale e spirituale che segnano il cammino dell’umanità.
Benedetto XVI
Parole di Benedetto XVI per la conclusione del mese mariano
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 1° giugno 2008 (ZENIT.org).- Riportiamo le parole che Benedetto XVI ha pronunciato questo sabato sera dopo la celebrazione a conclusione del mese mariano.
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Cari fratelli e sorelle!
Concludiamo il mese di maggio con questo suggestivo incontro di preghiera mariana. Vi saluto con affetto e vi ringrazio della vostra partecipazione. Saluto, in primo luogo, il Signor Cardinale Angelo Comastri; con lui saluto gli altri Cardinali, Arcivescovi, Vescovi e sacerdoti, intervenuti a questa celebrazione serale. Estendo il mio saluto alle persone consacrate e a tutti voi, cari fedeli laici, che con la vostra presenza avete voluto rendere omaggio alla Vergine Santissima.
Celebriamo quest'oggi la festa della Visitazione della Beata Vergine e la memoria del Cuore Immacolato di Maria. Tutto pertanto ci invita a volgere lo sguardo con fiducia a Maria. A Lei, anche questa sera, ci siamo rivolti con l'antica e sempre attuale pia pratica del Rosario. Il Rosario, quando non è meccanica ripetizione di formule tradizionali, è una meditazione biblica che ci fa ripercorrere gli eventi della vita del Signore in compagnia della Beata Vergine, conservandoli, come Lei, nel nostro cuore. In tante comunità cristiane, durante il mese di maggio, esiste la bella consuetudine di recitare in modo più solenne il Santo Rosario in famiglia e nelle parrocchie. Ora, che termina il mese, non cessi questa buona abitudine; anzi prosegua con ancor maggiore impegno, affinché, alla scuola di Maria, la lampada della fede brilli sempre più nel cuore dei cristiani e nelle loro case.
Nell'odierna festa della Visitazione la liturgia ci fa riascoltare il brano del Vangelo di Luca, che racconta il viaggio di Maria da Nazareth alla casa dell'anziana cugina Elisabetta. Immaginiamo lo stato d'animo della Vergine dopo l'Annunciazione, quando l'Angelo partì da Lei. Maria si ritrovò con un grande mistero racchiuso nel grembo; sapeva che qualcosa di straordinariamente unico era accaduto; si rendeva conto che era iniziato l'ultimo capitolo della storia della salvezza del mondo. Ma tutto, intorno a Lei, era rimasto come prima e il villaggio di Nazareth era completamente ignaro di ciò che Le era accaduto.
Prima di preoccuparsi di se stessa, Maria pensa però all'anziana Elisabetta, che ha saputo essere in gravidanza avanzata e, spinta dal mistero di amore che ha appena accolto in se stessa, si mette in cammino "in fretta" per andare a portarle il suo aiuto. Ecco la grandezza semplice e sublime di Maria! Quando giunge alla casa di Elisabetta, accade un fatto che nessun pittore potrà mai rendere con la bellezza e la profondità del suo realizzarsi. La luce interiore dello Spirito Santo avvolge le loro persone. Ed Elisabetta, illuminata dall'Alto, esclama: "Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore" (Lc 1,42-45).
Queste parole potrebbero apparirci sproporzionate rispetto al contesto reale. Elisabetta è una delle tante anziane di Israele e Maria una sconosciuta fanciulla di uno sperduto villaggio della Galilea. Che cosa possono essere e che cosa possono fare in un mondo nel quale contano altre persone e pesano altri poteri? Tuttavia, Maria ancora una volta ci stupisce; il suo cuore è limpido, totalmente aperto alle luce di Dio; la sua anima è senza peccato, non appesantita dall'orgoglio e dall'egoismo. Le parole di Elisabetta accendono nel suo spirito un cantico di lode, che è un'autentica e profonda lettura "teologica" della storia: una lettura che noi dobbiamo continuamente imparare da Colei la cui fede è senza ombre e senza incrinature. "L'anima mia magnifica il Signore". Maria riconosce la grandezza di Dio. Questo è il primo indispensabile sentimento della fede; il sentimento che dà sicurezza all'umana creatura e la libera dalla paura, pur in mezzo alle bufere della storia.
Andando oltre la superficie, Maria "vede" con gli occhi della fede l'opera di Dio nella storia. Per questo è beata, perché ha creduto: per la fede, infatti, ha accolto la Parola del Signore e ha concepito il Verbo incarnato. La sua fede Le ha fatto vedere che i troni dei potenti di questo mondo sono tutti provvisori, mentre il trono di Dio è l'unica roccia che non muta e non cade. E il suo Magnificat, a distanza di secoli e millenni, resta la più vera e profonda interpretazione della storia, mentre le letture fatte da tanti sapienti di questo mondo sono state smentite dai fatti nel corso dei secoli.
Cari fratelli e sorelle! Torniamo a casa con il Magnificat nel cuore. Portiamo in noi i medesimi sentimenti di lode e di ringraziamento di Maria verso il Signore, la sua fede e la sua speranza, il suo docile abbandono nelle mani della Provvidenza divina. Imitiamo il suo esempio di disponibilità e generosità nel servire i fratelli. Solo, infatti, accogliendo l'amore di Dio e facendo della nostra esistenza un servizio disinteressato e generoso al prossimo, potremo elevare con gioia un canto di lode al Signore. Ci ottenga questa grazia la Madonna, che questa sera ci invita a trovare rifugio nel suo Cuore Immacolato.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
L’ANNUNCIO DEL PAPA: DAL 2010 NUOVA OSTENSIONE DELLA SINDONE
Quel volto da sempre cercato che ci svela la verità
Avvenire, 3 giugno 2008
DAVIDE RONDONI
N on c’è nulla come cercare quel volto.
Non c’è nulla come cercare il volto del destino. Cioè il volto profondo di quel che ci succede. Di quel che ci arriva addosso. Il suo volto, vogliamo sapere. Vogliamo vedere al fondo della vita che ci tocca di vivere, vita che con i suoi splendori e orrori a volte ci toglie il respiro, vedere che volto ci sia.
Vogliamo sapere se si tratta di un viso spento come un oblìo, un viso vuoto, che non ha nessun interesse per noi.
Un viso come uno sbadiglio. Come una statua impassibile. Vogliamo vedere se hanno ragione coloro che dicono che al fondo delle cose ci aspetta solo il buio e nessun volto. Oppure solo il ghigno di un fato che si prende gioco di noi.
Vogliamo sapere se nel fondo dei nostri giorni, dei nostri amori, dei nostri dolori c’è il viso di un 'ubriaco' come diceva un personaggio di Shakespeare.
O se invece c’è il viso della Sindone, quello di un Dio che ha amato l’uomo, noi, fino a patire. Un Dio che ha avuto passione per l’uomo. Da sempre, l’uomo ha cercato quel volto. Lo ha gridato il salmista. Lo cercavano i sapienti di ogni popolo, nei segni che sembrava lasciare tra fuochi e stelle, tra tempeste e aliti lievi del vento. Lo hanno cercato sempre gli uomini.
Immaginandolo nelle visioni, inseguendolo nelle altezze del pensiero e negli slanci pazienti delle arti. E anche il cosiddetto uomo moderno, o meglio ciò che certi maestri di epoche recenti hanno denominato tale, pur se fingeva di disinteressarsi di quel volto e di non cercarlo più, in realtà ha sempre alzato volti da guardare come se rappresentassero il suo destino. Come l’uomo di sempre. Abbiamo avuto le maschere a volte tragiche, a volte grottesche, quasi sempre cieche e sorde ai bisogni profondi della vita: le maschere del Potente, dell’Eroe, della Celebrità. In certi momenti il volto di un uomo si è immedesimato con il destino di un popolo, di una nazione, o di una rivoluzione. Lo hanno idolatrato. Ma ha lasciato spesso il vuoto, e spesso l’orrore dietro di sé. Invece il volto dell’uomo della Sindone chi è? Al di là delle diatribe tra filologi ed esperti, quel volto come fu allora per il volto di Cristo non vuole imporsi alla nostra attenzione, resta sempre in un suo velo di segreto. Perché occorre sempre cercare il volto di Cristo. Occorre sempre, per riconoscere veramente, anche una mossa della libertà, un rinnovarsi della domanda. Anche i suoi primi discepoli, che l’avevano davanti nelle colline, sulle rive del lago o anche ai tavoli di gente discutibile, lo fissavano per cercare di capire chi era veramente. Ogni volta capivano di più, e ogni volta dovevano chiederselo di più. Nel 2010 il Papa ci dona l’occasione per andare a vederne questo segno unico e misterioso. Per rinnovare ancora la ricerca di quel volto. Che è il volto della verità. La quale per i cristiani non è un discorso.
Non è nemmeno una cosa da 'spiegare' o di cui 'convincere' gli altri. La verità è il volto di un Dio appassionato, fino al dolore, alla nostra vita. Non si tratta per noi di sapere un discorso, una formula, o una bella frase. Si tratta della gioia di vederlo, e dell’opera di assomigliargli.
Sermonti, genetista “pentito”. «La scienza è contro l’uomo»
È uscito in questi giorni l’ultimo libro di Giuseppe Sermonti: “Una scienza senz’anima”. E non si può dire che Sermonti non sappia di cosa parla: genetista dal 1950, fondatore della genetica dei microrganismi produttori di antibiotici, scienziato di fama mondiale. Ma ghettizzato dalla corporazione dei colleghi, in quanto si è permesso di criticare il dogma evoluzionista…
Svuotata, astratta, insignificante. Senz'anima. Questo il quadro della scienza dei giorni nostri dipinto da Giuseppe Sermonti nel saggio intitolato, appunto, "Una scienza senz'anima", che esce oggi per Lindau (pp. 160, euro 14,5). E non si può dire che Sermonti non sappia di cosa parla: genetista dal 1950, fondatore della genetica dei microrganismi produttori di antibiotici, scienziato di fama mondiale. Ma ghettizzato dalla corporazione dei colleghi, in quanto si è permesso di criticare il dogma evoluzionista. Con questo saggio, Sermonti ci ammonisce dall'interno dell'impresa scientifica su dove conduce il suo culto acritico. Avvertendoci subito di un paradosso: con la scienza noi siamo di fronte a «qualche cosa che abbia tutte le proprietà per diventare utile, ma che sia nello stesso tempo del tutto privo di qualunque utilità». Essa infatti vive nel regno aureo e levigato della legge. È fatta di modelli matematici, che parlano di corpi, masse, velocità ideali. Che poi, per esempio in astronomia, la formula concretamente sia incarnata dalla Terra, dai pianeti, dal Sole, è secondario. Quello che conta è la legge. Come dice Sermonti, «la Terra non sarebbe meno casuale del sasso che Galileo avrebbe fatto cadere dal campanile di Pisa per misurare l'accelerazione di gravità». Quando lo scientifico diventa praticabile, si trasforma in tecnico: «Un missile è scientifico sinché (...) si dà a intendere che ha scopi di pura conoscenza. Diviene tecnico quando si viene a sapere che i suoi scopi sono militari o meteorologici». Distinzione, quella fra lo "scientifico" e il "tecnico", molto chiara ad esempio agli abitanti di Hiroshima e Nagasaki. Distinzione che porta lo studioso a dare un'ulteriore definizione di scienza: «Quella disciplina che impone a ogni cosa di rinunciare a un significato». Di mettere tra parentesi, cioè, il nostro mondo, caotico e carico di sfumature esistenziali, per occuparsi dei «puri concetti scientifici». È quello che Sermonti battezza «processo di distillazione», e che Max Weber aveva chiamato «disincantamento del mondo». Per cui la parola d'ordine è astrarre da ciò che per noi ha significato: rapporti, sofferenza, valori. Le cose che manipoliamo. Strumenti che hanno un nome, un uso, una storia sedimentata. E che diventano variabili di un'equazione. Ora, Sermonti evidentemente non vuol dire che la scienza non sia «reale». Il punto è che «questa realtà scientifica, che è ben registrata nelle sue leggi, nei suoi testi, poi non è che uno la incontra per la strada». La scienza si è fabbricata una "realtà" a suo uso e consumo. Esemplifica l'autore: «Allora ci sono, cerchiamo di capire, due modi della realtà: quella su cui sbatti il naso, e la legge della incompenetrabilità dei corpi che ratifica questo fenomeno. Qual è più reale? La prima realtà sembra invero un po' plebea, e la seconda sovrana». Il fatto è che questa supremazia è in realtà un trucco: «La scienza si serve di esperienze sue particolari, in uno spazio situato al di fuori del nostro territorio, e raggiungibile solo attraverso strumenti di registrazione, di elaborazione e di trasmissione. Uno spazio vietato al profano, dove tutto è trasfigurato e sono scomparsi luci, colori, profumi, sostanze». Lo stratagemma della scienza, tasto su cui aveva già battuto Paul Feyerabend, è semplice. Si tratta di scomporre l'abbondanza dell'essere in due sezioni: "apparenza" (il mondo in cui viviamo e ci affaccendiamo ogni giorno) e "realtà" (le leggi della scienza). Così la scienza ci espropria del nostro «vissuto», motivo per cui Sermonti non esita ad affibbiarle l'aggettivo «totalitaria». Totalitaria perché ci convice che quel mondo depurato e distillato è appunto la "realtà vera". E chi non lo comprende fa parte di quei "comuni mortali" con cui se la prendevano già filosofi antichi come Eraclito e Parmenide, veri avi degli scienziati, in quanto autori per primi della scissione realtà/apparenza. Lo studioso individua un antesignano ancora più arcaico: l'eroe tragico Prometeo. Colui che ruba il fuoco agli dèi e lo rende «strumento per il progresso dell'uomo», che da quel momento in poi può dare libero sfogo alla sua volontà di piegare la natura. L'«atto con cui si inaugura il regno della scienza» è quindi per Sermonti un «furto mitico». Da lì in poi è un'escalation verso l'attuale dominio della scienza. Sermonti nomina ad esempio la «dea Ragione illuminista», in nome della quale sono anche volate parecchie teste. Ma si potrebbero ricordare pure filosofi del Novecento come Rudolf Carnap, secondo cui solo gli enunciati scientifici hanno senso (e loro eredi in sedicesimi del Duemila alla Oddifreddi). Il culmine del processo è l'attuale «deificazione» della scienza, nuova religione razionalista e calcolante. Surrogato di Dio, avrebbe detto Nietzsche. Peccato, incalza Sermonti, che la scienza si fermi esattamente quando iniziano le «domande fondamentali». Puoi mappare finché vuoi nei suoi infinitesimi dettagli tutto il genoma umano, spunterà sempre quel fastidioso: «Che scopo ho per vivere?». La biologia tirerà in ballo la riproduzione della specie, al massimo l'istinto di conservazione. Affonda Sermonti: «Questo ragionamento non è molto consolante, e se qualcuno meditasse di farla finita con la vita non penso che ne verrebbe dissuaso». Testimonianza che la scienza manca clamorosamente quella che Heidegger chiamava «soglia dell'umano». Nel cosmo scientifico l'uomo è in cima alla scala evolutiva, una sorta di super-animale segnato da differenze di grado, quantitative con gli altri animali. Sparisce il salto qualitativo: il fatto che l'uomo sia l'unico preoccupato, minato alla radice dall'inquietudine, alla caccia di uno straccio di significato (Heidegger direbbe «interessato all'essere»). Per Sermonti questa falla è lampante nel caso dell'evoluzionismo: «All'evoluzionista le cose del mondo, animali e piante e uomini, non interessano per come sono». Infatti, «non è l'evoluzionismo che deve ingegnarsi a spiegarli, sono essi che devono collaborare a illustrare la teoria dell'evoluzione». La quale è data come schema generale, a cui tutto va piegato. In barba a Sir Karl Popper, per cui una teoria è scientifica se è potenzialmente falsificabile. Altrimenti è metafisica. O, appunto, scienza divinizzata. Quindi, che fare di fronte ad essa? Sermonti, scienziato ma non adepto della religione scientista, evoca una strada: «E allora a noi non resta che proporre, se la scienza vuol essere una via verso la realtà, che essa cessi questo atteggiamento da Stato totalitario, rinunzi a disporsi di fronte alla natura come chi stia completando una conquista militare, e si presenti con tutto un altro abito, come qualcosa di simile a una poesia, a una canzone, a un affresco, a una fiaba, che narrino della natura e alla natura si rivolgano perché presti loro ascolto». Da legge astratta a possibile "racconto" del mondo in mezzo ad altri racconti. Per cui «davanti alla scoperta, piuttosto che chiedersi "che uso posso farne (e a che prezzo posso venderla)?", si chieda lo scienziato "dove posso inserirla nel racconto che sto facendo del mondo?"». Così, forse, potrà recuperare anche l'anima.
di Giovanni Sallusti
LIBERO 30 maggio 2008
Il Papa non incontrerà Ahmadinejad: ha vinto la coerenza con i nostri valori e con i legittimi interessi di lungo termine
Dal sito www.magdiallam.it
Ma l'Occidente sbaglia continuando a immaginare che sarebbe possibile isolare il presidente nazi-islamico per continuare a fare affari con il regime teocratico che rappresenta la principale minaccia alla sicurezza mondiale
autore: Magdi Cristiano Allam (Corriere della Sera,1-6-08)
C’era una sola via d’uscita onesta e onorevole al profondo imbarazzo dell’Italia e del Vaticano alle richieste d’incontro avanzate dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, che arriverà a Roma su invito della Fao per la Conferenza internazionale sulla sicurezza alimentare che si terrà dal 3 al 5 giugno: non incontrarlo, coerentemente con quei valori assoluti, universali e trascendenti che sostanziano l’essenza della nostra umanità e che sono il fondamento della civiltà occidentale, nonché a salvaguardia di legittimi interessi nazionali e internazionali nel lungo termine. Bene hanno dunque fatto il papa Benedetto XVI e il premier Berlusconi.
E’ necessario guardare in faccia alla realtà di Ahmadinejad, che non è affatto un corpo estraneo o una scheggia impazzita del regime teocratico sciita, bensì parte integrante ed espressione autentica e legittimata dal voto popolare di una dittatura in cui la “Guida spirituale”, l’ayatollah Ali Khamenei, incarna i massimi poteri esecutivo, legislativo e giudiziario. Così come bisogna prendere atto che si tratta di una pia illusione, o meglio di una sfacciata ipocrisia, immaginare che si possa mantenere le distanze dalla persona di Ahmadinejad e contemporaneamente intensificare i rapporti economici e commerciali con l’Iran, considerando questo comportamento come dignitoso sul piano etico e pragmatico sul piano dell’interesse nazionale. Ebbene non è affatto così. Un simile atteggiamento è, da un lato, lesivo dei diritti fondamentali della persona e dei valori non negoziabili e, dall’altro, realizza tutt’al più l’interesse di breve termine di singole aziende, mentre complessivamente si traduce in un sostegno fattuale al regime che oggi rappresenta la principale minaccia alla sicurezza e alla stabilità internazionale.
Ecco perché noi abbiamo il diritto e il dovere di esigere da Ahmadinejad, quale condizione preliminare per stringergli la mano, che assuma formalmente una posizione congrua con i diritti inalienabili e i valori inviolabili, rassicurando il mondo intero che non intende essere un pericolo per l’insieme dell’umanità, cominciando ad ottemperare alle risoluzioni dell’Onu che ingiungono all’Iran di sospendere l’attività di arricchimento dell’uranio nella consapevolezza che sta perseguendo la costruzione della bomba atomica; dichiarando pubblicamente il rispetto della sacralità della vita, a cominciare dal riconoscimento del diritto di Israele all’esistenza e dalla condanna del terrorismo suicida ed omicida di Hamas, della Jihad Islamica, del Hezbollah e di Moqtada Al Sadr sostenuti e finanziati dall’Iran stesso; rispettando la libertà religiosa degli iraniani cessando la persecuzione dei cristiani e dei bahai e la condanna a morte dei musulmani che si convertono ad un’altra fede; rispettando la dignità della persona ponendo fine agli arresti, all’impiccagione e alla lapidazione degli omosessuali.
Immagino che molti di voi sorrideranno perché è del tutto evidente che Ahmadinejad non riconoscerà mai il diritto alla vita di Israele, non rinnegherà mai il terrorismo islamico, non rispetterà mai la libertà di fede e i diritti individuali degli omosessuali. Ma c’è poco da sorridere quando, dalla constatazione tragica dell’irremovibilità di Ahmadinejad su questioni cruciali che mettono a repentaglio la sorte del mondo intero, non pochi in Occidente e altrove s’illudono che scendere a patti con un regime che rappresenta il nuovo nazismo islamico, corrisponda a una scelta di realismo per mantenere, costi quel che costi, il filo del dialogo nella speranza che dopo Ahmadinejad qualcun altro possa apportare un cambiamento di fondo. Si evoca con nostalgia l’ex presidente Khatami, dimenticando che lui stesso, dopo due mandati con un amplissimo sostegno popolare, ammise il totale fallimento del tentativo di riformare dall’interno la teocrazia. Proprio l’esperienza di Khatami, che è un religioso, conferma che il regime degli ayatollah non è riformabile pena la sua dissoluzione. Si evoca con speranza il neo-presidente del Majlis, il parlamento iraniano, Ali Larijani, rimuovendo fin troppo rapidamente il fatto che anch’egli ha fallito quale negoziatore sulla crisi del nucleare perché le sue posizioni, al di là dei toni più pacati, sono simili a quelle di Ahmadinejad. Ebbene nell’attesa che un qualche evento imprevedibile possa portare ad un autentico cambiamento interno iraniano, ciò che dobbiamo fare per prevenire che i nuovi nazisti islamici minaccino il mondo intero è mostrare fermezza nella difesa dei nostri valori e dei nostri interessi.
Lezioni per battere il tabù dello spinello
L’Italia, con Malta, è ormai l’ultimo paese europeo in quanto lotta alla droga. Non siamo riusciti a diminuire i consumi, e neppure a rallentare i ritmi di incremento
di Claudio Risé
L’Italia, con Malta, è ormai l’ultimo paese europeo in quanto lotta alla droga. Non siamo riusciti a diminuire i consumi, e neppure a rallentare i ritmi di incremento.
I rapporti dell’Onu, e dell’Osservatorio europeo sulle droghe, hanno ripetutamente deplorato i nostri risultati. Di fronte allo sterile agitarsi dei nostri politici, che unici al mondo ancora dibattono se la cannabis faccia o no male, qualche preside ha lanciato un’idea: diamo la parola in classe ai drogati cronici.
È successo a Treviso, dopo la scoperta di collette in classe per i fondi per l’acquisto di spinelli. Undici ragazzi dai 16 ai 19 anni sono stati denunciati per detenzione e spaccio di droga, trenta sono stati segnalati in prefettura come assuntori abituali, due portati direttamente in comunità.
L’operazione «Zero in condotta» ha coinvolto liceo classico, scientifico, magistrali, scuola di recupero, e università. Era nata dopo qualche controllo prima delle gite scolastiche, in cui gli agenti avevano trovato di tutto, ma soprattutto hashish. «Fumiamo tutti», hanno dichiarato tranquillamente ragazzi e ragazze. I giovani raccontano che i professori non hanno mai parlato in classe dei danni della droga. Ha detto uno dei rappresentanti degli studenti: «La droga è uno dei tabù che ci sono a scuola, come la politica. I professori e i presidi ci dicono: ”non fatelo, sennò viene il cane antidroga”, mai: non fatelo perché vi fa male».
Eppure le grandi organizzazioni internazionali, a cominciare dall’Organizzazione mondiale della sanità, gli Istituti nazionali per la salute, come l’Istituto superiore di sanità in Italia o quelli di Francia, Inghilterra, Spagna, Olanda (paesi quanto mai liberali), hanno da tempo documentato i danni fisici e psichici della cannabis, che, soprattutto quando assunta già prima dei 15 anni, aumenta enormemente i rischi di psicosi o schizofrenia.
Psichiatria e neuroscienze di tutto il mondo hanno accuratamente documentato tutto, da tempo. Allora perché i «prof», come li chiamano tra l’affettuoso e il derisorio gli allievi, non ne parlano? Molti perché non hanno mai letto niente di serio e aggiornato in materia; molti perché, come appunto denunciano i ragazzi, considerano «il fumo» un tabù: sociale, politico, di costume. Parlarne male è considerato «politicamente scorretto», antiquato, bigotto; tutte cose temute dai «prof» che cercano soprattutto l’alleanza e la complicità coi ragazzi. Soprattutto, però, li obbligherebbe a informarsi prima, uscendo dai sentieri battuti dei luoghi comuni. Allora ecco la proposta del preside Otello Cegolon, dirigente dell’Istituto magistrale Duca degli Abruzzi di Treviso. «I giovani non conoscono la portata reale del danno. Portiamo allora nelle classi i drogati cronici, che facciano vedere ai ragazzi cosa producono le sostanze che prendono con tanta leggerezza».
Il preside pensa ai drogati di roba pesante, che, certo, forniscono testimonianze sconvolgenti. Ma, come hanno spiegato i maggiori psichiatri italiani, a cominciare da Giovanni Battista Cassano, fin dal 2001, i normali reparti di psichiatria si sono ormai riempiti, da anni, anche di consumatori di cannabis e amfetamine che, oltre a fornire oltre l’80% dei futuri acquirenti di cocaina ed eroina, trasformano gli adolescenti, in Italia come altrove (ma peggio che altrove, perché non hanno informazioni sui rischi) in pazienti psichiatrici.
Mettiamo dunque questi nuovi folli in cattedra a raccontare la loro esperienza. Rimedieranno al vuoto informativo dei professori troppo conformisti nei confronti della leggenda rosa delle droghe «buone».
Il Mattino di Napoli 2 giugno 2008