martedì 10 giugno 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) NEL FIUME DELLA MACERATA-LORETO - Domande vere Risposte forti GIORGIO PAOLUCCI
2) DA QUELLA PIETRA SMOSSA OCCORRE RICOMINCIARE, di Marina Corradi
3) Malika Galliani annuncia la scelta di convertirsi al cristianesimo nel corso del pellegrinaggio mariano Macerata-Loreto
4) Avere una casa, condizione necessaria per un pieno sviluppo della libertà umana
5) Alla scuola della preghiera e della sofferenza contro la sfida educativa - Benedetto XVI inaugura il Convegno Ecclesiale della Diocesi di Roma

NEL FIUME DELLA MACERATA-LORETO - Domande vere Risposte forti
GIORGIO PAOLUCCI
Avvenire, 10.6.2008
Per affrontare l’emergenza educativa, necessarie esperienze che affascinano i giovani
Anche quest’anno la scuola si chiude con vari e fondati motivi di preoccupazione. Le cronache ci parlano della querelle sui corsi di recupero, della crescente frustrazione che serpeggia tra gli insegnanti, della moltiplicazione degli episodi di bullismo, della disaffezione allo studio. Se si dovesse individuare un termine che riassume in maniera sintetica questi segnali, vien da pensare alla parola 'lamento'. Eppure l’altra notte, tra gli ottantamila che camminavano nella campagna marchigiana durante il pellegrinaggio a piedi da Macerata a Loreto, c’erano migliaia di giovani che concludevano l’anno scolastico con un’altra parola: 'domanda'. La domanda sul senso della vita, dell’amicizia, dell’amore, dello studio. La domanda su di sé.
Cosa li aveva mossi fin lì, in quello che è diventato il pellegrinaggio a piedi più partecipato d’Italia?
L’esigenza di un momento di lealtà con se stessi. E pensando alle raffigurazioni mediatiche dell’universo giovanile che ci vengono propinate – a base di sballo, gusto dell’eccesso e della trasgressione – non si poteva restare indifferenti osservando quel fiume umano che ha pregato e cantato per 28 chilometri dietro una croce di legno. Marziani? Mosche bianche? Bravi ragazzi, da contrapporre a quell’altro 'popolo della notte' che nelle stesse ore invade strade e discoteche?
Tutt’altro: c’era di tutto, in quel fiume umano in cammino verso Loreto. C’erano giovani che amano divertirsi, cantare e ballare, che s’innamorano, trasgrediscono, esagerano. Ma quei giovani erano stati raggiunti da una proposta di bene, dall’abbraccio di chi li vuole felici, da chi li vuole sottrarre all’abbraccio di una libertà sregolata che molto promette e tutto toglie.
Non sfilavano per protestare, per opporsi a qualcosa o a qualcuno, per dire 'no'.
Camminavano alla ricerca di un tesoro, disposti – per trovarlo – a dire 'sì', un po’ rischiando e un po’ fidandosi di chi li aveva convocati, come si era fidata duemila anni fa una ragazza palestinese di Nazaret. E il loro cammino si è concluso all’alba tra le mura che conservano la memoria viva di quel 'sì' che ha cambiato la storia. Si è concluso tra le pietre dove si è consumato l’Avvenimento, come ricordano le parole scolpite sull’altare della Santa Casa: Hic verbum caro factum est, è qui che il Mistero si è reso incontrabile all’uomo. Ma perché questo accadesse, ci voleva il 'sì' di una ragazza di sedici anni, era necessario che la sua libertà si misurasse con una proposta vertiginosa come quella portata dall’angelo.
La drammaticità dell’emergenza educativa è ormai acclarata e condivisa. Ma non ci si può più accontentare delle diagnosi. Bisogna offrire ai giovani la possibilità di pronunciare il loro 'sì' a proposte affascinanti, capaci di muovere il cuore e la mente, di toglierli da quella «anestesia dello spirito» di cui parlava il cardinale Bagnasco nella prolusione alla recente assemblea dei vescovi italiani. Per gli adulti non c’è più tempo da perdere in analisi sociologiche e tentennamenti, che a loro volta rivelano la debolezza e lo smarrimento di chi dovrebbe indicare una direzione, testimoniare certezze anziché instillare il dubbio metodico.
È l’ora di proporre esperienze affascinanti, è il tempo dei costruttori. Tempo di osare proposte radicali, senza temere di chiedere troppo. I giovani vogliono sapori forti, non brodini tiepidi. Ci guardano, aspettano un segno, desiderano trovare il tesoro dell’esistenza. Chi l’ha incontrato, si faccia avanti. Scrive il poeta Rebora: «Verrà a farmi certo / del suo e mio tesoro, / verrà come ristoro / delle mie e sue pene, / verrà, forse già viene / il suo bisbiglio».


LA SFIDA DI TRASMETTERE CIÒ CHE DAVVERO VALE
DA QUELLA PIETRA SMOSSA OCCORRE RICOMINCIARE

Avvenire, 10.6.2008
MARINA CORRADI
La Roma di oggi e l’Occidente, non così diversi da quel mon­do prima della venuta di Cristo descritto da Paolo nella let­tera agli Efesini: un tempo «senza speranza e senza Dio nel mon­do ». Uno dei primi passi del discorso rivolto ieri da Benedetto XVI alla diocesi di Roma è una analisi netta di questo inizio di millennio, che non lascia spazio a pigri ottimismi, o buonismi di maniera. Già nella Spe salvi il Papa citava quella frase della lettera agli Efesini paragonando l’era precristiana alla moder­nità, ma forse ieri è stato ancora più esplicito. Roma, la città santa duemila anni dopo l’avvento di Cristo, e le nostre città occidentali costellate di millenarie cattedrali, non così lonta­ne – quanto a forma mentis dei loro cittadini – dall’evo anco­ra orfano di Cristo. Quel tempo straordinariamente descritto in un antico epitaffio con queste parole: «Dal nulla nel nulla quanto presto ricadiamo».
Dunque venti secoli dopo, in questa Europa che crebbe sugli scritti dei Padri della Chiesa, in cui la massima espressione dell’arte era ispirata e intrisa di cristianesimo, in cui la carità cristiana diede forma alla vita civile, alla assistenza dei malati, alla fami­glia, si assiste quasi a un salto a ritroso della storia, come se, nel­la concretezza quotidiana, altri dei avessero soppiantato Cristo. È il quadro, ancora, della Spe salvi: della «grande speranza» di­menticata, mentre frotte di modeste speranze vengono inse­guite da uomini educati ad accontentarsi di poco. Educati da pa­dri e madri che a loro volta hanno scordato l’origine autentica, il motore primo del mondo che hanno ereditato. Che con fati­ca e buona volontà tentano di educare i figli, e trasmettere 'va­lori', e spesso si accorgono stranamente di parlare come al nul­la, nel vuoto. Come è possibile – si chiedono in tanti – eppure siamo stati onesti, abbiamo lavorato, perché di tutto questo co­sì poco sembra riuscire a 'passare' ai nostri figli?
«Una grande e ineludibile sfida educativa», ha detto ieri Bene­detto XVI, tornando a indicare di tutte le nostre emergenze la più grave, eppure quella che meno vogliamo vedere. Ma non ha par­lato di 'valori', di quella sorta di buon galateo civico tanto spes­so astrattamente invocato. Ha saltato le buone e volenterose parole dei maestri laici, per andare alla radice di ciò che una generazione di padri non ha più saldo nelle mani, e dunque non può dare ai figli. Ciò che manca è la speranza, la straordi­naria inaudita speranza cristiana: quella che confida nel Dio della vita eterna, quindi in un destino infinito e buono, e non in un nulla spalancato a ingoiarci. Dentro questa speranza, co­me metabolizzata nelle ossa fino a cinquant’anni fa dal popo­lo cristiano, si crescevano i figli in un altro modo. Era una spe­ranza più respirata che appresa: in casa, a tavola, nella faccia di madri e padri. Era la percezione che l’uomo non era – co­me avrebbe detto poi Sartre – dando il marchio al Novecento, «una passione inutile».
La speranza, ha detto il Papa semplicemente, è «Cristo risorto dai morti». Resurrezione senza la quale, come scrisse Paolo, noi cristiani saremmo «i più infelici tra gli uomini». Resurrezione che ha introdotto – è l’espressione del Papa – una «mutazione» nella storia. Tutto è iniziato da quella pietra di sepolcro smossa. Da quello occorre ripartire, a Roma e nelle nostre mille città. Su quella pietra i cristiani cambiarono il mondo. Da quella pietra occorre ricominciare, per rinascere.


Malika Galliani annuncia la scelta di convertirsi al cristianesimo nel corso del pellegrinaggio mariano Macerata-Loreto
Dal sito www.magdiallam.it
Verso mezzanotte la moglie del vice presidente del Milan, di origine marocchina e musulmana, sorprende i 65 mila pellegrini: “Per la prima volta lo dico davanti a tutti. Voglio condividere con voi la mia scelta: sto facendo il mio cammino verso la conversione al cristianesimo”. Da cristiana si chiamerà Maria Maddalena
autore: Magdi Cristiano Allam (Corriere della Sera,9-6-08)
“Per la prima volta lo dico davanti a tutti. Voglio condividere con voi la mia scelta: sto facendo il mio cammino verso la conversione al cristianesimo”. Era circa la mezzanotte della lunga marcia del pellegrinaggio mariano Macerata-Loreto, iniziata alle 22 di sabato scorso allo stadio Helvia Recina. Ad annunciare la sua conversione dall’islam al cattolicesimo è stata Malika El Hazzazi, moglie del vice-presidente del Milan Adriano Galliani, nata in una famiglia marocchina musulmana.
Dalla testa del corteo di 65 mila fedeli che hanno percorso a piedi i 27 chilometri necessari per raggiungere, alle 6,30 di domenica la Basilica del Santuario di Loreto, monsignor Giancarlo Vecerrica, vescovo di Fabriano-Matelica e ideatore del pellegrinaggio, aveva dato a Malika il microfono per diffondere una sua testimonianza. Lei era emozionatissima: “Da piccola mi facevo chiamare Maria perché ero affezionata alla Vergine. Ringrazio il Signore, ringrazio Gesù, ringrazio la Madonna per avermi offerto l’opportunità di partecipare a questo pellegrinaggio. Sono arrivata in Italia a 20 anni ed ora ne ho 35. Ho fatto tante cose però sento ancora dentro di me un’insoddisfazione. Ultimamente, grazie alla mia amica Luciana Basilica che mi ha aiutato ad avere tanta fede, ho deciso di convertirmi”.
Per alcuni momenti è calato il più assoluto silenzio. Poi è esploso un applauso corale dell’insieme del corteo. Quindi Malika ha ricevuto l’abbraccio del vescovo Vecerrica, di Ermanno Calzolaio, presidente del Comitato organizzatore, di Rachida Kharraz, una piccola imprenditrice di origine marocchina, anche lei musulmana, delle sue amiche Luciana ed Anne, di tanti sconosciuti che per lei da quel momento erano diventati fratelli nella fede.
“Non sono riuscita a trattenermi”, mi ha confidato Malika che da cristiana assumerà il nome di Maria Maddalena, “volevo condividere la mia scelta religiosa, per me è una gioia immensa, perché dovrei avere paura?”. Paura? Non mi è sembrato affatto che ne avesse quando, nel pomeriggio di sabato, Malika, accompagnata da Dounia Ettaib, responsabile dell’Associazione delle donne marocchine a Milano, si era presentata all’Hotel Sporting dove soggiornavo ad Ancona esibendo un vistoso rosario con la croce al collo.
Nei mesi scorsi mi aveva confidato la sua scelta ed eravamo d’accordo che avremmo osservato la massima riservatezza fino alla vigilia dell’evento. “Se vai in giro con la croce al collo non puoi credere che la gente non comprenda”, le dissi. Lei annuì ma nei suoi occhi traspariva una profonda insofferenza: “Io sento di voler indossare la croce. Persino la mia famiglia d’origine mi chiama Maria e rispetta le mie scelte. Nessuno si permette di rimproverarmi quando a casa parlo di Gesù e della Madonna. Sono sempre stata istintiva e libera nei miei pensieri. Purtroppo ora in Occidente la libertà è a rischio”. Ma non avrei immaginato che poche ore dopo avrebbe annunciato pubblicamente la sua scelta di convertirsi.
Malika è rimasta affascinata e si è sentita rassicurata dall’imponente partecipazione di massa al pellegrinaggio che festeggia il suo trentennale: “Non ho mai visto una cosa così bella nella mia vita. Il fatto di girarmi e di osservare il corteo che non finiva mai, illuminato dalle fiaccole, colmo del sentimento di amore, ebbene è incredibile ciò che questo amore è capace di generare negli animi”. Ciò che la colpisce nella fede in Gesù è proprio l’amore: “La prima volta che sono entrata in una chiesa dopo la nascita di mia figlia Selene, sono rimasta estasiata dall’ascolto di canti e di preghiere inneggianti all’amore e all’aiuto del prossimo. Sono una persona estremamente sensibile. Amo le persone, la vita, le cose belle, l’arte. Mi piace condividere i miei sentimenti. Credo nell’amore e Gesù è amore”.
Il percorso spirituale che l’ha portata a scegliere il cattolicesimo si è sviluppato lentamente nel corso dei tredici anni trascorsi dalla nascita di Selene: “Sono tanti anni che vado in chiesa, conosco le preghiere, collaboro con i religiosi cristiani. Anche mio marito Adriano va a messa alla domenica tutte le volte che gli è possibile, la sera prima di coricarsi si fa il segno della croce e fa tanto del bene alla Chiesa”. Recentemente si è confidata con un sacerdote per l’avvio del percorso catecumenale: “Io non parto da zero perché conosco il cristianesimo. Spero di ricevere il battesimo entro quest’anno”.
Malika Maria Maddalena ora è una donna felice. E’ certa di aver abbracciato la religione della Verità e dell’Amore e di averlo fatto facendo prevalere il valore della Vita e della Libertà, rimuovendo definitivamente la paura. Alcuni fedeli ritengono che nella notte del pellegrinaggio mariano di Loreto è accaduto un miracolo. Certamente è lì che è scattata la scintilla che ha fatto maturare la decisione di vincere la paura e di condividere con la comunità cristiana la scelta di aderire liberamente alla fede in Gesù.
Magdi Cristiano Allam


Avere una casa, condizione necessaria per un pieno sviluppo della libertà umana
Luca Doninelli 10/06/2008
Autore(i): Luca Doninelli. Pubblicato il 10/06/2008 – IlSussidiario.net
Un uomo senza casa non può esistere. Non che non ce ne siano. Ma sono uomini offesi nella loro umanità. Un uomo senza casa è un uomo meno libero, costretto da una situazione a lui esterna a ridurre il raggio delle proprie possibilità.
La casa non è solo una tana, un rifugio, il segno della chiusura dell’uomo dentro un angusto perimetro. Al contrario, è la fucina, il laboratorio che forma l’uomo destinato a conquistare il mondo, il luogo dove hanno inizio le più grandi avventure.
Milano, nella sua splendida storia, ha sempre interpretato in modo originale ed efficace questo diritto primario, facendone un tratto fondamentale della propria personalità. Dare una casa a chi lavora, a chi ci aiuta a crescere, a chi dà il suo contributo per rendere più grande e bella la nostra città è sempre stato un tratto qualificante della cultura milanese: quella cultura tutta fondata sulla concretezza e sull’operatività e, al tempo stesso, sensibile e attenta come poche altre ai bisogni di tutti.
Per questo, a differenza di altre città, Milano si caratterizza, nella sua storia, come città dell’accoglienza, città adottiva per eccellenza: come dimostra la lunga fila di padri fondatori della città (a cominciare da Sant’Ambrogio, Leonardo e San Carlo) la cui origine non è milanese.
Il cittadino milanese ha sempre saputo queste cose. Oggi, però, sembra saperle meno di un tempo. Una vulgata tendenziosa si è impadronita dell’immagine che ci facciamo di questa città, che a giudicare dai giornali e dall’opinione corrente di molti sembra essersi trasformata in una città avida, diffidente, paurosa (“la sicurezza!, la sicurezza!”), a volte xenofoba.
Se questa è l’immagine che viene diffusa, noi sappiamo che essa non corrisponde al vero. Il sociologo Aldo Bonomi dice, giustamente, che la sofferenza di Milano sta nella difficoltà che i diversi “pezzi” di cui è fatta faticano a comunicare tra loro. La conseguenza è una città piena di esempi positivi, di opere sociali, di opere di carità, una città piena di generosità che è la vera immagine di Milano ma che resta per così dire umiliata da chi vuole che l’immagine sia un’altra.
In questi anni ho conosciuto da vicino l’opera di diversi costruttori, e ho capito quanto è facile uniformarsi al luogo comune che li vede come cinici e avidi e privi di riguardo per la città e i cittadini.
C’è stato e c’è, senza dubbio, chi ancora considera Milano come una piazza per il mercato immobiliare, ma c’è anche chi (e non sono pochi) si muove nella direzione opposta. Per capirlo è necessario andare a vedere, perché quello che ci piove addosso dal mondo dell’informazione è sempre altro.
Da anni dico, e con me lo dicono adesso in molti, che è necessario ricostruire il racconto di questa città. Bisogna far parlare l’esperienza, il lavoro, il coraggio, le situazioni di sofferenza. Bisogna far parlare i muri, le case che crescono, le vie che si rinnovano.
E raccontare significa stabilire nessi attivi, mostrare le implicazioni, i contatti, far diventare cultura quello che facciamo - dove per “cultura” non intendo innanzitutto un modo particolare di vedere le cose, ma un modo di mettere in relazione quello che facciamo con i problemi e le esigenze di tutti.
Questo è davvero necessario, altrimenti prevale la paura, e con la paura il potere di chi ha tutto l’interesse a mantenerla viva.


Alla scuola della preghiera e della sofferenza contro la sfida educativa - Benedetto XVI inaugura il Convegno Ecclesiale della Diocesi di Roma
di Mirko Testa
ROMA, martedì, 10 giugno 2008 (ZENIT.org).- La preghiera e la sofferenza sono i due strumenti che ci permettono di custodire e alimentare la speranza cristiana e di accedere al suo mistero, ha detto lunedì sera Benedetto XVI in una Basilica di San Giovanni in Laterano gremita di gente.
"Gesù è risorto: educare alla speranza nella preghiera, nell’azione, nella sofferenza" è il tema del Convegno Ecclesiale Diocesano di quest'anno inaugurato dal Papa nella Cattedrale di Roma e che proseguirà fino a giovedì prossimo, 12 giugno, prima nelle Prefetture e poi nuovamente in Basilica.
Dal primo incontro, avvenuto il 6 giugno 2005, Benedetto XVI è sempre stato presente all'apertura di questo appuntamento in cui le diverse forze vitali presenti nella comunità cristiana si confrontano per definire il cammino pastorale e gli obiettivi per l'anno successivo.
Molte le persone presenti per l'occasione e che parteciperanno ai lavori dei prossimi giorni: si parla di più di 4.000 iscritti.
L’orizzonte di riferimento delle riflessioni è inquadrato da una parte nei risultati del Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona, e dall'altra negli interventi del Papa sull’“emergenza educativa”, a partire dalla Lettera indirizzata alla diocesi di Roma il 21 gennaio scorso, e nella sua Lettera enciclica “Spe salvi”, di cui per l'inaugurazione sono stati letti alcuni brani.
Infatti, dopo aver trattato per tre anni il tema della famiglia, negli ultimi due anni l'impegno pastorale è stato incentrato sull'educazione delle nuove generazioni.
Nell'indirizzo di saluto al Papa è stato affidato al Cardinale Camillo Ruini, Vicario di Sua Santità per la diocesi di Roma, il quale ha sottolineato che gli operatori impegnati nella pastorale e nella formazione “avvertono il peso delle molte false speranze, che ostacolano la crescita di personalità robuste e di coscienze cristalline”.
Il Cardinale ha quindi espresso la ferma convizione che “soltanto la speranza nel Dio che ha resuscitato Gesù dai morti possa dare pieno senso e certezza alla nostra vita persona e sociale”, e quindi animare “una autentica opera educativa”.
Nel prendere la parola, Benedetto XVI ha precisato ulteriormente che la risurrezione di Cristo è “il fondamento indefettibile su cui poggia la nostra fede e la nostra speranza”, “un fatto storico” di cui gli apostoli sono stati testimoni diretti, anche a costo della propria vita.
Nel tracciare un quadro della situazione odierna, il Papa ha parlato di come nel corso dei secoli “equivoci e false attrattive” abbiano “ristretto e indebolito il respiro della nostra speranza” e di come oggi sia “diffusa la sensazione che per l'Italia come per l'Europa gli anni migliori siano ormai alle spalle e che un destino di precarietà ed incertezza attenda le nuove generazioni”.
Inoltre, ha aggiunto, “le aspettative di grandi novità e miglioramenti si concentrano sulle scienze e le tecnologie, quindi sulle forze e le scoperte dell'uomo e che solo da esse possa venire la soluzione dei problemi”.
Da qui l'affermazione centrale del Santo Padre che “sarebbe insensato negare o minimizzare il contributo della scienza e delle tecnologie alla trasformazione del mondo e delle concrete condizioni di vita”, ma che “altrettanto miope sarebbe ignorare che i loro progressi mettono nelle mani dell'uomo anche abissali possibilità di male”.
Tuttavia, “non sono la scienza e le tecnologie a poter dare un senso alla nostra vita, e a poterci insegnare a distinguere il bene dal male”, così come “non è la scienza, ma l'amore a redimere l'uomo”, ha ammonito il Papa citando un passaggio dell'Enciclica “Spe salvi”.
Il Papa ha quindi detto di poter rintracciare la causa della “debolezza della speranza” nella tendenza della nostra civiltà a “mettere Dio tra parentesi”, a “ritenere che di Dio non si possa conoscere nulla o persino a negare la sua esistenza”.
Come obiettivo del prossimo anno pastorale, Benedetto XVI ha poi consegnato alla sua diocesi quello di riflettere su “come educarci concretamente alla speranza”, indicando “alcuni luoghi del suo pratico apprendimento ed effettivo esercizio”, tra cui la preghiera, “con la quale ci apriamo e ci rivolgiamo a Colui che è l'origine e il fondamento della notra speranza”.
“La persona che prega – ha detto – non è mai totalmente sola, perché Dio è l'unico che in ogni situazione e in qualunque prova è sempre in grado di ascoltarla e di aiutarla”.
Il giusto modo di pregare, ha proseguito, è un “processo di purificazione interiore”. Ecco quindi l'importanza di “esporci allo sguardo di Dio”, in modo da far cadere “le menzogne, le ipocrisie”, ed entrare in una “purificazione che ci rinnova, ci libera e ci apre realmente non solo a Dio ma anche ai fratelli”, ha poi detto a braccio per meglio illustrare i concetti esposti.
“La preghiera è quindi l’opposto di una fuga dalle nostre responsabilità verso il prossimo”, spingendoci a diventare “ministri delle speranza per gli altri” e ad “imparare a vivere”.
“Apprendere l'arte della preghiera”, ha ricordato Benedetto XVI, è “un compito essenziale” e per questo “le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche scuole di preghiera”, come ricordava Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Novo Millennio Ineunte.
“La consapevoleza acuta e diffusa dei mali e problemi che Roma porta dentro di sé” stimola i cristiani a dare il proprio “specifico contributo a cominciare da quello snodo deciviso che è l'educazione e la formazione della persona”, ha continuato il Papa.
Allo stesso modo urgente è anche la risposta da dare ai “problemi concreti” della città, che chiama la comunità ecclesiale a operare per “una cultura e un’organizzazione sociale più favorevole alla famiglia e all’accoglienza della vita, oltre che alla valorizzazione delle persone anziane”.
Indispensabile, quindi, porre grande attenzione a “bisogni primari” quali sono “il lavoro e la casa, soprattutto per i giovani”, nonché “una città più sicura e vivibile [...] per tutti in particolare per i più poveri” e nella quale “non sia escluso l’immigrato che viene tra noi con l'intenzione di trovare uno spazio di vita nel rispetto delle nostre leggi”.
In seguito, Benedetto XVI ha sottolineato che “la speranza cristiana vive anche della sofferenza, anzi che proprio la sofferenza educa e fortifica a titolo speciale la nostra speranza”.
“Certo, dobbiamo fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza”, ha precisato, “non possiamo però eliminare del tutto la sofferenza dal mondo, perché non è in nostro potere prosciugare le sue fonti”.
“La grande verità cristiana” conferma in realtà che “non la fuga davanti al dolore guarisce l'uomo ma la capacità di accettare la tribolazione e di maturare in essa trovandone il senso mediante l'unione a Cristo”.
Da qui la raccomandazione del Papa: “educhiamoci ogni giorno alla speranza che matura nella sofferenza, [...] in primo luogo quando siamo personalmente colpiti da una grave malattia” ma anche condividendo “la vicinanza quotidiana alla sofferenza sia dei nostri vicini e familiari, sia di ogni persona che è il nostro prossimo, perché ci accostiamo a lei con atteggiamento di amore”.