giovedì 5 giugno 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Ecco perché non rassegnarsi all’aborto – Ecce Homo!, di JOSEPH RATZINGER
2) Una nuova via per far fronte alla fame: riformare gli organismi internazionali, valorizzando i corpi intermedi
3) Onida: la priorità va alla scuola pubblica, ma lo Stato può aiutare le private
4) “Senza oneri per lo Stato”, alibi di chi non vuole la libertà di scelta
5) Per il «bene umano» senza pregiudizi
6) «Con le cure palliative stop all’eutanasia in Europa»
7) Diagnosi in gravidanza, quando la donna resta sola


Ecco perché non rassegnarsi all’aborto – Ecce Homo! , di JOSEPH RATZINGER
Trent’anni fa, il 6 giugno 1978, entrò in vigore la legge 194.
Pubblicata nella Gazzetta ufficiale il 22 maggio, cominciò ad essere applicata dopo il rituale periodo di «vacatio legis»: 15 giorni dopo. Ci separano da quella data cinque milioni di aborti timbrati dallo Stato ed eseguiti nella forma del servizio sociale. Sono stati anche trent’anni di discussione sulla legge. Quanto meno il «popolo della vita» ha impedito che il capitolo fosse chiuso.
È valsa e vale la pena? Questa domanda la pose Benedetto XVI, allora cardinale Ratzinger, il 19 dicembre 1987, concludendo un convegno su «Il diritto alla vita e l’Europa». Oggi quando la discussione sulla Legge194 è diventata più vivace, la rilettura di quel discorso è particolarmente opportuna.
Nell’impossibilità di riportare l’intero testo, ne riprendiamo soltanto qualche brano. Al centro vi è l’immagine dell’uomo in mano al Potere la cui unica possibile difesa di fronte alla folla manipolata che ne vuole cancellare l’esistenza sono le parole (paurose e inconsapevoli nella bocca di Pilato): «Ecce Homo!«
Ad una diffusa opinione pubblica di benpensanti può sembrare esagerato e inopportuno, anzi addirittura fastidioso che si continui a riproporre come questione decisiva il problema del rispetto della vita appena concepita e non ancora nata. Dopo i laceranti dibattiti concomitanti alla legalizzazione dell’aborto (avvenuta nell’ultimo quindicennio in quasi tutti i paesi occidentali) non si dovrebbe considerare ormai risolto il problema ed evitare quindi di riaprire ormai superate contrapposizioni ideologiche?
Perché non rassegnarsi ad aver perso questa battaglia e non dedicare invece le nostre energie ad iniziative che possono trovare il favore di un più grande consenso sociale? Restando alla superficie delle cose, si potrebbe essere convinti che, in fondo, l’approvazione legale dell’aborto ha cambiato poco nella nostra vita privata e nella vita delle nostre società. In fondo tutto sembra continuare esattamente come prima. Ognuno può regolarsi secondo coscienza: chi non vuole abortire non è costretto a farlo. Chi lo fa con l’approvazione di una legge – così si dice – forse lo farebbe comunque. Tutto si consuma nel silenzio di una sala operatoria, che almeno garantisce condizioni di una certa sicurezza dell’intervento. Il feto che non vedrà mai la luce è come se non fosse mai esistito. Chi se ne accorge? Perché continuare a dare voce pubblica a questo dramma?
Non è forse meglio lasciarlo sepolto nel silenzio della coscienza dei singoli protagonisti? …Il riconoscimento della sacralità della vita umana e della sua inviolabilità senza eccezioni non è un piccolo problema o questione che possa essere considerata relativa, in ordine al pluralismo delle opinioni presenti nella società moderna. Il testo della Genesi orienta la nostra riflessione in un duplice senso, che ben corrisponde alla duplice dimensione delle domande che ci eravamo posti all’inizio: 1) non esistono «piccoli omicidi»: il rispetto della vita umana è condizione essenziale perché sia possibile una vita sociale degna di questo nome; 2) quando nella sua coscienza l’uomo perde il rispetto per la vita come cosa sacra, inevitabilmente egli finisce per smarrire anche la sua stessa identità.
… Nella sua prefazione al noto libro del biologo francese Jaques Testart, L’oeuf transparent, il filosofo Michel Serres (apparentemente un non credente), affrontando la questione del rispetto dovuto all’embrione umano, si pone la domanda: «Chi è l’uomo?». Egli rileva che non vi sono risposte univoche e veramente soddisfacenti nella filosofia e nella cultura. Tuttavia egli nota che noi, pur non avendo una definizione teorica precisa dell’uomo, comunque nell’esperienza della vita concreta chi sia l’uomo lo sappiamo bene.
Lo sappiamo soprattutto quando ci troviamo di fronte a chi soffre, a chi è vittima del potere, a chi è indifeso e condannato a morte: «Ecce Homo!». Sì, questo non credente riporta proprio la frase di Pilato, che aveva tutto il potere, davanti a Gesù, spogliato, flagellato, coronato di spine e ormai condannato alla croce. Chi è l’uomo? È proprio il più debole e indifeso, colui che non ha né potere né voce per difendersi, colui al quale possiamo passare accanto nella vita facendo finta di non vederlo. Colui al quale possiamo chiudere il nostro cuore e dire che non è mai esistito.
E così, spontaneamente, ritorna alla memoria un’altra pagina evangelica, che voleva rispondere ad una simile richiesta di definizione: «Chi è il mio prossimo?» Sappiamo che per riconoscere chi è il nostro prossimo occorre accettare di fare il prossimo, cioè fermarsi, scendere da cavallo, avvicinarsi a colui che ha bisogno, prendersi cura di lui. «Ciò che avrete fatto al più piccolo di questi miei fratelli lo avrete fatto a me» (Mt.25,40)


Una nuova via per far fronte alla fame: riformare gli organismi internazionali, valorizzando i corpi intermedi
Alberto Piatti05/06/2008
Autore(i): Alberto Piatti. Pubblicato il 05/06/2008 – IlSussidiario.net

Dopo i proclami del Presidente iraniano che hanno rischiato di distogliere gravemente l’attenzione dal contenuto proprio del vertice Fao, si è entrati nel merito dell’agenda. Per capire le dimensioni del fenomeno fame voglio ricordare che nel vertice del 1996 ci si era dati l’obbiettivo di dimezzare da 800 milioni a 400 milioni le persone sofferenti. Dobbiamo constatare che il numero di persone che soffrono la fame ad oggi è aumentato di circa il 9%.
È indubbio che un vertice come quello in corso ha la grande valenza di portare a conoscenza dell’opinione pubblica, e quindi della coscienza di ciascuno di noi, la gravità della situazione, ma ci costringe anche a capire perché la situazione è peggiorata.
Ci aiuta un passaggio del messaggio che il Santo Padre, Papa Benedetto XVI, ha fatto pervenire ai partecipanti al vertice in corso attraverso Il Segretario di Stato Cardinale Tarcisio Bertone: «È urgente superare il paradosso di un consenso multilaterale che continua a essere in crisi a causa della sua subordinazione alle decisioni di pochi». Anche in questa situazione si assiste ad un consenso unanime sulla gravità della situazione e ad un altrettanto pressoché totale disaccordo sui rimedi possibili.
In questo contesto non sarà il consenso che cambierà la situazione, ma la decisione fare qualcosa di diverso rispetto alle analisi e alle ricette fino a qui sentite. Un nuovo, anzi antico punto di partenza, la dignità dell’essere umano. Ricollocare la persone al centro delle azioni e non quei “sistemi cosi perfetti” dove nessuno morirà più di fame.
Sono certamente fondamentali interventi di emergenza che risolvano la contingente crisi, e sono incoraggianti le proposte di Berlusconi (svincolare gli aiuti alle popolazioni nei Paesi in via di Sviluppo dai parametri economici Europei) e gli impegni assunti dal Ministro Frattini sia nell’immediato che nella prossima Presidenza italiana del G8.
Ci aspettiamo che queste disponibilità e il ruolo che l’Italia si sta ritagliando con questi impegni, arrivino anche a rivedere i meccanismi di spesa e di uso delle risorse messe a disposizione. Non possiamo più permetterci di staccare un assegno ad un qualunque Organismo internazionale senza pretenderne trasparenza e qualificazione della spesa o peggio, come prevede il Consenso di Parigi, veicolare l’aiuto bilaterale o multilaterale sul bilancio degli Stati. Questi meccanismi non pongono al centro la persona, ma le burocrazie con tutte le note inefficienze e corruzioni.
Cerchiamo di condizionare il nostro aiuto alla valorizzazione di quei corpi intermedi che nei paesi sono presenti, vicini alla gente e che conoscono i reali problemi. Facciamo leva su queste forme organizzate, aiutiamole e sosteniamole nelle loro attività. Il 17% delle terre irrigue produce il 40% del cibo al mondo: non è sempre necessario costruire un nuova diga di Assuan, bastano nell’immediato sistemi più elementari. Ripartire dalla persona significa ripercorre il lavoro che fecero i Benedettini in Europa bonificando e dissodando terreni “impossibili”. Con questo ideale si potranno usare tutti gli strumenti tecnici oggi a disposizione senza illudersi che dalla tecnica venga il cambiamento.
«Un cammino certamente non facile, ma che consentirebbe di riscoprire il valore della famiglia rurale: essa non si limita a preservare la trasmissione dai genitori ai figli dei sistemi di coltivazione […], ma è soprattutto un modello di vita, di educazione, di cultura e di religiosità», come ha ricordato Benedetto XVI.
L’Italia crei e finanzi 1.000 scuole agricole vicine alla gente e gestite in accordo con le comunità locali - già questo sarebbe un bel cambiamento di rotta - e si adoperi per una riforma adeguata ai tempi degli Organismi internazionali.
Se fossi il Direttore Generale della Fao, da così tanti anni, con questi risultati e con un costo di struttura del 52%, qualche domanda me la farei.


Onida: la priorità va alla scuola pubblica, ma lo Stato può aiutare le private
Int. a Valerio Onida05/06/2008
Autore(i): Int. a Valerio Onida. Pubblicato il 05/06/2008 – IlSussidiario.net

Professor Onida, ogni discorso sulla parità scolastica, anche in senso economico, si scontra con l’interpretazione, ancora controversa, dell’articolo 33 della Costituzione, in particolare dove dice «senza oneri per lo Stato». Qual è il significato di questo punto?
Penso che, come da tante parti si è sostenuto, il significato più congruo da dare a questa interpretazione sia che il diritto di creare scuole non dà diritto ad usufruire di finanziamenti pubblici, ma appunto è un diritto che si deve esercitare senza oneri per lo Stato. Il che non significa che lo Stato non possa, in relazione a circostanze concrete, ad aspetti oggettivi, a utilità sociali, disporre e prevedere anche forme di finanziamento facoltativo. Questo mi sembra che sia il significato dell'articolo 33. Lo Stato è tenuto a istituire scuole di ogni ordine e grado, e quindi la scuola pubblica non è un optional, ma è necessaria, ed è ovvio che le risorse pubbliche devono innanzitutto essere impiegate per mantenerla. Ciò non esclude che ci siano forme di coinvolgimento anche finanziario delle scuole private, come del resto ci sono già oggi.
Il fatto che ci siano molti studenti che si iscrivono alle scuole private implica un risparmio per lo Stato: questo non influisce sull’interpretazione del comma citato?
Bisogna stare attenti, perché allora si potrebbe dire che lo Stato può astenersi dal fare le scuole, perché le fanno i privati e allo Stato basta dare un po’ di soldi, che sarebbero poi meno di quanto gli costerebbe per fare le scuole. Questo non è accettabile, perché lo Stato deve mantenere la scuola pubblica. L'art. 33 dice che lo Stato «istituisce» scuole, quindi deve istituirle. Poi c'è il diritto del pluralismo scolastico, il diritto cioè di enti privati di creare scuole, confessionali e non confessionali; così il sistema delle scuole private si affianca legittimamente a quello statale e, anzi, chi le crea fa un servizio. Dal punto di vista finanziario, poi, è un problema di politica delle risorse, di politica del bilancio. Lo Stato quindi deve fare le scuole pubbliche; poi però, essendoci le scuole private, può decidere (anche sulla base della considerazione che c'è un risparmio per lo Stato) di intervenire con i propri finanziamenti.
Ma quel è letteralmente il significato del termine “oneri”?
Gli oneri sono oneri finanziari. Non credo che si possa pensare che «senza oneri» voglia dire «purché non costi di più di quello che costerebbe mantenere gli stessi studenti della scuola pubblica». Non credo che si possa interpretare così. Anche perchè appunto il sistema della scuola pubblica è un sistema che deve esistere, e lo Stato ha l'obbligo di crearlo.
Il tema della libertà di scelta educativa delle famiglie ha un suo valore e un suo riconoscimento anche dal punto di vista costituzionale?
Certamente dal punto di vista costituzionale (e mi pare che ci siano anche nelle convenzioni internazionali sui diritti europei) è riconosciuto il diritto dei genitori di attuare libere scelte in campo educativo. Per cui corrisponde al dovere dello Stato assicurare questo diritto. Creare scuole è un diritto. Poi è un problema di cultura e quindi della società quello di preferire che gli alunni crescano in ambienti multiculturali, o invece preferire scuole, diciamo così, orientate. Questo è un problema che riguarda la società e la libertà delle scelte. Naturalmente, essendo scuole che assolvono un servizio scolastico pubblico, sono tenute ad essere conformi a standard minimi che lo Stato deve fissare.
Quando si distingue tra scuola pubblica e scuola privata forse non si tiene conto del reale significato del termine “pubblico”: anche le scuole istituite e organizzate da privati possono essere definite pubbliche?
C'è un senso oggettivo del servizio pubblico, non solo in campo scolastico, ma in tutti i campi: il servizio pubblico può essere reso anche da soggetti privati. Bisogna distinguere tra carattere privato del soggetto, e carattere pubblico del servizio che rende. Questo accade tipicamente per le università non statali, in cui il soggetto è un soggetto privato, con una sua autonomia statutaria, e il servizio che rende è un servizio pubblico: hanno le stesse funzioni delle università di Stato, e rilasciano infatti titoli di valore legale.


“Senza oneri per lo Stato”, alibi di chi non vuole la libertà di scelta
Lorenza Violini05/06/2008
Autore(i): Lorenza Violini. Pubblicato il 05/06/2008 – IlSussidiario.net
Sei miliardi di euro è quanto lo Stato risparmia sull’istruzione grazie agli studenti che frequentano le scuole private. Tale dato costringe a ripensare alla clausola contenuta nel comma 3 dell’articolo 33 della Costituzione che, come è noto, impone che la scuola privata debba essere istituita “senza oneri per lo Stato”. Essa era già stata letta come un inciso volto solo ad escludere l’intervento statale nella fase istitutiva della scuola privata, ma che non ostacolava – come del resto normalmente avviene – l’intervento dello Stato o di altri enti pubblici a sostenerne il funzionamento. Altri hanno sostenuto che oneri per lo Stato sarebbero consentiti solo nella fase gestionale, mentre per altro orientamento ancora i contributi statali alle scuole private sarebbero legittimi, purché mantenuti nei limiti di quella riduzione di spesa (6 miliardi di euro, appunto) di cui lo Stato si verrebbe ad avvantaggiare in conseguenza della diminuzione del numero di alunni delle scuole non statali e per i quali, diversamente, si sarebbe dovuto impartire l’istruzione gratuita o a prezzo politico.
Al momento presente, i tempi sono maturi per ripensare alla normativa costituzionale in una nuova prospettiva: in un sistema scolastico moderno ed efficiente il problema su cui riflettere non è tanto la provenienza dei finanziamenti, quanto che l’insieme degli investimenti pubblici a sostegno del capitale umano sia ripartito in modo equo e che essi producano i risultati attesi. La parità scolastica, infatti, comporta che siano ristrutturate le logiche che sottostanno alla distinzione tra pubblico e privato per accedere a nuove logiche e a nuovi principi, tra cui primeggia il principio della libertà di scelta, già adombrato in sede costituente.
È per questo che, oggi più che mai, occorre riportare alla ribalta una lettura della clausola in esame volta essenzialmente a tutelare le libertà su cui si fonda il sistema scolastico: la libertà di scelta di studenti e famiglie come valore ideale e come principio di efficienza e la libertà di insegnamento volta a promuovere il pluralismo culturale ed educativo, coerentemente con i principi del pluralismo educativo e delle due libertà nella scuola e della scuola dettati dalla Costituzione. La clausola in esame costituirebbe pertanto un baluardo a presidio e difesa di tali libertà, che verrebbero pregiudicate se lo Stato, tramite un uso distorto della leva finanziaria, finisse, assumendosi oneri improduttivi, per gestire e controllare tutte le scuole, non solo statali, ma anche non statali, quasi che queste ultime (ma anche le prime) agissero nell’ambito di un regime di concessione amministrativa.
Ciò comporta, in concreto, che tutti devono essere liberi di istituire scuole, senza che questo comporti un “onere” per i pubblici poteri, cosicché il sistema scolastico possa configurarsi come un insieme di enti che forniscono il servizio educativo in modo articolato e plurale. Se poi lo Stato stesso o le Regioni si attivano per fornire a studenti e famiglie provvidenze finanziarie volte ad attenuare o rimborsare in toto le spese per l’istruzione, ciò non può essere considerato una violazione più o meno surrettizia della clausola costituzionale citata, ma costituisce invece la modalità concreta con cui l’ente pubblico svolge la sua funzione sussidiaria di sostegno al libero esercizio da parte dei cittadini dei loro diritti fondamentali e sociali, quale è quello di procurarsi un’istruzione adeguata.


LAICI E CATTOLICI: RISPOSTA A BODEI
Per il «bene umano» senza pregiudizi
Avvenire, 5 giugno 2008
FRANCESCO D’AGOSTINO
Non ha torto Remo Bodei, quando osserva che quella della ' vita' è diventata la categoria centrale della Chiesa cattolica ( si veda ' La Repubblica' del 27 maggio, a p. 33). Al tema della vita si riducono, infatti, le questioni più controverse e urgenti del nostro tempo: questioni nelle quali la Chiesa si sente profondamente coinvolta e per le quali pone all’attenzione di tutti le sue indicazioni e le sue risposte. Da uomo intelligente e non fazioso, Remo Bodei riconosce le posizioni della Chiesa assolutamente ' legittime' ed anzi proprio da questo riconoscimento di legittimità egli pensa che i laici debbano sentirsi provocati. Quello della Chiesa è infatti, a suo avviso, ancorché legittimo, un vero e proprio « assalto alla visione laica del mondo » , che chiede di essere fronteggiato, perché non è possibile ( e qui noi concordiamo assolutamente con lui) né rinviare a un futuro remoto la realizzazione di una società bene ordinata, né lasciarsi irretire da sogni regressivi, quali quelli di un ritorno a società religiosamente compatte, nelle quali i conflitti trovavano nella fede tutte le opportune mediazioni e non poche volte le loro soluzioni. La crisi del laicismo starebbe quindi tutta qui, nella sua incapacità di prendere posizione ' qui e ora' sul destino dell’uomo e della sua ' vita', a causa del « prosciugamento del senso profondo delle esistenze singole e collettive » , che caratterizzano il nostro tempo e nel quale « le religioni si inseriscono » . Insomma, attraverso le parole di Bodei, il laicismo scopre ( certo non per la prima volta, ma questa volta con espressioni di rara lucidità) le sue carenze, i suoi vuoti, le sue deficienze e confessa di non possedere in tempi brevi alcuna possibilità di colmarli. Un’analisi così lineare e consapevole, oltre a esigere ovviamente un profondo rispetto, sembra che debba richiedere ai credenti una sorta di sospensione di giudizio, nell’attesa che essa maturi con i tempi che sono i suoi. Un’ingerenza in queste dinamiche di riflessione potrebbe infatti apparire inopportuna, anche perché, chiaramente, non richiesta. Eppure, sfidando il rischio di entrare, per dir così, in ' casa altrui', vorrei offrire a Bodei un’osservazione, dalla cui correttezza dipende, a mio avviso, la possibilità di far convergere gli sforzi di credenti e non credenti, di laici e cattolici per la costruzione di quella « società bene ordinata » che – Bodei ne sarà perfettamente convinto – sta a cuore tanto agli uni quando agli altri. Dopo aver osservato che la questione ' vita', che ha acquisito nel nostro tempo un primato su ogni altra, Bodei rileva come per la Chiesa tale questione non può non essere riferita direttamente a Dio come sua « opera » . Ne consegue, conclude Bodei, che « è sempre Dio a fissare le regole » . Egli non aggiunge altro; ma è evidente che qui si pone la questione dirimente: come è possibile per i laici rinunciare al buon e libero uso della ragione e rimettersi a una volontà sovrana e imperscrutabile, come quella divina, che cala dall’alto e che esige semplicemente ubbidienza? I credenti sanno che le cose non stanno affatto così. E sanno anche, altrettanto bene, quanto sia difficile far capire ai ' laici' che la loro fede non implica né il sacrificio della loro ragione né l’ umiliazione della loro volontà. Quel Dio che « fissa le regole » ( per continuare a usare l’espressione di Bodei) è quello stesso Dio che ama l’uomo, che non gli chiede nulla che non sia per il suo stesso bene, per il bene della ' vita' ( che è bene umano e non confessionale!). L’immagine che spesso i laici hanno di Dio, quella di un despota orientale, inavvicinabile e imperscrutabile, è semplicemente una caricatura. Ne segue che la « costruzione di una società bene ordinata » può senza alcuna contraddizione essere opera congiunta di credenti e non credenti, alla sola condizione che gli uni e gli altri credano che esista un bene umano e che questo bene umano possa essere conosciuto e perseguito ( sia pure tra mille difficoltà). Il dramma della modernità non dipende dal fatto che le religioni si inseriscono nelle coscienze per orientarle ( perché comunque il loro unico fine è orientarle al bene), ma dal fatto che la cultura laica, nel suo relativismo, avendo smarrito la fiducia nel bene umano oggettivo, cade preda, senza avvedersene, delle ideologie più disparate. Sotto questo profilo il confronto sereno e serrato dei laici con i cattolici può avere per loro effetti insperati e imprevisti: primo tra tutti quello del superamento di pregiudizi ormai non più tollerabili.


«Con le cure palliative stop all’eutanasia in Europa»
Avvenire, 5 giugno 2008
Una tesi sconcertante: «Cure palliative ed eutanasia vanno a braccetto». Detto altrimenti: lo sviluppo delle prime spianerebbe la strada alla legalizzazione della seconda. E viceversa. Lo sostiene un gruppo di ricercatori belgi in un articolo pubblicato in aprile sul British medical journal. Le reazioni non si sono fatte attendere: la comunità dei medici europei che praticano le cure palliative sta dibattendo animatamente su questo argomento, che a loro non sembra per nulla casuale. L’intento parrebbe infatti ancora quello di forzare la mano su un tema che in Belgio è appena tornato al centro del dibattito con la proposta di estendere la legge pro-eutanasia (2002) aprendola anche a chi non è consenziente.

Sin dalle prime battute lo studio belga vuole far intendere che cure palliative ed eutanasia 'legalizzata' trovano il fondamento comune nell’autonomia del paziente e che entrambe recherebbero un giovamento ai cosiddetti caregiver, cioè coloro che – familiari e non solo – assistono i malati. Il successivo passaggio logico è, dunque, negare il rischio del 'piano inclinato' sul quale scivolerebbero anche i disabili. I dati, secondo i ricercatori belgi, smentirebbero infatti questo pericolo. Peccato però che l’autorevole Eapc (Associazione europea delle cure palliative) questo rischio invece lo veda eccome, tanto da averlo ribadito in più documenti e occasioni ufficiali.

La ricerca prosegue introducendo due concetti molto pericolosi: il primo per sostenere la tesi che esisterebbe anche una presunta «futilità palliativa», cioè cure palliative inutili; il secondo per definire come «cure palliative integrali» quelle che conterrebbero anche l’opzione eutanasica. Ma ai meeting dei palliativisti europei folta è sempre stata la delegazione dei belgi, e proprio durante il periodo che culminò con l’entrata in vigore della legge pro-eutanasia la formazione dei medici belgi in cure palliative andava aumentando.
Fin qui dunque l’articolo della rivista medica, che ha suscitato un vespaio di reazioni. Su una ventina di risposte pubblicate sul sito della prestigiosa pubblicazione la maggior parte sono infatti contrarie alle tesi dei belgi.

Scrive ad esempio l’oncologo spagnolo Alvaro Sanz: «Non possiamo condividere l’opinione che le cure palliative e l’eutanasia interagiscano e che il loro sviluppo sia occasione di incoraggiamento reciproco. Questa analisi rafforza la visione dei sostenitori dell’eutanasia, che hanno tutto l’interesse a offrire una visione di rispetto e cooperazione con le cure palliative. Perché l’opposto per loro sarebbe deleterio».
Ironico l’inglese Nicholas Herodotou: «La luce e le tenebre possono coesistere?
L’eutanasia non può essere la stessa cosa delle cure palliative perché non implica amore, cura, pazienza, conoscenza clinica e umanità».

Non è solo il Belgio ad aver conosciuto negli ultimi anni una diffusione delle cure palliative.
Peraltro, l’approvazione di una legge che legalizza il 'diritto alla morte' è il risultato di un complesso mix di fattori sociali, culturali, religiosi e politici.
Secondo Carlos Centeno, dell’Università spagnola di Navarra, «gli autori di questo articolo sostengono un’ipotesi senza provarla: anche in Inghilterra, Irlanda, Francia e Islanda sono diffuse le cure palliative. Eppure in questi Paesi l’eutanasia non c’è».

Si tratta allora di una forzatura, come spiega la presidente dell’associazione portoghese di cure palliative, Isabel Neto, che evidenzia come non vengano prese in esame «le questioni cliniche ed etiche del problema». Dai toni preoccupati l’intervento di Marta Munzarova, dell’Università di Brno, nella Repubblica Ceca: «Il rischio della china scivolosa non sta nei numeri ma nell’etica – dice –: è incredibile considerare le cure palliative e l’eutanasia come non antagoniste!».

L’opposizione la mette bene in evidenza l’italiano Marco Maltoni (Ospedale di Forlì) che assieme ad Augusto Caraceni (Milano) e Giovanni Zaninetta (Brescia) spiega come lo sviluppo delle cure palliative riduca la pratica dell’eutanasia sia in Olanda sia in Belgio. Di recente l’Eacp, che si è riunita a congresso a Trondheim in Norvegia, ha voluto ribadire la distinzione netta tra cure palliative ed eutanasia, che non può essere inglobata nelle prime, neanche dove è legalizzata.


Diagnosi in gravidanza, quando la donna resta sola
Avvenire, 5 giugno 2008
Integrare sempre le diagnosi prenatali con una fase «pre» e una «post­diagnostica », perché tale tecnica «non è eticamente neutra: come tutti gli atti umani è una scelta, e le scelte richiedono una reale conoscenza dei dati e implicano una responsabilità». Ovvero «l’autonomia delle donne nelle decisioni sulla loro gravidanza può essere seriamente compromessa da un uso routinario (dunque una 'non scelta') della diagnosi genetica prenatale, che spesso proviene da una pressione sociale per non far mettere al mondo figli con anomalie genetiche». È questa la richiesta esposta nel documento Accesso consapevole alla diagnosi genetica prenatale, firmato a fine maggio da un gruppo di ginecologi, neonatologi e bioeticisti e sottoscritto da numerosi loro colleghi. Su questa denuncia pubblica ora interviene anche Giorgio Vittori, presidente della Sigo, la Società italiana di ginecologia e ostetricia che riunisce i professionisti del settore.
Professore, condivide la richiesta di un approccio multidisciplinare a queste tecniche?
«Certo. Noi ginecologi dobbiamo prenderci cura – nel senso più pieno dell’espressione – delle donne che a noi si rivolgono. E dobbiamo riconoscere che la nostra preparazione di fronte a certe situazioni problematiche può non essere sufficiente, perché magari per una consulenza corretta si rendono necessarie anche figure specialistiche, come quelle del genetista, dell’ematologo, del pediatra oppure del neonatologo.
Bisogna pensare e operare in questa direzione».
Esiste anche per lei, come per gli estensori della lettera aperta, un problema di informazione adeguata prima di ricorrere alla diagnosi genetica prenatale?
«Oggi siamo pressati da un tempo visto automaticamente come denaro. Per essere chiaro, se il direttore generale dell’ospedale dove lavoro mi assegna dieci minuti come tempo di un colloquio in gravidanza – dieci minuti, e se ne faccio undici scatta una forma di penalizzazione – è chiaro che la qualità della comunicazione tenderà a essere bassa: cosa posso comunicare in un lasso di tempo così ristretto?
Per rispondere alla sua domanda: le posso dire che la qualità dell’informazione che viene data alle coppie che chiedono una consulenza per una diagnosi prenatale è mediamente imprevedibile».

Il che non è molto confortante...
«Vede, il tipo di informazioni che le sto passando in questo momento, nel quale fra l’altro c’è un clima di rispetto fra gli interlocutori, le richiederà comunque una riflessione prima di mettere nero su bianco quanto vado dicendole. Insomma, una serie di azioni e di revisioni che non si esauriscono in cinque minuti».
Per cui, lei afferma, se questo vale per un articolo, tanto più se c’è di mezzo una gravidanza, una nuova vita...
«Ovviamente. Senza contare lo stato in cui si trova una donna che arriva a 37-38 anni e desidera disperatamente concepire, perché capisce che le rimangono pochissime occasioni. In quel momento sulla lucida organizzazione e pianificazione familiare prevale l’ansia, a volte la disperazione, quasi il terrore. Per questo certe informazioni dovrebbero arrivare alla donna o alla coppia non solo in modo disteso e articolato, ma molto prima della scelta stessa del concepimento, per maturare un orientamento nel tempo».

Pensa che le associazioni dei familiari con malattie genetiche possano svolgere un ruolo utile?
«Sì, come punto di riferimento per una donna che di fronte a certe diagnosi si sente assolutamente sola. Anche se non è da sottovalutare un problema annesso: quali associazioni scegliere, come coordinarle e far sì che entrino in rete fra loro».