Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI: chi ama Dio non ha paura - Parole introduttive alla preghiera dell'Angelus
2) Omelia del cardinale vicario di Roma Camillo Ruini nella Messa per il 25º della sua Ordinazione episcopale
3) «La bandiera arcobaleno è New Age non va più esposta nelle chiese»
4) Monsignor Negri e la politica
5) “Donna e post-aborto: il dramma, l’accoglienza, il perdono”
6) Trattato di Lisbona: l'Europa dimentica i cittadini se affretta la ratifica, di Mario Mauro
7) La storia di Kevin: dalla scuola ha imparato che la vita ha un valore
Benedetto XVI: chi ama Dio non ha paura - Parole introduttive alla preghiera dell'Angelus
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 8 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato questa domenica da Benedetto XVI in occasione della recita della preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.
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Cari fratelli e sorelle,
nel Vangelo di questa domenica troviamo due inviti di Gesù: da una parte "non temete gli uomini" e dall’altra "temete" Dio (cfr Mt 10,26.28). Siamo così stimolati a riflettere sulla differenza che esiste tra le paure umane e il timore di Dio. La paura è una dimensione naturale della vita. Fin da piccoli si sperimentano forme di paura che si rivelano poi immaginarie e scompaiono; altre successivamente ne emergono, che hanno fondamenti precisi nella realtà: queste devono essere affrontate e superate con l’impegno umano e con la fiducia in Dio. Ma vi è poi, oggi soprattutto, una forma di paura più profonda, di tipo esistenziale, che sconfina a volte nell’angoscia: essa nasce da un senso di vuoto, legato a una certa cultura permeata da diffuso nichilismo teorico e pratico.
Di fronte all’ampio e diversificato panorama delle paure umane, la Parola di Dio è chiara: chi "teme" Dio "non ha paura". Il timore di Dio, che le Scritture definiscono come "il principio della vera sapienza", coincide con la fede in Lui, con il sacro rispetto per la sua autorità sulla vita e sul mondo. Essere "senza timor di Dio" equivale a mettersi al suo posto, a sentirsi padroni del bene e del male, della vita e della morte. Invece chi teme Dio avverte in sé la sicurezza che ha il bambino in braccio a sua madre (cfr Sal 130,2): chi teme Dio è tranquillo anche in mezzo alle tempeste, perché Dio, come Gesù ci ha rivelato, è Padre pieno di misericordia e di bontà. Chi lo ama non ha paura: "Nell’amore non c’è timore – scrive l’apostolo Giovanni – al contrario, l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore" (1 Gv 4,18). Il credente dunque non si spaventa dinanzi a nulla, perché sa di essere nelle mani di Dio, sa che il male e l’irrazionale non hanno l’ultima parola, ma unico Signore del mondo e della vita è Cristo, il Verbo di Dio incarnato, che ci ha amati sino a sacrificare se stesso, morendo sulla croce per la nostra salvezza.
Più cresciamo in questa intimità con Dio, impregnata di amore, più facilmente vinciamo ogni forma di paura. Nel brano evangelico odierno Gesù ripete più volte l’esortazione a non avere paura. Ci rassicura come fece con gli Apostoli, come fece con san Paolo apparendogli in visione una notte, in un momento particolarmente difficile della sua predicazione: "Non aver paura – gli disse - perchè io sono con te" (At 18,9). Forte della presenza di Cristo e confortato dal suo amore, non temette nemmeno il martirio l’Apostolo delle genti, del quale ci apprestiamo a celebrare il bimillenario della nascita, con uno speciale anno giubilare. Possa questo grande evento spirituale e pastorale suscitare anche in noi una rinnovata fiducia in Gesù Cristo che ci chiama ad annunciare e testimoniare il suo Vangelo, senza nulla temere. Vi invito pertanto, cari fratelli e sorelle, a prepararvi a celebrare con fede l’Anno Paolino che, a Dio piacendo, aprirò solennemente sabato prossimo, alle ore 18, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, con la liturgia dei Primi Vespri della Solennità dei Santi Pietro e Paolo. Affidiamo sin d’ora questa grande iniziativa ecclesiale all’intercessione di San Paolo e di Maria Santissima, Regina degli Apostoli e Madre di Cristo, sorgente della nostra gioia e della nostra pace.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Con viva emozione ho appreso stamane del naufragio, nell’arcipelago delle Filippine, di un traghetto travolto dal tifone Fengshen, che ha imperversato in quella zona. Mentre assicuro la mia vicinanza spirituale alle popolazioni delle isole colpite dal tifone, elevo una speciale preghiera al Signore per le vittime di questa nuova tragedia del mare, in cui pare siano coinvolti anche numerosi bambini.
Oggi a Beirut, capitale del Libano, viene proclamato beato Yaaqub da Ghazir Haddad, al secolo Khalil, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini e fondatore della Congregazione delle Suore Francescane della Croce del Libano. Nell’esprimere le mie felicitazioni alle sue figlie spirituali, auspico con tutto il cuore che l’intercessione del beato Abuna Yaaqub, unita a quella dei Santi libanesi, ottenga a quell’amato e martoriato Paese, che troppo ha sofferto, di progredire finalmente verso una stabile pace.
Saluto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli che sono venuti in bicicletta da Offanengo, diocesi di Crema. A tutti auguro una buona domenica.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Omelia del cardinale vicario di Roma Camillo Ruini nella Messa per il 25º della sua Ordinazione episcopale
L’omelia del cardinale Camillo Ruini nella Messa per il venticinquesimo del suo episcopato – la sera del 21 giugno nella basilica di San Giovanni in Laterano – è stato anche il suo addio alla carica di vicario del Papa per la diocesi di Roma. Per le letture della messa Ruini si è affidato a quelle presenti nel messale del giorno. E si è trovato quindi a commentare il passo del Vangelo in cui Gesù dice ai suoi discepoli: “Non temete gli uomini, […] non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto Colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna. […] Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti”.
Signori Cardinali,
cari Fratelli nell’episcopato,
Onorevoli Autorità,
carissimi sacerdoti, diaconi, seminaristi, carissime religiose, e voi tutti fratelli e sorelle amati nel Signore, questa S. Messa di ringraziamento per i 25 anni del mio episcopato, nella quale celebrano il loro Giubileo anche molti cari fratelli nel sacerdozio, giunge non molto tempo dopo quella celebrata in questa Basilica il 7 dicembre 2004, per il mio 50° di sacerdozio. Cercherò dunque di non ripetere ciò che ho detto in quella occasione e mi soffermerò piuttosto sui 17 anni e mezzo del mio ministero di Vicario del Santo Padre per la Diocesi di Roma.
Ho ricevuto un dono grandissimo da Giovanni Paolo II quando, il 17 gennaio 1991, egli mi ha nominato suo Vicario. Per esprimere questo dono non c’è di meglio che rileggere un brano della Lettera che egli mi scrisse in quella circostanza: “ho deciso di affidarLe… ciò che ho di più mio e di più caro: Roma apostolica, coi suoi incomparabili tesori di spiritualità cristiana e di tradizione cattolica; con le sue forze vive di sacerdoti, di comunità religiose, di laici impegnati; ma anche con le sue innumerevoli esperienze umane, con le sue certezze e le sue inquietudini, con le sue realizzazioni e le sue attese”. Questo dono grandissimo mi è stato confermato e rinnovato da Benedetto XVI, che oggi con straordinaria bontà ha voluto aggiungervi l’ulteriore dono della Lettera di cui è stata data lettura. All’uno e all’altro Successore di Pietro va dunque la mia personale totale gratitudine.
Ma in tutti questi anni un dono in qualche modo altrettanto grande l’ho ricevuto da Roma stessa, Roma Diocesi e Roma Città: questo dono l’ho compreso un poco per volta e sempre di più. Terminato il mio servizio di Cardinale Vicario confido di gustarlo e assaporarlo ancora meglio, ritornandovi negli anni che mi rimangono con la memoria e con la preghiera.
Come letture di questa S. Messa ho preferito non scegliere da me ma rimanere fedele al corso dell’anno liturgico. Mi trovo così a commentare un testo del Vangelo al quale non avrei pensato, ma che darà l’impronta a questa omelia. Dice Gesù ai suoi discepoli: “Non temete gli uomini,… non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto Colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna”. Pertanto, “Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti”. Un commento esistenziale a questo testo, da parte di un Vescovo, lo ha offerto Giovanni Paolo II nel suo libro Alzatevi, Andiamo!, nel capitolo intitolato “Dio e il coraggio”. Egli cita le parole pronunciate in tempi difficili dal Cardinale Primate di Polonia Stefan Wyszyński: “Per un Vescovo la mancanza di fortezza è l’inizio della sconfitta. Può continuare a essere apostolo? Per un apostolo, infatti, è essenziale la testimonianza resa alla Verità! E questo esige sempre la fortezza”, e ancora “La più grande mancanza dell’apostolo è la paura. A destare la paura è la mancanza di fiducia nella potenza del Maestro; è questa che opprime il cuore e stringe la gola”.
Personalmente non ho certo vissuto esperienze drammatiche come quelle dei Cardinali Stefan Wyszyński e Karol Wojtyła; tanto meno come quella del Profeta Geremia che abbiamo ascoltato nella prima lettura: “Sentivo le insinuazioni di molti: «Terrore all’intorno! Denunciatelo e lo denunceremo»”. Ogni Vescovo tuttavia, nel suo tempo e nelle sue situazioni di vita e di ministero, ha bisogno di almeno un poco di fortezza e anch’io ne ho avuto bisogno, a Reggio Emilia e poi qui a Roma. Mi permetto di soffermarmi su questo aspetto, del quale di solito si parla poco. Quando poi se ne parla si pensa subito alla fortezza o al coraggio rivolto per così dire “verso l’esterno”, soprattutto verso la pressione esercitata dalla “opinione pubblica”, così come questa è interpretata, e non di rado “costruita”, dai mezzi di comunicazione. È indispensabile, per un Vescovo, sottrarsi alla sudditanza nei confronti di questo genere di pressione e a tal fine è importante ricordare che la verità che ci è stata donata e affidata, quella verità che in ultima analisi è Cristo stesso, conta e “pesa” molto di più di qualsiasi opinione. In realtà, per me questo è stato, tutto sommato, un problema abbastanza lieve: come ho detto scherzosamente parlando ad alcuni Confratelli Vescovi quando pensavo che non ci fossero altri ascoltatori, “le pallottole di carta non fanno molta paura”. Difficile mi è stato, piuttosto, riuscire a congiungere, anche nel modo di esprimermi e di comunicare, la fermezza con l’amore.
L’esercizio della fortezza, da parte di un Vescovo, è comunque più spesso necessario, e anche più impegnativo, nel “governo” quotidiano della Diocesi, dove non si ha a che fare solo con le opinioni, ma con le persone. Qui le certezze sono più difficili, mentre più forte è il bisogno di rendere tangibile che quello che facciamo e decidiamo lo facciamo e decidiamo per amore, ricercando cioè il bene sia della comunità sia delle persone interessate. È questo, forse, il maggior peso quotidiano di un Vescovo, non dico la sua croce più grande – questa infatti sono i suoi personali peccati – ma la più “immediata”.
Un ultimo pensiero riguardo al coraggio del Vescovo ritorna alla fortezza nell’annuncio e nella testimonianza pubblica della fede. Sono stato assai aiutato e stimolato sotto questo profilo dal mio compito di Vicario del Santo Padre, in concreto dall’esempio che ho ricevuto da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI: in molte occasioni ho percepito quasi fisicamente che sarebbe stato ingiusto lasciarli soli. Già prima, quando non ero ancora Vescovo, ho avuto la stessa sensazione nei confronti di Paolo VI. Essere a fianco del Papa nell’annuncio e testimonianza della fede, specialmente quando questi sono scomodi e richiedono coraggio, è in realtà il compito di ogni Vescovo, un aspetto essenziale della collegialità episcopale. Mi permetto di dire che se tutto il Corpo episcopale fosse stato forte ed esplicito sotto questo profilo, varie difficoltà, nella Chiesa, sarebbero state meno gravi e che anche per il futuro questa può essere una via efficace per ridimensionarle e superarle.
Il ministero del Vescovo chiaramente non è fatto solo di coraggio: in concreto è molte cose, ma anzitutto è “amoris officium” (S. Agostino, In Evangelium Iohannis tractatus, 123,5), compito e dovere di amore. Questa sera, piuttosto che del poco amore che ho dato, vorrei parlare del grande amore che ho ricevuto dalla Chiesa e dalla Città di Roma, in concreto da tante persone da me conosciute o anche che direttamente non conoscevo. È questo un aiuto immenso, un immenso sostegno, che dobbiamo saper vedere. È più facile, infatti, fermarsi alle ostilità, o semplicemente alle tensioni, che non possono mancare, e non vedere abbastanza tutto il bene di cui un Vescovo è fatto oggetto, molto al di là delle proprie doti e dei meriti personali, semplicemente per l’ufficio che ricopre: un ufficio che, direi, “attira l’amore”. Questo amore si esprime anzitutto nella preghiera: voglio dire un grandissimo grazie per tutta la preghiera che mi ha accompagnato e sostenuto in questi anni! Ma si esprime anche nella solidarietà e nella collaborazione: ne ho avuta tanta, da molte parti.
Prima che per la collaborazione, devo però ringraziare di tutto cuore per il dono della grande fiducia che mi è stata accordata da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI: senza una tale fiducia il compito del Cardinale Vicario sarebbe davvero arduo e ben poco fruttuoso. Non mi è possibile nominare personalmente tutti coloro con i quali ho collaborato e ai quali sono grato. Mi limito, nella Diocesi di Roma, ai Vicegerenti Mons. Remigio Ragonesi, che ora è nella Casa del Padre, Mons. Cesare Nosiglia e Mons. Luigi Moretti, che porta adesso il peso di questo ufficio. Con i Vicegerenti ringrazio tutti i Vescovi Ausiliari, i miei due Segretari, Don Mauro e ora Don Nicola, e tutto lo staff della mia segreteria personale. Ringrazio Pierina, che rimarrà con me, e tutte le persone che in questi anni, insieme a lei, hanno reso confortevole la mia vita. Ringrazio di tutto cuore i sacerdoti, le religiose, i laici del Vicariato, i parroci, i vicari parrocchiali e tutti i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i laici impegnati nella pastorale e le loro molteplici aggregazioni. Un grazie speciale ai rettori dei seminari, ai loro collaboratori e ai seminaristi, che ho sempre considerato dei giovani amici.
Questa solidarietà e collaborazione è la comunione attuata in concreto nella Chiesa diocesana ed è una risorsa fondamentale della missione: alla base di essa c’è lo Spirito Santo, che vivifica e guida la Chiesa. Per parte mia ho fatto poco, certamente non abbastanza, per meritare la solidarietà che ho ricevuto, e ne chiedo scusa. Il contributo che ho cercato di dare è consistito soprattutto nel senso del dovere e quindi nell’assiduità al lavoro e nell’assumermi le mie responsabilità, sforzandomi di essere sincero e leale.
Devo però allargare il discorso, per dire un grazie grande e cordiale alle tante persone, cattolici e “laici”, nelle quali ho trovato amicizia, vicinanza e collaborazione anche al di fuori delle strutture ecclesiali. Per un Vescovo, come per ogni sacerdote, questi rapporti sono preziosi e doverosi, fanno parte a pieno titolo della nostra missione. Mi rammarico di aver avuto poco tempo per coltivarli e, se il Signore vorrà, vi dedicherò più tempo nel futuro.
Il rammarico più grande riguarda però la mia debolezza e mediocrità in quello che è il primo compito di ogni Vescovo: la preghiera. Quante volte ho ricevuto dalla gente richieste di preghiera, nella giusta convinzione e certezza che il Vescovo è anzitutto uomo di Dio e quindi uomo di preghiera. Specialmente di questa debolezza chiedo perdono e il mio primo proposito per il futuro è quello di porvi, con la grazia di Dio, in qualche modo rimedio.
La seconda lettura di questa S. Messa, dalla Lettera dell’Apostolo Paolo ai cristiani di Roma, è il testo “classico” riguardo al peccato originale presente in ciascuno di noi. Questo brano ci porta al cuore della storia della salvezza, ricordandoci che “come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato”, ma aggiungendo subito che “se… per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini”. Vorrei insistere su questo “molto di più” e su questo “in abbondanza”: essi, nel mistero dell’economia di salvezza, valgono sempre e valgono anche oggi. Il sacerdote, il Vescovo, il cristiano avverte giustamente il “regno del peccato” (Rom 6), avverte oggi la radicalità della sfida che è posta alla fede cristiana nei comportamenti e nel pensiero. Ne scaturisce facilmente la tentazione della sfiducia: questo nel nostro tempo è forse il pericolo più grande per la missione del Vescovo e della Chiesa. La Diocesi di Roma, e in essa il clero romano, per grazia di Dio mediamente giovane e ben preparato, le tante presenze vive religiose e laicali, devono sconfiggere questa tentazione, che è contraria alla speranza teologale, alla speranza cioè fondata sulla forza dell’amore che Dio ha per la famiglia umana.
La continuità più profonda tra i due Pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sta forse proprio nella fiducia che questa tentazione e questa sfida radicale possono, anche storicamente, essere superate, anzitutto per la potenza salvifica di Dio, che è reale e storicamente incarnata: è questo il senso del messaggio dell’Enciclica Spe salvi. Quando sono ritornato a Roma dopo i lunghi anni del mio ministero a Reggio Emilia, portavo già dentro di me una simile convinzione, ma certamente il contatto con i due Papi mi ha molto fortificato e aiutato a capirla di più e a vederla come “storia in atto”, storia che si realizza nelle vicende quotidiane.
Il piccolo testamento che vorrei lasciare alla Diocesi di Roma è dunque questo: guardiamo alla grande sfida che oggi dobbiamo affrontare, rendiamocene conto, non nascondiamoci davanti a lei, cerchiamo di coglierla nella sua forza, spessore, pervasività, capacità di penetrazione, quella capacità e quell’attrattiva che essa esercita specialmente verso le nuove generazioni. Ma guardiamola con occhio disincantato e a sua volta penetrante, con l’occhio della fede, che è necessariamente diverso e anche più penetrante rispetto a uno sguardo soltanto umano. Con la luce della fede possiamo intuire infatti la realtà profonda dell’uomo, in cui Dio è presente per attirare a sé ed orientare a Cristo le persone e la storia. Oso dire che Dio continua ad attirare a sé in modo speciale questa nostra Chiesa e Città di Roma, come tante volte in questi anni ho potuto toccare con mano. Nel mio piccolo, se il Signore lo permetterà, vorrei continuare a lavorare, in una forma diversa, perché i romani e gli italiani di oggi sappiano guardare al mondo e alla vita con l’occhio della fede, e così non si affliggano “come gli altri che non hanno speranza” (1 Tess 4,13). Ma, molto al di là di quello che ciascuno di noi può fare, è questa la preghiera che ora insieme rivolgiamo al Dio amico dell’uomo.
Avvenire 22 giugno 2008
«La bandiera arcobaleno è New Age non va più esposta nelle chiese»
L’agenzia vaticana «Fides» spiega le origini del vessillo del movimento pacifista: «È legato alla teosofia e al relativismo. Tornate alla croce»...
di Andrea Tornielli
Perché preti e laici cattolici usano la bandiera arcobaleno come simbolo di pace invece della croce? Non sanno che quella bandiera è collegata alla teosofia e al New Age? È netto e documentato il giudizio contenuto in un articolo pubblicato da «Fides», l’agenzia della Congregazione vaticana per l’evangelizzazione dei popoli diretta da Luca De Mata, nei confronti del vessillo, simbolo del movimento pacifista, appeso anche nelle chiese e da qualche prete pure sull’altare.
«Come mai uomini di Chiesa, laici o chierici che siano - si chiede “Fides” - hanno per tutti questi anni ostentato la bandiera arcobaleno e non la croce, come simbolo di pace? Sarebbe interessante interrogare uno per uno coloro che hanno affisso sugli altari, ingressi e campanili delle chiese lo stendardo arcobaleno». L’agenzia vaticana ipotizza qualche risposta in proposito, vale a dire «la lunga litania degli eventi in cui la Chiesa avrebbe brandito la croce come simbolo di sopraffazione», dalle Crociate alla caccia alle streghe ai roghi di eretici. «Fides» a questo proposito ricorda però che non è il simbolo della croce in quanto tale «ad aver bisogno di essere emendato», quanto piuttosto «gli atteggiamenti degli uomini che, guardando a tale segno, possono ritrovare motivo di conversione». Poi rilancia: «Questi uomini e donne di chiesa sanno qual è l’origine della bandiera della pace? Molti probabilmente no. Altri, pur sapendo, non se ne preoccupano più di tanto».
Le origini della bandiera della pace vanno ricercate, spiega l’agenzia, «nelle teorie teosofiche nate alla fine dell’800. La teosofia (letteralmente “Conoscenza di Dio”) è quel sistema di pensiero che tende alla conoscenza intuitiva del divino». Da sempre presente nella cultura indiana, ha preso la sua moderna versione dalla Società Teosofica, «un movimento mistico, esoterico, spirituale e gnostico fondato nel 1875 da Helena Petrovna Blavatsky, più nota come Madame Blavatsky». Il pensiero della corrente rappresentata dalla bandiera arcobaleno si basa sullo «gnosticismo», sulla «reincarnazione e trasmigrazione dell’anima», sull’esistenza di «maestri segreti» e riconduce al New Age, mentalità che predica la libertà più assoluta e il relativismo, l’idea dell’«uomo divino», il rifiuto della nozione di peccato.
«Fides» spiega che esistono diverse versioni di questa bandiera, una delle quali è riconosciuta ad Aldo Capitini, fondatore del Movimento nonviolento, «che nel 1961 la usò per aprire la prima marcia per la pace Perugia-Assisi», mentre un’altra «segnala che la sua origine risale al racconto biblico dell’Arca di Noè» e dunque sarebbe un simbolo cristiano a tutti gli effetti. In realtà - scrive l’agenzia dopo aver ricordato che è anche il simbolo dei movimenti di liberazione omosessuali - la bandiera rappresenta un’idea secondo la quale «per esempio è possibile mettere sullo stesso piano partiti politici o gruppi culturali che rivendicano, legittimamente, la difesa della dignità della donna, e gruppi, come è accaduto recentemente in Europa, che rivendicano la depenalizzazione dei reati di pedofilia. Si tratta ovviamente di aberrazioni possibili, solo all’interno di una mentalità relativistica come quella che caratterizza le nostre società occidentali».
La bandiera, conclude «Fides», è un simbolo sincretistico, che propone l’unità New Age nella sintesi delle religioni. Introdurla nelle chiese e nelle celebrazioni è da considerarsi «un abuso».
Il Giornale n. 147 del 2008-06-21
Monsignor Negri e la politica
da Tempi.it, 17-6-2008
Benedetto XVI che esprime «gioia per il nuovo clima politico in Italia». Berlusconi che esce dall’incontro del 6 giugno col Pontefice e sprona i suoi collaboratori a «lavorare con più entusiasmo». Le reciproche cordialità, l’impegno ad introdurre il quoziente familiare nel Dpef, la sintonia sul valore della sacralità della vita, i rispettivi comunicati ufficiali da cui traspare una cordiale comunanza di intenti. Tutti segni, secondo monsignor Luigi Negri vescovo di San Marino-Montefeltro, che «l’incontro del 6 giugno tra il Santo Padre e il presidente del Consiglio non è stato solo un appuntamento formale».
Perché è stato un incontro interessante?
Perché è un punto di partenza. Si apre una prospettiva di lavoro per i cattolici italiani, abbiano loro maggiori simpatie per la destra o la sinistra non importa, importa che incalzino i nostri rappresentanti affinché questi valori che sono stati proclamati diventino politica.
A dire il vero c’è da tempo in Italia un partito che ha fatto dei valori cristiani la propria bandiera…
E però si è visto che fine ha fatto nel segreto dell’urna.In che senso?
Non basta proclamarli, i valori, per fare una politica "cattolica".
E che cosa bisogna fare?
Occorre tradurre in politica la dottrina sociale della Chiesa. Cioè far sì che quelli che il Santo Padre ha definito come valori inderogabili e che riguardano la vita, la famiglia, l’educazione e che sono valori al contempo laici e cattolici, passino da una rivendicazione di ordine culturale a una attuazione politica, pratica, reale.
Il premier ha dichiarato che «l’attività del governo non può che compiacere il Papa e la sua Chiesa». Monsignor Negri, sgomberiamo immediatamente il campo da un equivoco che si sente sempre più spesso ribadire quando il Cavaliere spende parole d’elogio per la Chiesa. Berlusconi non può parlare perché è divorziato.
Un uomo di Chiesa, quale io sono, deve saper distinguere tra la vita personale e quella pubblica. Posso avere un giudizio non positivo su certe situazioni, su certi comportamenti che riguardano gli esponenti della nostra classe politica, ma far diventare questa valutazione un giudizio politico mi pare un’operazione di un moralismo ottuso.
Moralismo ottuso?
Sì, è l’atteggiamento tipico di chi, non avendo argomenti, si rifugia nella condanna di vicende personali.
E allora in base a quali criteri va giudicato un politico?
Dal suo operare per il bene comune. La storia dell’umanità è piena di persone non corrette che hanno incrementato il bene comune. Così come è ricca di persone dall’educazione irreprensibile che hanno provocato grandi tragedie. Ricordo solo che Josif Stalin era un ex seminarista.
Dunque l’accusa secondo la quale Berlusconi non può vantare la "patente di buon cattolico" non regge.
Ma questo è un cortocircuito! La moralità in politica è data dal perseguire il bene della collettività. Per quel che riguarda la moralità personale, quella è una faccenda che riguarda il dramma del singolo uomo.
Da Berlusconi a Benedetto XVI. Per usare un titolo di un importante quotidiano: la Chiesa vota a destra?
La Chiesa non vota. La Chiesa ha sempre avuto coscienza delle istituzioni, questo sì. Quando la Chiesa si trova di fronte a istituzioni che hanno ricevuto una legittima investitura popolare, sempre è portata ad avere un atteggiamento positivo e di apertura.
Massimo D’Alema ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui mette in guardia la Chiesa dalla «tentazione demoniaca dell’egemonia».
Mi pare che D’Alema scambi il concetto di presenza col concetto di egemonia. La Chiesa è presente nel tessuto della società italiana, ma non è egemonica. Se mi è consentito, vorrei far notare che da quarant’anni il nostro paese conosce una sola tendenza egemonica: quella di sinistra.
Lei è di Comunione e Liberazione, il movimento ecclesiale fondato da don Luigi Giussani. Proprio don Giussani è stato citato dal dalemiano Nicola Latorre in difesa di D’Alema. Ha detto Latorre che anche don Giussani metteva in guardia gli uomini di Chiesa dall’errore egemonico definendolo «strumento in mano alla menzogna, a Satana padre della menzogna».
Ma certo! Il richiamo è giusto, ma don Giussani lo ha sempre fatto per ribadire che occorre essere presenti, non egemonici. Infatti, quel che ha sempre dato fastidio di don Giussani è che ha dato vita ad un popolo che è dentro la società, non rintanato in qualche scantinato. La sua è sempre stata una spiritualità dell’incarnazione, attiva nelle pieghe della società e del popolo. Che ora si usino delle sue citazioni fuor di contesto per attaccare la Chiesa mi pare perlomeno grottesco.
Secondo Famiglia cristiana i cattolici di sinistra sono stati traditi da «un partito fantasma». Si parla addirittura di un «rischio scissione» tra l’ala cattolica del partito e quella laica. I teodem hanno riconosciuto che il problema è reale, Walter Veltroni ha smentito. Al quotidiano francese La Croix l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi ha spiegato che «il cardinale Camillo Ruini ha remato contro di me dal momento in cui mi definii un "cattolico adulto"».
Mi sembra un momento di grande confusione. Ma a parte certi giri di valzer dico che se queste opinioni diventano l’occasione per una autocritica costruttiva che miri a riproporre il senso del fare politica di un cattolico, e cioè il farsi guidare dalla dottrina sociale della Chiesa nel proprio agire, allora anche questo può essere un itinerario positivo. Altrimenti, come mi pare più plausibile sostenere, stiamo solo assistendo ad uno sterile gioco aritmetico: si stanno contando.
Secondo i dati di un recente sondaggio alle ultime elezioni solo il 30 per cento dei cattolici ha votato Pd. La precedente tornata elettorale era stato il 56 per cento ad aver accordato il proprio favore all’Unione. Per il direttore di Avvenire Dino Boffo questa sfiducia nei confronti del nuovo Pd si spiega col fatto che «per due anni la Chiesa si è sentita sotto tiro. Berlusconi l’ha rassicurata ed è naturale che si sia tirato un sospiro di sollievo».
Credo che il primo dato da sottolineare sia che il precedente esecutivo non ha saputo governare. Ho una certa età, ma certi livelli di povertà non li vedevo dal Dopoguerra. Quindi il primo fenomeno con cui i cattolici di sinistra dovrebbero imparare a fare i conti è il fatto che la vita oggi non è più dignitosa da un punto di vista materiale.
E poi?
E poi altri due eventi hanno pesato: la connivenza con un certo materialismo edonista ostile alla sacralità della vita (Dico, Cus e quant’altro) che sarebbe stato rigettato persino dai comunisti di Togliatti. Perché ancora qualcuno mi deve spiegare che c’entrano i vecchi comunisti che erano fedeli a certi valori popolari con i radicali che fanno di ogni desiderio un diritto. E poi c’è stato da parte del precedente esecutivo una certa contiguità ideale col terrorismo degli anni Settanta. La vicinanza con uomini che si sono insediati nelle istituzioni o sulle cattedre pubbliche che appartengono agli anni più bui della storia d’Italia non ha certamente giovato loro al momento del voto.
di Emanuele Boffi
“Donna e post-aborto: il dramma, l’accoglienza, il perdono”
Un convegno per aiutare le tante donne vittime dell’interruzione di gravidanza
di Elisabetta Pittino
ROMA, lunedì, 23 giugno 2008 (ZENIT.org).- La sindrome del post-aborto è un male subdolo, diffuso e nascosto. Per capire e contrastare questo disagio il 22 maggio scorso si è svolta a Brescia, organizzata dai Centri di Aiuto alla Vita di Brescia e Capriolo, una conferenza sul tema “Donna e post-aborto: il dramma, l’accoglienza, il perdono”.
Con il patrocinio dell’Assessorato ai Servizi alla Persona, alla Famiglia e alla Comunità del Comune di Brescia, l’incontro ha preso spunto dal trentesimo anniversario della legge 194/78 sull’interruzione volontaria di gravidanza.
Gli organizzatori hanno rilevato che, considerando “il dolore sotterraneo delle madri che hanno abortito che influisce drammaticamente sulla vita quotidiana della donna, della sua famiglia e sulla società” è giusto osservare la 194 da una prospettiva diversa: “quella delle conseguenze”.
In questa occasione i volontari per la vita, che sono stati quasi gli unici ad ascoltare e ad aiutare, con amore e professionalità, la madre e il suo bambino, chiedono che anche le istituzioni prendano coscienza di questo problema, che si facciano carico della madre che ha abortito, che l’accoglienza alla vita ricominci dalla donna che non l’ha potuta accogliere.
Dopo la presentazione del prof. Massimo Gandolfini, primario Neurochirurgo presso la Poliambulanza in Brescia, Presidente AMCI regionale e Presidente dell'Associazione “Scienza e Vita” di Brescia, è stata la prof. ssa Elena Vergani, neuropsichiatra, tra le massime esperte in Italia del post-aborto, ad aprire la serata spiegando la natura e le implicazioni della sindrome post-abortiva.
Il prof. Gandolfini ha spiegato che l'aborto è come una “mina innescata gettata nel mare”, “come una bomba che distrugge tutto ciò che gli sta intorno: il bambino, la donna, la famiglia, la società”; è qualcosa che “non può non lasciare una conseguenza sulla madre perché va a toccare il suo corpo, la sua intelligenza, il suo essere”.
Il Neurochirurgo ha rilevato che le conseguenze del post-aborto nella donna sono ormai parte della letteratura scientifica e riguardano “la psicosi post-aborto, che, può perdurare per oltre sei mesi ed è un disturbo di natura prevalentemente psichiatrica; lo stress post-aborto, che insorge tra i tre e i sei mesi e rappresenta il disturbo più breve sinora osservato; e la sindrome post-abortiva: un insieme di disturbi che possono insorgere subito dopo l'interruzione come dopo svariati anni in quanto possono rimanere a lungo latenti anche per oltre 30 anni” (in Agnoli F., “Storia dell'aborto” ed. Fede e Cultura, Verona, p. 75, 2008).
La prof. ssa Elena Vergani ha spiegato che nell'aborto c'è sempre una madre e c'è sempre un figlio. Sono loro i protagonisti. C'è anche il padre, ma spesso non ha neppure il ruolo di comparsa.
Madre e figlio sono entrambi silenziosi: il bambino perché è nella pancia della mamma e non può parlare anche se comunica in modo diverso, la madre perché resa muta dal suo dolore, dalla solitudine, dal giudizio degli altri, dalle difficoltà, dalla non accoglienza.
“La legge – ha sottolineato la neuropsichiatria –, per assurdo, prevede la possibilità di abortire quando vi sia un serio o grave pericolo per la salute fisica e psichica della donna, ma nulla prevede quando il danno serio e grave sia causato proprio dall’aborto”.
“Trent’anni fa non si sapeva dei pesanti effetti causati dall’interruzione volontaria di gravidanza – ha constatato con amarezza la Vergani –. Con superficialità e leggerezza non ci si è occupati della donna-madre come persona, ma solo come problema”.
La neuropsichiatria ha sostenuto che per “curare” la donna “bisogna abbracciare la dimensione antropologica” della gravidanza e dell'aborto: “Non è sufficiente prendersi cura della psiche della donna, ma di tutta la persona nella sua interezza”.
Il fondamento della relazione interpersonale è l'amore, inteso come l'interiorità della persona dove si cerca, si riconosce, si vuole autenticamente il bene. L'amore è volontà di vivere e di far vivere, perché la vita è il primo dei beni. E nella misura in cui ama la persona umana si realizza.
La relazione materna è il prototipo di questo amore: la madre ama la vita del figlio perché gli dà tutta la vita. In questo amare la vita del figlio, la madre si realizza come persona, cresce nella sua vita. E' anche il figlio allora che dà la sua vita alla madre.
“Questa è la realtà che fonda l'essere umano e viene stravolta dall'aborto”, ha sottolineato la Vergani.
“Le conseguenze dell'aborto sono un impoverimento della realtà – ha sintetizzato la relatrice –. Per questo la lettura psicologica e quella biologica, seppur necessarie, sono riduttive e non sufficienti ad affrontare la sindrome post-abortiva. La relazione madre-figlio non è altro che l'immagine della nostra umanità: la vita è unione di soggetti, questo è esistere”.
L’incontro è stato concluso dall’avvocato Arturo Buongiovanni, penalista e specializzato in bioetica, il quale ha sostenuto: “Se il diritto smette di essere per l’uomo non ha più senso di esistere”.
“Se il diritto non difende il debole, l’indifeso allora si torna alla barbarie della legge del più forte”.
“Se è possibile che qualcuno di noi decida che un altro non ha diritto alla vita diciamo sì alla dittatura, allo schiavismo, alla discriminazione, alla guerra”, ha aggiunto.
“Abbiamo di fronte una battaglia socio-culturale molto importante – ha ribadito l’avvocato Buongiovanni –. Non abbiamo paura di combatterla”.
Trattato di Lisbona: l'Europa dimentica i cittadini se affretta la ratifica.
Mario Mauro 21/06/2008
Autore(i): Mario Mauro. Pubblicato il 21/06/2008 – IlSuddiario.net
Dopo la due giorni del Consiglio europeo, durante la quale la questione della vittoria del no al referendum sul Trattato di Lisbona ha rappresentato l’argomento predominante, risulta evidente una chiara intenzione da parte dei vertici istituzionali comunitari e dei Capi di stato e di governo di continuare e anzi di accelerare le procedure di ratifica del Trattato in tutti gli stati in cui questo non è ancora avvenuto. In realtà, come ci si aspettava non è stata presa ancora alcuna decisione definitiva, infatti dalla bozza di conclusioni si evince soltanto che il Consiglio Europeo prende atto che «occorre più tempo» per esaminare la situazione del Trattato e che l'Irlanda «procederà attivamente» in consultazioni interne e con i partner per «proporre una via di uscita». Si torna infine sulla lontananza dell’Europa dai cittadini annunciando un forte coinvolgimento che porti”risultati concreti” nelle politiche che «preoccupano i cittadini». Il Consiglio Europeo prende atto inoltre che già si sono avute 19 ratifiche da parte dei paesi membri del Trattato di Lisbona e che le ratifiche «proseguono in altri paesi».
È importante sottolineare alcune prese di posizione. Il Presidente del Parlamento euorpeo Hans-Gert Pottering ha insistito sulla necessità di proseguire sulla strada delle ratifiche proponendo di terminare la procedura al più tardi in concomitanza con il prossimo Consiglio europeo che avrà luogo in ottobre, permettendo così l’entrata in vigore del Trattato in tempo per le elezioni europee del giugno 2009.
Una ratifica in tempi brevi del Trattato da parte di tutti i paesi e un superamento del concetto di unanimità, che storicamente costituisce un freno al processo di integrazione politica e alla capacità decisionale dell’Unione, impedirebbe una paralisi istituzionale che andrebbe a cancellare in un solo colpo tutti gli importanti progressi che il Trattato di Lisbona presenta per quanto riguarda il livello di democraticità dell’Unione. Sembra una contraddizione: il popolo irlandese boccia il Trattato di Lisbona facendo pagare all’Unione europea il suo enorme deficit di democrazia e poi si scopre che in realtà il trattato aumentava questa democraticità. Non è facile il linguaggio del Trattato e non è facile che 400 pagine di formule che rimandano ad altre leggi riescano ad interessare e ad essere comprese dai cittadini. Non è soprattutto facile per 500 milioni di cittadini dell’Unione, un popolo la cui storia è stata forgiata dall’ideale cristiano, accettare che questo ideale non sia considerato minimamente come fondante il progetto europeo. Non è facile accettarlo, ma paradossalmente la ratifica e l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona favorirebbero dei passi avanti in questo senso. Dopo la paralisi del 2005 è stato abbandonato il concetto di una Costituzione europea perché considerata troppo rigida e ingombrante. Il Trattato di Lisbona, proprio per la sua natura è flessibile e lascia spazio a margini di trattativa per cambiamenti in un futuro non troppo lontano, ma soprattutto perché alla cultura del politicamente corretto si sostituisca la capacità di prendere decisioni per il bene comune che ha caratterizzato la leadership dei grandi e veri europeisti del passato.
La storia di Kevin: dalla scuola ha imparato che la vita ha un valore
Redazione23/06/2008
Autore(i): Redazione. Pubblicato il 23/06/2008 – IlSussidiario.net
Kevin non si è presentato a scuola a metà gennaio, quando in Kenya è iniziato il nuovo anno scolastico. Kevin quest’anno frequenta l’ultimo anno alla scuola secondaria Cardinal Otunga di Nairobi e a novembre sosterrà l’esame di stato finale del corso.
È ritornato in classe due settimane dopo la maggior parte dei suoi compagni perchè ha dovuto lasciare la casa in cui viveva in seguito agli scontri che hanno coinvolto anche lo slum di Huruma in cui vive con la sua famiglia. Questo, come gli altri slum di Nairobi, è diventato il teatro degli scontri maggiori tra i due principali gruppi etnici: i Kikuyu, sostenitori di Kibaki, nominato Presidente dopo un conteggio dei voti molto contestato, e i Luo, il cui leader è Raila Odinga. Nello slum vivono da anni sia i Luo che i Kikuyu, in aree distinte, ma confinanti: devono passare per le stesse strade, per gli stessi vicoli, usare gli stessi mezzi di trasporto, comprare presso gli stessi “negozi” ambulanti.
Kevin appartiene alla tribù dei Luo. Nei giorni successivi alla nomina del Presidente è stato testimone degli scontri. «La palazzina in cui vivo - racconta - è stata il centro della guerra: è stata presa d’assalto per oltre 12 ore, tra domenica 30 e lunedi 31 dicembre: l’edificio e i vicoli per raggiungere la strada principale erano controllati da bande formate da giovani kikuyu. Solamente quando è arrivata la polizia siamo potuti uscire da casa ed essere ospitati da un nostro parente in un’altra zona della città».
In quelle ore dal balcone ha assistito inorridito all’uccisione di molte persone, fatte a pezzi con i “panga”, i lunghi machete usati normalmente per lavorare i campi. Questi giovani, come i loro “avversari” appartenenti alla tribù dei Luo, hanno la stessa età o qualche anno in più di Kevin. Pochi hanno finito la scuola elementare, non hanno potuto frequentare corsi professionali, e pertanto vivono di espedienti. Di fatto non hanno nulla da perdere. Sono le persone che più facilmente vengono strumentalizzate per fini politici: in cambio di pochi scellini sono stati tra quelli che hanno affollato le piazze durante la campagna elettorale dell’uno e dell’altro schieramento e dopo le elezioni sono stati quelli che hanno attivamente partecipato agli scontri e alle distruzioni.
Kevin ha avuto un’altra storia: è riuscito a frequentare la scuola secondaria, grazie ad un'adozione a distanza. I voti nella pagella dello scorso anno lo indicano come il migliore della classe. Vorrebbe diventare ingegnere.
In questi anni, a scuola, ha imparato il valore della propria persona, il desiderio di una vita migliore. Kevin non andrebbe mai a bruciare case o distruggere negozi. Kevin ha una dignità da difendere. È convinto che in Kenya la convivenza tra diverse tribù è possibile: «È un bene vivere insieme, come è stato finora. È un bene imparare il valore dell’altro. La soluzione non può essere solo un accordo tra i politici, ma occore educare la gente ad apprezzare il valore di ciascuna tribù».
Il Kenya ha bisogno, oggi più che mai, di educazione, non un’educazione qualsiasi, ma di un’educazione che apra il cuore dei ragazzi a quel desiderio di verità, di bellezza e di giustizia che lo costituisce, un’educazione che renda la persona consapevole della sua dignità e perciò rispettosa della dignità di ogni altra persona, indipendentemente dalla etnia o tribu di appartenenza. Kevin desidera che la situazione ritorni normale: «Vorrei completare il mio corso di studi ... - si ferma un attimo e aggiunge - in un modo positivo: ciò non solo ottenere un buon risultato finale, ma vivere quest’anno in modo da poter crescere nei rapporti e nelle amicizie che ho, con alcuni insegnanti e anche con i miei amici di altre tribù».
1) Benedetto XVI: chi ama Dio non ha paura - Parole introduttive alla preghiera dell'Angelus
2) Omelia del cardinale vicario di Roma Camillo Ruini nella Messa per il 25º della sua Ordinazione episcopale
3) «La bandiera arcobaleno è New Age non va più esposta nelle chiese»
4) Monsignor Negri e la politica
5) “Donna e post-aborto: il dramma, l’accoglienza, il perdono”
6) Trattato di Lisbona: l'Europa dimentica i cittadini se affretta la ratifica, di Mario Mauro
7) La storia di Kevin: dalla scuola ha imparato che la vita ha un valore
Benedetto XVI: chi ama Dio non ha paura - Parole introduttive alla preghiera dell'Angelus
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 8 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato questa domenica da Benedetto XVI in occasione della recita della preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.
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Cari fratelli e sorelle,
nel Vangelo di questa domenica troviamo due inviti di Gesù: da una parte "non temete gli uomini" e dall’altra "temete" Dio (cfr Mt 10,26.28). Siamo così stimolati a riflettere sulla differenza che esiste tra le paure umane e il timore di Dio. La paura è una dimensione naturale della vita. Fin da piccoli si sperimentano forme di paura che si rivelano poi immaginarie e scompaiono; altre successivamente ne emergono, che hanno fondamenti precisi nella realtà: queste devono essere affrontate e superate con l’impegno umano e con la fiducia in Dio. Ma vi è poi, oggi soprattutto, una forma di paura più profonda, di tipo esistenziale, che sconfina a volte nell’angoscia: essa nasce da un senso di vuoto, legato a una certa cultura permeata da diffuso nichilismo teorico e pratico.
Di fronte all’ampio e diversificato panorama delle paure umane, la Parola di Dio è chiara: chi "teme" Dio "non ha paura". Il timore di Dio, che le Scritture definiscono come "il principio della vera sapienza", coincide con la fede in Lui, con il sacro rispetto per la sua autorità sulla vita e sul mondo. Essere "senza timor di Dio" equivale a mettersi al suo posto, a sentirsi padroni del bene e del male, della vita e della morte. Invece chi teme Dio avverte in sé la sicurezza che ha il bambino in braccio a sua madre (cfr Sal 130,2): chi teme Dio è tranquillo anche in mezzo alle tempeste, perché Dio, come Gesù ci ha rivelato, è Padre pieno di misericordia e di bontà. Chi lo ama non ha paura: "Nell’amore non c’è timore – scrive l’apostolo Giovanni – al contrario, l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore" (1 Gv 4,18). Il credente dunque non si spaventa dinanzi a nulla, perché sa di essere nelle mani di Dio, sa che il male e l’irrazionale non hanno l’ultima parola, ma unico Signore del mondo e della vita è Cristo, il Verbo di Dio incarnato, che ci ha amati sino a sacrificare se stesso, morendo sulla croce per la nostra salvezza.
Più cresciamo in questa intimità con Dio, impregnata di amore, più facilmente vinciamo ogni forma di paura. Nel brano evangelico odierno Gesù ripete più volte l’esortazione a non avere paura. Ci rassicura come fece con gli Apostoli, come fece con san Paolo apparendogli in visione una notte, in un momento particolarmente difficile della sua predicazione: "Non aver paura – gli disse - perchè io sono con te" (At 18,9). Forte della presenza di Cristo e confortato dal suo amore, non temette nemmeno il martirio l’Apostolo delle genti, del quale ci apprestiamo a celebrare il bimillenario della nascita, con uno speciale anno giubilare. Possa questo grande evento spirituale e pastorale suscitare anche in noi una rinnovata fiducia in Gesù Cristo che ci chiama ad annunciare e testimoniare il suo Vangelo, senza nulla temere. Vi invito pertanto, cari fratelli e sorelle, a prepararvi a celebrare con fede l’Anno Paolino che, a Dio piacendo, aprirò solennemente sabato prossimo, alle ore 18, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, con la liturgia dei Primi Vespri della Solennità dei Santi Pietro e Paolo. Affidiamo sin d’ora questa grande iniziativa ecclesiale all’intercessione di San Paolo e di Maria Santissima, Regina degli Apostoli e Madre di Cristo, sorgente della nostra gioia e della nostra pace.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Con viva emozione ho appreso stamane del naufragio, nell’arcipelago delle Filippine, di un traghetto travolto dal tifone Fengshen, che ha imperversato in quella zona. Mentre assicuro la mia vicinanza spirituale alle popolazioni delle isole colpite dal tifone, elevo una speciale preghiera al Signore per le vittime di questa nuova tragedia del mare, in cui pare siano coinvolti anche numerosi bambini.
Oggi a Beirut, capitale del Libano, viene proclamato beato Yaaqub da Ghazir Haddad, al secolo Khalil, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini e fondatore della Congregazione delle Suore Francescane della Croce del Libano. Nell’esprimere le mie felicitazioni alle sue figlie spirituali, auspico con tutto il cuore che l’intercessione del beato Abuna Yaaqub, unita a quella dei Santi libanesi, ottenga a quell’amato e martoriato Paese, che troppo ha sofferto, di progredire finalmente verso una stabile pace.
Saluto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli che sono venuti in bicicletta da Offanengo, diocesi di Crema. A tutti auguro una buona domenica.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Omelia del cardinale vicario di Roma Camillo Ruini nella Messa per il 25º della sua Ordinazione episcopale
L’omelia del cardinale Camillo Ruini nella Messa per il venticinquesimo del suo episcopato – la sera del 21 giugno nella basilica di San Giovanni in Laterano – è stato anche il suo addio alla carica di vicario del Papa per la diocesi di Roma. Per le letture della messa Ruini si è affidato a quelle presenti nel messale del giorno. E si è trovato quindi a commentare il passo del Vangelo in cui Gesù dice ai suoi discepoli: “Non temete gli uomini, […] non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto Colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna. […] Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti”.
Signori Cardinali,
cari Fratelli nell’episcopato,
Onorevoli Autorità,
carissimi sacerdoti, diaconi, seminaristi, carissime religiose, e voi tutti fratelli e sorelle amati nel Signore, questa S. Messa di ringraziamento per i 25 anni del mio episcopato, nella quale celebrano il loro Giubileo anche molti cari fratelli nel sacerdozio, giunge non molto tempo dopo quella celebrata in questa Basilica il 7 dicembre 2004, per il mio 50° di sacerdozio. Cercherò dunque di non ripetere ciò che ho detto in quella occasione e mi soffermerò piuttosto sui 17 anni e mezzo del mio ministero di Vicario del Santo Padre per la Diocesi di Roma.
Ho ricevuto un dono grandissimo da Giovanni Paolo II quando, il 17 gennaio 1991, egli mi ha nominato suo Vicario. Per esprimere questo dono non c’è di meglio che rileggere un brano della Lettera che egli mi scrisse in quella circostanza: “ho deciso di affidarLe… ciò che ho di più mio e di più caro: Roma apostolica, coi suoi incomparabili tesori di spiritualità cristiana e di tradizione cattolica; con le sue forze vive di sacerdoti, di comunità religiose, di laici impegnati; ma anche con le sue innumerevoli esperienze umane, con le sue certezze e le sue inquietudini, con le sue realizzazioni e le sue attese”. Questo dono grandissimo mi è stato confermato e rinnovato da Benedetto XVI, che oggi con straordinaria bontà ha voluto aggiungervi l’ulteriore dono della Lettera di cui è stata data lettura. All’uno e all’altro Successore di Pietro va dunque la mia personale totale gratitudine.
Ma in tutti questi anni un dono in qualche modo altrettanto grande l’ho ricevuto da Roma stessa, Roma Diocesi e Roma Città: questo dono l’ho compreso un poco per volta e sempre di più. Terminato il mio servizio di Cardinale Vicario confido di gustarlo e assaporarlo ancora meglio, ritornandovi negli anni che mi rimangono con la memoria e con la preghiera.
Come letture di questa S. Messa ho preferito non scegliere da me ma rimanere fedele al corso dell’anno liturgico. Mi trovo così a commentare un testo del Vangelo al quale non avrei pensato, ma che darà l’impronta a questa omelia. Dice Gesù ai suoi discepoli: “Non temete gli uomini,… non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto Colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna”. Pertanto, “Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti”. Un commento esistenziale a questo testo, da parte di un Vescovo, lo ha offerto Giovanni Paolo II nel suo libro Alzatevi, Andiamo!, nel capitolo intitolato “Dio e il coraggio”. Egli cita le parole pronunciate in tempi difficili dal Cardinale Primate di Polonia Stefan Wyszyński: “Per un Vescovo la mancanza di fortezza è l’inizio della sconfitta. Può continuare a essere apostolo? Per un apostolo, infatti, è essenziale la testimonianza resa alla Verità! E questo esige sempre la fortezza”, e ancora “La più grande mancanza dell’apostolo è la paura. A destare la paura è la mancanza di fiducia nella potenza del Maestro; è questa che opprime il cuore e stringe la gola”.
Personalmente non ho certo vissuto esperienze drammatiche come quelle dei Cardinali Stefan Wyszyński e Karol Wojtyła; tanto meno come quella del Profeta Geremia che abbiamo ascoltato nella prima lettura: “Sentivo le insinuazioni di molti: «Terrore all’intorno! Denunciatelo e lo denunceremo»”. Ogni Vescovo tuttavia, nel suo tempo e nelle sue situazioni di vita e di ministero, ha bisogno di almeno un poco di fortezza e anch’io ne ho avuto bisogno, a Reggio Emilia e poi qui a Roma. Mi permetto di soffermarmi su questo aspetto, del quale di solito si parla poco. Quando poi se ne parla si pensa subito alla fortezza o al coraggio rivolto per così dire “verso l’esterno”, soprattutto verso la pressione esercitata dalla “opinione pubblica”, così come questa è interpretata, e non di rado “costruita”, dai mezzi di comunicazione. È indispensabile, per un Vescovo, sottrarsi alla sudditanza nei confronti di questo genere di pressione e a tal fine è importante ricordare che la verità che ci è stata donata e affidata, quella verità che in ultima analisi è Cristo stesso, conta e “pesa” molto di più di qualsiasi opinione. In realtà, per me questo è stato, tutto sommato, un problema abbastanza lieve: come ho detto scherzosamente parlando ad alcuni Confratelli Vescovi quando pensavo che non ci fossero altri ascoltatori, “le pallottole di carta non fanno molta paura”. Difficile mi è stato, piuttosto, riuscire a congiungere, anche nel modo di esprimermi e di comunicare, la fermezza con l’amore.
L’esercizio della fortezza, da parte di un Vescovo, è comunque più spesso necessario, e anche più impegnativo, nel “governo” quotidiano della Diocesi, dove non si ha a che fare solo con le opinioni, ma con le persone. Qui le certezze sono più difficili, mentre più forte è il bisogno di rendere tangibile che quello che facciamo e decidiamo lo facciamo e decidiamo per amore, ricercando cioè il bene sia della comunità sia delle persone interessate. È questo, forse, il maggior peso quotidiano di un Vescovo, non dico la sua croce più grande – questa infatti sono i suoi personali peccati – ma la più “immediata”.
Un ultimo pensiero riguardo al coraggio del Vescovo ritorna alla fortezza nell’annuncio e nella testimonianza pubblica della fede. Sono stato assai aiutato e stimolato sotto questo profilo dal mio compito di Vicario del Santo Padre, in concreto dall’esempio che ho ricevuto da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI: in molte occasioni ho percepito quasi fisicamente che sarebbe stato ingiusto lasciarli soli. Già prima, quando non ero ancora Vescovo, ho avuto la stessa sensazione nei confronti di Paolo VI. Essere a fianco del Papa nell’annuncio e testimonianza della fede, specialmente quando questi sono scomodi e richiedono coraggio, è in realtà il compito di ogni Vescovo, un aspetto essenziale della collegialità episcopale. Mi permetto di dire che se tutto il Corpo episcopale fosse stato forte ed esplicito sotto questo profilo, varie difficoltà, nella Chiesa, sarebbero state meno gravi e che anche per il futuro questa può essere una via efficace per ridimensionarle e superarle.
Il ministero del Vescovo chiaramente non è fatto solo di coraggio: in concreto è molte cose, ma anzitutto è “amoris officium” (S. Agostino, In Evangelium Iohannis tractatus, 123,5), compito e dovere di amore. Questa sera, piuttosto che del poco amore che ho dato, vorrei parlare del grande amore che ho ricevuto dalla Chiesa e dalla Città di Roma, in concreto da tante persone da me conosciute o anche che direttamente non conoscevo. È questo un aiuto immenso, un immenso sostegno, che dobbiamo saper vedere. È più facile, infatti, fermarsi alle ostilità, o semplicemente alle tensioni, che non possono mancare, e non vedere abbastanza tutto il bene di cui un Vescovo è fatto oggetto, molto al di là delle proprie doti e dei meriti personali, semplicemente per l’ufficio che ricopre: un ufficio che, direi, “attira l’amore”. Questo amore si esprime anzitutto nella preghiera: voglio dire un grandissimo grazie per tutta la preghiera che mi ha accompagnato e sostenuto in questi anni! Ma si esprime anche nella solidarietà e nella collaborazione: ne ho avuta tanta, da molte parti.
Prima che per la collaborazione, devo però ringraziare di tutto cuore per il dono della grande fiducia che mi è stata accordata da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI: senza una tale fiducia il compito del Cardinale Vicario sarebbe davvero arduo e ben poco fruttuoso. Non mi è possibile nominare personalmente tutti coloro con i quali ho collaborato e ai quali sono grato. Mi limito, nella Diocesi di Roma, ai Vicegerenti Mons. Remigio Ragonesi, che ora è nella Casa del Padre, Mons. Cesare Nosiglia e Mons. Luigi Moretti, che porta adesso il peso di questo ufficio. Con i Vicegerenti ringrazio tutti i Vescovi Ausiliari, i miei due Segretari, Don Mauro e ora Don Nicola, e tutto lo staff della mia segreteria personale. Ringrazio Pierina, che rimarrà con me, e tutte le persone che in questi anni, insieme a lei, hanno reso confortevole la mia vita. Ringrazio di tutto cuore i sacerdoti, le religiose, i laici del Vicariato, i parroci, i vicari parrocchiali e tutti i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i laici impegnati nella pastorale e le loro molteplici aggregazioni. Un grazie speciale ai rettori dei seminari, ai loro collaboratori e ai seminaristi, che ho sempre considerato dei giovani amici.
Questa solidarietà e collaborazione è la comunione attuata in concreto nella Chiesa diocesana ed è una risorsa fondamentale della missione: alla base di essa c’è lo Spirito Santo, che vivifica e guida la Chiesa. Per parte mia ho fatto poco, certamente non abbastanza, per meritare la solidarietà che ho ricevuto, e ne chiedo scusa. Il contributo che ho cercato di dare è consistito soprattutto nel senso del dovere e quindi nell’assiduità al lavoro e nell’assumermi le mie responsabilità, sforzandomi di essere sincero e leale.
Devo però allargare il discorso, per dire un grazie grande e cordiale alle tante persone, cattolici e “laici”, nelle quali ho trovato amicizia, vicinanza e collaborazione anche al di fuori delle strutture ecclesiali. Per un Vescovo, come per ogni sacerdote, questi rapporti sono preziosi e doverosi, fanno parte a pieno titolo della nostra missione. Mi rammarico di aver avuto poco tempo per coltivarli e, se il Signore vorrà, vi dedicherò più tempo nel futuro.
Il rammarico più grande riguarda però la mia debolezza e mediocrità in quello che è il primo compito di ogni Vescovo: la preghiera. Quante volte ho ricevuto dalla gente richieste di preghiera, nella giusta convinzione e certezza che il Vescovo è anzitutto uomo di Dio e quindi uomo di preghiera. Specialmente di questa debolezza chiedo perdono e il mio primo proposito per il futuro è quello di porvi, con la grazia di Dio, in qualche modo rimedio.
La seconda lettura di questa S. Messa, dalla Lettera dell’Apostolo Paolo ai cristiani di Roma, è il testo “classico” riguardo al peccato originale presente in ciascuno di noi. Questo brano ci porta al cuore della storia della salvezza, ricordandoci che “come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato”, ma aggiungendo subito che “se… per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini”. Vorrei insistere su questo “molto di più” e su questo “in abbondanza”: essi, nel mistero dell’economia di salvezza, valgono sempre e valgono anche oggi. Il sacerdote, il Vescovo, il cristiano avverte giustamente il “regno del peccato” (Rom 6), avverte oggi la radicalità della sfida che è posta alla fede cristiana nei comportamenti e nel pensiero. Ne scaturisce facilmente la tentazione della sfiducia: questo nel nostro tempo è forse il pericolo più grande per la missione del Vescovo e della Chiesa. La Diocesi di Roma, e in essa il clero romano, per grazia di Dio mediamente giovane e ben preparato, le tante presenze vive religiose e laicali, devono sconfiggere questa tentazione, che è contraria alla speranza teologale, alla speranza cioè fondata sulla forza dell’amore che Dio ha per la famiglia umana.
La continuità più profonda tra i due Pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sta forse proprio nella fiducia che questa tentazione e questa sfida radicale possono, anche storicamente, essere superate, anzitutto per la potenza salvifica di Dio, che è reale e storicamente incarnata: è questo il senso del messaggio dell’Enciclica Spe salvi. Quando sono ritornato a Roma dopo i lunghi anni del mio ministero a Reggio Emilia, portavo già dentro di me una simile convinzione, ma certamente il contatto con i due Papi mi ha molto fortificato e aiutato a capirla di più e a vederla come “storia in atto”, storia che si realizza nelle vicende quotidiane.
Il piccolo testamento che vorrei lasciare alla Diocesi di Roma è dunque questo: guardiamo alla grande sfida che oggi dobbiamo affrontare, rendiamocene conto, non nascondiamoci davanti a lei, cerchiamo di coglierla nella sua forza, spessore, pervasività, capacità di penetrazione, quella capacità e quell’attrattiva che essa esercita specialmente verso le nuove generazioni. Ma guardiamola con occhio disincantato e a sua volta penetrante, con l’occhio della fede, che è necessariamente diverso e anche più penetrante rispetto a uno sguardo soltanto umano. Con la luce della fede possiamo intuire infatti la realtà profonda dell’uomo, in cui Dio è presente per attirare a sé ed orientare a Cristo le persone e la storia. Oso dire che Dio continua ad attirare a sé in modo speciale questa nostra Chiesa e Città di Roma, come tante volte in questi anni ho potuto toccare con mano. Nel mio piccolo, se il Signore lo permetterà, vorrei continuare a lavorare, in una forma diversa, perché i romani e gli italiani di oggi sappiano guardare al mondo e alla vita con l’occhio della fede, e così non si affliggano “come gli altri che non hanno speranza” (1 Tess 4,13). Ma, molto al di là di quello che ciascuno di noi può fare, è questa la preghiera che ora insieme rivolgiamo al Dio amico dell’uomo.
Avvenire 22 giugno 2008
«La bandiera arcobaleno è New Age non va più esposta nelle chiese»
L’agenzia vaticana «Fides» spiega le origini del vessillo del movimento pacifista: «È legato alla teosofia e al relativismo. Tornate alla croce»...
di Andrea Tornielli
Perché preti e laici cattolici usano la bandiera arcobaleno come simbolo di pace invece della croce? Non sanno che quella bandiera è collegata alla teosofia e al New Age? È netto e documentato il giudizio contenuto in un articolo pubblicato da «Fides», l’agenzia della Congregazione vaticana per l’evangelizzazione dei popoli diretta da Luca De Mata, nei confronti del vessillo, simbolo del movimento pacifista, appeso anche nelle chiese e da qualche prete pure sull’altare.
«Come mai uomini di Chiesa, laici o chierici che siano - si chiede “Fides” - hanno per tutti questi anni ostentato la bandiera arcobaleno e non la croce, come simbolo di pace? Sarebbe interessante interrogare uno per uno coloro che hanno affisso sugli altari, ingressi e campanili delle chiese lo stendardo arcobaleno». L’agenzia vaticana ipotizza qualche risposta in proposito, vale a dire «la lunga litania degli eventi in cui la Chiesa avrebbe brandito la croce come simbolo di sopraffazione», dalle Crociate alla caccia alle streghe ai roghi di eretici. «Fides» a questo proposito ricorda però che non è il simbolo della croce in quanto tale «ad aver bisogno di essere emendato», quanto piuttosto «gli atteggiamenti degli uomini che, guardando a tale segno, possono ritrovare motivo di conversione». Poi rilancia: «Questi uomini e donne di chiesa sanno qual è l’origine della bandiera della pace? Molti probabilmente no. Altri, pur sapendo, non se ne preoccupano più di tanto».
Le origini della bandiera della pace vanno ricercate, spiega l’agenzia, «nelle teorie teosofiche nate alla fine dell’800. La teosofia (letteralmente “Conoscenza di Dio”) è quel sistema di pensiero che tende alla conoscenza intuitiva del divino». Da sempre presente nella cultura indiana, ha preso la sua moderna versione dalla Società Teosofica, «un movimento mistico, esoterico, spirituale e gnostico fondato nel 1875 da Helena Petrovna Blavatsky, più nota come Madame Blavatsky». Il pensiero della corrente rappresentata dalla bandiera arcobaleno si basa sullo «gnosticismo», sulla «reincarnazione e trasmigrazione dell’anima», sull’esistenza di «maestri segreti» e riconduce al New Age, mentalità che predica la libertà più assoluta e il relativismo, l’idea dell’«uomo divino», il rifiuto della nozione di peccato.
«Fides» spiega che esistono diverse versioni di questa bandiera, una delle quali è riconosciuta ad Aldo Capitini, fondatore del Movimento nonviolento, «che nel 1961 la usò per aprire la prima marcia per la pace Perugia-Assisi», mentre un’altra «segnala che la sua origine risale al racconto biblico dell’Arca di Noè» e dunque sarebbe un simbolo cristiano a tutti gli effetti. In realtà - scrive l’agenzia dopo aver ricordato che è anche il simbolo dei movimenti di liberazione omosessuali - la bandiera rappresenta un’idea secondo la quale «per esempio è possibile mettere sullo stesso piano partiti politici o gruppi culturali che rivendicano, legittimamente, la difesa della dignità della donna, e gruppi, come è accaduto recentemente in Europa, che rivendicano la depenalizzazione dei reati di pedofilia. Si tratta ovviamente di aberrazioni possibili, solo all’interno di una mentalità relativistica come quella che caratterizza le nostre società occidentali».
La bandiera, conclude «Fides», è un simbolo sincretistico, che propone l’unità New Age nella sintesi delle religioni. Introdurla nelle chiese e nelle celebrazioni è da considerarsi «un abuso».
Il Giornale n. 147 del 2008-06-21
Monsignor Negri e la politica
da Tempi.it, 17-6-2008
Benedetto XVI che esprime «gioia per il nuovo clima politico in Italia». Berlusconi che esce dall’incontro del 6 giugno col Pontefice e sprona i suoi collaboratori a «lavorare con più entusiasmo». Le reciproche cordialità, l’impegno ad introdurre il quoziente familiare nel Dpef, la sintonia sul valore della sacralità della vita, i rispettivi comunicati ufficiali da cui traspare una cordiale comunanza di intenti. Tutti segni, secondo monsignor Luigi Negri vescovo di San Marino-Montefeltro, che «l’incontro del 6 giugno tra il Santo Padre e il presidente del Consiglio non è stato solo un appuntamento formale».
Perché è stato un incontro interessante?
Perché è un punto di partenza. Si apre una prospettiva di lavoro per i cattolici italiani, abbiano loro maggiori simpatie per la destra o la sinistra non importa, importa che incalzino i nostri rappresentanti affinché questi valori che sono stati proclamati diventino politica.
A dire il vero c’è da tempo in Italia un partito che ha fatto dei valori cristiani la propria bandiera…
E però si è visto che fine ha fatto nel segreto dell’urna.In che senso?
Non basta proclamarli, i valori, per fare una politica "cattolica".
E che cosa bisogna fare?
Occorre tradurre in politica la dottrina sociale della Chiesa. Cioè far sì che quelli che il Santo Padre ha definito come valori inderogabili e che riguardano la vita, la famiglia, l’educazione e che sono valori al contempo laici e cattolici, passino da una rivendicazione di ordine culturale a una attuazione politica, pratica, reale.
Il premier ha dichiarato che «l’attività del governo non può che compiacere il Papa e la sua Chiesa». Monsignor Negri, sgomberiamo immediatamente il campo da un equivoco che si sente sempre più spesso ribadire quando il Cavaliere spende parole d’elogio per la Chiesa. Berlusconi non può parlare perché è divorziato.
Un uomo di Chiesa, quale io sono, deve saper distinguere tra la vita personale e quella pubblica. Posso avere un giudizio non positivo su certe situazioni, su certi comportamenti che riguardano gli esponenti della nostra classe politica, ma far diventare questa valutazione un giudizio politico mi pare un’operazione di un moralismo ottuso.
Moralismo ottuso?
Sì, è l’atteggiamento tipico di chi, non avendo argomenti, si rifugia nella condanna di vicende personali.
E allora in base a quali criteri va giudicato un politico?
Dal suo operare per il bene comune. La storia dell’umanità è piena di persone non corrette che hanno incrementato il bene comune. Così come è ricca di persone dall’educazione irreprensibile che hanno provocato grandi tragedie. Ricordo solo che Josif Stalin era un ex seminarista.
Dunque l’accusa secondo la quale Berlusconi non può vantare la "patente di buon cattolico" non regge.
Ma questo è un cortocircuito! La moralità in politica è data dal perseguire il bene della collettività. Per quel che riguarda la moralità personale, quella è una faccenda che riguarda il dramma del singolo uomo.
Da Berlusconi a Benedetto XVI. Per usare un titolo di un importante quotidiano: la Chiesa vota a destra?
La Chiesa non vota. La Chiesa ha sempre avuto coscienza delle istituzioni, questo sì. Quando la Chiesa si trova di fronte a istituzioni che hanno ricevuto una legittima investitura popolare, sempre è portata ad avere un atteggiamento positivo e di apertura.
Massimo D’Alema ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui mette in guardia la Chiesa dalla «tentazione demoniaca dell’egemonia».
Mi pare che D’Alema scambi il concetto di presenza col concetto di egemonia. La Chiesa è presente nel tessuto della società italiana, ma non è egemonica. Se mi è consentito, vorrei far notare che da quarant’anni il nostro paese conosce una sola tendenza egemonica: quella di sinistra.
Lei è di Comunione e Liberazione, il movimento ecclesiale fondato da don Luigi Giussani. Proprio don Giussani è stato citato dal dalemiano Nicola Latorre in difesa di D’Alema. Ha detto Latorre che anche don Giussani metteva in guardia gli uomini di Chiesa dall’errore egemonico definendolo «strumento in mano alla menzogna, a Satana padre della menzogna».
Ma certo! Il richiamo è giusto, ma don Giussani lo ha sempre fatto per ribadire che occorre essere presenti, non egemonici. Infatti, quel che ha sempre dato fastidio di don Giussani è che ha dato vita ad un popolo che è dentro la società, non rintanato in qualche scantinato. La sua è sempre stata una spiritualità dell’incarnazione, attiva nelle pieghe della società e del popolo. Che ora si usino delle sue citazioni fuor di contesto per attaccare la Chiesa mi pare perlomeno grottesco.
Secondo Famiglia cristiana i cattolici di sinistra sono stati traditi da «un partito fantasma». Si parla addirittura di un «rischio scissione» tra l’ala cattolica del partito e quella laica. I teodem hanno riconosciuto che il problema è reale, Walter Veltroni ha smentito. Al quotidiano francese La Croix l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi ha spiegato che «il cardinale Camillo Ruini ha remato contro di me dal momento in cui mi definii un "cattolico adulto"».
Mi sembra un momento di grande confusione. Ma a parte certi giri di valzer dico che se queste opinioni diventano l’occasione per una autocritica costruttiva che miri a riproporre il senso del fare politica di un cattolico, e cioè il farsi guidare dalla dottrina sociale della Chiesa nel proprio agire, allora anche questo può essere un itinerario positivo. Altrimenti, come mi pare più plausibile sostenere, stiamo solo assistendo ad uno sterile gioco aritmetico: si stanno contando.
Secondo i dati di un recente sondaggio alle ultime elezioni solo il 30 per cento dei cattolici ha votato Pd. La precedente tornata elettorale era stato il 56 per cento ad aver accordato il proprio favore all’Unione. Per il direttore di Avvenire Dino Boffo questa sfiducia nei confronti del nuovo Pd si spiega col fatto che «per due anni la Chiesa si è sentita sotto tiro. Berlusconi l’ha rassicurata ed è naturale che si sia tirato un sospiro di sollievo».
Credo che il primo dato da sottolineare sia che il precedente esecutivo non ha saputo governare. Ho una certa età, ma certi livelli di povertà non li vedevo dal Dopoguerra. Quindi il primo fenomeno con cui i cattolici di sinistra dovrebbero imparare a fare i conti è il fatto che la vita oggi non è più dignitosa da un punto di vista materiale.
E poi?
E poi altri due eventi hanno pesato: la connivenza con un certo materialismo edonista ostile alla sacralità della vita (Dico, Cus e quant’altro) che sarebbe stato rigettato persino dai comunisti di Togliatti. Perché ancora qualcuno mi deve spiegare che c’entrano i vecchi comunisti che erano fedeli a certi valori popolari con i radicali che fanno di ogni desiderio un diritto. E poi c’è stato da parte del precedente esecutivo una certa contiguità ideale col terrorismo degli anni Settanta. La vicinanza con uomini che si sono insediati nelle istituzioni o sulle cattedre pubbliche che appartengono agli anni più bui della storia d’Italia non ha certamente giovato loro al momento del voto.
di Emanuele Boffi
“Donna e post-aborto: il dramma, l’accoglienza, il perdono”
Un convegno per aiutare le tante donne vittime dell’interruzione di gravidanza
di Elisabetta Pittino
ROMA, lunedì, 23 giugno 2008 (ZENIT.org).- La sindrome del post-aborto è un male subdolo, diffuso e nascosto. Per capire e contrastare questo disagio il 22 maggio scorso si è svolta a Brescia, organizzata dai Centri di Aiuto alla Vita di Brescia e Capriolo, una conferenza sul tema “Donna e post-aborto: il dramma, l’accoglienza, il perdono”.
Con il patrocinio dell’Assessorato ai Servizi alla Persona, alla Famiglia e alla Comunità del Comune di Brescia, l’incontro ha preso spunto dal trentesimo anniversario della legge 194/78 sull’interruzione volontaria di gravidanza.
Gli organizzatori hanno rilevato che, considerando “il dolore sotterraneo delle madri che hanno abortito che influisce drammaticamente sulla vita quotidiana della donna, della sua famiglia e sulla società” è giusto osservare la 194 da una prospettiva diversa: “quella delle conseguenze”.
In questa occasione i volontari per la vita, che sono stati quasi gli unici ad ascoltare e ad aiutare, con amore e professionalità, la madre e il suo bambino, chiedono che anche le istituzioni prendano coscienza di questo problema, che si facciano carico della madre che ha abortito, che l’accoglienza alla vita ricominci dalla donna che non l’ha potuta accogliere.
Dopo la presentazione del prof. Massimo Gandolfini, primario Neurochirurgo presso la Poliambulanza in Brescia, Presidente AMCI regionale e Presidente dell'Associazione “Scienza e Vita” di Brescia, è stata la prof. ssa Elena Vergani, neuropsichiatra, tra le massime esperte in Italia del post-aborto, ad aprire la serata spiegando la natura e le implicazioni della sindrome post-abortiva.
Il prof. Gandolfini ha spiegato che l'aborto è come una “mina innescata gettata nel mare”, “come una bomba che distrugge tutto ciò che gli sta intorno: il bambino, la donna, la famiglia, la società”; è qualcosa che “non può non lasciare una conseguenza sulla madre perché va a toccare il suo corpo, la sua intelligenza, il suo essere”.
Il Neurochirurgo ha rilevato che le conseguenze del post-aborto nella donna sono ormai parte della letteratura scientifica e riguardano “la psicosi post-aborto, che, può perdurare per oltre sei mesi ed è un disturbo di natura prevalentemente psichiatrica; lo stress post-aborto, che insorge tra i tre e i sei mesi e rappresenta il disturbo più breve sinora osservato; e la sindrome post-abortiva: un insieme di disturbi che possono insorgere subito dopo l'interruzione come dopo svariati anni in quanto possono rimanere a lungo latenti anche per oltre 30 anni” (in Agnoli F., “Storia dell'aborto” ed. Fede e Cultura, Verona, p. 75, 2008).
La prof. ssa Elena Vergani ha spiegato che nell'aborto c'è sempre una madre e c'è sempre un figlio. Sono loro i protagonisti. C'è anche il padre, ma spesso non ha neppure il ruolo di comparsa.
Madre e figlio sono entrambi silenziosi: il bambino perché è nella pancia della mamma e non può parlare anche se comunica in modo diverso, la madre perché resa muta dal suo dolore, dalla solitudine, dal giudizio degli altri, dalle difficoltà, dalla non accoglienza.
“La legge – ha sottolineato la neuropsichiatria –, per assurdo, prevede la possibilità di abortire quando vi sia un serio o grave pericolo per la salute fisica e psichica della donna, ma nulla prevede quando il danno serio e grave sia causato proprio dall’aborto”.
“Trent’anni fa non si sapeva dei pesanti effetti causati dall’interruzione volontaria di gravidanza – ha constatato con amarezza la Vergani –. Con superficialità e leggerezza non ci si è occupati della donna-madre come persona, ma solo come problema”.
La neuropsichiatria ha sostenuto che per “curare” la donna “bisogna abbracciare la dimensione antropologica” della gravidanza e dell'aborto: “Non è sufficiente prendersi cura della psiche della donna, ma di tutta la persona nella sua interezza”.
Il fondamento della relazione interpersonale è l'amore, inteso come l'interiorità della persona dove si cerca, si riconosce, si vuole autenticamente il bene. L'amore è volontà di vivere e di far vivere, perché la vita è il primo dei beni. E nella misura in cui ama la persona umana si realizza.
La relazione materna è il prototipo di questo amore: la madre ama la vita del figlio perché gli dà tutta la vita. In questo amare la vita del figlio, la madre si realizza come persona, cresce nella sua vita. E' anche il figlio allora che dà la sua vita alla madre.
“Questa è la realtà che fonda l'essere umano e viene stravolta dall'aborto”, ha sottolineato la Vergani.
“Le conseguenze dell'aborto sono un impoverimento della realtà – ha sintetizzato la relatrice –. Per questo la lettura psicologica e quella biologica, seppur necessarie, sono riduttive e non sufficienti ad affrontare la sindrome post-abortiva. La relazione madre-figlio non è altro che l'immagine della nostra umanità: la vita è unione di soggetti, questo è esistere”.
L’incontro è stato concluso dall’avvocato Arturo Buongiovanni, penalista e specializzato in bioetica, il quale ha sostenuto: “Se il diritto smette di essere per l’uomo non ha più senso di esistere”.
“Se il diritto non difende il debole, l’indifeso allora si torna alla barbarie della legge del più forte”.
“Se è possibile che qualcuno di noi decida che un altro non ha diritto alla vita diciamo sì alla dittatura, allo schiavismo, alla discriminazione, alla guerra”, ha aggiunto.
“Abbiamo di fronte una battaglia socio-culturale molto importante – ha ribadito l’avvocato Buongiovanni –. Non abbiamo paura di combatterla”.
Trattato di Lisbona: l'Europa dimentica i cittadini se affretta la ratifica.
Mario Mauro 21/06/2008
Autore(i): Mario Mauro. Pubblicato il 21/06/2008 – IlSuddiario.net
Dopo la due giorni del Consiglio europeo, durante la quale la questione della vittoria del no al referendum sul Trattato di Lisbona ha rappresentato l’argomento predominante, risulta evidente una chiara intenzione da parte dei vertici istituzionali comunitari e dei Capi di stato e di governo di continuare e anzi di accelerare le procedure di ratifica del Trattato in tutti gli stati in cui questo non è ancora avvenuto. In realtà, come ci si aspettava non è stata presa ancora alcuna decisione definitiva, infatti dalla bozza di conclusioni si evince soltanto che il Consiglio Europeo prende atto che «occorre più tempo» per esaminare la situazione del Trattato e che l'Irlanda «procederà attivamente» in consultazioni interne e con i partner per «proporre una via di uscita». Si torna infine sulla lontananza dell’Europa dai cittadini annunciando un forte coinvolgimento che porti”risultati concreti” nelle politiche che «preoccupano i cittadini». Il Consiglio Europeo prende atto inoltre che già si sono avute 19 ratifiche da parte dei paesi membri del Trattato di Lisbona e che le ratifiche «proseguono in altri paesi».
È importante sottolineare alcune prese di posizione. Il Presidente del Parlamento euorpeo Hans-Gert Pottering ha insistito sulla necessità di proseguire sulla strada delle ratifiche proponendo di terminare la procedura al più tardi in concomitanza con il prossimo Consiglio europeo che avrà luogo in ottobre, permettendo così l’entrata in vigore del Trattato in tempo per le elezioni europee del giugno 2009.
Una ratifica in tempi brevi del Trattato da parte di tutti i paesi e un superamento del concetto di unanimità, che storicamente costituisce un freno al processo di integrazione politica e alla capacità decisionale dell’Unione, impedirebbe una paralisi istituzionale che andrebbe a cancellare in un solo colpo tutti gli importanti progressi che il Trattato di Lisbona presenta per quanto riguarda il livello di democraticità dell’Unione. Sembra una contraddizione: il popolo irlandese boccia il Trattato di Lisbona facendo pagare all’Unione europea il suo enorme deficit di democrazia e poi si scopre che in realtà il trattato aumentava questa democraticità. Non è facile il linguaggio del Trattato e non è facile che 400 pagine di formule che rimandano ad altre leggi riescano ad interessare e ad essere comprese dai cittadini. Non è soprattutto facile per 500 milioni di cittadini dell’Unione, un popolo la cui storia è stata forgiata dall’ideale cristiano, accettare che questo ideale non sia considerato minimamente come fondante il progetto europeo. Non è facile accettarlo, ma paradossalmente la ratifica e l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona favorirebbero dei passi avanti in questo senso. Dopo la paralisi del 2005 è stato abbandonato il concetto di una Costituzione europea perché considerata troppo rigida e ingombrante. Il Trattato di Lisbona, proprio per la sua natura è flessibile e lascia spazio a margini di trattativa per cambiamenti in un futuro non troppo lontano, ma soprattutto perché alla cultura del politicamente corretto si sostituisca la capacità di prendere decisioni per il bene comune che ha caratterizzato la leadership dei grandi e veri europeisti del passato.
La storia di Kevin: dalla scuola ha imparato che la vita ha un valore
Redazione23/06/2008
Autore(i): Redazione. Pubblicato il 23/06/2008 – IlSussidiario.net
Kevin non si è presentato a scuola a metà gennaio, quando in Kenya è iniziato il nuovo anno scolastico. Kevin quest’anno frequenta l’ultimo anno alla scuola secondaria Cardinal Otunga di Nairobi e a novembre sosterrà l’esame di stato finale del corso.
È ritornato in classe due settimane dopo la maggior parte dei suoi compagni perchè ha dovuto lasciare la casa in cui viveva in seguito agli scontri che hanno coinvolto anche lo slum di Huruma in cui vive con la sua famiglia. Questo, come gli altri slum di Nairobi, è diventato il teatro degli scontri maggiori tra i due principali gruppi etnici: i Kikuyu, sostenitori di Kibaki, nominato Presidente dopo un conteggio dei voti molto contestato, e i Luo, il cui leader è Raila Odinga. Nello slum vivono da anni sia i Luo che i Kikuyu, in aree distinte, ma confinanti: devono passare per le stesse strade, per gli stessi vicoli, usare gli stessi mezzi di trasporto, comprare presso gli stessi “negozi” ambulanti.
Kevin appartiene alla tribù dei Luo. Nei giorni successivi alla nomina del Presidente è stato testimone degli scontri. «La palazzina in cui vivo - racconta - è stata il centro della guerra: è stata presa d’assalto per oltre 12 ore, tra domenica 30 e lunedi 31 dicembre: l’edificio e i vicoli per raggiungere la strada principale erano controllati da bande formate da giovani kikuyu. Solamente quando è arrivata la polizia siamo potuti uscire da casa ed essere ospitati da un nostro parente in un’altra zona della città».
In quelle ore dal balcone ha assistito inorridito all’uccisione di molte persone, fatte a pezzi con i “panga”, i lunghi machete usati normalmente per lavorare i campi. Questi giovani, come i loro “avversari” appartenenti alla tribù dei Luo, hanno la stessa età o qualche anno in più di Kevin. Pochi hanno finito la scuola elementare, non hanno potuto frequentare corsi professionali, e pertanto vivono di espedienti. Di fatto non hanno nulla da perdere. Sono le persone che più facilmente vengono strumentalizzate per fini politici: in cambio di pochi scellini sono stati tra quelli che hanno affollato le piazze durante la campagna elettorale dell’uno e dell’altro schieramento e dopo le elezioni sono stati quelli che hanno attivamente partecipato agli scontri e alle distruzioni.
Kevin ha avuto un’altra storia: è riuscito a frequentare la scuola secondaria, grazie ad un'adozione a distanza. I voti nella pagella dello scorso anno lo indicano come il migliore della classe. Vorrebbe diventare ingegnere.
In questi anni, a scuola, ha imparato il valore della propria persona, il desiderio di una vita migliore. Kevin non andrebbe mai a bruciare case o distruggere negozi. Kevin ha una dignità da difendere. È convinto che in Kenya la convivenza tra diverse tribù è possibile: «È un bene vivere insieme, come è stato finora. È un bene imparare il valore dell’altro. La soluzione non può essere solo un accordo tra i politici, ma occore educare la gente ad apprezzare il valore di ciascuna tribù».
Il Kenya ha bisogno, oggi più che mai, di educazione, non un’educazione qualsiasi, ma di un’educazione che apra il cuore dei ragazzi a quel desiderio di verità, di bellezza e di giustizia che lo costituisce, un’educazione che renda la persona consapevole della sua dignità e perciò rispettosa della dignità di ogni altra persona, indipendentemente dalla etnia o tribu di appartenenza. Kevin desidera che la situazione ritorni normale: «Vorrei completare il mio corso di studi ... - si ferma un attimo e aggiunge - in un modo positivo: ciò non solo ottenere un buon risultato finale, ma vivere quest’anno in modo da poter crescere nei rapporti e nelle amicizie che ho, con alcuni insegnanti e anche con i miei amici di altre tribù».