Nella rassegna stampa di oggi
1) Discorso del Papa ai fedeli dell'Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni
2) Omelia di Benedetto XVI a Santa Maria di Leuca
3) L’Europa senz’anima nuovamente bocciata dal referendum irlandese, di Magdi Cristiano Allam
4) Il popolo respinge e i burocrati vorrebbero infischiarsene - Intervista a Marcello Pera
5) Il popolo irlandese dice "NO" alla svendita della Nazione. Si prenda esempio.
6) L'Europa non può sottrarsi alla responsabilità di questa sconfitta, di Mario Mauro
7) I carri di Praga contro l'unico Sessantotto libero
8) La "pillola del giorno dopo" è un farmaco?
9) Casa di cura Santa Rita: un caso di "malaumanità"
10) OMELIA S.E. MONS. LUIGI NEGRI ORDINAZIONE DIACONALE P. LUCA TUTTOCUORE e P. CARLO VERONESI O.C
Discorso del Papa ai fedeli dell'Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni
In occasione della visita pastorale in Puglia
BRINDISI, domenica, 15 giugno 2008 (ZENIT.org).- Riportiamo il testo del discorso pronunciato da Benedetto XVI questo sabato rivolgendosi alla cittadinanza e ai giovani dell'Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni nel corso della sua visita pastorale di due giorni a Santa Maria di Leuca e Brindisi.
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Signor Ministro,
Signor Sindaco e illustri Autorità,
Cari fratelli e sorelle,
desidero innanzitutto esprimere la gioia di trovarmi in mezzo a voi e vi saluto tutti di gran cuore. Ringrazio l'Onorevole Raffaele Fitto, Ministro per gli Affari Regionali, che mi ha recato il saluto del Governo; ringrazio il Sindaco di Brindisi per le fervide espressioni di benvenuto che mi ha rivolto a nome di tutta la cittadinanza, e per il gentile dono che mi ha offerto. Saluto e ringrazio con affetto il giovane che si è fatto portavoce della gioventù brindisina. So che voi, cari giovani, avete animato l'assemblea nell'attesa del mio arrivo, e continuerete poi in una veglia di preghiera con la quale intendete preparare la Celebrazione eucaristica di domani. Saluto cordialmente l'Arcivescovo, Mons. Rocco Talucci, l'Arcivescovo emerito Mons. Settimio Todisco, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, e tutti i presenti.
Eccomi tra voi, cari amici! Ho accolto volentieri l'invito del Pastore della vostra Comunità diocesana, e sono lieto di visitare questa vostra Città che, mentre svolge un significativo ruolo nell'ambito del Mezzogiorno d'Italia, è chiamata a proiettarsi al di là del Mare Adriatico per comunicare con altre città ed altri popoli. In effetti, Brindisi, un tempo luogo d'imbarco verso l'Oriente per commercianti, legionari, studiosi e pellegrini, resta una porta aperta sul mare. Negli ultimi anni, i giornali e la televisione hanno mostrato le immagini di profughi sbarcati a Brindisi dalla Croazia e dal Montenegro, dall'Albania e dalla Macedonia. Mi sembra doveroso ricordare con gratitudine gli sforzi che sono stati compiuti e che continuano ad essere dispiegati dalle Amministrazioni civili e militari, in collaborazione con la Chiesa e con diverse Organizzazioni umanitarie, per dare loro rifugio e assistenza, nonostante le difficoltà economiche che continuano purtroppo a preoccupare particolarmente la vostra Regione. Generosa è stata e continua ad essere la vostra Città, e tale merito è stato ad essa giustamente riconosciuto con l'assegnazione, nel contesto della solidarietà internazionale, di un autentico ruolo istituzionale: essa ospita infatti la Base di pronto Intervento Umanitario delle Nazioni Unite (UNHRD), gestita dal Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (PAM).
Cari Brindisini, questa solidarietà fa parte delle virtù che formano il vostro ricco patrimonio civile e religioso: continuate con slancio rinnovato a costruire insieme il vostro futuro. Fra i valori radicati nella vostra Terra vorrei richiamare il rispetto della vita e specialmente l'attaccamento alla famiglia, esposta oggi al convergente attacco di numerose forze che cercano di indebolirla. Quanto è necessario ed urgente, anche di fronte a queste sfide, che tutte le persone di buona volontà si impegnino a salvaguardare la famiglia, solida base su cui costruire la vita dell'intera società! Altro fondamento della vostra società è la fede cristiana, che gli antenati hanno ritenuto come uno degli elementi qualificanti l'identità brindisina. Possa l'adesione al Vangelo, consapevolmente rinnovata e vissuta con responsabilità, spingervi, oggi come ieri, ad affrontare con fiducia le difficoltà e le sfide del momento presente; vi incoraggi la fede a rispondere senza compromessi alle legittime attese di promozione umana e sociale della vostra Città. A questa azione di rinnovamento non può non offrire il proprio apporto anche la nascente Università, chiamata a porsi al servizio di quanti, avendo coscienza della loro dignità e dei loro compiti, desiderano partecipare attivamente alla vita, al cammino, allo sviluppo economico, politico, culturale e religioso del territorio. Cari Brindisini, perché cresca nella vostra Città la cultura della solidarietà, ponetevi gli uni a servizio degli altri, lasciandovi guidare da un autentico spirito di fraternità. Dio vi è accanto e non vi farà mancare il costante sostegno della sua grazia.
Vorrei ora rivolgermi, in maniera speciale, ai numerosi giovani presenti. Cari amici, grazie per la vostra accoglienza calorosa, grazie per i fervidi sentimenti di cui si è fatto interprete il vostro rappresentante. Le vostre voci, che trovano immediata rispondenza nel mio animo, mi comunicano la vostra fiduciosa esuberanza, la vostra voglia di vivere. In esse colgo anche i problemi che vi assillano, e che talora rischiano di soffocare gli entusiasmi che sono tipici di questa stagione della vostra vita. Conosco, in particolare, il peso che grava su non pochi di voi e sul vostro futuro a causa del fenomeno drammatico della disoccupazione, che colpisce anzitutto i ragazzi e le ragazze del Mezzogiorno d'Italia. Allo stesso modo, so che la vostra giovinezza è insidiata dal richiamo di facili guadagni, dalla tentazione di rifugiarsi in paradisi artificiali o di lasciarsi attrarre da forme distorte di soddisfazione materiale. Non lasciatevi irretire dalle insidie del male! Ricercate piuttosto un'esistenza ricca di valori, per dare vita ad una società più giusta e più aperta al futuro. Mettete a frutto i doni di cui Dio vi ha dotato con la giovinezza: la forza, l'intelligenza, il coraggio, l'entusiasmo e la voglia di vivere. E' a partire da questo bagaglio, contando sempre sul sostegno divino, che potete alimentare in voi e attorno a voi la speranza. Dipende da voi e dal vostro cuore far sì che il progresso si tramuti in un bene maggiore per tutti. E la via del bene - voi lo sapete - ha un nome: si chiama amore.
Nell'amore, solo nell'amore autentico, si trova la chiave di ogni speranza, perché l'amore ha la sua radice in Dio. Leggiamo nella Bibbia: "Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi. Dio è amore" (1 Gv 4,16). E l'amore di Dio ha il volto dolce e compassionevole di Gesù Cristo. Eccoci dunque giunti al cuore del messaggio cristiano: Cristo è la risposta ai vostri interrogativi e problemi; in Lui viene avvalorata ogni onesta aspirazione dell'essere umano. Cristo, però, è esigente e rifugge dalle mezze misure. Egli sa di poter contare sulla vostra generosità e coerenza: per questo si attende molto da voi. SeguiteLo fedelmente e, per poterLo incontrare, amate la sua Chiesa, sentitevene responsabili, non rifuggite dall'essere, ciascuno nel suo ambito, coraggiosi protagonisti. Ecco un punto su cui vorrei richiamare la vostra attenzione: cercate di conoscere la Chiesa, di capirla, di amarla, prestando attenzione alla voce dei suoi Pastori. Essa è composta di uomini, ma Cristo ne è il Capo ed il suo Spirito la guida saldamente. Della Chiesa voi siete il volto giovane: non fate perciò mancare il vostro contributo, perché il Vangelo che essa proclama possa propagarsi dappertutto. Siate apostoli dei vostri coetanei!
Cari fratelli e sorelle, grazie ancora per la vostra accoglienza. Ho letto alcune lettere di ragazzi della vostra Provincia, a me indirizzate: da esse, cari amici, ho potuto meglio conoscere la vostra realtà. Grazie per il vostro affetto. A voi e a tutti i Brindisini assicuro la mia preghiera, perché possiate testimoniare il messaggio evangelico della pace e della giustizia. Maria, Regina Apuliae, vi protegga e accompagni sempre. Di cuore vi benedico ed a tutti auguro una buona notte!
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Omelia di Benedetto XVI a Santa Maria di Leuca
SANTA MARIA DI LEUCA, domenica, 15 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI durante la Messa che ha presieduto questo sabato sul piazzale del Santuario di Santa Maria de finibus terrae di Santa Maria di Leuca nel corso della sua visita pastorale in Puglia.
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Cari fratelli e sorelle,
la mia visita in Puglia - la seconda, dopo il Congresso Eucaristico di Bari - inizia come pellegrinaggio mariano, in questo estremo lembo d'Italia e d'Europa, nel Santuario di Santa Maria de finibus terrae. Con grande gioia rivolgo a tutti voi il mio affettuoso saluto. Ringrazio con affetto il Vescovo Mons. Vito De Grisantis per avermi invitato e per la sua cordiale accoglienza; insieme con lui saluto gli altri Vescovi della Regione, in particolare il Metropolita di Lecce Mons. Cosmo Francesco Ruppi; come pure i presbiteri e i diaconi, le persone consacrate e tutti i fedeli. Saluto con riconoscenza il Ministro Raffaele Fitto, in rappresentanza del Governo italiano, e le diverse Autorità civili e militari presenti.
In questo luogo storicamente così importante per il culto della Beata Vergine Maria, ho voluto che la liturgia fosse dedicata a Lei, Stella del mare e Stella della speranza. "Ave, maris stella, / Dei Mater alma, / atque semper virgo, / felix caeli porta!". Le parole di questo antico inno sono un saluto che riecheggia in qualche modo quello dell'Angelo a Nazaret. Tutti i titoli mariani infatti sono come gemmati e fioriti da quel primo nome con il quale il messaggero celeste si rivolse alla Vergine: "Rallegrati, piena di grazia" (Lc 1,28). L'abbiamo ascoltato nel Vangelo di san Luca, molto appropriato perché questo Santuario - come attesta la lapide sopra la porta centrale dell'atrio - è intitolato alla Vergine Santissima "Annunziata". Quando Dio chiama Maria "piena di grazia", si accende per il genere umano la speranza della salvezza: una figlia del nostro popolo ha trovato grazia agli occhi del Signore, che l'ha prescelta quale Madre del Redentore. Nella semplicità della casa di Maria, in un povero borgo di Galilea, incomincia ad adempiersi la solenne profezia della salvezza: "Io porrò inimicizia tra te e la donna, / tra la tua stirpe / e la sua stirpe: / questa ti schiaccerà la testa / e tu le insidierai il calcagno" (Gn 3,15). Perciò il popolo cristiano ha fatto proprio il cantico di lode che gli Ebrei elevarono a Giuditta e che noi abbiamo poc'anzi pregato come Salmo responsoriale: "Benedetta sei tu, figlia, / davanti al Dio altissimo / più di tutte le donne che vivono sulla terra" (Gdt 13,18). Senza violenza, ma con il mite coraggio del suo "sì", la Vergine ci ha liberati non da un nemico terreno, ma dall'antico avversario, dando un corpo umano a Colui che gli avrebbe schiacciato la testa una volta per sempre.
Ecco perché, sul mare della vita e della storia, Maria risplende come Stella di speranza. Non brilla di luce propria, ma riflette quella di Cristo, Sole apparso all'orizzonte dell'umanità, così che seguendo la Stella di Maria possiamo orientarci nel viaggio e mantenere la rotta verso Cristo, specialmente nei momenti oscuri e tempestosi. L'apostolo Pietro ha conosciuto bene questa esperienza, per averla vissuta in prima persona. Una notte, mentre con gli altri discepoli stava attraversando il lago di Galilea, fu sorpreso dalla tempesta. La loro barca, in balia delle onde, non riusciva più ad avanzare. Gesù li raggiunse in quel momento camminando sulle acque, e invitò Pietro a scendere dalla barca e ad avvicinarsi. Pietro fece qualche passo tra le onde ma poi si sentì sprofondare e allora gridò: "Signore, salvami!". Gesù lo afferrò per la mano e lo trasse in salvo (cfr Mt 14,24-33). Questo episodio si rivelò poi un segno della prova che Pietro doveva attraversare al momento della passione di Gesù. Quando il Signore fu arrestato, egli ebbe paura e lo rinnegò tre volte: fu sopraffatto dalla tempesta. Ma quando i suoi occhi incrociarono lo sguardo di Cristo, la misericordia di Dio lo riprese e, facendolo sciogliere in lacrime, lo risollevò dalla sua caduta.
Ho voluto rievocare la storia di san Pietro, perché so che questo luogo e tutta la vostra Chiesa sono particolarmente legati al Principe degli Apostoli. A lui, come all'inizio ha ricordato il Vescovo, la tradizione fa risalire il primo annuncio del Vangelo in questa terra. Il Pescatore, "pescato" da Gesù, ha gettato le reti fin qui, e noi oggi rendiamo grazie per essere stati oggetto di questa "pesca miracolosa", che dura da duemila anni, una pesca che, come scrive proprio san Pietro, "ci ha chiamati dalle tenebre alla ammirabile luce [di Dio]" (1 Pt 2,9). Per diventare pescatori con Cristo bisogna prima essere "pescati" da Lui. San Pietro è testimone di questa realtà, come lo è san Paolo, grande convertito, di cui tra pochi giorni inaugureremo il bimillenario della nascita. Come Successore di Pietro e Vescovo della Chiesa fondata sul sangue di questi due eminenti Apostoli, sono venuto a confermarvi nella fede in Gesù Cristo, unico salvatore dell'uomo e del mondo.
La fede di Pietro e la fede di Maria si coniugano in questo Santuario. Qui si può attingere al duplice principio dell'esperienza cristiana: quello mariano e quello petrino. Entrambi, insieme, vi aiuteranno, cari fratelli e sorelle, a "ripartire da Cristo", a rinnovare la vostra fede, perché risponda alle esigenze del nostro tempo. Maria vi insegna a restare sempre in ascolto del Signore nel silenzio della preghiera, ad accogliere con generosa disponibilità la sua Parola col profondo desiderio di offrire voi stessi a Dio, la vostra vita concreta, affinché il suo Verbo eterno, per la potenza dello Spirito Santo, possa ancora "farsi carne" oggi, nella nostra storia. Maria vi aiuterà a seguire Gesù con fedeltà, ad unirvi a Lui nell'offerta del Sacrificio, a portare nel cuore la gioia della sua Risurrezione e a vivere in costante docilità allo Spirito della Pentecoste. In modo complementare, anche san Pietro vi insegnerà a sentire e credere con la Chiesa, saldi nella fede cattolica; vi porterà ad avere il gusto e la passione dell'unità, della comunione, la gioia di camminare insieme con i Pastori; e, al tempo stesso, vi parteciperà l'ansia della missione, di condividere il Vangelo con tutti, di farlo giungere fino agli estremi confini della terra.
"De finibus terrae": il nome di questo luogo santo è molto bello e suggestivo, perché riecheggia una delle ultime parole di Gesù ai suoi discepoli. Proteso tra l'Europa e il Mediterraneo, tra l'Occidente e l'Oriente, esso ci ricorda che la Chiesa non ha confini, è universale. E i confini geografici, culturali, etnici, addirittura i confini religiosi sono per la Chiesa un invito all'evangelizzazione nella prospettiva della "comunione delle diversità". La Chiesa è nata a Pentecoste, è nata universale e la sua vocazione è parlare tutte le lingue del mondo. La Chiesa esiste - secondo l'originaria vocazione e missione rivelata ad Abramo - per essere una benedizione a beneficio di tutti i popoli della terra (cfr Gn 12,1-3); per essere, con il linguaggio del Concilio Ecumenico Vaticano II, segno e strumento di unità per tutto il genere umano (cfr Cost. Lumen gentium, 1). La Chiesa che è in Puglia possiede una spiccata vocazione ad essere ponte tra popoli e culture. Questa terra e questo Santuario sono in effetti un "avamposto" in tale direzione, e mi sono molto rallegrato nel constatare, sia nella lettera del vostro Vescovo come anche oggi nelle sue parole, quanto questa sensibilità sia tra voi viva e percepita in modo positivo, con genuino spirito evangelico.
Cari amici, noi sappiamo bene, perché il Signore Gesù su questo è stato molto chiaro, che l'efficacia della testimonianza è proporzionata all'intensità dell'amore. A nulla vale proiettarsi fino ai confini della terra, se prima non ci si vuole bene e non ci si aiuta gli uni gli altri all'interno della comunità cristiana. Perciò l'esortazione dell'apostolo Paolo, che abbiamo ascoltato nella seconda Lettura (Col 3,12-17), è fondamentale non solo per la vostra vita di famiglia ecclesiale, ma anche per il vostro impegno di animazione della realtà sociale. Infatti, in un contesto che tende a incentivare sempre più l'individualismo, il primo servizio della Chiesa è quello di educare al senso sociale, all'attenzione per il prossimo, alla solidarietà e alla condivisione. La Chiesa, dotata com'è dal suo Signore di una carica spirituale che continuamente si rinnova, si rivela capace di esercitare un influsso positivo anche sul piano sociale, perché promuove un'umanità rinnovata e rapporti umani aperti e costruttivi, nel rispetto e nel servizio in primo luogo degli ultimi e dei più deboli.
Qui, nel Salento, come in tutto il Meridione d'Italia, le Comunità ecclesiali sono luoghi dove le giovani generazioni possono imparare la speranza, non come utopia, ma come fiducia tenace nella forza del bene. Il bene vince e, se a volte può apparire sconfitto dalla sopraffazione e dalla furbizia, in realtà continua ad operare nel silenzio e nella discrezione portando frutti nel lungo periodo. Questo è il rinnovamento sociale cristiano, basato sulla trasformazione delle coscienze, sulla formazione morale, sulla preghiera; sì, perché la preghiera dà la forza di credere e lottare per il bene anche quando umanamente si sarebbe tentati di scoraggiarsi e di tirarsi indietro. Le iniziative che il Vescovo ha citato in apertura e le altre che portate avanti nel vostro territorio, sono segni eloquenti di questo stile tipicamente ecclesiale di promozione umana e sociale. Al tempo stesso, cogliendo l'occasione della presenza delle Autorità civili, mi piace ricordare che la Comunità cristiana non può e non vuole mai sostituirsi alle legittime e doverose competenze delle Istituzioni, anzi, le stimola e le sostiene nei loro compiti e si propone sempre di collaborare con esse per il bene di tutti, a partire dalle situazioni di maggiore disagio e difficoltà.
Il pensiero torna, infine, alla Vergine Santissima. Da questo Santuario di Santa Maria de finibus terrae desidero recarmi in spirituale pellegrinaggio nei vari Santuari mariani del Salento, vere gemme incastonate in questa penisola lanciata come un ponte sul mare. La pietà mariana delle popolazioni si è formata sotto l'influsso mirabile della devozione basiliana alla Theotokos, una devozione coltivata poi dai figli di san Benedetto, di san Domenico, di san Francesco, ed espressa in bellissime chiese e semplici edicole sacre, che vanno curate e preservate come segno della ricca eredità religiosa e civile della vostra gente. Ci rivolgiamo dunque ancora a Te, Vergine Maria, che sei rimasta intrepida ai piedi della croce del tuo Figlio. Tu sei modello di fede e di speranza nella forza della verità e del bene. Con le parole dell'antico inno ti invochiamo: "Spezza i legami agli oppressi, / rendi la luce ai ciechi, / scaccia da noi ogni male, / chiedi per noi ogni bene". E allargando lo sguardo all'orizzonte dove cielo e mare si congiungono, vogliamo affidarti i popoli che si affacciano sul Mediterraneo e quelli del mondo intero, invocando per tutti sviluppo e pace: "Donaci giorni di pace, / veglia sul nostro cammino, / fa' che vediamo il tuo Figlio, / pieni di gioia nel cielo". Amen.
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L’Europa senz’anima nuovamente bocciata dal referendum irlandese
La lezione da trarre è che l’Europa non ha alternativa se non riconciliarsi con se stessa riconoscendo la verità e la bontà della propria storia, fede, cultura e tradizione che affondano le loro radici nel cristianesimo
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
La bocciatura del Trattato di Lisbona, una versione riduttiva della Costituzione Europea dopo il “no” irlandese al referendum consultivo, ripropone con forza la realtà di un’Europa senz’anima che si illude ostinatamente di poter crescere come nazione e come civiltà ignorando o addirittura rifiutando il riferimento ai valori e all’identità collettiva.
Nel caso specifico del “no” irlandese è marcata la contrarietà a una Carta costituzionale che relativizza l’istituto della famiglia, autorizzando la famiglia omosessuale, così come relativizza il valore della vita, aprendo alla sperimentazione della fecondazione artificiale, all’eugenetica e all’eutanasia.
La Costituzione Europea, bocciata nel 2004 dopo il duplice “no” al referendum svoltosi in Francia e Olanda, era stata contestata per il rifiuto di menzionare nel preambolo un riferimento alle radici giudaico-cristiane dell’Europa.
Ora si riparte da zero. La lezione da trarre è che non ci sono scorciatoie sul tema nodale dei valori e dell’identità: o l’Europa si riconcilia con se stessa riconoscendo la verità e la bontà della propria storia, fede, cultura e tradizione che affondano le loro radici nel cristianesimo oppure continuerà a navigare a vista come un colosso cieco che non ha una rotta e non persegue un traguardo.
Solo quando l’Europa riscatterà la propria anima recuperando i valori e acquisendo un’identità collettiva, riuscirà ad affrancarsi dall’inganno della mistificazione della realtà, radicando quei valori che corrispondono al bene comune e assumendo quei comportamenti che realizzano l’interesse della collettività.
Cari amici, andiamo avanti insieme da Protagonisti per l’Italia dei diritti e dei doveri, promuovendo un Movimento della Verità, della Vita e della Libertà, per una riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura, della politica e dello Stato, con i miei migliori auguri di successo e di ogni bene.
Magdi Cristiano Allam
Il popolo respinge e i burocrati vorrebbero infischiarsene - Intervista a Marcello Pera
Visto? Non sta in piedi un’Unione senza Dio"
Siamo di fronte al suicidio di una Costituzione troppo lontana dai popoli e dalle società europee...
E’ la vendetta cristiana, la storica risposta dei credenti all’Europa senza Dio». Il no irlandese al trattato di Lisbona è «l’inevitabile reazione alla cancellazione delle radici cristiane dalla Costituzione e alle eurodirettive, prive di legittimazione democratica, che stravolgono le legislazioni nazionali sui temi bioetici», attacca il senatore «teocon» del Pdl, Marcello Pera.
«Questa Ue è morta perché stata abbandonata dai popoli e ora solo Benedetto XVI può dare un’identità al vecchio continente - sostiene l’ex presidente del Senato e coautore del libro papale “Senza radici: Europa, relativismo, cristianesimo, islam” - Il cattolicissimo popolo d’Irlanda ha avvertito l’estraneità di un’Europa burocratica e astratta che nega duemila anni di cristianesimo»
Perché la cattolica Irlanda affossa l’Ue?
«Siamo di fronte al suicidio di una Costituzione troppo lontana dai popoli e dalle società europee. Sta crollando un’architettura barocca con espressioni bizantine indecifrabili per gli stessi parlamentari e ignote ai cittadini. E’ l’ineluttabile implosione di un mostro gigantesco e privo di significato che impone restrizioni, rispetto di patti, vincoli, parametri astrusi ma poi lascia soli i governi sulla sicurezza e l’integrazione. I cattolici irlandesi si sono ribellati ad un’Europa che nella Costituzione mette al bando Dio per orientare verso l’anarchia del relativismo le legislazione nazionali sui temi eticamente sensibili (adozioni ai gay, eutanasia, aborto, “provetta selvaggia”)».
Una rivolta cristiana ai “senza Dio” di Bruxelles e Strasburgo?
«La legislazione bioetica in paesi cattolici come l’Irlanda e l’Italia viene importata dall’Europa e sfugge al controllo democratico. Delle corti europee che decidono della nostra vita nessuno sa nulla, non hanno rapporto con la popolazione. Sono organismi di giustizia che legiferano in modo troppo autonomo sulla base di testi ignoti e le loro decisioni piombano sulle nostre teste. Ormai sono il cavallo di Troia per introdurre all’interno degli Stati la gran parte della legislazione bioetica. Dell’Europarlamento nessuno conosce la funzione. E’ eletto ma non è terreno di scontro politico, non è niente. l’intera Ue è una costruzione complicata, remota, ostile che incombe sulla gente scegliendo tutto sulla vita umana dal concepimento alla fine naturale. E poi non riesce a proteggermi dal vicino di casa».
E’ colpa della «cacciata» di Dio dalla Costituzione?
«Sì. Il giorno infausto in cui ha deciso programmaticamente di eliminare Dio, l’Europa si è condannata all’inesistenza, cioè ad essere priva di un popolo, di una storia, di un’identità europei. Senza Dio l’Europa non si unifica. Lo hanno ben capito gli irlandesi, tradizionalmente attenti alle leggi e gelosi della loro insularità. Oggi sprofonda un’Europa atea, nemica che esibisce il volto minaccioso di veti inconcepibili, impone medicine amare, pretende di azzerare i valori non negoziabili. Adesso l’ipocrisia è finita: l’Ue ha fallito. Anche in Italia serve il coraggio di dire “no,basta” e ricominciare da un’altra parte».
Da dove?
«Dai temi etici posti da Benedetto XVI, l’unico grande leader di statura e livello europei. Solo Papa Ratzinger può unificare l’Europa.
In assenza di un’adeguata classe politica, Benedetto XVI è diventato il vero punto di riferimento dei popoli e l’autentico artefice dell’identità europea. in Irlanda e altrove la gente segue lui. Da Benedetto XVI i cittadini europei traggono identità, dai politici il nulla. Per questo seguono il Papa e affossano l’Ue.
L'Unione ce l’ha con la Chiesa (e con coloro che su questioni come l’omofobia e il riconoscimento giuridico delle coppie di fatto ne condividono la posizione) perchè è la punta avanzata del laicismo europeo. E' sull'odio contro la Chiesa e l’apostasia del cristianesimo che oggi si basa l'Europa».
di Giacomo Galeazzi
La Stampa 14 giugno 2008
Il popolo irlandese dice "NO" alla svendita della Nazione. Si prenda esempio.
Data: 14 Giugno 2008
Autore: Fausto Carioti
Fonte: Libero 14 giugno 2008
12 giugno, temendo quello che poi di fatto è accaduto in Irlanda, Libération, il giornale della sinistra chic (posseduto dai famosi Rotschild), con un articolo di Alain Duhamel, fratello del direttore generale di France Télévision, vomitava rabbia e disprezzo contro il "dispotismo irlandese", che osava sfidare l'Unione europea.
Per l'élite europea chi vota contro non è abbastanza evoluto. Ma ogni volta che si passa dalle urne per loro c'è una sberla. Il Trattato di Lisbona deve essere approvato all'unanimità, e il "no" di Dublino dovrebbe chiudere automaticamente la partita. Ma l'élite europea - o "eurocasta" che dir si voglia - non ha alcuna intenzione di mollare l'osso, e già ieri sera provava a derubricare la nuova bocciatura come un semplice incidente di percorso, aggirabile con uno dei tanti marchingegni istituzionali già adottati in passato. Magari chiamando di nuovo gli irlandesi alle urne il prossimo anno. Ovviamente, avessero vinto i "sì", col cavolo che i fautori del "no" avrebbero avuto una seconda chance. È di questa strana idea di democrazia che i popoli europei non si fidano...
La vendetta degli elettori contro l'eurocasta
Gli elettori europei si dividono in due categorie: quelli che hanno bocciato i trattati europei e quelli ai quali è stata negata la possibilità di bocciarli. Gli irlandesi appartengono alla prima categoria. Gli italiani, come altri popoli europei, fanno parte della seconda. A Dublino e dintorni giovedì scorso, per volere della Corte suprema, cioè della massima magistratura irlandese, i cittadini sono stati chiamati alle urne per approvare o respingere il Trattato di Lisbona, versione edulcorata della precedente costituzione europea, che fu affossata dal pronunciamento degli elettori francesi e olandesi nel 2005. Il verdetto irlandese è stato reso noto ieri: il 53,4% dei votanti ha detto "no". È la conferma - l'ennesima - che il palazzo di Bruxelles è visto dalla gran parte degli europei come un'astronave aliena piombata nel mezzo del continente da chissà dove, abitata da personaggi strani che, pur usando una lingua astrusa e incomprensibile, lontana da ogni comune idioma europeo, pretendono di dettare legge in casa nostra. Il raffronto con gli Stati Uniti, inevitabile pietra di paragone e oggetto delle invidie degli eurotecnocrati, è semplicemente umiliante. La Costituzione americana è sangue e storia di quel popolo, e ogni cittadino d'oltreoceano conosce a memoria almeno i principali emendamenti, quelli che difendono le sue libertà. Il Trattato di Lisbona è il figlio deforme delle beghe delle élites europee e dei loro compromessi al ribasso, è la traduzione cartacea di un progetto costruttivista che nessun cittadino europeo ha ancora capito in cosa consista e in che modo dovrebbe essergli utile. Tant'è che solo pochi esperti della materia - un circolo ristretto di iniziati che se si presentassero al giudizio degli elettori non riuscirebbero nemmeno a farsi eleggere amministratori di condominio - sono in grado di ricordarne qualche brandello di testo.
Un'élite inamovibile
Eppure gli europei, ogni volta che hanno potuto, non l'hanno mandata a dire. Si iniziò con il trattato di Maastricht, che nel 1992 fu sottoposto al giudizio dei danesi, i quali lo bocciarono, anche se di stretta misura. L'impalcatura europea fu salvata miracolosamente dai francesi, i quali - pochi mesi dopo - approvarono con il 51% dei voti l'accordo europeo. Si tornò a dare la parola ai cittadini nel 2001, quando gli irlandesi affossarono il trattato di Nizza, che stabiliva le regole da adottare man mano che gli stati dell'Europa orientale sarebbero entrati nell'Unione. L'accordo dovette essere modificato e fu necessario un secondo referendum per strappare il "sì" di Dublino. Nel 2005 fu il turno della costituzione europea, prima promossa da un referendum spagnolo, quindi silurata senza pietà dagli elettori di Francia e Paesi Bassi. Così furono necessari due anni di riflessione per approvare, a Lisbona, una nuova carta europea, chiamata ufficialmente "trattato di riforma", che assegna più poteri ai parlamenti nazionali e diminuisce la facoltà legislativa della Ue. Non è servito a niente: appena sottoposto agli elettori, questo Trattato ha subito la stessa sorte riservata al suo predecessore. Se a Bruxelles e Strasburgo la politica fosse governata dalla decenza, il voto irlandese sancirebbe la fine dei tentativi di imporre agli europei regole che rifiutano. Il Trattato di Lisbona deve essere approvato all'unanimità, e il "no" di Dublino dovrebbe chiudere automaticamente la partita. Ma l'élite europea non ha alcuna intenzione di mollare l'osso, e già ieri sera provava a derubricare la nuova bocciatura come un semplice incidente di percorso, aggirabile con uno dei tanti marchingegni istituzionali già adottati in passato. Magari chiamando di nuovo gli irlandesi alle urne il prossimo anno. Ovviamente, avessero vinto i "sì", col cavolo che i fautori del "no" avrebbero avuto una seconda chance. Il presidente della commissione europea, José Manuel Barroso, ha ricordato che diciotto Paesi hanno già approvato il trattato, e ha invitato gli altri otto a tirare dritto con le ratifiche. Peccato che l'Irlanda sia stato l'unico Paese che abbia previsto una consultazione popolare, mentre i diciotto che hanno approvato l'accordo l'abbiano fatto solo tramite i parlamenti: evidentemente certe cose sono ritenute troppo importanti per essere affidate al rozzo giudizio degli elettori.
Una strana idea di democrazia
In Italia, dove il testo è stato varato dal consiglio dei ministri due settimane fa, l'iter per l'approvazione definitiva del trattato inizierà tra pochi giorni. Ovviamente fare un referendum, da queste parti, è pura utopia. Quale sia l'idea d'Europa e di democrazia che va per la maggiore l'ha spiegato con toni da Istituto Luce Giorgio Napolitano, commentando il voto irlandese: «Non si può pensare che la decisione di poco più della metà degli elettori di un Paese che rappresenta meno dell'1% della popolazione dell'Unione possa arrestare l'indispensabile, ed oramai non più procrastinabile, processo di riforma. È l'ora di una scelta coraggiosa da parte di quanti vogliono dare coerente sviluppo alla costruzione europea, lasciandone fuori chi, nonostante impegni solennemente sottoscritti, minaccia di bloccarla». Bontà sua, il presidente della Repubblica se la prende con chi ha sottoposto il trattato Ue al voto degli elettori e propone di lasciare fuori dall'Europa chi non piega la testa al diktat della casta di Bruxelles. Poi si chiedono come mai, appena si parla di Unione europea, la mano degli elettori corre alla fondina.
L'Europa non può sottrarsi alla responsabilità di questa sconfitta
Mario Mauro14/06/2008
Autore(i): Mario Mauro. Pubblicato il 14/06/2008 – IlSussidiario.net
Il No al Trattato di Lisbona è una pesante battuta d'arresto per tutti coloro che speravano di rimettere in moto il metodo d'intervento che ha portato pace e sviluppo per 50 anni. Non possiamo sottrarci alla responsabilità di questa sconfitta, frutto senza dubbio della persistente lontananza delle istituzioni europee dai cittadini, non si può prospettare cessione di sovranità senza che l'ultimo dei cittadini ne sia pienamente cosciente.
Non c'è dubbio che il Trattato sull'Unione europea, firmato a Lisbona nel dicembre 2007 avrebbe potuto accrescere la democraticità dell'Unione. L’organo legislativo per eccellenza, quello che in tutti gli Stati nazionali ha competenza esclusiva (o quasi) per quanto riguarda l’iniziativa legislativa, vale a dire il Parlamento europeo, sarebbe stato considerato in questo caso il grande vincitore del Trattato di riforma.
Questo pur conservando il Trattato elementi di incompletezza ed evidenziando modesti progressi per quanto riguarda il processo decisionale.
L’estensione della procedura di codecisione al 95 per cento della legislazione dell’Unione, poteri in materia di bilancio, nuovi poteri in materia di delega legislativa, elezione del presidente della Commissione, poteri di iniziativa in materia di revisione dei Trattati gli avrebbero consentito un’influenza mai verificatasi nei confronti delle altre istituzioni europee. Questo avrebbe comportato senza dubbio un rafforzamento della dimensione federale dell’Unione europea. Nella Federazione si decide con voto a maggioranza nella Camera che rappresenta gli Stati e la Camera che rappresenta il popolo/popoli partecipa alla formazione della legislazione su un piede di parità. Il salto di qualità era molto evidente, considerato anche che il Consiglio avrebbe deciso a maggioranza qualificata per la stessa percentuale di legislazione del Parlamento.
Ma la valanga dei no irlandesi ha bruscamente interrotto questa strada mettendo a nudo il tradimento che nel tempo è stato fatto del sogno degli Stati Uniti d'Europa ascrivibile ai padri fondatori e lasciando i 500 milioni di cittadini dell'Unione alle prese con un singolare deficit di democrazia.
Perché il deficit sia superato definitivamente occorre tuttavia dare vita a un vero dibattito politico europeo, c’è la necessità di creare un’opinione pubblica europea, la dimensione europea deve svincolarsi dalle logiche nazionali, la politica europea deve entrare nel cuore e nell’impegno concreto dei cittadini. La nostra responsabilità per la vittoria del No al referendum in Irlanda sta tutta qui, la sconfitta è il frutto della persistente lontananza delle istituzioni europee dai cittadini.
Il Parlamento europeo deve evidenziare un vero confronto politico, altrimenti corre il rischio di non interessare ai cittadini e sarà da essi considerato sempre come un’entità astratta e lontanissima dalle loro esigenze. Anche su questo abbiamo avuto dei segnali positivi come nel caso della direttiva servizi, oppure nell'attuale confronto sull'immigrazione. Su questi argomenti c’è stato lo stesso dibattito in molti Paesi membri, con un esponenziale coinvolgimento dell’opinione pubblica in tutti questi Stati.
Chi invece ha puntato tutto sulla tentazione di lasciar fare alle tecnocrazie ha prodotto la crisi del sistema e, minando la credibilità di coloro che intendevano continuare a scommettere sul progetto politico "Stati Uniti d'Europa", ha prospettato per una generazione di rassegnarsi a una sorta di Unione delle Repubbliche Socialiste europee, fatta di omologazione e di mancanza di decisioni.
Adesso sarà più difficile raggiungere un obiettivo di tale portata, ma di certo nulla è perso e di certo non si tornerà alla paralisi del 2005 dopo il No di Francia e Olanda.
Tutte le forze politiche in seno all’Unione hanno una ghiottissima occasione con le elezioni europee del 2009 per dare un decisivo impulso alla creazione di una dimensione politica europea. Oltre alle elezioni dei membri del Parlamento, la presentazione di candidati alla Presidenza della Commissione prima delle elezioni da parte dei partiti politici europei potrebbe essere un primo passaggio determinante, stimolato dalla creazione di fondazioni politiche europee legate ai partiti europei con l’obiettivo di sviluppare dibattito politico. Le maggioranze che saranno raggiunte saranno così sempre più politiche e quindi più stabili sia all’interno del Parlamento, sia nel Consiglio. Da ultimo, nonostante non avesse più un carattere costituzionale, il nuovo Trattato avrebbe mantenuto le discutibili realizzazioni della Costituzione in materia di legittimità democratica, efficacia e rafforzamento dei diritti dei cittadini.
È quindi urgente che dopo quest'ennesima bocciatura iniziamo a capire che questi sono i frutti di un approccio errato al processo di integrazione, di una posizione politica che non vuole partire dalla realtà, dalla domanda: «cos’è l’Europa?», emblematica interrogazione sui fondamenti stessi dell’integrazione europea. Benedetto XVI ricorda come i grandi pericoli contemporanei per la convivenza fra gli uomini giungano dal fondamentalismo, la pretesa di prendere Dio come pretesto per un progetto di potere, e dal relativismo, ossia il ritenere che tutte le opinioni siano vere allo stesso modo.
L’involuzione del progetto politico che chiamiamo Unione europea è riconducibile proprio a questi fattori. Il problema dell’Europa nasce dal fatto che il rapporto tra ragione e politica si è sostanzialmente sviato da ciò che è la nozione stessa di verità. Il compromesso, giustamente presentato come senso della stessa vita politica, è oggi concepito fine a sé stesso.
È per questo che si deve scegliere di mettere a fuoco le principali politiche dell’Unione europea utilizzando come filo conduttore le intuizioni dei padri fondatori e la promozione della dignità umana insita nell’esperienza cristiana.
"Ciò che unisce è più forte di ciò che ci divide" è questo il giudizio semplice e grande dal quale sono partiti Schuman, Adenauer e De Gasperi. Se alla luce di questo giudizio ripensiamo ai mille tentennamenti, ai mille egoismi dei governanti degli ultimi venti anni, ci rendiamo conto di quanto sia difficile per una generazione percepire l'Europa come un bene indispensabile.
I carri di Praga contro l'unico Sessantotto libero
In un diario fitto di aneddoti, il giornalista racconta l'urlo anti-Urss della Primavera ceca. E i silenzi del Pci.
La Primavera di Praga. 1968: la rivoluzione dimenticata" di Enzo Bettiza (Mondadori)
Dopo essere stato prelevato dal suo ufficio di segretario del Partito comunista cecoslovacco all'alba del 21 agosto 1968 da agenti dei servizi segreti cecoslovacchi guidati da un ufficiale del Kgb sovietico, il leader della Primavera di Praga, Alexander Dubcek, viene trasferito insieme ad altri quattro dirigenti a lui fedeli prima in Polonia e poi in Ucraina. Quindi, dopo tre giorni di viaggio e di maltrattamenti, il gruppo di prigionieri giunge a Mosca ed è chiuso in una stanza del Cremlino. Tutti pensano al peggio. E invece: si apre la porta ed entra Breznev sorridente con tutto lo stato maggiore sovietico di partito, di governo e di Stato - Kossighin, Suslov e Podgorny - che abbraccia Dubcek. Quindi, tutti allegri, i sovietici conducono i cecoslovacchi che hanno rapito in un'altra stanza dove c'è una tavola imbandita con caviale, vodka e champagne per un "brindisi con gli amici". Gli "amici" sono il tedesco Ulbricht, il polacco Gomulka, il bulgaro Zikov e l'ungherese Kadar, i capi dei quattro partiti dei paesi comunisti del Patto di Varsavia che con i sovietici hanno in quei giorni invaso la Cecoslovacchia.
L'unico Sessantotto davvero libertario
È questo uno dei tanti episodi che Enzo Bettiza rievoca nel suo "La Primavera di Praga. 1968: la rivoluzione dimenticata" (Mondadori, Le Scie, pp. 159, euro 17,5). Bettiza era in quei giorni a Praga inviato da Giovanni Spadolini a seguire per il "Corriere della Sera" gli avvenimenti. Ma il libro non è solo un diario di quelle drammatiche giornate. In quei mesi egli era stato anche a Parigi e Berlino. Il panorama si allarga quindi per una riflessione più ampia che ha come tema centrale i due ben diversi Sessantotto. «Mentre a Parigi o a Roma» osserva Bettiza «si tornava a casa dalle manifestazioni per cenare serviti da camerieri, ad Est i manifestanti rischiavano di dormire in prigione o peggio». E fu non solo diversità, ma incomunicabilità. «Mentre in Occidente sulla scorta di Marcuse e della Scuola di Francoforte si lamentava la tolleranza repressiva, nessuno si mobilitava però contro la intolleranza repressiva che aveva luogo ad Est». Negli anni Settanta ci furono al massimo dibattiti, ma nessuna manifestazione o corteo del Pci e dei movimenti a sostegno degli oppositori ai regimi imposti dal Cremlino. La Primavera di Praga non fu l'altra faccia di una stessa medaglia: Sessantotto cecoslovacco e Sessantotto italiano sono radicalmente contrapposti. I tentativi di collegare i due fenomeni - ed in particolare quello del "Manifesto" della Rossanda e Pintor - si sono rivelati molto fragili: Dubcek e il Che non sono sommabili ed il farlo significa ricerca di alibi senza fondamento serio. A dividere i due Sessantotto è la "cultura della violenza" che è categoria centrale nel movimento italiano ed è la negazione del socialismo dal volto umano che si svolge non nel segno dell'internazionalismo proletario e della rivoluzione anticapitalista, ma, al contrario, come emerge dalla ricostruzione di Bettiza, nel tentativo da un lato di ripristinare idealità e tradizioni nazionali e di democrazia liberale cancellati dal regime comunista e dall'altro di introdurre anche "stili di vita" e consumi occidentali, come testimonia in particolare l'operato del dubcekiano Jiri Pelikan al vertice della tivù di Stato. Al contrario il Sessantotto italiano si svolse avendo come sottofondo unitario quella che Enzo Bettiza definisce «rapsodia comunisteggiante» tra i ritratti di Mao, Che Guevara, Stalin e Trotsky. Il Sessantotto italiano ha connotati, origini e intenti decisamente diversi e antagonistici. Ma non solo l'estremismo è inconciliabile con il movimento libertario cecoslovacco. Anche il comunismo italiano - ancor più negli anni dell'"euro comunismo" - non ha offerto una sponda positiva ai dissidenti. Quando nel 1969 Jiri Pelikan, fuggito dalla Cecoslovacchia, approdò in Italia pensava - ricorda Bettiza - di trovare accoglienza nel Partito comunista italiano che aveva espresso «grave dissenso e riprovazione» nei confronti dell'intervento sovietico ed aveva seguito con giudizi positivi la politica di Dubcek tra gennaio e agosto del 1968. Ma alle Botteghe Oscure nessuno accettò di riceverlo. Infatti sin dal settembre del '68 Armando Cossutta era stato chiamato da Luigi Longo per andare in missione a Mosca, formalmente in qualità di presidente dell'agenzia Italturist, al fine di mettere alle spalle la polemica sulla Cecoslovacchia. «Mi disse di volare in Urss perché bisognava parlare, anche discutere, ma in sostanza», racconterà Armando Cossutta nell'agosto del 2006, «occorreva ricucire». Poco dopo, infatti, Cossutta partì per Mosca per una serie di colloqui con Suslov e Zagladin, che era responsabile dei rapporti con i partiti comunisti occidentali, e «alla fine», sono le parole di Cossutta, «il ghiaccio era rotto». La distanza tra Pci e Pcus sulla Cecoslovacchia durò poco più di due mesi. Del resto, come accadrà anche nella stessa crisi polacca del 1981, i comunisti italiani anche se presero le distanze da Mosca rifiuteranno comunque di considerare propri interlocutori i dissidenti: chi si oppone ai regimi comunisti o ne è vittima non potrà mai varcare le soglie delle Botteghe Oscure.
Il Pci si piega agli ordini di mosca
La rievocazione di questo Sessantotto sconfitto dai sovietici non è retorica ed infatti Bettiza non manca di seguire con occhio critico il cedimento di Dubcek che rifiuta di opporsi all'invasione, di fuggire ed accetta la messa in scena del rientro a Praga con i sovietici. È pero tale epilogo negativo a dimostrare l'impossibilità di un'autoriforma del sistema comunista e a dar corpo negli anni successivi ai movimenti del "dissenso" nei Paesi dell'Est. Come accadrà con Gorbaciov, il comunismo può accettare la perestrojka (riforme in campo economico), ma entra in crisi con la glasnost (la trasparenza e cioè la democratizzazione, il venir meno della censura e la comparsa del pluralismo politico ed ideologico).
L'AUTORE
Enzo Bettiza (1927) è giornalista e scrittore. Dal 1957 al 1964 è stato corrispondente per La Stampa, prima da Vienna e poi da Mosca. Quindi è passato al Corriere della Sera: dieci anni come inviato all'estero. Ha poi fondato con Indro Montanelli Il Giornale, di cui è stato dal 1974 al 1983 condirettore vicario. Attualmente è editorialista de La Stampa. È stato senatore della Repubblica dal 1976 al 1979. Tra i suoi libri "I fantasmi di Mosca" (1993) e "Esilio" (premio Campiello 1996).
La "pillola del giorno dopo" è un farmaco?
ROMA, domenica, 15 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l'intervento del dottor Renzo Puccetti, specialista in Medicina Interna e segretario del Comitato "Scienza & Vita" di Pisa-Livorno.
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Carissimi,
nell'attuale confronto tra medici obiettori e stati relativisti totalitari che vogliono obbligare quelli a prescrivere o somministrare la pillola abortiva, vorrei porre un quesito che è a monte della questione. Non capisco per quale motivo questa pillola sia da considerarsi un farmaco.
Da cosa guarirebbe?
Inoltre tutto questo confronto mi sembra solo un pretesto per un atteggiamento anticristiano, infatti sussiste sempre questa urgenza che non consente alle interessate di procurarsela da un dottore non obiettore?
Grato per l'attenzione invio i più cordiali saluti.
Adriano Morelli
Risponde il dott. Renzo Puccetti
Pur nella brevità, la domanda del sig. Adriano apre ad interrogativi che non possono trovare esaustiva risposta in questo ambito. Proveremo comunque ad offrire almeno qualche elemento di riflessione.
Per prima cosa è bene sempre identificare l'oggetto della discussione. Il termine "pillola abortiva" può designare sia i farmaci usati per l'aborto farmacologico, sia la cosiddetta pillola del giorno dopo che vede, tra i possibili meccanismi d'azione anche un effetto di impedimento dell'impianto dell'embrione nella mucosa uterina (endometrio). Sebbene le maggiori associazioni di ginecologi e le agenzie internazionali della salute non definiscano questo meccanismo d'azione di tipo abortivo, dal momento che l'inizio della gravidanza viene da loro fatto risalire al momento dell'impianto dell'embrione, non c'è dubbio che questo effetto di tipo anti-nidatorio (che impedisce l'annidamento dell'embrione), realizza un'azione occisiva nei confronti dell'embrione, equivalente eticamente all'azione abortiva. Nel caso della cosiddetta pillola del giorno dopo mediante l'ormone progestinico di sintesi levonorgestrel (LNG), l'esistenza di un effetto post-fertilizzativo è in campo scientifico dibattuta, dal momento che non è disponibile un metodo per valutare la vitalità dell'embrione prima del suo impianto (il beta-HCG si positivizza dopo l'impianto) e si è quindi costretti a procedere mediante valutazioni indirette di vario tipo. Essendo però tale meccanismo d'azione una possibilità tutt'altro che remota, i medici che non desiderano porre in essere azioni anche solo potenzialmente lesive di un essere umano vivente, non prescrivono tale farmaco. Si tratta di una prassi riconosciuta come legittima sia dal Comitato Nazionale di Bioetica, sia dalla Federazione degli Ordini dei Medici.
La domanda del sig. Adriano va però più in profondità. Perché considerare un farmaco una pillola che non cura nulla? Inoltre, è proprio vero che ci sia tutta questa urgenza?
Vediamo di procedere a piccoli passi. Il termine farmaco deriva dal greco, lingua nella quale la parola ha un duplice significato, quello di medicamento e quello di veleno (il simbolo del medico, il cadduceo, è un bastone attorno al quale si avvolgono due serpenti che si affrontano). Si tratta di un'ambivalenza che origina sia dal fatto che molte sostanze usate per avvelenare possono svolgere in piccole dosi un'azione curativa, così come dall'evidenza che molte sostanze usate per curare possono trasformarsi in veleni letali se impiegate in dosi eccessive, o in modalità improprie. La distanza di una sostanza fra la dose terapeutica e la dose tossica viene definita "finestra terapeutica". Quanto più essa è ampia, tanto maggiore è la sicurezza d'impiego della sostanza. La National Library offre diverse definizioni di farmaco, queste sono le principali:
1) Una sostanza usata come medicina, o nella preparazione di una medicina
2) Una sostanza riconosciuta in una farmacopea o formulario ufficiale
3) Una sostanza usata a fini diagnostici, terapeutici, o preventivi di una malattia
4) Una sostanza diversa dal cibo tesa a modificare la struttura o il funzionamento del corpo
Le sostanze contraccettive e abortive non possono essere incluse tra i "farmaci" sulla base di criteri includenti i concetti di malattia, o di medicina (termine quest'ultimo il cui significato si radica nel concetto di "sapienza nell'arte del guarire"), ma lo possono se vengono impiegate, tra quelle riportate, le definizioni puramente descrittive, come la numero 2 e la numero 4.
Le sostanze contraccettive e quelle abortive condividono uno stesso fine, impedire che un rapporto sessuale abbia quale possibile effetto la nascita di un bambino, o di una bambina.
Quello che cambia, è il momento in cui la sostanza agisce. Mentre il contraccettivo, come dice il termine stesso, impedisce il concepimento, ogni sostanza in grado di agire dopo il concepimento non dovrebbe fregiarsi di questo nome, ma piuttosto essere definito contra-gestativo (contro la gravidanza), se si punta l'attenzione sulla donna, o abortivo (Ab-òrior, non nato), se la sua azione è riferita al concepito. Non si tratta di una sottigliezza lessicale. È da poco stato pubblicato uno studio su oltre cinquecento donne della spagna zapateriana da cui emerge che la maggioranza di queste non assumerebbero un farmaco contraccettivo se ci fosse anche solo la possibilità che questo agisse dopo il concepimento. Si tratta di un tipico esempio che conferma il professor Pessina, quando dice che "le parole non sono innocenti". Anche scartando la definizione di farmaco teleologica ed adottando quella puramente descrittiva, non si risolve però il problema, dal momento che dietro ad un farmaco etico (che può essere dispensato soltanto dietro esibizione di ricetta medica) c'è sempre un medico, il cui fine dovrebbe essere la cura del paziente.
Perché dunque i medici hanno cominciato ad usare sostanze rivolte contro un evento che non è una patologia? Ci limiteremo qui ad esaminare la questione dell'aborto, intervento che ha trovato due giustificazioni sostanziali come atto medico. Da un lato l'idea che se la donna che vuole abortire non trovasse un medico disposto ad esaudirla con un atto tecnicamente qualificato, ella cercherebbe di ottenere la stessa prestazione altrove, con la possibilità, così, di abortire per mano di una persona tecnicamente non idonea ed il rischio conseguente di gravi danni alla sua vita e alla sua salute. Si tratterebbe in sostanza di un tipico intervento di riduzione del danno. Dall'altro lato, soprattutto negli anni ‘70-'80, si erano accumulate una serie di evidenze che dimostravano un certo ruolo favorevole dell'aborto per la salute psichica della donna. I livelli di ansia dopo l'intervento risultavano inferiori a quelli registrati prima dell'aborto. Se ne dedusse che, almeno sotto il profilo della salute mentale della donna, l'aborto fosse in grado di apportare dei benefici. Oggi si sente con una certa frequenza ripetere che la mortalità associata al parto è circa dieci volte maggiore rispetto a quella dovuta alle complicanze dell'aborto. Il dato viene citato per esaltare la sicurezza dell'intervento, ma anche per enfatizzare il ruolo terapeutico dell'aborto, dimenticando di considerare che se tale livello di beneficialità fosse esteso a tutte le donne incinte, forse avremmo una riduzione del 90% della mortalità materna, ma in una generazione l'umanità si estinguerebbe.
Al di là di troppo facili ed amari umorismi, circa il ruolo terapeutico di qualsiasi forma di aborto è quanto mai opportuno effettuare alcune puntualizzazioni. Negli ultimi anni si sono succeduti una mole di studi che, mediante l'impiego di metodiche più raffinate, usando protocolli metodologicamente più corretti ed estendendo l'osservazione ad un arco temporale più lungo, hanno esaminato lo stato psicologico delle donne che hanno abortito. Il risultato è che numerosi indici di salute mentale risultano peggiori nelle donne con esperienza di aborto. È tanto vero che dopo 40 anni dalla legalizzazione dell'aborto in Inghilterra il Royal College of Psychiatrists ha redatto un documento in cui riconosce che le donne che intendono abortire debbano essere avvertite dei potenziali pericoli per la loro salute psicologica prima di essere sottoposte all'intervento. Ci sono voluti quarant'anni, ma la verità delle cose comincia a farsi strada anche all'interno di quella comunità scientifica troppo spesso succube di lobby ideologizzate.
Il tentativo di attribuire la maggiore incidenza di patologie psichiatriche alle condizioni pre-esistenti delle donne che abortiscono non modifica la questione. Come per ogni intervento terapeutico, l'onere della prova della sua efficacia è a carico dei propugnatori del suo impiego. Se dopo l'intervento di aborto la salute mentale di queste donne non è normalizzata diventa lecito interrogarsi sull'efficacia terapeutica dell'aborto, dal momento che nella quasi totalità dei casi esso è autorizzato proprio per tutelare la salute mentale delle donne. Si potrebbe obiettare che il rifiuto rappresenterebbe una condotta ancora peggiore, ma tale ipotesi non trova conferma nei dati medico-scientifici disponibili, che anzi, tendono ad escludere un significativo impatto negativo per la salute della donna derivante da un rifiuto alla sua richiesta di abortire.
Che poi l'aborto legale conduca ad una minore mortalità per le donne è, come al solito, assunto verosimile, ma non vero. Se da un lato infatti le donne che abortiscono legalmente in ambiente protetto incorrono in un minore rischio di morte a breve termine, dall'altro sappiamo ormai da più di dieci anni che la mortalità di queste stesse donne, misurata ad un anno di distanza dall'interruzione della gravidanza, è tre volte maggiore rispetto a quella di coloro che danno alla luce un figlio.
Dal momento che l'aborto non determina un miglioramento né delle condizioni psichiche, né della sopravvivenza delle donne, l'ultimo argomento ad essere utilizzato è quello secondo cui, pur non essendo la gravidanza, anche quella indesiderata, una patologia (l'Organizzazione Mondiale della Sanità, bontà sua, non include la gravidanza tra le patologie), essa è comunque in grado di turbare la salute delle donne. Si giunge così finalmente ad una delle teste dell'Hydra, quella estesa definizione di "salute" promulgata dall'OMS (cfr. http://www.silsismi.unimi.it/new/allegati/2369.pdf). Si tratta di una definizione che, pur adottata con la nobile intenzione di evitare che il medico si riduca ad uno iatro-meccanico e il paziente ad aggregato biologico identificato con la patologia di cui è portatore, ha prodotto nel tempo l'effetto perverso di trasformare tutto in patologia potenzialmente bisognosa di un intervento sanitario; ha creato cioè quella medicina dei desideri che rappresenta il cappio al collo di quanti oggi non vogliono vedere il rapporto medico-paziente svilito a mero contratto.
La definizione OMS di salute è oggi la pistola puntata alla tempia dei medici perché questi, intimiditi ed ammutoliti, eseguano ciò che avanguardie tanto minoritarie quanto determinate impongono loro attraverso un'oliatissima macchina di propaganda. I tentativi di mantenere la relazione medico-paziente entro binari di una condotta virtuosa orientata alla cura e al vero bene del paziente, sono infallibilmente tacciati di arroganza corporativistica.
Circa poi il carattere di urgenza riferito alla pillola del giorno dopo, mi limito a dire che se è vero che l'efficacia del farmaco sembra ridursi col passare del tempo dal rapporto sessuale, mi sembra innegabile che definire d'emergenza un farmaco la cui dispensazione nei pronto soccorso viene identificata come codice bianco (il più basso grado di priorità), sia un esercizio di alta fantasia linguistica.
Per approfondire:
R. Puccetti "L'uomo indesiderato - dalla pillola di Pincus alla RU 486". Società Editrice Fiorentina, 2008. http://www.sefeditrice.it/asp/libro.asp?Lib=zio12
Casa di cura Santa Rita: un caso di "malaumanità"
Autore: Buggio, Nerella
Fonte: CulturaCattolica.it
giovedì 12 giugno 2008
Le indagini in corso, nelle quali sono indagate 19 persone, hanno portato alla luce presunti casi di lesioni gravi e gravissime e cinque casi di morte del paziente, dovuti ad interventi chirurgici inutili e sproporzionati rispetto alle patologie dei malati.
Alla povera Santa Rita s’è piantata un’altra spina in fronte a sentire cosa accadeva nella Casa di cura Milanese che si fregia del suo nome.
Leggo sul sito della casa di Cura Santa Rita di Milano
1946 – 2006 - da 60 anni vi siamo vicini.
Già, sessant’anni di cure, di lavoro, di attenzione verso chi soffre, poi arriva un gruppo di farabutti e scopri che le buone intenzioni di chi sessant’anni fa ha fondato la casa di cura sono andate in malora, tradite, da chi nella persona malata vedeva non l’uomo sofferente, ma solo un’occasione per truffare la collettività.
Le indagini in corso, nelle quali sono indagate 19 persone, hanno portato alla luce presunti casi di lesioni gravi e gravissime e cinque casi di morte del paziente, dovuti ad interventi chirurgici inutili e sproporzionati rispetto alle patologie dei malati.
Ora un collega del medico arrestato, afferma che tutti sospettavano che il primario Brega Massone avesse metodi per così dire, poco ortodossi, ma nessuno ne aveva prove certe.
Leggo sui quotidiani che Pier Paolo Brega Massone, il primario di Chirurgia toracica arrestato con accuse pesantissime, all'età di dieci anni è stato adottato dopo la morte dei genitori in un incidente, da un noto e stimato Chirurgo.
Del padre adottivo si ricorda che era primario a Stradella ed aveva ricevuto anche un'onorificenza dalla regina d'Inghilterra perché in battaglia aveva curato dei soldati di sua Maestà, anche se erano nemici. Insomma, un uomo che credeva nella missione del medico.
Ed è con questo uomo come esempio che Pier Paolo Brega è cresciuto, desiderando di imitarlo, e studiando e lavorando duramente per farcela, ma poi la chirurgia da missione deve essere diventata altro.
Più ci penso e più mi convinco che non siamo in presenza di un caso di malasanità, dove l’incuria, la distrazione, la mancanza di personale, portano i medici a sbagliare, no, qui è peggio, siamo in presenza di un caso di “malaumanità”, persone che hanno studiato e faticato duramente per accedere ad una professione che rende chi la fa – custode della vita altrui – e hanno tradito la fiducia di chi, malato, metteva la propria sorte nelle loro mani.
Per avidità di denaro o di potere, non importa.
Tutti noi, quando entriamo in ospedale, ci togliamo gli abiti e ci mettiamo un pigiama, diventiamo fragili, bisognosi d’attenzioni, temiamo di diventare un numero, quello del nostro letto.
Attendiamo il medico che fa il giro delle visite la mattina, scrutando ogni sua smorfia, interpretandone i silenzi, i sorrisi, le parole buone o le battute scherzose.
Se poi, ad essere malato è qualcuno a cui vogliamo bene, il medico diventa il tramite con il domani, colui che può darci speranza, confidiamo nelle sue competenze, nella sua esperienza e nella sua umanità.
I medici, anche quelli indagati, hanno di certo pronunciato il giuramento di Ippocrate:
"Consapevole dell'importanza e della solennità dell'atto che compio e dell'impegno che assumo, giuro:
1. Di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento;
2. Di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell'uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale…
Allora domando - cosa fa diventare dei bravi medici, degli spietati affaristi? La cupidigia? La bramosia di potere? Il desiderio di sentirsi padroni della vita altrui?
Credo che tutto inizi con l’allontanamento dal mistero rappresentato dalla sofferenza, con lo smarrire lo sguardo pietoso nei confronti di chi ti sta di fronte, nello scordare che la mano del chirurgo è il tramite con cui un Altro agisce.
Quando s’inizia a vedere solo la malattia e non più il malato, il tumore e non gli occhi di chi l’ha in corpo, allora il cinismo prende il sopravvento.
Scriveva un medico, laico, divenuto santo, San Giuseppe Moscati:
“Il dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un'anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l'ardenza dell'amore, la carità.”
Ecco, se il medico non si fa un po’ fratello, se non guarda più in faccia il malato come il tramite tra il Mistero e lui, inevitabilmente non ci saranno motivazioni per cui un vecchio che intanto morire già deve, nel suo perire non debba portare guadagno.
OMELIA S.E. MONS. LUIGI NEGRI ORDINAZIONE DIACONALE P. LUCA TUTTOCUORE e P. CARLO VERONESI O.C
BOLOGNA - 24 MAGGIO 2008 - CHIESA MADONNA DI GALLIERA
Sia lodato Gesù Cristo!
E’ della Madre del Signore profeticamente rivolta a sé, ma è della Madre del Signore che la Chiesa proclama “tu sei lo splendido vanto del nostro popolo”, lo splendore. E’ della Madre del Signore che si può legittimamente ritenere lo splendore del nostro popolo, l’espressione più grande della nostra vita di popolo come ha detto in maniera straordinariamente efficace e pertinente il Santo Padre Benedetto XVI nel suo indimenticabile discorso fatto nel corso del convegno delle chiese italiane.
Voi entrate in questo splendore, siete scelti dal Signore Dio per entrare dentro questo splendore vivente nella Chiesa, per dare il vostro contributo di intelligenza, di sensibilità, di capacità intellettive, condivisione dei bisogni degli uomini, dentro questo splendore di Dio in questa Chiesa, di cui siete figli primogeniti e prediletti.
Infatti voi entrate in questo splendore attuando oggi il primo grado dell’ordine sacerdotale. E in questo primo grado dell’ordine sacerdotale si va per la storia che il Signore ha costruito per voi e con voi, una storia segnata dalla grande tradizione religiosa delle vostre famiglie, in cui è maturata la vostra formazione cristiana e attraverso grandi incontri di suggestioni, di corrispondenze, di relazioni affettive che si sono sintetizzate per voi mirabilmente nel grande carisma di San Filippo Neri.
Entrate a prendere il vostro posto nello splendore della Chiesa con questo maestro straordinario e in quella compagnia, che egli ha dato origine e che ha sfidato i secoli, ricordando le diverse condizioni di vita, anche le più terribili in cui la chiesa si è trovata e ricordate che il cristianesimo è gioia, è verità e quindi gioia; è pienezza di vita perché è la vita di Dio che diventa vita degli uomini: è una gioia irresistibile.
Potrete dire, rinnovando nella vostra esistenza e nella vita della vostra comunità, la grande certezza del vostro padre San Filippo, l’essenza del cristianesimo: “il mio è lieto”.
Entrate dunque, accettate di essere cooptati dalla chiesa di Dio nell’ordine del diaconato che non può essere in nessun modo una pretesa o un diritto, ma soltanto una grazia data totalmente da Cristo, dal Suo Spirito e verificata dalla volontà del vostro ordine, della vostra congregazione e dall’autorità del Vescovo.
Entrate fiduciosi.
Tutta la storia bella, intensa, appassionata oggi ti sostiene in questo passo, e al di là di esso ecco lo scorgere, in qualche modo anticipato, delle nuove flessioni che il vostro servizio assumerà.
Servi il Signore nel suo popolo, serviLo in tutte le circostanze concrete.
Come ha ricordato Benedetto XVI nel suo intervento ai diaconi: è un servizio per aiutare la Chiesa a vivere la sua missione quotidiana. Questo incontro quotidiano con il mistero di Cristo presente nella chiesa è nel cuore di ogni uomo, in questo tempo così singolarmente lontano da sé stesso.
L’apostasìa del Cristo, alla fine significa, l’apostasìa dell’uomo a sé stesso. Voi percorrerete le vie di questo mondo in cui troverete forse più attesa di Dio di quanto immediatamente non si possa pensare, una attesa di Dio celata nel profondo della coscienza e coperta molte volte dagli stati della indifferenza e della soddisfazione di cui vive questa società, che il grande Arcivescovo emerito di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi, una volta ha definito una società sazia e disperata.
Ma troverete tanta attesa di Dio, siete attesi, la vostra presenza, il vostro servizio sono attesi.
Troverete anche molta ansia.
Troverete tanto odio perché l’uomo in questo tempo ha una terribile volontà di odio verso Cristo e verso la Chiesa: dalla banalizzazione dei grandi suggerimenti morali, all’attacco indiscriminato alla vita, alla dignità, al diritto che gli uomini hanno di vivere in modo dignitoso, libero e intelligente.
Tutto questo è sotto tiro: la società si vanta di stare compiendo l’ultimo e più blasfemo tentativo di negare la presenza di Cristo e la tradizione che da Cristo ha influito nella vita del nostro popolo.
Entrate decisi con quella serena baldanza che ha consentito al vostro Padre di parlare con piena libertà al Papa, ai Vescovi, ai cardinali e alla gente comune.
Parlate con franchezza, dite che Cristo è oggi più necessario di domani, se così si può dire, raccogliendo l’insinuazione profonda e cocncretissima della Redemptoris hominis: è più necessario che mai, perché questa società che Ghandi ha chiamato “incristiana” è ancora più terribile di quanto non si possa astrattamente pensare.
Siate baldanzosi, non per la vostra forza, ma baldanzosi in colui e per colui che vi dà forza. E rinnovate nella vostra vita il bellissimo miracolo delle nozze di Canaan: chiedete alla Madonna che vi aiuti a fare questo miracolo, come in qualche modo ha aiutato suo Figlio a fare il miracolo.
Perché anche voi dovrete cambiare l’acqua insipida di una vita senza senso, senza significato, senza bellezza, senza dignità, l’acqua insipida della vita banale degli uomini di questo tempo, dovete cambiarla nel vino, che esprime la forza, la grandezza, la bellezza, la tenerezza del corpo e dell’anima.
Questo vi aspetta: camminare sulle strade del mondo, incontrare gli uomini, condividere i loro bisogni, fare una cosa sola con la loro gioia, ma soprattutto fare una cosa sola con il loro dolore in modo che vi sentano vicini in questa terribile povertà, che non è soltanto una povertà materiale.
E’ una povertà che nessuno prevedeva e che è piombata sulla vita del nostro popolo per troppi reati compiuti contro il bene comune dell’uomo.
Condividete la loro povertà, ma soprattutto condividete quella povertà culturale e morale che voi soli potrete riarricchire mettendo davanti al cuore di ciascun uomo l’annunzio di Cristo, redentore dell’uomo, centro del cosmo e della storia.
Vivete con baldanza la missione della chiesa, che è questo aprirsi continuamente del dialogo fra Cristo e il cuore dell’uomo. Noi vogliamo sentire solo questo, non ci interessa nient’altro, non siamo per principio contro nessuno o con nessuno, siamo brani vivi della presenza di Cristo che si è posto nel mondo e ha diviso il mondo fra coloro che lo hanno seguito e coloro che non hanno aderito.
Non abbiate nessuna preoccupazione del possibile consenso che venga dato dalla mentalità comune alla vostra azione.
Non è grande l’azione perché trova il consenso della società e non è negativa l’azione se non trova il consenso della società.
Sappiate essere lieti della letizia per la presenza di Cristo nei vostri cuori e la presenza di Cristo nei nostri cuori comincia con l’assimilazione a sé del sacerdote, re e profeta.
Siate lieti di questo e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù e la vostra vita assomiglierà proprio perché ospiterà incondizionatamente la presenza del Signore perché Dio realizza in pienezza ciò che ha iniziato.
Il vostro santo padre Filippo vi accompagnerà.
Questa straordinaria figura di santo in cui il cristianesimo è diventato in maniera singolarissima una bellezza, una musica, “la musica di Dio”, come disse di lui il grande teologo spirituale Louis Bouyer.
Vi accompagnerà e vi darà quindi la forza per testimoniare in questo mondo che la vita cristiana è bella, che la vita cristiana è una vita bella e riuscita anche se misteriosamente intrecciata con la sofferenza e il dolore.
La gioia non è assenza di dolore, la gioia è una trasfigurazione del dolore vissuto con Cristo, per Cristo, ed in Cristo. E questo renderà pieno il vostro cuore e farà del vostro tempio il luogo dove ospiterete il cuore di ogni uomo che incontrerete senza chiedergli preventivamente nulla, accogliendolo perché è, e la radice ultima dell’uomo che incontrate e accogliete perché è, sappiate che la radice ultima è Gesù Cristo e ogni uomo entra nella vita dell’altro, in qualche modo, essendo segno del Signore Gesù Cristo. Fidatevi dunque di questa grande sapienza della chiesa che oggi vi sceglie nella chiesa; oggi vi sceglie compiendo un atto che misteriosamente riposa soltanto ed esclusivamente nella volontà di Dio che vi ha scelto.
Oggi noi vi scegliamo in nome e per autorità di Gesù Cristo, vi scegliamo nella chiesa, dalla chiesa, perché però siate di fronte alla chiesa segni certi dell’Amore di Cristo, della sua volontà di servizio, della sua capacità di condivisione, soprattutto perché siete filippini, della sua capacità di gioia e di bellezza. E siate anche benevoli con i vostri limiti che non ostacolano la missione se non in quanto diventano una ideologia, una giustificazione.
Ma quando sono l’esperienza inevitabile del limite sappiate affrontarli con la sterminata saggezza del vostro San Filippo che riusciva a dire a sé e a tutti i suoi fratelli “state buoni se potete”.
Così sia.
1) Discorso del Papa ai fedeli dell'Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni
2) Omelia di Benedetto XVI a Santa Maria di Leuca
3) L’Europa senz’anima nuovamente bocciata dal referendum irlandese, di Magdi Cristiano Allam
4) Il popolo respinge e i burocrati vorrebbero infischiarsene - Intervista a Marcello Pera
5) Il popolo irlandese dice "NO" alla svendita della Nazione. Si prenda esempio.
6) L'Europa non può sottrarsi alla responsabilità di questa sconfitta, di Mario Mauro
7) I carri di Praga contro l'unico Sessantotto libero
8) La "pillola del giorno dopo" è un farmaco?
9) Casa di cura Santa Rita: un caso di "malaumanità"
10) OMELIA S.E. MONS. LUIGI NEGRI ORDINAZIONE DIACONALE P. LUCA TUTTOCUORE e P. CARLO VERONESI O.C
Discorso del Papa ai fedeli dell'Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni
In occasione della visita pastorale in Puglia
BRINDISI, domenica, 15 giugno 2008 (ZENIT.org).- Riportiamo il testo del discorso pronunciato da Benedetto XVI questo sabato rivolgendosi alla cittadinanza e ai giovani dell'Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni nel corso della sua visita pastorale di due giorni a Santa Maria di Leuca e Brindisi.
* * *
Signor Ministro,
Signor Sindaco e illustri Autorità,
Cari fratelli e sorelle,
desidero innanzitutto esprimere la gioia di trovarmi in mezzo a voi e vi saluto tutti di gran cuore. Ringrazio l'Onorevole Raffaele Fitto, Ministro per gli Affari Regionali, che mi ha recato il saluto del Governo; ringrazio il Sindaco di Brindisi per le fervide espressioni di benvenuto che mi ha rivolto a nome di tutta la cittadinanza, e per il gentile dono che mi ha offerto. Saluto e ringrazio con affetto il giovane che si è fatto portavoce della gioventù brindisina. So che voi, cari giovani, avete animato l'assemblea nell'attesa del mio arrivo, e continuerete poi in una veglia di preghiera con la quale intendete preparare la Celebrazione eucaristica di domani. Saluto cordialmente l'Arcivescovo, Mons. Rocco Talucci, l'Arcivescovo emerito Mons. Settimio Todisco, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, e tutti i presenti.
Eccomi tra voi, cari amici! Ho accolto volentieri l'invito del Pastore della vostra Comunità diocesana, e sono lieto di visitare questa vostra Città che, mentre svolge un significativo ruolo nell'ambito del Mezzogiorno d'Italia, è chiamata a proiettarsi al di là del Mare Adriatico per comunicare con altre città ed altri popoli. In effetti, Brindisi, un tempo luogo d'imbarco verso l'Oriente per commercianti, legionari, studiosi e pellegrini, resta una porta aperta sul mare. Negli ultimi anni, i giornali e la televisione hanno mostrato le immagini di profughi sbarcati a Brindisi dalla Croazia e dal Montenegro, dall'Albania e dalla Macedonia. Mi sembra doveroso ricordare con gratitudine gli sforzi che sono stati compiuti e che continuano ad essere dispiegati dalle Amministrazioni civili e militari, in collaborazione con la Chiesa e con diverse Organizzazioni umanitarie, per dare loro rifugio e assistenza, nonostante le difficoltà economiche che continuano purtroppo a preoccupare particolarmente la vostra Regione. Generosa è stata e continua ad essere la vostra Città, e tale merito è stato ad essa giustamente riconosciuto con l'assegnazione, nel contesto della solidarietà internazionale, di un autentico ruolo istituzionale: essa ospita infatti la Base di pronto Intervento Umanitario delle Nazioni Unite (UNHRD), gestita dal Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (PAM).
Cari Brindisini, questa solidarietà fa parte delle virtù che formano il vostro ricco patrimonio civile e religioso: continuate con slancio rinnovato a costruire insieme il vostro futuro. Fra i valori radicati nella vostra Terra vorrei richiamare il rispetto della vita e specialmente l'attaccamento alla famiglia, esposta oggi al convergente attacco di numerose forze che cercano di indebolirla. Quanto è necessario ed urgente, anche di fronte a queste sfide, che tutte le persone di buona volontà si impegnino a salvaguardare la famiglia, solida base su cui costruire la vita dell'intera società! Altro fondamento della vostra società è la fede cristiana, che gli antenati hanno ritenuto come uno degli elementi qualificanti l'identità brindisina. Possa l'adesione al Vangelo, consapevolmente rinnovata e vissuta con responsabilità, spingervi, oggi come ieri, ad affrontare con fiducia le difficoltà e le sfide del momento presente; vi incoraggi la fede a rispondere senza compromessi alle legittime attese di promozione umana e sociale della vostra Città. A questa azione di rinnovamento non può non offrire il proprio apporto anche la nascente Università, chiamata a porsi al servizio di quanti, avendo coscienza della loro dignità e dei loro compiti, desiderano partecipare attivamente alla vita, al cammino, allo sviluppo economico, politico, culturale e religioso del territorio. Cari Brindisini, perché cresca nella vostra Città la cultura della solidarietà, ponetevi gli uni a servizio degli altri, lasciandovi guidare da un autentico spirito di fraternità. Dio vi è accanto e non vi farà mancare il costante sostegno della sua grazia.
Vorrei ora rivolgermi, in maniera speciale, ai numerosi giovani presenti. Cari amici, grazie per la vostra accoglienza calorosa, grazie per i fervidi sentimenti di cui si è fatto interprete il vostro rappresentante. Le vostre voci, che trovano immediata rispondenza nel mio animo, mi comunicano la vostra fiduciosa esuberanza, la vostra voglia di vivere. In esse colgo anche i problemi che vi assillano, e che talora rischiano di soffocare gli entusiasmi che sono tipici di questa stagione della vostra vita. Conosco, in particolare, il peso che grava su non pochi di voi e sul vostro futuro a causa del fenomeno drammatico della disoccupazione, che colpisce anzitutto i ragazzi e le ragazze del Mezzogiorno d'Italia. Allo stesso modo, so che la vostra giovinezza è insidiata dal richiamo di facili guadagni, dalla tentazione di rifugiarsi in paradisi artificiali o di lasciarsi attrarre da forme distorte di soddisfazione materiale. Non lasciatevi irretire dalle insidie del male! Ricercate piuttosto un'esistenza ricca di valori, per dare vita ad una società più giusta e più aperta al futuro. Mettete a frutto i doni di cui Dio vi ha dotato con la giovinezza: la forza, l'intelligenza, il coraggio, l'entusiasmo e la voglia di vivere. E' a partire da questo bagaglio, contando sempre sul sostegno divino, che potete alimentare in voi e attorno a voi la speranza. Dipende da voi e dal vostro cuore far sì che il progresso si tramuti in un bene maggiore per tutti. E la via del bene - voi lo sapete - ha un nome: si chiama amore.
Nell'amore, solo nell'amore autentico, si trova la chiave di ogni speranza, perché l'amore ha la sua radice in Dio. Leggiamo nella Bibbia: "Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi. Dio è amore" (1 Gv 4,16). E l'amore di Dio ha il volto dolce e compassionevole di Gesù Cristo. Eccoci dunque giunti al cuore del messaggio cristiano: Cristo è la risposta ai vostri interrogativi e problemi; in Lui viene avvalorata ogni onesta aspirazione dell'essere umano. Cristo, però, è esigente e rifugge dalle mezze misure. Egli sa di poter contare sulla vostra generosità e coerenza: per questo si attende molto da voi. SeguiteLo fedelmente e, per poterLo incontrare, amate la sua Chiesa, sentitevene responsabili, non rifuggite dall'essere, ciascuno nel suo ambito, coraggiosi protagonisti. Ecco un punto su cui vorrei richiamare la vostra attenzione: cercate di conoscere la Chiesa, di capirla, di amarla, prestando attenzione alla voce dei suoi Pastori. Essa è composta di uomini, ma Cristo ne è il Capo ed il suo Spirito la guida saldamente. Della Chiesa voi siete il volto giovane: non fate perciò mancare il vostro contributo, perché il Vangelo che essa proclama possa propagarsi dappertutto. Siate apostoli dei vostri coetanei!
Cari fratelli e sorelle, grazie ancora per la vostra accoglienza. Ho letto alcune lettere di ragazzi della vostra Provincia, a me indirizzate: da esse, cari amici, ho potuto meglio conoscere la vostra realtà. Grazie per il vostro affetto. A voi e a tutti i Brindisini assicuro la mia preghiera, perché possiate testimoniare il messaggio evangelico della pace e della giustizia. Maria, Regina Apuliae, vi protegga e accompagni sempre. Di cuore vi benedico ed a tutti auguro una buona notte!
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
Omelia di Benedetto XVI a Santa Maria di Leuca
SANTA MARIA DI LEUCA, domenica, 15 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI durante la Messa che ha presieduto questo sabato sul piazzale del Santuario di Santa Maria de finibus terrae di Santa Maria di Leuca nel corso della sua visita pastorale in Puglia.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
la mia visita in Puglia - la seconda, dopo il Congresso Eucaristico di Bari - inizia come pellegrinaggio mariano, in questo estremo lembo d'Italia e d'Europa, nel Santuario di Santa Maria de finibus terrae. Con grande gioia rivolgo a tutti voi il mio affettuoso saluto. Ringrazio con affetto il Vescovo Mons. Vito De Grisantis per avermi invitato e per la sua cordiale accoglienza; insieme con lui saluto gli altri Vescovi della Regione, in particolare il Metropolita di Lecce Mons. Cosmo Francesco Ruppi; come pure i presbiteri e i diaconi, le persone consacrate e tutti i fedeli. Saluto con riconoscenza il Ministro Raffaele Fitto, in rappresentanza del Governo italiano, e le diverse Autorità civili e militari presenti.
In questo luogo storicamente così importante per il culto della Beata Vergine Maria, ho voluto che la liturgia fosse dedicata a Lei, Stella del mare e Stella della speranza. "Ave, maris stella, / Dei Mater alma, / atque semper virgo, / felix caeli porta!". Le parole di questo antico inno sono un saluto che riecheggia in qualche modo quello dell'Angelo a Nazaret. Tutti i titoli mariani infatti sono come gemmati e fioriti da quel primo nome con il quale il messaggero celeste si rivolse alla Vergine: "Rallegrati, piena di grazia" (Lc 1,28). L'abbiamo ascoltato nel Vangelo di san Luca, molto appropriato perché questo Santuario - come attesta la lapide sopra la porta centrale dell'atrio - è intitolato alla Vergine Santissima "Annunziata". Quando Dio chiama Maria "piena di grazia", si accende per il genere umano la speranza della salvezza: una figlia del nostro popolo ha trovato grazia agli occhi del Signore, che l'ha prescelta quale Madre del Redentore. Nella semplicità della casa di Maria, in un povero borgo di Galilea, incomincia ad adempiersi la solenne profezia della salvezza: "Io porrò inimicizia tra te e la donna, / tra la tua stirpe / e la sua stirpe: / questa ti schiaccerà la testa / e tu le insidierai il calcagno" (Gn 3,15). Perciò il popolo cristiano ha fatto proprio il cantico di lode che gli Ebrei elevarono a Giuditta e che noi abbiamo poc'anzi pregato come Salmo responsoriale: "Benedetta sei tu, figlia, / davanti al Dio altissimo / più di tutte le donne che vivono sulla terra" (Gdt 13,18). Senza violenza, ma con il mite coraggio del suo "sì", la Vergine ci ha liberati non da un nemico terreno, ma dall'antico avversario, dando un corpo umano a Colui che gli avrebbe schiacciato la testa una volta per sempre.
Ecco perché, sul mare della vita e della storia, Maria risplende come Stella di speranza. Non brilla di luce propria, ma riflette quella di Cristo, Sole apparso all'orizzonte dell'umanità, così che seguendo la Stella di Maria possiamo orientarci nel viaggio e mantenere la rotta verso Cristo, specialmente nei momenti oscuri e tempestosi. L'apostolo Pietro ha conosciuto bene questa esperienza, per averla vissuta in prima persona. Una notte, mentre con gli altri discepoli stava attraversando il lago di Galilea, fu sorpreso dalla tempesta. La loro barca, in balia delle onde, non riusciva più ad avanzare. Gesù li raggiunse in quel momento camminando sulle acque, e invitò Pietro a scendere dalla barca e ad avvicinarsi. Pietro fece qualche passo tra le onde ma poi si sentì sprofondare e allora gridò: "Signore, salvami!". Gesù lo afferrò per la mano e lo trasse in salvo (cfr Mt 14,24-33). Questo episodio si rivelò poi un segno della prova che Pietro doveva attraversare al momento della passione di Gesù. Quando il Signore fu arrestato, egli ebbe paura e lo rinnegò tre volte: fu sopraffatto dalla tempesta. Ma quando i suoi occhi incrociarono lo sguardo di Cristo, la misericordia di Dio lo riprese e, facendolo sciogliere in lacrime, lo risollevò dalla sua caduta.
Ho voluto rievocare la storia di san Pietro, perché so che questo luogo e tutta la vostra Chiesa sono particolarmente legati al Principe degli Apostoli. A lui, come all'inizio ha ricordato il Vescovo, la tradizione fa risalire il primo annuncio del Vangelo in questa terra. Il Pescatore, "pescato" da Gesù, ha gettato le reti fin qui, e noi oggi rendiamo grazie per essere stati oggetto di questa "pesca miracolosa", che dura da duemila anni, una pesca che, come scrive proprio san Pietro, "ci ha chiamati dalle tenebre alla ammirabile luce [di Dio]" (1 Pt 2,9). Per diventare pescatori con Cristo bisogna prima essere "pescati" da Lui. San Pietro è testimone di questa realtà, come lo è san Paolo, grande convertito, di cui tra pochi giorni inaugureremo il bimillenario della nascita. Come Successore di Pietro e Vescovo della Chiesa fondata sul sangue di questi due eminenti Apostoli, sono venuto a confermarvi nella fede in Gesù Cristo, unico salvatore dell'uomo e del mondo.
La fede di Pietro e la fede di Maria si coniugano in questo Santuario. Qui si può attingere al duplice principio dell'esperienza cristiana: quello mariano e quello petrino. Entrambi, insieme, vi aiuteranno, cari fratelli e sorelle, a "ripartire da Cristo", a rinnovare la vostra fede, perché risponda alle esigenze del nostro tempo. Maria vi insegna a restare sempre in ascolto del Signore nel silenzio della preghiera, ad accogliere con generosa disponibilità la sua Parola col profondo desiderio di offrire voi stessi a Dio, la vostra vita concreta, affinché il suo Verbo eterno, per la potenza dello Spirito Santo, possa ancora "farsi carne" oggi, nella nostra storia. Maria vi aiuterà a seguire Gesù con fedeltà, ad unirvi a Lui nell'offerta del Sacrificio, a portare nel cuore la gioia della sua Risurrezione e a vivere in costante docilità allo Spirito della Pentecoste. In modo complementare, anche san Pietro vi insegnerà a sentire e credere con la Chiesa, saldi nella fede cattolica; vi porterà ad avere il gusto e la passione dell'unità, della comunione, la gioia di camminare insieme con i Pastori; e, al tempo stesso, vi parteciperà l'ansia della missione, di condividere il Vangelo con tutti, di farlo giungere fino agli estremi confini della terra.
"De finibus terrae": il nome di questo luogo santo è molto bello e suggestivo, perché riecheggia una delle ultime parole di Gesù ai suoi discepoli. Proteso tra l'Europa e il Mediterraneo, tra l'Occidente e l'Oriente, esso ci ricorda che la Chiesa non ha confini, è universale. E i confini geografici, culturali, etnici, addirittura i confini religiosi sono per la Chiesa un invito all'evangelizzazione nella prospettiva della "comunione delle diversità". La Chiesa è nata a Pentecoste, è nata universale e la sua vocazione è parlare tutte le lingue del mondo. La Chiesa esiste - secondo l'originaria vocazione e missione rivelata ad Abramo - per essere una benedizione a beneficio di tutti i popoli della terra (cfr Gn 12,1-3); per essere, con il linguaggio del Concilio Ecumenico Vaticano II, segno e strumento di unità per tutto il genere umano (cfr Cost. Lumen gentium, 1). La Chiesa che è in Puglia possiede una spiccata vocazione ad essere ponte tra popoli e culture. Questa terra e questo Santuario sono in effetti un "avamposto" in tale direzione, e mi sono molto rallegrato nel constatare, sia nella lettera del vostro Vescovo come anche oggi nelle sue parole, quanto questa sensibilità sia tra voi viva e percepita in modo positivo, con genuino spirito evangelico.
Cari amici, noi sappiamo bene, perché il Signore Gesù su questo è stato molto chiaro, che l'efficacia della testimonianza è proporzionata all'intensità dell'amore. A nulla vale proiettarsi fino ai confini della terra, se prima non ci si vuole bene e non ci si aiuta gli uni gli altri all'interno della comunità cristiana. Perciò l'esortazione dell'apostolo Paolo, che abbiamo ascoltato nella seconda Lettura (Col 3,12-17), è fondamentale non solo per la vostra vita di famiglia ecclesiale, ma anche per il vostro impegno di animazione della realtà sociale. Infatti, in un contesto che tende a incentivare sempre più l'individualismo, il primo servizio della Chiesa è quello di educare al senso sociale, all'attenzione per il prossimo, alla solidarietà e alla condivisione. La Chiesa, dotata com'è dal suo Signore di una carica spirituale che continuamente si rinnova, si rivela capace di esercitare un influsso positivo anche sul piano sociale, perché promuove un'umanità rinnovata e rapporti umani aperti e costruttivi, nel rispetto e nel servizio in primo luogo degli ultimi e dei più deboli.
Qui, nel Salento, come in tutto il Meridione d'Italia, le Comunità ecclesiali sono luoghi dove le giovani generazioni possono imparare la speranza, non come utopia, ma come fiducia tenace nella forza del bene. Il bene vince e, se a volte può apparire sconfitto dalla sopraffazione e dalla furbizia, in realtà continua ad operare nel silenzio e nella discrezione portando frutti nel lungo periodo. Questo è il rinnovamento sociale cristiano, basato sulla trasformazione delle coscienze, sulla formazione morale, sulla preghiera; sì, perché la preghiera dà la forza di credere e lottare per il bene anche quando umanamente si sarebbe tentati di scoraggiarsi e di tirarsi indietro. Le iniziative che il Vescovo ha citato in apertura e le altre che portate avanti nel vostro territorio, sono segni eloquenti di questo stile tipicamente ecclesiale di promozione umana e sociale. Al tempo stesso, cogliendo l'occasione della presenza delle Autorità civili, mi piace ricordare che la Comunità cristiana non può e non vuole mai sostituirsi alle legittime e doverose competenze delle Istituzioni, anzi, le stimola e le sostiene nei loro compiti e si propone sempre di collaborare con esse per il bene di tutti, a partire dalle situazioni di maggiore disagio e difficoltà.
Il pensiero torna, infine, alla Vergine Santissima. Da questo Santuario di Santa Maria de finibus terrae desidero recarmi in spirituale pellegrinaggio nei vari Santuari mariani del Salento, vere gemme incastonate in questa penisola lanciata come un ponte sul mare. La pietà mariana delle popolazioni si è formata sotto l'influsso mirabile della devozione basiliana alla Theotokos, una devozione coltivata poi dai figli di san Benedetto, di san Domenico, di san Francesco, ed espressa in bellissime chiese e semplici edicole sacre, che vanno curate e preservate come segno della ricca eredità religiosa e civile della vostra gente. Ci rivolgiamo dunque ancora a Te, Vergine Maria, che sei rimasta intrepida ai piedi della croce del tuo Figlio. Tu sei modello di fede e di speranza nella forza della verità e del bene. Con le parole dell'antico inno ti invochiamo: "Spezza i legami agli oppressi, / rendi la luce ai ciechi, / scaccia da noi ogni male, / chiedi per noi ogni bene". E allargando lo sguardo all'orizzonte dove cielo e mare si congiungono, vogliamo affidarti i popoli che si affacciano sul Mediterraneo e quelli del mondo intero, invocando per tutti sviluppo e pace: "Donaci giorni di pace, / veglia sul nostro cammino, / fa' che vediamo il tuo Figlio, / pieni di gioia nel cielo". Amen.
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L’Europa senz’anima nuovamente bocciata dal referendum irlandese
La lezione da trarre è che l’Europa non ha alternativa se non riconciliarsi con se stessa riconoscendo la verità e la bontà della propria storia, fede, cultura e tradizione che affondano le loro radici nel cristianesimo
autore: Magdi Cristiano Allam
Cari amici,
La bocciatura del Trattato di Lisbona, una versione riduttiva della Costituzione Europea dopo il “no” irlandese al referendum consultivo, ripropone con forza la realtà di un’Europa senz’anima che si illude ostinatamente di poter crescere come nazione e come civiltà ignorando o addirittura rifiutando il riferimento ai valori e all’identità collettiva.
Nel caso specifico del “no” irlandese è marcata la contrarietà a una Carta costituzionale che relativizza l’istituto della famiglia, autorizzando la famiglia omosessuale, così come relativizza il valore della vita, aprendo alla sperimentazione della fecondazione artificiale, all’eugenetica e all’eutanasia.
La Costituzione Europea, bocciata nel 2004 dopo il duplice “no” al referendum svoltosi in Francia e Olanda, era stata contestata per il rifiuto di menzionare nel preambolo un riferimento alle radici giudaico-cristiane dell’Europa.
Ora si riparte da zero. La lezione da trarre è che non ci sono scorciatoie sul tema nodale dei valori e dell’identità: o l’Europa si riconcilia con se stessa riconoscendo la verità e la bontà della propria storia, fede, cultura e tradizione che affondano le loro radici nel cristianesimo oppure continuerà a navigare a vista come un colosso cieco che non ha una rotta e non persegue un traguardo.
Solo quando l’Europa riscatterà la propria anima recuperando i valori e acquisendo un’identità collettiva, riuscirà ad affrancarsi dall’inganno della mistificazione della realtà, radicando quei valori che corrispondono al bene comune e assumendo quei comportamenti che realizzano l’interesse della collettività.
Cari amici, andiamo avanti insieme da Protagonisti per l’Italia dei diritti e dei doveri, promuovendo un Movimento della Verità, della Vita e della Libertà, per una riforma etica dell’informazione, della società, dell’economia, della cultura, della politica e dello Stato, con i miei migliori auguri di successo e di ogni bene.
Magdi Cristiano Allam
Il popolo respinge e i burocrati vorrebbero infischiarsene - Intervista a Marcello Pera
Visto? Non sta in piedi un’Unione senza Dio"
Siamo di fronte al suicidio di una Costituzione troppo lontana dai popoli e dalle società europee...
E’ la vendetta cristiana, la storica risposta dei credenti all’Europa senza Dio». Il no irlandese al trattato di Lisbona è «l’inevitabile reazione alla cancellazione delle radici cristiane dalla Costituzione e alle eurodirettive, prive di legittimazione democratica, che stravolgono le legislazioni nazionali sui temi bioetici», attacca il senatore «teocon» del Pdl, Marcello Pera.
«Questa Ue è morta perché stata abbandonata dai popoli e ora solo Benedetto XVI può dare un’identità al vecchio continente - sostiene l’ex presidente del Senato e coautore del libro papale “Senza radici: Europa, relativismo, cristianesimo, islam” - Il cattolicissimo popolo d’Irlanda ha avvertito l’estraneità di un’Europa burocratica e astratta che nega duemila anni di cristianesimo»
Perché la cattolica Irlanda affossa l’Ue?
«Siamo di fronte al suicidio di una Costituzione troppo lontana dai popoli e dalle società europee. Sta crollando un’architettura barocca con espressioni bizantine indecifrabili per gli stessi parlamentari e ignote ai cittadini. E’ l’ineluttabile implosione di un mostro gigantesco e privo di significato che impone restrizioni, rispetto di patti, vincoli, parametri astrusi ma poi lascia soli i governi sulla sicurezza e l’integrazione. I cattolici irlandesi si sono ribellati ad un’Europa che nella Costituzione mette al bando Dio per orientare verso l’anarchia del relativismo le legislazione nazionali sui temi eticamente sensibili (adozioni ai gay, eutanasia, aborto, “provetta selvaggia”)».
Una rivolta cristiana ai “senza Dio” di Bruxelles e Strasburgo?
«La legislazione bioetica in paesi cattolici come l’Irlanda e l’Italia viene importata dall’Europa e sfugge al controllo democratico. Delle corti europee che decidono della nostra vita nessuno sa nulla, non hanno rapporto con la popolazione. Sono organismi di giustizia che legiferano in modo troppo autonomo sulla base di testi ignoti e le loro decisioni piombano sulle nostre teste. Ormai sono il cavallo di Troia per introdurre all’interno degli Stati la gran parte della legislazione bioetica. Dell’Europarlamento nessuno conosce la funzione. E’ eletto ma non è terreno di scontro politico, non è niente. l’intera Ue è una costruzione complicata, remota, ostile che incombe sulla gente scegliendo tutto sulla vita umana dal concepimento alla fine naturale. E poi non riesce a proteggermi dal vicino di casa».
E’ colpa della «cacciata» di Dio dalla Costituzione?
«Sì. Il giorno infausto in cui ha deciso programmaticamente di eliminare Dio, l’Europa si è condannata all’inesistenza, cioè ad essere priva di un popolo, di una storia, di un’identità europei. Senza Dio l’Europa non si unifica. Lo hanno ben capito gli irlandesi, tradizionalmente attenti alle leggi e gelosi della loro insularità. Oggi sprofonda un’Europa atea, nemica che esibisce il volto minaccioso di veti inconcepibili, impone medicine amare, pretende di azzerare i valori non negoziabili. Adesso l’ipocrisia è finita: l’Ue ha fallito. Anche in Italia serve il coraggio di dire “no,basta” e ricominciare da un’altra parte».
Da dove?
«Dai temi etici posti da Benedetto XVI, l’unico grande leader di statura e livello europei. Solo Papa Ratzinger può unificare l’Europa.
In assenza di un’adeguata classe politica, Benedetto XVI è diventato il vero punto di riferimento dei popoli e l’autentico artefice dell’identità europea. in Irlanda e altrove la gente segue lui. Da Benedetto XVI i cittadini europei traggono identità, dai politici il nulla. Per questo seguono il Papa e affossano l’Ue.
L'Unione ce l’ha con la Chiesa (e con coloro che su questioni come l’omofobia e il riconoscimento giuridico delle coppie di fatto ne condividono la posizione) perchè è la punta avanzata del laicismo europeo. E' sull'odio contro la Chiesa e l’apostasia del cristianesimo che oggi si basa l'Europa».
di Giacomo Galeazzi
La Stampa 14 giugno 2008
Il popolo irlandese dice "NO" alla svendita della Nazione. Si prenda esempio.
Data: 14 Giugno 2008
Autore: Fausto Carioti
Fonte: Libero 14 giugno 2008
12 giugno, temendo quello che poi di fatto è accaduto in Irlanda, Libération, il giornale della sinistra chic (posseduto dai famosi Rotschild), con un articolo di Alain Duhamel, fratello del direttore generale di France Télévision, vomitava rabbia e disprezzo contro il "dispotismo irlandese", che osava sfidare l'Unione europea.
Per l'élite europea chi vota contro non è abbastanza evoluto. Ma ogni volta che si passa dalle urne per loro c'è una sberla. Il Trattato di Lisbona deve essere approvato all'unanimità, e il "no" di Dublino dovrebbe chiudere automaticamente la partita. Ma l'élite europea - o "eurocasta" che dir si voglia - non ha alcuna intenzione di mollare l'osso, e già ieri sera provava a derubricare la nuova bocciatura come un semplice incidente di percorso, aggirabile con uno dei tanti marchingegni istituzionali già adottati in passato. Magari chiamando di nuovo gli irlandesi alle urne il prossimo anno. Ovviamente, avessero vinto i "sì", col cavolo che i fautori del "no" avrebbero avuto una seconda chance. È di questa strana idea di democrazia che i popoli europei non si fidano...
La vendetta degli elettori contro l'eurocasta
Gli elettori europei si dividono in due categorie: quelli che hanno bocciato i trattati europei e quelli ai quali è stata negata la possibilità di bocciarli. Gli irlandesi appartengono alla prima categoria. Gli italiani, come altri popoli europei, fanno parte della seconda. A Dublino e dintorni giovedì scorso, per volere della Corte suprema, cioè della massima magistratura irlandese, i cittadini sono stati chiamati alle urne per approvare o respingere il Trattato di Lisbona, versione edulcorata della precedente costituzione europea, che fu affossata dal pronunciamento degli elettori francesi e olandesi nel 2005. Il verdetto irlandese è stato reso noto ieri: il 53,4% dei votanti ha detto "no". È la conferma - l'ennesima - che il palazzo di Bruxelles è visto dalla gran parte degli europei come un'astronave aliena piombata nel mezzo del continente da chissà dove, abitata da personaggi strani che, pur usando una lingua astrusa e incomprensibile, lontana da ogni comune idioma europeo, pretendono di dettare legge in casa nostra. Il raffronto con gli Stati Uniti, inevitabile pietra di paragone e oggetto delle invidie degli eurotecnocrati, è semplicemente umiliante. La Costituzione americana è sangue e storia di quel popolo, e ogni cittadino d'oltreoceano conosce a memoria almeno i principali emendamenti, quelli che difendono le sue libertà. Il Trattato di Lisbona è il figlio deforme delle beghe delle élites europee e dei loro compromessi al ribasso, è la traduzione cartacea di un progetto costruttivista che nessun cittadino europeo ha ancora capito in cosa consista e in che modo dovrebbe essergli utile. Tant'è che solo pochi esperti della materia - un circolo ristretto di iniziati che se si presentassero al giudizio degli elettori non riuscirebbero nemmeno a farsi eleggere amministratori di condominio - sono in grado di ricordarne qualche brandello di testo.
Un'élite inamovibile
Eppure gli europei, ogni volta che hanno potuto, non l'hanno mandata a dire. Si iniziò con il trattato di Maastricht, che nel 1992 fu sottoposto al giudizio dei danesi, i quali lo bocciarono, anche se di stretta misura. L'impalcatura europea fu salvata miracolosamente dai francesi, i quali - pochi mesi dopo - approvarono con il 51% dei voti l'accordo europeo. Si tornò a dare la parola ai cittadini nel 2001, quando gli irlandesi affossarono il trattato di Nizza, che stabiliva le regole da adottare man mano che gli stati dell'Europa orientale sarebbero entrati nell'Unione. L'accordo dovette essere modificato e fu necessario un secondo referendum per strappare il "sì" di Dublino. Nel 2005 fu il turno della costituzione europea, prima promossa da un referendum spagnolo, quindi silurata senza pietà dagli elettori di Francia e Paesi Bassi. Così furono necessari due anni di riflessione per approvare, a Lisbona, una nuova carta europea, chiamata ufficialmente "trattato di riforma", che assegna più poteri ai parlamenti nazionali e diminuisce la facoltà legislativa della Ue. Non è servito a niente: appena sottoposto agli elettori, questo Trattato ha subito la stessa sorte riservata al suo predecessore. Se a Bruxelles e Strasburgo la politica fosse governata dalla decenza, il voto irlandese sancirebbe la fine dei tentativi di imporre agli europei regole che rifiutano. Il Trattato di Lisbona deve essere approvato all'unanimità, e il "no" di Dublino dovrebbe chiudere automaticamente la partita. Ma l'élite europea non ha alcuna intenzione di mollare l'osso, e già ieri sera provava a derubricare la nuova bocciatura come un semplice incidente di percorso, aggirabile con uno dei tanti marchingegni istituzionali già adottati in passato. Magari chiamando di nuovo gli irlandesi alle urne il prossimo anno. Ovviamente, avessero vinto i "sì", col cavolo che i fautori del "no" avrebbero avuto una seconda chance. Il presidente della commissione europea, José Manuel Barroso, ha ricordato che diciotto Paesi hanno già approvato il trattato, e ha invitato gli altri otto a tirare dritto con le ratifiche. Peccato che l'Irlanda sia stato l'unico Paese che abbia previsto una consultazione popolare, mentre i diciotto che hanno approvato l'accordo l'abbiano fatto solo tramite i parlamenti: evidentemente certe cose sono ritenute troppo importanti per essere affidate al rozzo giudizio degli elettori.
Una strana idea di democrazia
In Italia, dove il testo è stato varato dal consiglio dei ministri due settimane fa, l'iter per l'approvazione definitiva del trattato inizierà tra pochi giorni. Ovviamente fare un referendum, da queste parti, è pura utopia. Quale sia l'idea d'Europa e di democrazia che va per la maggiore l'ha spiegato con toni da Istituto Luce Giorgio Napolitano, commentando il voto irlandese: «Non si può pensare che la decisione di poco più della metà degli elettori di un Paese che rappresenta meno dell'1% della popolazione dell'Unione possa arrestare l'indispensabile, ed oramai non più procrastinabile, processo di riforma. È l'ora di una scelta coraggiosa da parte di quanti vogliono dare coerente sviluppo alla costruzione europea, lasciandone fuori chi, nonostante impegni solennemente sottoscritti, minaccia di bloccarla». Bontà sua, il presidente della Repubblica se la prende con chi ha sottoposto il trattato Ue al voto degli elettori e propone di lasciare fuori dall'Europa chi non piega la testa al diktat della casta di Bruxelles. Poi si chiedono come mai, appena si parla di Unione europea, la mano degli elettori corre alla fondina.
L'Europa non può sottrarsi alla responsabilità di questa sconfitta
Mario Mauro14/06/2008
Autore(i): Mario Mauro. Pubblicato il 14/06/2008 – IlSussidiario.net
Il No al Trattato di Lisbona è una pesante battuta d'arresto per tutti coloro che speravano di rimettere in moto il metodo d'intervento che ha portato pace e sviluppo per 50 anni. Non possiamo sottrarci alla responsabilità di questa sconfitta, frutto senza dubbio della persistente lontananza delle istituzioni europee dai cittadini, non si può prospettare cessione di sovranità senza che l'ultimo dei cittadini ne sia pienamente cosciente.
Non c'è dubbio che il Trattato sull'Unione europea, firmato a Lisbona nel dicembre 2007 avrebbe potuto accrescere la democraticità dell'Unione. L’organo legislativo per eccellenza, quello che in tutti gli Stati nazionali ha competenza esclusiva (o quasi) per quanto riguarda l’iniziativa legislativa, vale a dire il Parlamento europeo, sarebbe stato considerato in questo caso il grande vincitore del Trattato di riforma.
Questo pur conservando il Trattato elementi di incompletezza ed evidenziando modesti progressi per quanto riguarda il processo decisionale.
L’estensione della procedura di codecisione al 95 per cento della legislazione dell’Unione, poteri in materia di bilancio, nuovi poteri in materia di delega legislativa, elezione del presidente della Commissione, poteri di iniziativa in materia di revisione dei Trattati gli avrebbero consentito un’influenza mai verificatasi nei confronti delle altre istituzioni europee. Questo avrebbe comportato senza dubbio un rafforzamento della dimensione federale dell’Unione europea. Nella Federazione si decide con voto a maggioranza nella Camera che rappresenta gli Stati e la Camera che rappresenta il popolo/popoli partecipa alla formazione della legislazione su un piede di parità. Il salto di qualità era molto evidente, considerato anche che il Consiglio avrebbe deciso a maggioranza qualificata per la stessa percentuale di legislazione del Parlamento.
Ma la valanga dei no irlandesi ha bruscamente interrotto questa strada mettendo a nudo il tradimento che nel tempo è stato fatto del sogno degli Stati Uniti d'Europa ascrivibile ai padri fondatori e lasciando i 500 milioni di cittadini dell'Unione alle prese con un singolare deficit di democrazia.
Perché il deficit sia superato definitivamente occorre tuttavia dare vita a un vero dibattito politico europeo, c’è la necessità di creare un’opinione pubblica europea, la dimensione europea deve svincolarsi dalle logiche nazionali, la politica europea deve entrare nel cuore e nell’impegno concreto dei cittadini. La nostra responsabilità per la vittoria del No al referendum in Irlanda sta tutta qui, la sconfitta è il frutto della persistente lontananza delle istituzioni europee dai cittadini.
Il Parlamento europeo deve evidenziare un vero confronto politico, altrimenti corre il rischio di non interessare ai cittadini e sarà da essi considerato sempre come un’entità astratta e lontanissima dalle loro esigenze. Anche su questo abbiamo avuto dei segnali positivi come nel caso della direttiva servizi, oppure nell'attuale confronto sull'immigrazione. Su questi argomenti c’è stato lo stesso dibattito in molti Paesi membri, con un esponenziale coinvolgimento dell’opinione pubblica in tutti questi Stati.
Chi invece ha puntato tutto sulla tentazione di lasciar fare alle tecnocrazie ha prodotto la crisi del sistema e, minando la credibilità di coloro che intendevano continuare a scommettere sul progetto politico "Stati Uniti d'Europa", ha prospettato per una generazione di rassegnarsi a una sorta di Unione delle Repubbliche Socialiste europee, fatta di omologazione e di mancanza di decisioni.
Adesso sarà più difficile raggiungere un obiettivo di tale portata, ma di certo nulla è perso e di certo non si tornerà alla paralisi del 2005 dopo il No di Francia e Olanda.
Tutte le forze politiche in seno all’Unione hanno una ghiottissima occasione con le elezioni europee del 2009 per dare un decisivo impulso alla creazione di una dimensione politica europea. Oltre alle elezioni dei membri del Parlamento, la presentazione di candidati alla Presidenza della Commissione prima delle elezioni da parte dei partiti politici europei potrebbe essere un primo passaggio determinante, stimolato dalla creazione di fondazioni politiche europee legate ai partiti europei con l’obiettivo di sviluppare dibattito politico. Le maggioranze che saranno raggiunte saranno così sempre più politiche e quindi più stabili sia all’interno del Parlamento, sia nel Consiglio. Da ultimo, nonostante non avesse più un carattere costituzionale, il nuovo Trattato avrebbe mantenuto le discutibili realizzazioni della Costituzione in materia di legittimità democratica, efficacia e rafforzamento dei diritti dei cittadini.
È quindi urgente che dopo quest'ennesima bocciatura iniziamo a capire che questi sono i frutti di un approccio errato al processo di integrazione, di una posizione politica che non vuole partire dalla realtà, dalla domanda: «cos’è l’Europa?», emblematica interrogazione sui fondamenti stessi dell’integrazione europea. Benedetto XVI ricorda come i grandi pericoli contemporanei per la convivenza fra gli uomini giungano dal fondamentalismo, la pretesa di prendere Dio come pretesto per un progetto di potere, e dal relativismo, ossia il ritenere che tutte le opinioni siano vere allo stesso modo.
L’involuzione del progetto politico che chiamiamo Unione europea è riconducibile proprio a questi fattori. Il problema dell’Europa nasce dal fatto che il rapporto tra ragione e politica si è sostanzialmente sviato da ciò che è la nozione stessa di verità. Il compromesso, giustamente presentato come senso della stessa vita politica, è oggi concepito fine a sé stesso.
È per questo che si deve scegliere di mettere a fuoco le principali politiche dell’Unione europea utilizzando come filo conduttore le intuizioni dei padri fondatori e la promozione della dignità umana insita nell’esperienza cristiana.
"Ciò che unisce è più forte di ciò che ci divide" è questo il giudizio semplice e grande dal quale sono partiti Schuman, Adenauer e De Gasperi. Se alla luce di questo giudizio ripensiamo ai mille tentennamenti, ai mille egoismi dei governanti degli ultimi venti anni, ci rendiamo conto di quanto sia difficile per una generazione percepire l'Europa come un bene indispensabile.
I carri di Praga contro l'unico Sessantotto libero
In un diario fitto di aneddoti, il giornalista racconta l'urlo anti-Urss della Primavera ceca. E i silenzi del Pci.
La Primavera di Praga. 1968: la rivoluzione dimenticata" di Enzo Bettiza (Mondadori)
Dopo essere stato prelevato dal suo ufficio di segretario del Partito comunista cecoslovacco all'alba del 21 agosto 1968 da agenti dei servizi segreti cecoslovacchi guidati da un ufficiale del Kgb sovietico, il leader della Primavera di Praga, Alexander Dubcek, viene trasferito insieme ad altri quattro dirigenti a lui fedeli prima in Polonia e poi in Ucraina. Quindi, dopo tre giorni di viaggio e di maltrattamenti, il gruppo di prigionieri giunge a Mosca ed è chiuso in una stanza del Cremlino. Tutti pensano al peggio. E invece: si apre la porta ed entra Breznev sorridente con tutto lo stato maggiore sovietico di partito, di governo e di Stato - Kossighin, Suslov e Podgorny - che abbraccia Dubcek. Quindi, tutti allegri, i sovietici conducono i cecoslovacchi che hanno rapito in un'altra stanza dove c'è una tavola imbandita con caviale, vodka e champagne per un "brindisi con gli amici". Gli "amici" sono il tedesco Ulbricht, il polacco Gomulka, il bulgaro Zikov e l'ungherese Kadar, i capi dei quattro partiti dei paesi comunisti del Patto di Varsavia che con i sovietici hanno in quei giorni invaso la Cecoslovacchia.
L'unico Sessantotto davvero libertario
È questo uno dei tanti episodi che Enzo Bettiza rievoca nel suo "La Primavera di Praga. 1968: la rivoluzione dimenticata" (Mondadori, Le Scie, pp. 159, euro 17,5). Bettiza era in quei giorni a Praga inviato da Giovanni Spadolini a seguire per il "Corriere della Sera" gli avvenimenti. Ma il libro non è solo un diario di quelle drammatiche giornate. In quei mesi egli era stato anche a Parigi e Berlino. Il panorama si allarga quindi per una riflessione più ampia che ha come tema centrale i due ben diversi Sessantotto. «Mentre a Parigi o a Roma» osserva Bettiza «si tornava a casa dalle manifestazioni per cenare serviti da camerieri, ad Est i manifestanti rischiavano di dormire in prigione o peggio». E fu non solo diversità, ma incomunicabilità. «Mentre in Occidente sulla scorta di Marcuse e della Scuola di Francoforte si lamentava la tolleranza repressiva, nessuno si mobilitava però contro la intolleranza repressiva che aveva luogo ad Est». Negli anni Settanta ci furono al massimo dibattiti, ma nessuna manifestazione o corteo del Pci e dei movimenti a sostegno degli oppositori ai regimi imposti dal Cremlino. La Primavera di Praga non fu l'altra faccia di una stessa medaglia: Sessantotto cecoslovacco e Sessantotto italiano sono radicalmente contrapposti. I tentativi di collegare i due fenomeni - ed in particolare quello del "Manifesto" della Rossanda e Pintor - si sono rivelati molto fragili: Dubcek e il Che non sono sommabili ed il farlo significa ricerca di alibi senza fondamento serio. A dividere i due Sessantotto è la "cultura della violenza" che è categoria centrale nel movimento italiano ed è la negazione del socialismo dal volto umano che si svolge non nel segno dell'internazionalismo proletario e della rivoluzione anticapitalista, ma, al contrario, come emerge dalla ricostruzione di Bettiza, nel tentativo da un lato di ripristinare idealità e tradizioni nazionali e di democrazia liberale cancellati dal regime comunista e dall'altro di introdurre anche "stili di vita" e consumi occidentali, come testimonia in particolare l'operato del dubcekiano Jiri Pelikan al vertice della tivù di Stato. Al contrario il Sessantotto italiano si svolse avendo come sottofondo unitario quella che Enzo Bettiza definisce «rapsodia comunisteggiante» tra i ritratti di Mao, Che Guevara, Stalin e Trotsky. Il Sessantotto italiano ha connotati, origini e intenti decisamente diversi e antagonistici. Ma non solo l'estremismo è inconciliabile con il movimento libertario cecoslovacco. Anche il comunismo italiano - ancor più negli anni dell'"euro comunismo" - non ha offerto una sponda positiva ai dissidenti. Quando nel 1969 Jiri Pelikan, fuggito dalla Cecoslovacchia, approdò in Italia pensava - ricorda Bettiza - di trovare accoglienza nel Partito comunista italiano che aveva espresso «grave dissenso e riprovazione» nei confronti dell'intervento sovietico ed aveva seguito con giudizi positivi la politica di Dubcek tra gennaio e agosto del 1968. Ma alle Botteghe Oscure nessuno accettò di riceverlo. Infatti sin dal settembre del '68 Armando Cossutta era stato chiamato da Luigi Longo per andare in missione a Mosca, formalmente in qualità di presidente dell'agenzia Italturist, al fine di mettere alle spalle la polemica sulla Cecoslovacchia. «Mi disse di volare in Urss perché bisognava parlare, anche discutere, ma in sostanza», racconterà Armando Cossutta nell'agosto del 2006, «occorreva ricucire». Poco dopo, infatti, Cossutta partì per Mosca per una serie di colloqui con Suslov e Zagladin, che era responsabile dei rapporti con i partiti comunisti occidentali, e «alla fine», sono le parole di Cossutta, «il ghiaccio era rotto». La distanza tra Pci e Pcus sulla Cecoslovacchia durò poco più di due mesi. Del resto, come accadrà anche nella stessa crisi polacca del 1981, i comunisti italiani anche se presero le distanze da Mosca rifiuteranno comunque di considerare propri interlocutori i dissidenti: chi si oppone ai regimi comunisti o ne è vittima non potrà mai varcare le soglie delle Botteghe Oscure.
Il Pci si piega agli ordini di mosca
La rievocazione di questo Sessantotto sconfitto dai sovietici non è retorica ed infatti Bettiza non manca di seguire con occhio critico il cedimento di Dubcek che rifiuta di opporsi all'invasione, di fuggire ed accetta la messa in scena del rientro a Praga con i sovietici. È pero tale epilogo negativo a dimostrare l'impossibilità di un'autoriforma del sistema comunista e a dar corpo negli anni successivi ai movimenti del "dissenso" nei Paesi dell'Est. Come accadrà con Gorbaciov, il comunismo può accettare la perestrojka (riforme in campo economico), ma entra in crisi con la glasnost (la trasparenza e cioè la democratizzazione, il venir meno della censura e la comparsa del pluralismo politico ed ideologico).
L'AUTORE
Enzo Bettiza (1927) è giornalista e scrittore. Dal 1957 al 1964 è stato corrispondente per La Stampa, prima da Vienna e poi da Mosca. Quindi è passato al Corriere della Sera: dieci anni come inviato all'estero. Ha poi fondato con Indro Montanelli Il Giornale, di cui è stato dal 1974 al 1983 condirettore vicario. Attualmente è editorialista de La Stampa. È stato senatore della Repubblica dal 1976 al 1979. Tra i suoi libri "I fantasmi di Mosca" (1993) e "Esilio" (premio Campiello 1996).
La "pillola del giorno dopo" è un farmaco?
ROMA, domenica, 15 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l'intervento del dottor Renzo Puccetti, specialista in Medicina Interna e segretario del Comitato "Scienza & Vita" di Pisa-Livorno.
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Carissimi,
nell'attuale confronto tra medici obiettori e stati relativisti totalitari che vogliono obbligare quelli a prescrivere o somministrare la pillola abortiva, vorrei porre un quesito che è a monte della questione. Non capisco per quale motivo questa pillola sia da considerarsi un farmaco.
Da cosa guarirebbe?
Inoltre tutto questo confronto mi sembra solo un pretesto per un atteggiamento anticristiano, infatti sussiste sempre questa urgenza che non consente alle interessate di procurarsela da un dottore non obiettore?
Grato per l'attenzione invio i più cordiali saluti.
Adriano Morelli
Risponde il dott. Renzo Puccetti
Pur nella brevità, la domanda del sig. Adriano apre ad interrogativi che non possono trovare esaustiva risposta in questo ambito. Proveremo comunque ad offrire almeno qualche elemento di riflessione.
Per prima cosa è bene sempre identificare l'oggetto della discussione. Il termine "pillola abortiva" può designare sia i farmaci usati per l'aborto farmacologico, sia la cosiddetta pillola del giorno dopo che vede, tra i possibili meccanismi d'azione anche un effetto di impedimento dell'impianto dell'embrione nella mucosa uterina (endometrio). Sebbene le maggiori associazioni di ginecologi e le agenzie internazionali della salute non definiscano questo meccanismo d'azione di tipo abortivo, dal momento che l'inizio della gravidanza viene da loro fatto risalire al momento dell'impianto dell'embrione, non c'è dubbio che questo effetto di tipo anti-nidatorio (che impedisce l'annidamento dell'embrione), realizza un'azione occisiva nei confronti dell'embrione, equivalente eticamente all'azione abortiva. Nel caso della cosiddetta pillola del giorno dopo mediante l'ormone progestinico di sintesi levonorgestrel (LNG), l'esistenza di un effetto post-fertilizzativo è in campo scientifico dibattuta, dal momento che non è disponibile un metodo per valutare la vitalità dell'embrione prima del suo impianto (il beta-HCG si positivizza dopo l'impianto) e si è quindi costretti a procedere mediante valutazioni indirette di vario tipo. Essendo però tale meccanismo d'azione una possibilità tutt'altro che remota, i medici che non desiderano porre in essere azioni anche solo potenzialmente lesive di un essere umano vivente, non prescrivono tale farmaco. Si tratta di una prassi riconosciuta come legittima sia dal Comitato Nazionale di Bioetica, sia dalla Federazione degli Ordini dei Medici.
La domanda del sig. Adriano va però più in profondità. Perché considerare un farmaco una pillola che non cura nulla? Inoltre, è proprio vero che ci sia tutta questa urgenza?
Vediamo di procedere a piccoli passi. Il termine farmaco deriva dal greco, lingua nella quale la parola ha un duplice significato, quello di medicamento e quello di veleno (il simbolo del medico, il cadduceo, è un bastone attorno al quale si avvolgono due serpenti che si affrontano). Si tratta di un'ambivalenza che origina sia dal fatto che molte sostanze usate per avvelenare possono svolgere in piccole dosi un'azione curativa, così come dall'evidenza che molte sostanze usate per curare possono trasformarsi in veleni letali se impiegate in dosi eccessive, o in modalità improprie. La distanza di una sostanza fra la dose terapeutica e la dose tossica viene definita "finestra terapeutica". Quanto più essa è ampia, tanto maggiore è la sicurezza d'impiego della sostanza. La National Library offre diverse definizioni di farmaco, queste sono le principali:
1) Una sostanza usata come medicina, o nella preparazione di una medicina
2) Una sostanza riconosciuta in una farmacopea o formulario ufficiale
3) Una sostanza usata a fini diagnostici, terapeutici, o preventivi di una malattia
4) Una sostanza diversa dal cibo tesa a modificare la struttura o il funzionamento del corpo
Le sostanze contraccettive e abortive non possono essere incluse tra i "farmaci" sulla base di criteri includenti i concetti di malattia, o di medicina (termine quest'ultimo il cui significato si radica nel concetto di "sapienza nell'arte del guarire"), ma lo possono se vengono impiegate, tra quelle riportate, le definizioni puramente descrittive, come la numero 2 e la numero 4.
Le sostanze contraccettive e quelle abortive condividono uno stesso fine, impedire che un rapporto sessuale abbia quale possibile effetto la nascita di un bambino, o di una bambina.
Quello che cambia, è il momento in cui la sostanza agisce. Mentre il contraccettivo, come dice il termine stesso, impedisce il concepimento, ogni sostanza in grado di agire dopo il concepimento non dovrebbe fregiarsi di questo nome, ma piuttosto essere definito contra-gestativo (contro la gravidanza), se si punta l'attenzione sulla donna, o abortivo (Ab-òrior, non nato), se la sua azione è riferita al concepito. Non si tratta di una sottigliezza lessicale. È da poco stato pubblicato uno studio su oltre cinquecento donne della spagna zapateriana da cui emerge che la maggioranza di queste non assumerebbero un farmaco contraccettivo se ci fosse anche solo la possibilità che questo agisse dopo il concepimento. Si tratta di un tipico esempio che conferma il professor Pessina, quando dice che "le parole non sono innocenti". Anche scartando la definizione di farmaco teleologica ed adottando quella puramente descrittiva, non si risolve però il problema, dal momento che dietro ad un farmaco etico (che può essere dispensato soltanto dietro esibizione di ricetta medica) c'è sempre un medico, il cui fine dovrebbe essere la cura del paziente.
Perché dunque i medici hanno cominciato ad usare sostanze rivolte contro un evento che non è una patologia? Ci limiteremo qui ad esaminare la questione dell'aborto, intervento che ha trovato due giustificazioni sostanziali come atto medico. Da un lato l'idea che se la donna che vuole abortire non trovasse un medico disposto ad esaudirla con un atto tecnicamente qualificato, ella cercherebbe di ottenere la stessa prestazione altrove, con la possibilità, così, di abortire per mano di una persona tecnicamente non idonea ed il rischio conseguente di gravi danni alla sua vita e alla sua salute. Si tratterebbe in sostanza di un tipico intervento di riduzione del danno. Dall'altro lato, soprattutto negli anni ‘70-'80, si erano accumulate una serie di evidenze che dimostravano un certo ruolo favorevole dell'aborto per la salute psichica della donna. I livelli di ansia dopo l'intervento risultavano inferiori a quelli registrati prima dell'aborto. Se ne dedusse che, almeno sotto il profilo della salute mentale della donna, l'aborto fosse in grado di apportare dei benefici. Oggi si sente con una certa frequenza ripetere che la mortalità associata al parto è circa dieci volte maggiore rispetto a quella dovuta alle complicanze dell'aborto. Il dato viene citato per esaltare la sicurezza dell'intervento, ma anche per enfatizzare il ruolo terapeutico dell'aborto, dimenticando di considerare che se tale livello di beneficialità fosse esteso a tutte le donne incinte, forse avremmo una riduzione del 90% della mortalità materna, ma in una generazione l'umanità si estinguerebbe.
Al di là di troppo facili ed amari umorismi, circa il ruolo terapeutico di qualsiasi forma di aborto è quanto mai opportuno effettuare alcune puntualizzazioni. Negli ultimi anni si sono succeduti una mole di studi che, mediante l'impiego di metodiche più raffinate, usando protocolli metodologicamente più corretti ed estendendo l'osservazione ad un arco temporale più lungo, hanno esaminato lo stato psicologico delle donne che hanno abortito. Il risultato è che numerosi indici di salute mentale risultano peggiori nelle donne con esperienza di aborto. È tanto vero che dopo 40 anni dalla legalizzazione dell'aborto in Inghilterra il Royal College of Psychiatrists ha redatto un documento in cui riconosce che le donne che intendono abortire debbano essere avvertite dei potenziali pericoli per la loro salute psicologica prima di essere sottoposte all'intervento. Ci sono voluti quarant'anni, ma la verità delle cose comincia a farsi strada anche all'interno di quella comunità scientifica troppo spesso succube di lobby ideologizzate.
Il tentativo di attribuire la maggiore incidenza di patologie psichiatriche alle condizioni pre-esistenti delle donne che abortiscono non modifica la questione. Come per ogni intervento terapeutico, l'onere della prova della sua efficacia è a carico dei propugnatori del suo impiego. Se dopo l'intervento di aborto la salute mentale di queste donne non è normalizzata diventa lecito interrogarsi sull'efficacia terapeutica dell'aborto, dal momento che nella quasi totalità dei casi esso è autorizzato proprio per tutelare la salute mentale delle donne. Si potrebbe obiettare che il rifiuto rappresenterebbe una condotta ancora peggiore, ma tale ipotesi non trova conferma nei dati medico-scientifici disponibili, che anzi, tendono ad escludere un significativo impatto negativo per la salute della donna derivante da un rifiuto alla sua richiesta di abortire.
Che poi l'aborto legale conduca ad una minore mortalità per le donne è, come al solito, assunto verosimile, ma non vero. Se da un lato infatti le donne che abortiscono legalmente in ambiente protetto incorrono in un minore rischio di morte a breve termine, dall'altro sappiamo ormai da più di dieci anni che la mortalità di queste stesse donne, misurata ad un anno di distanza dall'interruzione della gravidanza, è tre volte maggiore rispetto a quella di coloro che danno alla luce un figlio.
Dal momento che l'aborto non determina un miglioramento né delle condizioni psichiche, né della sopravvivenza delle donne, l'ultimo argomento ad essere utilizzato è quello secondo cui, pur non essendo la gravidanza, anche quella indesiderata, una patologia (l'Organizzazione Mondiale della Sanità, bontà sua, non include la gravidanza tra le patologie), essa è comunque in grado di turbare la salute delle donne. Si giunge così finalmente ad una delle teste dell'Hydra, quella estesa definizione di "salute" promulgata dall'OMS (cfr. http://www.silsismi.unimi.it/new/allegati/2369.pdf). Si tratta di una definizione che, pur adottata con la nobile intenzione di evitare che il medico si riduca ad uno iatro-meccanico e il paziente ad aggregato biologico identificato con la patologia di cui è portatore, ha prodotto nel tempo l'effetto perverso di trasformare tutto in patologia potenzialmente bisognosa di un intervento sanitario; ha creato cioè quella medicina dei desideri che rappresenta il cappio al collo di quanti oggi non vogliono vedere il rapporto medico-paziente svilito a mero contratto.
La definizione OMS di salute è oggi la pistola puntata alla tempia dei medici perché questi, intimiditi ed ammutoliti, eseguano ciò che avanguardie tanto minoritarie quanto determinate impongono loro attraverso un'oliatissima macchina di propaganda. I tentativi di mantenere la relazione medico-paziente entro binari di una condotta virtuosa orientata alla cura e al vero bene del paziente, sono infallibilmente tacciati di arroganza corporativistica.
Circa poi il carattere di urgenza riferito alla pillola del giorno dopo, mi limito a dire che se è vero che l'efficacia del farmaco sembra ridursi col passare del tempo dal rapporto sessuale, mi sembra innegabile che definire d'emergenza un farmaco la cui dispensazione nei pronto soccorso viene identificata come codice bianco (il più basso grado di priorità), sia un esercizio di alta fantasia linguistica.
Per approfondire:
R. Puccetti "L'uomo indesiderato - dalla pillola di Pincus alla RU 486". Società Editrice Fiorentina, 2008. http://www.sefeditrice.it/asp/libro.asp?Lib=zio12
Casa di cura Santa Rita: un caso di "malaumanità"
Autore: Buggio, Nerella
Fonte: CulturaCattolica.it
giovedì 12 giugno 2008
Le indagini in corso, nelle quali sono indagate 19 persone, hanno portato alla luce presunti casi di lesioni gravi e gravissime e cinque casi di morte del paziente, dovuti ad interventi chirurgici inutili e sproporzionati rispetto alle patologie dei malati.
Alla povera Santa Rita s’è piantata un’altra spina in fronte a sentire cosa accadeva nella Casa di cura Milanese che si fregia del suo nome.
Leggo sul sito della casa di Cura Santa Rita di Milano
1946 – 2006 - da 60 anni vi siamo vicini.
Già, sessant’anni di cure, di lavoro, di attenzione verso chi soffre, poi arriva un gruppo di farabutti e scopri che le buone intenzioni di chi sessant’anni fa ha fondato la casa di cura sono andate in malora, tradite, da chi nella persona malata vedeva non l’uomo sofferente, ma solo un’occasione per truffare la collettività.
Le indagini in corso, nelle quali sono indagate 19 persone, hanno portato alla luce presunti casi di lesioni gravi e gravissime e cinque casi di morte del paziente, dovuti ad interventi chirurgici inutili e sproporzionati rispetto alle patologie dei malati.
Ora un collega del medico arrestato, afferma che tutti sospettavano che il primario Brega Massone avesse metodi per così dire, poco ortodossi, ma nessuno ne aveva prove certe.
Leggo sui quotidiani che Pier Paolo Brega Massone, il primario di Chirurgia toracica arrestato con accuse pesantissime, all'età di dieci anni è stato adottato dopo la morte dei genitori in un incidente, da un noto e stimato Chirurgo.
Del padre adottivo si ricorda che era primario a Stradella ed aveva ricevuto anche un'onorificenza dalla regina d'Inghilterra perché in battaglia aveva curato dei soldati di sua Maestà, anche se erano nemici. Insomma, un uomo che credeva nella missione del medico.
Ed è con questo uomo come esempio che Pier Paolo Brega è cresciuto, desiderando di imitarlo, e studiando e lavorando duramente per farcela, ma poi la chirurgia da missione deve essere diventata altro.
Più ci penso e più mi convinco che non siamo in presenza di un caso di malasanità, dove l’incuria, la distrazione, la mancanza di personale, portano i medici a sbagliare, no, qui è peggio, siamo in presenza di un caso di “malaumanità”, persone che hanno studiato e faticato duramente per accedere ad una professione che rende chi la fa – custode della vita altrui – e hanno tradito la fiducia di chi, malato, metteva la propria sorte nelle loro mani.
Per avidità di denaro o di potere, non importa.
Tutti noi, quando entriamo in ospedale, ci togliamo gli abiti e ci mettiamo un pigiama, diventiamo fragili, bisognosi d’attenzioni, temiamo di diventare un numero, quello del nostro letto.
Attendiamo il medico che fa il giro delle visite la mattina, scrutando ogni sua smorfia, interpretandone i silenzi, i sorrisi, le parole buone o le battute scherzose.
Se poi, ad essere malato è qualcuno a cui vogliamo bene, il medico diventa il tramite con il domani, colui che può darci speranza, confidiamo nelle sue competenze, nella sua esperienza e nella sua umanità.
I medici, anche quelli indagati, hanno di certo pronunciato il giuramento di Ippocrate:
"Consapevole dell'importanza e della solennità dell'atto che compio e dell'impegno che assumo, giuro:
1. Di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento;
2. Di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell'uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale…
Allora domando - cosa fa diventare dei bravi medici, degli spietati affaristi? La cupidigia? La bramosia di potere? Il desiderio di sentirsi padroni della vita altrui?
Credo che tutto inizi con l’allontanamento dal mistero rappresentato dalla sofferenza, con lo smarrire lo sguardo pietoso nei confronti di chi ti sta di fronte, nello scordare che la mano del chirurgo è il tramite con cui un Altro agisce.
Quando s’inizia a vedere solo la malattia e non più il malato, il tumore e non gli occhi di chi l’ha in corpo, allora il cinismo prende il sopravvento.
Scriveva un medico, laico, divenuto santo, San Giuseppe Moscati:
“Il dolore va trattato non come un guizzo o una contrazione muscolare, ma come il grido di un'anima, a cui un altro fratello, il medico, accorre con l'ardenza dell'amore, la carità.”
Ecco, se il medico non si fa un po’ fratello, se non guarda più in faccia il malato come il tramite tra il Mistero e lui, inevitabilmente non ci saranno motivazioni per cui un vecchio che intanto morire già deve, nel suo perire non debba portare guadagno.
OMELIA S.E. MONS. LUIGI NEGRI ORDINAZIONE DIACONALE P. LUCA TUTTOCUORE e P. CARLO VERONESI O.C
BOLOGNA - 24 MAGGIO 2008 - CHIESA MADONNA DI GALLIERA
Sia lodato Gesù Cristo!
E’ della Madre del Signore profeticamente rivolta a sé, ma è della Madre del Signore che la Chiesa proclama “tu sei lo splendido vanto del nostro popolo”, lo splendore. E’ della Madre del Signore che si può legittimamente ritenere lo splendore del nostro popolo, l’espressione più grande della nostra vita di popolo come ha detto in maniera straordinariamente efficace e pertinente il Santo Padre Benedetto XVI nel suo indimenticabile discorso fatto nel corso del convegno delle chiese italiane.
Voi entrate in questo splendore, siete scelti dal Signore Dio per entrare dentro questo splendore vivente nella Chiesa, per dare il vostro contributo di intelligenza, di sensibilità, di capacità intellettive, condivisione dei bisogni degli uomini, dentro questo splendore di Dio in questa Chiesa, di cui siete figli primogeniti e prediletti.
Infatti voi entrate in questo splendore attuando oggi il primo grado dell’ordine sacerdotale. E in questo primo grado dell’ordine sacerdotale si va per la storia che il Signore ha costruito per voi e con voi, una storia segnata dalla grande tradizione religiosa delle vostre famiglie, in cui è maturata la vostra formazione cristiana e attraverso grandi incontri di suggestioni, di corrispondenze, di relazioni affettive che si sono sintetizzate per voi mirabilmente nel grande carisma di San Filippo Neri.
Entrate a prendere il vostro posto nello splendore della Chiesa con questo maestro straordinario e in quella compagnia, che egli ha dato origine e che ha sfidato i secoli, ricordando le diverse condizioni di vita, anche le più terribili in cui la chiesa si è trovata e ricordate che il cristianesimo è gioia, è verità e quindi gioia; è pienezza di vita perché è la vita di Dio che diventa vita degli uomini: è una gioia irresistibile.
Potrete dire, rinnovando nella vostra esistenza e nella vita della vostra comunità, la grande certezza del vostro padre San Filippo, l’essenza del cristianesimo: “il mio è lieto”.
Entrate dunque, accettate di essere cooptati dalla chiesa di Dio nell’ordine del diaconato che non può essere in nessun modo una pretesa o un diritto, ma soltanto una grazia data totalmente da Cristo, dal Suo Spirito e verificata dalla volontà del vostro ordine, della vostra congregazione e dall’autorità del Vescovo.
Entrate fiduciosi.
Tutta la storia bella, intensa, appassionata oggi ti sostiene in questo passo, e al di là di esso ecco lo scorgere, in qualche modo anticipato, delle nuove flessioni che il vostro servizio assumerà.
Servi il Signore nel suo popolo, serviLo in tutte le circostanze concrete.
Come ha ricordato Benedetto XVI nel suo intervento ai diaconi: è un servizio per aiutare la Chiesa a vivere la sua missione quotidiana. Questo incontro quotidiano con il mistero di Cristo presente nella chiesa è nel cuore di ogni uomo, in questo tempo così singolarmente lontano da sé stesso.
L’apostasìa del Cristo, alla fine significa, l’apostasìa dell’uomo a sé stesso. Voi percorrerete le vie di questo mondo in cui troverete forse più attesa di Dio di quanto immediatamente non si possa pensare, una attesa di Dio celata nel profondo della coscienza e coperta molte volte dagli stati della indifferenza e della soddisfazione di cui vive questa società, che il grande Arcivescovo emerito di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi, una volta ha definito una società sazia e disperata.
Ma troverete tanta attesa di Dio, siete attesi, la vostra presenza, il vostro servizio sono attesi.
Troverete anche molta ansia.
Troverete tanto odio perché l’uomo in questo tempo ha una terribile volontà di odio verso Cristo e verso la Chiesa: dalla banalizzazione dei grandi suggerimenti morali, all’attacco indiscriminato alla vita, alla dignità, al diritto che gli uomini hanno di vivere in modo dignitoso, libero e intelligente.
Tutto questo è sotto tiro: la società si vanta di stare compiendo l’ultimo e più blasfemo tentativo di negare la presenza di Cristo e la tradizione che da Cristo ha influito nella vita del nostro popolo.
Entrate decisi con quella serena baldanza che ha consentito al vostro Padre di parlare con piena libertà al Papa, ai Vescovi, ai cardinali e alla gente comune.
Parlate con franchezza, dite che Cristo è oggi più necessario di domani, se così si può dire, raccogliendo l’insinuazione profonda e cocncretissima della Redemptoris hominis: è più necessario che mai, perché questa società che Ghandi ha chiamato “incristiana” è ancora più terribile di quanto non si possa astrattamente pensare.
Siate baldanzosi, non per la vostra forza, ma baldanzosi in colui e per colui che vi dà forza. E rinnovate nella vostra vita il bellissimo miracolo delle nozze di Canaan: chiedete alla Madonna che vi aiuti a fare questo miracolo, come in qualche modo ha aiutato suo Figlio a fare il miracolo.
Perché anche voi dovrete cambiare l’acqua insipida di una vita senza senso, senza significato, senza bellezza, senza dignità, l’acqua insipida della vita banale degli uomini di questo tempo, dovete cambiarla nel vino, che esprime la forza, la grandezza, la bellezza, la tenerezza del corpo e dell’anima.
Questo vi aspetta: camminare sulle strade del mondo, incontrare gli uomini, condividere i loro bisogni, fare una cosa sola con la loro gioia, ma soprattutto fare una cosa sola con il loro dolore in modo che vi sentano vicini in questa terribile povertà, che non è soltanto una povertà materiale.
E’ una povertà che nessuno prevedeva e che è piombata sulla vita del nostro popolo per troppi reati compiuti contro il bene comune dell’uomo.
Condividete la loro povertà, ma soprattutto condividete quella povertà culturale e morale che voi soli potrete riarricchire mettendo davanti al cuore di ciascun uomo l’annunzio di Cristo, redentore dell’uomo, centro del cosmo e della storia.
Vivete con baldanza la missione della chiesa, che è questo aprirsi continuamente del dialogo fra Cristo e il cuore dell’uomo. Noi vogliamo sentire solo questo, non ci interessa nient’altro, non siamo per principio contro nessuno o con nessuno, siamo brani vivi della presenza di Cristo che si è posto nel mondo e ha diviso il mondo fra coloro che lo hanno seguito e coloro che non hanno aderito.
Non abbiate nessuna preoccupazione del possibile consenso che venga dato dalla mentalità comune alla vostra azione.
Non è grande l’azione perché trova il consenso della società e non è negativa l’azione se non trova il consenso della società.
Sappiate essere lieti della letizia per la presenza di Cristo nei vostri cuori e la presenza di Cristo nei nostri cuori comincia con l’assimilazione a sé del sacerdote, re e profeta.
Siate lieti di questo e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù e la vostra vita assomiglierà proprio perché ospiterà incondizionatamente la presenza del Signore perché Dio realizza in pienezza ciò che ha iniziato.
Il vostro santo padre Filippo vi accompagnerà.
Questa straordinaria figura di santo in cui il cristianesimo è diventato in maniera singolarissima una bellezza, una musica, “la musica di Dio”, come disse di lui il grande teologo spirituale Louis Bouyer.
Vi accompagnerà e vi darà quindi la forza per testimoniare in questo mondo che la vita cristiana è bella, che la vita cristiana è una vita bella e riuscita anche se misteriosamente intrecciata con la sofferenza e il dolore.
La gioia non è assenza di dolore, la gioia è una trasfigurazione del dolore vissuto con Cristo, per Cristo, ed in Cristo. E questo renderà pieno il vostro cuore e farà del vostro tempio il luogo dove ospiterete il cuore di ogni uomo che incontrerete senza chiedergli preventivamente nulla, accogliendolo perché è, e la radice ultima dell’uomo che incontrate e accogliete perché è, sappiate che la radice ultima è Gesù Cristo e ogni uomo entra nella vita dell’altro, in qualche modo, essendo segno del Signore Gesù Cristo. Fidatevi dunque di questa grande sapienza della chiesa che oggi vi sceglie nella chiesa; oggi vi sceglie compiendo un atto che misteriosamente riposa soltanto ed esclusivamente nella volontà di Dio che vi ha scelto.
Oggi noi vi scegliamo in nome e per autorità di Gesù Cristo, vi scegliamo nella chiesa, dalla chiesa, perché però siate di fronte alla chiesa segni certi dell’Amore di Cristo, della sua volontà di servizio, della sua capacità di condivisione, soprattutto perché siete filippini, della sua capacità di gioia e di bellezza. E siate anche benevoli con i vostri limiti che non ostacolano la missione se non in quanto diventano una ideologia, una giustificazione.
Ma quando sono l’esperienza inevitabile del limite sappiate affrontarli con la sterminata saggezza del vostro San Filippo che riusciva a dire a sé e a tutti i suoi fratelli “state buoni se potete”.
Così sia.