Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI presenta la figura di Sant’Isidoro di Siviglia
2) La cura giusta: meno spesa, e un liberalismo intriso di attenzione sociale
3) La cura giusta: meno spesa, e un liberalismo intriso di attenzione sociale
4) Bene la strada dei tagli, ma il più resta ancora da fare
5) Il Sessantotto italiano
6) Emergenza educativa, la sfida irrinunciabile
7) Scienza & Vita mette un argine all’eugenetica
8) Fisichella: la scienza non ha l’ultima parola
Benedetto XVI presenta la figura di Sant’Isidoro di Siviglia
Intervento in occasione dell'Udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 18 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell'intervento pronunciato questo mercoledì mattina da Benedetto XVI nel corso dell'Udienza generale in piazza San Pietro in Vaticano, incentrata sulla figura di Sant’Isidoro di Siviglia.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare di sant’Isidoro di Siviglia: era fratello minore di Leandro, Vescovo di Siviglia e grande amico del Papa Gregorio Magno. Il rilievo è importante, perché permette di tenere presente un accostamento culturale e spirituale indispensabile alla comprensione della personalità di Isidoro. Egli deve infatti molto a Leandro, persona molto esigente, studiosa e austera, che aveva creato intorno al fratello minore un contesto familiare caratterizzato dalle esigenze ascetiche proprie di un monaco e dai ritmi di lavoro richiesti da una seria dedizione allo studio. Inoltre Leandro si era preoccupato di predisporre il necessario per far fronte alla situazione politico-sociale del momento: in quei decenni infatti i Visigoti, barbari e ariani, avevano invaso la penisola iberica e si erano impadroniti dei territori appartenuti all’Impero romano. Occorreva conquistarli alla romanità e al cattolicesimo. La casa di Leandro e di Isidoro era fornita di una biblioteca assai ricca di opere classiche, pagane e cristiane. Isidoro, che si sentiva attratto simultaneamente sia verso le une che verso le altre, fu educato perciò a sviluppare, sotto la responsabilità del fratello maggiore, una disciplina molto forte nel dedicarsi al loro studio, con discrezione e discernimento.
Nell’episcopio di Siviglia si viveva, perciò, in un clima sereno ed aperto. Lo possiamo dedurre dagli interessi culturali e spirituali di Isidoro, così come essi emergono dalle sue stesse opere, che comprendono una conoscenza enciclopedica della cultura classica pagana e un’approfondita conoscenza della cultura cristiana. Si spiega così l’eclettismo che caratterizza la produzione letteraria di Isidoro, il quale spazia con estrema facilità da Marziale ad Agostino, da Cicerone a Gregorio Magno. La lotta interiore che dovette sostenere il giovane Isidoro, divenuto successore del fratello Leandro sulla cattedra episcopale di Siviglia nel 599, non fu affatto leggera. Forse si deve proprio a questa lotta costante con se stesso l’impressione di un eccesso di volontarismo che s’avverte leggendo le opere di questo grande autore, ritenuto l’ultimo dei Padri cristiani dell’antichità. Pochi anni dopo la sua morte, avvenuta nel 636, il Concilio di Toledo del 653 lo definì: "Illustre maestro della nostra epoca, e gloria della Chiesa cattolica".
Isidoro fu senza dubbio un uomo dalle contrapposizioni dialettiche accentuate. E, anche nella sua vita personale, sperimentò un permanente conflitto interiore, assai simile a quello che avevano avvertito già san Gregorio Magno e sant’Agostino, fra desiderio di solitudine, per dedicarsi unicamente alla meditazione della Parola di Dio, ed esigenze della carità verso i fratelli della cui salvezza si sentiva, come Vescovo, incaricato. Scrive per esempio a proposito dei responsabili delle Chiese: "Il responsabile di una Chiesa (vir ecclesiasticus) deve da una parte lasciarsi crocifiggere al mondo con la mortificazione della carne e dall’altra accettare la decisione dell’ordine ecclesiastico, quando proviene dalla volontà di Dio, di dedicarsi al governo con umiltà, anche se non vorrebbe farlo" (Sententiarum liber III, 33, 1: PL 83, col 705 B). Aggiunge poi appena un paragrafo dopo: "Gli uomini di Dio (sancti viri) non desiderano affatto di dedicarsi alle cose secolari e gemono quando, per un misterioso disegno di Dio, vengono caricati di certe responsabilità… Essi fanno di tutto per evitarle, ma accettano ciò che vorrebbero fuggire e fanno ciò che avrebbero voluto evitare. Entrano infatti nel segreto del cuore e là dentro cercano di capire che cosa chieda la misteriosa volontà di Dio. E quando si rendono conto di doversi sottomettere ai disegni di Dio, umiliano il collo del cuore sotto il giogo della decisione divina" (Sententiarum liber III, 33, 3: PL 83, coll. 705-706).
Per capire meglio Isidoro occorre ricordare, innanzitutto, la complessità delle situazioni politiche del suo tempo, a cui ho già accennato: durante gli anni della fanciullezza aveva dovuto sperimentare l’amarezza dell’esilio. Ciò nonostante era pervaso di entusiasmo apostolico: sperimentava l’ebbrezza di contribuire alla formazione di un popolo che ritrovava finalmente la sua unità, sul piano sia politico che religioso, con la provvidenziale conversione dell’erede al trono visigoto Ermenegildo dall’arianesimo alla fede cattolica. Non si deve tuttavia sottovalutare l’enorme difficoltà di affrontare in modo adeguato problemi assai gravi come quelli dei rapporti con gli eretici e con gli Ebrei. Tutta una serie di problemi che appaiono molto concreti anche oggi, soprattutto se si considera ciò che avviene in certe regioni nelle quali sembra quasi di assistere al riproporsi di situazioni assai simili a quelle presenti nella penisola iberica in quel sesto secolo. La ricchezza delle conoscenze culturali di cui disponeva Isidoro gli permetteva di confrontare continuamente la novità cristiana con l’eredità classica greco-romana, anche se più che il dono prezioso della sintesi sembra che egli avesse quello della collatio, cioè della raccolta, che si esprimeva in una straordinaria erudizione personale, non sempre ordinata come si sarebbe potuto desiderare.
Da ammirare è, in ogni caso, il suo assillo di non trascurare nulla di ciò che l’esperienza umana aveva prodotto nella storia della sua patria e del mondo intero. Isidoro non avrebbe voluto perdere nulla di ciò che era stato acquisito dall’uomo nelle epoche antiche, fossero esse pagane, ebraiche o cristiane. Non deve stupire pertanto se, nel perseguire questo scopo, gli succedeva a volte di non riuscire a far passare adeguatamente, come avrebbe voluto, le conoscenze che possedeva attraverso le acque purificatrici della fede cristiana. Di fatto, tuttavia, nelle intenzioni di Isidoro, le proposte che egli fa restano sempre in sintonia con la fede cattolica, da lui sostenuta con fermezza. Nella discussione dei vari problemi teologici, egli mostra di percepirne la complessità e propone spesso con acutezza soluzioni che raccolgono ed esprimono la verità cristiana completa. Ciò ha consentito ai credenti nel corso dei secoli di fruire con gratitudine delle sue definizioni fino ai nostri tempi. Un esempio significativo in materia ci è offerto dall’insegnamento di Isidoro sui rapporti tra vita attiva e vita contemplativa. Egli scrive: "Coloro che cercano di raggiungere il riposo della contemplazione devono allenarsi prima nello stadio della vita attiva; e così, liberati dalle scorie dei peccati, saranno in grado di esibire quel cuore puro che, unico, permette di vedere Dio" (Differentiarum Lib II, 34, 133: PL 83, col 91A). Il realismo di un vero pastore lo convince però del rischio che i fedeli corrono di ridursi ad essere uomini ad una dimensione. Perciò aggiunge: "La via media, composta dall’una e dall’altra forma di vita, risulta normalmente più utile a risolvere quelle tensioni che spesso vengono acuite dalla scelta di un solo genere di vita e vengono invece meglio temperate da un’alternanza delle due forme" (o.c., 134: ivi, col 91B).
La conferma definitiva di un giusto orientamento di vita Isidoro la cerca nell’esempio di Cristo e dice: "Il Salvatore Gesù ci offrì l’esempio della vita attiva, quando durante il giorno si dedicava a offrire segni e miracoli in città, ma mostrò la vita contemplativa quando si ritirava sul monte e vi pernottava dedito alla preghiera" (o.c. 134: ivi). Alla luce di questo esempio del divino Maestro, Isidoro può concludere con questo preciso insegnamento morale: "Perciò il servo di Dio, imitando Cristo, si dedichi alla contemplazione senza negarsi alla vita attiva. Comportarsi diversamente non sarebbe giusto. Infatti come si deve amare Dio con la contemplazione, così si deve amare il prossimo con l’azione. E’ impossibile dunque vivere senza la compresenza dell’una e dell’altra forma di vita, né è possibile amare se non si fa esperienza sia dell’una che dell’altra" (o.c., 135: ivi, col 91C). Ritengo che questa sia la sintesi di una vita che cerca la contemplazione di Dio, il dialogo con Dio nella preghiera e nella lettura della Sacra Scrittura, come pure l’azione a servizio della comunità umana e del prossimo. Questa sintesi è la lezione che il grande Vescovo di Siviglia lascia a noi, cristiani di oggi, chiamati a testimoniare Cristo all’inizio di un nuovo millennio.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai sacerdoti novelli della diocesi di Brescia. Carissimi, mentre prego il Signore affinché vi sostenga nel vostro ministero, vi invito a diffondere intorno a voi quella gioia che nasce dalla generosa e fedele corrispondenza alla divina chiamata. Saluto poi voi, cari fedeli della parrocchia di San Pietro, in San Martino in Pensilis, ed auspico che questo incontro susciti in ciascuno un rinnovato slancio apostolico, per testimoniare ovunque Cristo e il Vangelo.
Il mio pensiero va, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Siamo alle soglie del periodo estivo, tempo di turismo e di pellegrinaggi, di ferie e di riposo. Cari giovani, mentre penso ai vostri coetanei che stanno ancora affrontando gli esami, auguro a voi già in vacanza di profittare dell’estate per utili esperienze sociali e religiose. Auguro a voi, cari malati, di trovare conforto e sollievo nella vicinanza dei vostri familiari. E a voi, cari sposi novelli, rivolgo l’invito ad utilizzare questo periodo estivo per approfondire sempre più il valore della missione nella Chiesa e nella società.
Il mio pensiero va ora ai partecipanti al Congresso Eucaristico Internazionale, che si sta svolgendo in questi giorni nella città di Québec in Canada, sul tema "L’Eucaristia, dono di Dio per la vita del mondo". Mi rendo spiritualmente presente in così solenne incontro ecclesiale, ed auspico che esso sia per le comunità cristiane canadesi e per la Chiesa universale un tempo forte di preghiera, di riflessione e di contemplazione del mistero della santa Eucaristia. Sia pure occasione propizia per riaffermare la fede della Chiesa nella presenza reale di Cristo nel Santissimo Sacramento dell’Altare. Preghiamo inoltre perché questo Congresso Eucaristico Internazionale ravvivi nei credenti, non solo del Canada ma di tante altre Nazioni nel mondo, la consapevolezza di quei valori evangelici e spirituali che hanno forgiato la loro identità lungo il corso della storia.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
La cura giusta: meno spesa, e un liberalismo intriso di attenzione sociale
Oscar Giannino19/06/2008
Autore(i): Oscar Giannino. Pubblicato il 19/06/2008 – IlSussidiario.net
Ci vorrà ancora tempo per comprendere fino in fondo tutti i dettagli, del centinaio di punti diversi in cui è articolato il disegno di legge che si accompagna al decreto con cui Berlusconi e Tremonti hanno presentato il biglietto da visita del governo in politica economica. Ma da subito si comprende che è un cambio d’orizzonte complessivo, rispetto al biennio prodiano. Dal più tasse, più gravami e più spesa pubblica dell’Unione, all’esatto opposto. L’azzeramento del deficit al 2011 come promesso da Prodi all’Europa non viene rinviato alla prossima finanziaria. L’esperienza negativa delle dilazioni che nutrivano i dubbi e facevano perdere incisività al Silvio III, tra 2001 e 2006, ha fatto lezione. I colleghi di governo e le autonomie si vedono subito presentato il conto che ciascuno dovrà onorare, per centrare l’obiettivo. Sono 35 miliardi di euro in 3 anni, nella massima parte finalmente di minori spese. “Meno spesa”è la cura giusta, in un Paese in cui adottando gli standard efficienti di servizio pubblico in sanità, assistenza e previdenza si individuano almeno 80 miliardi di sprechi, come scrive l’ottimo professor Luca Ricolfi, insospettabile di berlusconismo.
Così facendo si libera tempo prezioso, nella tradizionale sessione di bilancio autunnale, per la riforma fiscale vera di questa legislatura. La più attesa da noi che tifiamo per la sussidiarietà. Il federalismo fiscale. Il Capo dello Stato, le Autonomie e l’opposizione sono stati chiari: non si approva il federalismo senza un confronto approfondito. Con la manovra a giugno, il governo pone le premesse per un dibattito serio, tra settembre e dicembre. Per stabilire quale sia la soglia di perequazione a vantaggio delle Regioni meno avanzate ma abbandonando il principio inefficiente della copertura dei costi storici, che hanno premiato i più inefficienti. E per decidere con chiarezza quali – pochi – grandi tributi lasciare alla piena competenza locale, e quali allo Stato. Con tanto di devoluzione alle Autonomie anche di parti congrue del demanio pubblico, in maniera che d’ora in poi abbiano attivi patrimoniali da mettere a reddito e a fronte dei propri debiti, che altrimenti finiscono sul groppone dello Stato e di noi tutti. Come nel caso di Roma.
I pilastri della manovra varata ieri sono mirati a esercitare effetti più sull’offerta aggiuntiva, che sulla domanda. E’ questo il sentiero scelto dal governo per sostenere la crescita. Si spiegano così le abolizioni di una fitta coltre di gravami aggiuntivi introdotti da Prodi e Visco con la scusa della lotta all’evasione, in realtà per accrescere indirettamente la produttività costringendo un paio di milioni di lavoratori autonomi a diventare lavoratori dipendenti, e tante piccole imprese a chiudere i battenti. La cancellazione di obblighi come il reintrodotto libro clienti-fornitori, dei massimali bassissimi per gli assegni non trasferibili, dell’obbligo di fido bancario per i creditori del fisco, il concordato fiscale fino a 20mila euro d’imposta, rispondono tutti a questo obiettivo.
In attesa dei contratti decentrati e del salario di produttività, si torna intanto a più flessibilità e alla legge Biagi originale, in materia di mercato del lavoro. Di qui il ritorno del lavoro su chiamata, modifiche alle rigorosissime eccezioni che erano sopravvissute, per motivare la persistenza di contratti a tempo determinato invece di trasformarli automaticamente in assunzioni permanenti. Di qui una tendenziale parificazione tra lavoro privato e pubblico, che è alla radice del piano industriale della Pubblica amministrazione, promesso da Brunetta e che nella manovra ha iniziato a prendere forma. Senza prendersela solo coi fannulloni. Perché ci sono anche limiti alle stock option per i manager pubblici e un taglio ai compensi e alla numerosità dei Cda delle società pubbliche. Aggiungete tempi e procedure stringenti per il nuovo piano energetico che spetterà al ministro Scajola pilotare, in modo da realizzare entro un numero non troppo elevato di anni una percentuale non simbolica di nucleare, per riequilibrare il mix energetico troppo spericolatamente squilibrato verso gas e petrolio. E infine gli spunti che io definisco di ordine “culturale”. Ne fanno parte la Robin Tax su petrolieri, banche e assicurazioni, cioè a carico dei settori che hanno realizzato i maggiori boom ai propri profitti per la finanza derivata, che pesa invece sui mutui immobiliari e alla pompa di benzina. Ma anche l’identificazione concreta delle risorse e procedure per il piano casa-popolare e per il cosiddetto social-housing. E insieme le norme a favore di una decisa liberalizzazione accompagnata da una sensibile apertura ai privati nelle utilities locali, per la gestione dei servizi pubblici con obbligo di gara e caduta delle concessioni e gestioni in house: tutto ciò che la legge di Linda Lanzillotta prometteva all’inizio, e che mai fu tradotto in legge dal centrosinistra.
Parlo di spunti “culturali” perché definiscono a mio modo di vedere un liberalismo compassionevole, fortemente intriso di sociale e di attenzione per i ceti a reddito basso e medio-basso, di cui Giulio Tremonti e in realtà l’intero governo sono questa volta convinti alfieri. Non è la mera riproposizione di un liberismo d’antan. Farà probabilmente arricciare il naso a qualche professore ed editorialista sedicente liberista, ma deriva dalla riflessione sulla crisi finanziaria in atto da oltre un anno sui mercati, e sugli effetti sperequativi che essa ha finito per produrre in una società già troppo immobilizzata da statalismi e dirigismi di troppo.
Non intendo vedere solo motivi di soddisfazione e nessuna perplessità. Le resistenze saranno tante, e già ieri hanno preso a manifestarsi. Ma se davvero le misure vengono approvate entro la pausa agostana e sopravvivono a chi vorrà stravolgerle e attutirle, è il meglio che il governo abbia mostrato sinora. E promettono, soprattutto, più ancora di quel che attuano, per esercitare appieno l’effetto di una crescita del Pil non ferma sullo zerovirgola, per il 2008.
Bene la strada dei tagli, ma il più resta ancora da fare
Ugo Bertone19/06/2008
Autore(i): Ugo Bertone. Pubblicato il 19/06/2008 – IlSussidiario.net
È stato il Consiglio dei ministri più rapido della storia. Almeno per quanto riguarda la Finanziaria, il tormentone tradizionale dell’annata parlamentare. Solo nove minuti, assicura Giulio Tremonti, per licenziare un testo già illustrato, nelle linee generali, alle parti sociali. Anche questo, secondo il ministro dell'Economia, sta ad indicare la “discontinuità” con i rituali del passato: al serpentone infinito che paralizzava l'attività delle Camere per mesi, trasformando la legge in una sorta di convoglio ferroviario Omnibus in cui infilare provvedimenti di ogni tipo, dovrebbe oggi sostituirsi un testo semplificato, con una strategia e una filosofia coerente. Da discutere, particolare non da poco, entro l'estate senza l'assillo dell'incubo dell'esercizio provvisorio. E da accompagnare, in autunno, con una discussione ancor più impegnativa, sul federalismo fiscale.
Fin qui, nulla da eccepire. Poco da obiettare, inoltre, sul fronte contabile. Tremonti, in questo caso, ha riutilizzato senza modifiche la cornice degli impegni già presi da Tommaso Padoa Schioppa in sede comunitaria: l'obiettivo resta perciò il pareggio di bilancio entro il 2011. Per raggiungerlo, sarà necessario raccogliere 34,8 miliardi in tre anni. Difficile sperare, di fronte ad una congiuntura economica che volge al brutto stabile, in un extragettito. E sarebbe suicida puntare ad un incremento della pressione fiscale, a fronte di consumi in calo.
Di qui la strada obbligata: privilegiare i tagli (9 miliardi per l'esercizio 2009), limitare i maggiori prelievi ad alcune categorie “ricche”. Le banche, parzialmente graziate per la disponibilità dimostrata sul fronte dei mutui (comunque in pericolosa ascesa, per quanto riguarda i variabili) e per l'alto livello della tassazione attuale. E i petrolieri, soprattutto, “vittime” della Robin Tax che agisce sul fronte delle aliquote sugli utili, riportate al 33 % (il governo Prodi le aveva abbassate al 27%), sulle royalties per il petrolio italiano (che non è una porzione poi così trascurabile vuoi per l'Eni che per Total e Shell) e sulle riserve, ovvero sul greggio già acquistato a prezzi ben inferiori ai 140 dollari al barile sfiorati in questi giorni.
Al di là degli strepiti o sulle battute (invise solo agli interisti) sull'ingaggio a Mourinho, è difficile contestare l'equità del prelievo, soprattutto se, come dichiarato, i fondi raccolti finiranno al sostegno dei ceti più deboli. Così come raccoglie (almeno in superficie) universale consenso la “stretta” sulle stock options, finora comoda scorciatoia per retribuzioni milionarie tassate al 12,5 % come un Bot.
Ma la parte del leone, si sa, la faranno i tagli. L’obiettivo è di raccogliere, per questa via, oltre 9 miliardi. A prima vista sembra un'enormità. O, peggio, l'ennesima partita di giro: tagliare la spesa pubblica al centro per scaricare l'onere in periferia, magari a Regioni e Comuni allettate, come nel recente passato, dal richiamo dei “derivati”, cioè i prestiti concessi da banche, in prevalenza istituti internazionali, a condizioni solo all'apparenza “oneste”, ma dietro cui si nascondono leve finanziarie molto pericolose.
A questo proposito la Finanziaria prevede però lo stop ai derivati per gli enti locali. D'ora in poi l'“ingegneria finanziaria” sarà solo un gioco per professionisti: ovvero un fondo, gestito in accordo con la Cassa Depositi e Prestiti ed alimentato da privati e da istituzioni pubbliche, che fornirà i mezzi per investire nelle infrastrutture. Non è l'unico provvedimento “centralizzatore”: d'ora in poi i fondi Ue saranno gestiti direttamente dal Cipe che ha sede a Palazzo Chigi. In sostanza, proprio alla vigilia del salto verso il federalismo fiscale, lo Stato torna sui suoi passi promuovendo, in alcuni casi, un maggior potere al centro. Non è un male assoluto, purché la tendenza s’abbini alla semplificazione, alle liberalizzazioni e ad una maggior libertà d'azione per le imprese, come invocano, tra l'altro, i “campioni del Made in Italy” che continuano a mietere, contro le previsioni, ottimi risultati sul fronte dell'export. Piace, al proposito, sia la possibilità per i distretti a stipulare mutui che, soprattutto, la semplificazione delle regole per la posa della banda larga, decisiva per un salto di produttività del sistema.
Fin qui, insomma, più elogi che critiche. Almeno sul piano delle intenzioni che, tra l'altro, prevedono un ambizioso piano casa. Senza farsi troppe illusioni sulle non poche “quadrature del cerchio” imposte dalla tabella di marcia. Non sarà facile risparmiare 6 miliardi sul fronte della Sanità. Almeno, non lo sarà per tutti, perché alcune regioni hanno già fatto molto. Altre nulla o quasi. Certo, la liberalizzazione dei servizi pubblici locali potrà creare occupazione, ridurre sprechi, garantire miglior qualità dei servizi.
La sensazione, però, è che al quadro generale manchi qualcosa. Non si vede una politica strutturale a favore della sussidiarietà o un recupero del ruolo della famiglia . Non si vede, in particolare, una politica in grado di abbinare la crescita dell'occupazione femminile (decisiva per una ripartenza del Pil) a una strategia per la ripresa della natalità. O un impegno per la scuola che non passi da qualche proclama velleitario. Forse non si poteva far di più. Forse è sbagliato chiedere tutto in una Finanziaria. O subito, dentro la Finanziaria. Ma è giusto non dimenticare che il più, al di là dei parametri di Maastricht, resta da fare.
Il Sessantotto italiano
di Guido Vignelli
Cenni utili per capire dove e come nasce la rivoluzione culturale che cambiò una generazione.
[Da «il Timone», n. 69, gennaio 2008]
L’incubazione del virus
Verso la fine degli anni Sessanta circolava in Occidente un clima di ottimismo. Il progresso culturale, economico e scientifico sembrava preparare un’era di pace, sicurezza, ricchezza e comodità; il Cristianesimo stesso, con l’appena concluso Concilio Vaticano II, sembrava avviato verso l’unione dei cristiani delle varie confessioni religiose e la riconciliazione con la "modernità". Le tre figure simboliche di Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII avevano incarnato queste speranze tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Eppure, come ammoniva san Paolo, quando tutti annunciano "pace e sicurezza", proprio allora bisogna temere l’arrivo di una sciagura: o un colpo di mano diabolico che si approfitta della ingenuità umana, o un castigo divino che risveglia alla dura realtà, o entrambe le cose. Molti segni evidenti smentivano questo facile ottimismo. Il rilassamento dei costumi aveva favorito il sonno delle coscienze e aveva provocato una grave fragilità sociale. La "cultura della rivolta" circolava liberamente nelle scuole, nella letteratura, nel giornalismo, negli spettacoli, soprattutto nella musica giovanile. La propaganda sinistrorsa esaltava idee, personaggi e comportamenti "trasgressivi" e incitava a nuove forme di "lotta di classe": quelle tra vecchi e giovani, tra insegnanti e scolari, tra genitori e figli, tra marito e moglie, tra uomo e donna, tra clero e laici. La ribellione giovanile, la contestazione scolastica, la rivolta sindacale, la dissidenza ecclesiale, la rivoluzione sessuale cominciavano già a manifestarsi in forme marginali e pittoresche, che venivano guardate con simpatia o antipatia, ma non venivano comprese né combattute nella loro gravità.
Questa propaganda dell’assoluta libertà di pensiero e di parola pretendeva ormai di realizzarsi in un’assoluta libertà di azione. Il tranquillo conformismo degli anni Sessanta stava per essere rovesciato dalla "rivolta globale", favorita non da un clima di moralistica repressione, come immaginavano gli psicoanalisti, bensì da un clima di rilassatezza e permissivismo (la "dolce vita") che rifiutava non solo l’autorità, il lavoro e il sacrificio, ma anche l’ordine, la società, la civiltà.
L’esplosione del virus
Tanto per smentire il luogo comune, secondo cui gl’Italiani importerebbero le rivoluzioni e le ammorbidirebbero per neutralizzarle, quella sessantottina scoppiò proprio in Italia, durando più a lungo e avendo un carattere più violento che altrove. Inoltre scoppiò in anticipo, il 16 novembre 1967, sei mesi prima d’iniziare ufficialmente nel famoso "maggio parigino". Paradossalmente, poi, scoppiò in ambiente cattolico: fu infatti nell’apparentemente tranquilla Università del Sacro Cuore a Milano che il Movimento Studentesco di Mario Capanna suscitò le prime manifestazioni, marce, occupazioni e devastazioni. Poco dopo, a partire dal 15 gennaio 1968, come eseguendo un piano preordinato scattato a un segno dato, le Università statali di tutte le città principali insorsero contemporaneamente. Nel 1970 nacquero il Movimento per la Liberazione della Donna, quello per la liberazione omosessuale e quello nudista; il 6 dicembre 1975 si tenne a Roma la grande manifestazione femminista che auspicava la distruzione della famiglia. L’impunita contestazione si trasformò ben presto in guerriglia urbana. II 1 marzo 1968 avvenne a Roma la "battaglia di Valle Giulia" e il 21 marzo ebbe luogo a Milano la "battaglia di largo Gemelli", scatenate da studenti universitari; nel settembre 1969 iniziarono i violenti "autunni caldi" operai promossi dalla Triplice sindacale. La polizia dovette soccombere alle violenze per obbedire all’ordine di non reprimerle; i colpevoli arrestati vennero tutti rilasciati o amnistiati. Le poche autorità che osarono opporsi alla guerriglia vennero diffamate dalla stampa, delegittimate dai politici, abbandonate dai superiori, talvolta uccise, come nel caso del commissario Calabresi. L’impunita guerriglia urbana generò poi il terrorismo; non pochi protagonisti della contestazione studentesca diventarono promotori del terrore rosso, a partire da Renato Curcio, che si era "allenato" all’Università di Trento; nel 1971, in parte dal "braccio armato" clandestino del PCI nacquero le Brigate Rosse, che colpirono personalità avverse alla comunistizzazione della società.
Come si vede, quella del Sessantotto fu una rivoluzione facile, perché ebbe pochi oppositori e molti complici palesi od occulti: politici, giornalisti, intellettuali, teologi, docenti, rettori e cappellani universitari, perfino alcuni Ministri del Governo, tutti favorirono o almeno tollerarono le violenze e i soprusi.
Impossibile qui ripercorrere le fasi del sessantottismo. Possiamo solo dire che non è mai finito, perché una regìa occulta suscita periodicamente rivolte neo-sessantottine, usandole come eccitanti per scuotere la società, spingendola ad accettare una nuova fase rivoluzionaria. Dopo la crisi del periodo del "riflusso", ci furono vari tentativi di riprendere la lotta. Tra il 1977 e il 1979, ci provò il movimento dei punk e degli "indiani metropolitani"; tra il 1985 e il 1987, ci provò il "movimento dell’Ottantacinque"; infine, a partire dal 1999 (manifestazioni di Seattle), una nuova fase di contestazione internazionale venne avviata dal movimento no global. In Italia questo movimento viene guidato dai "centri sociali autogestiti", che da una parte ottengono appoggi dalle autorità politiche della sinistra e dall’altra affiancano le nuove forme di guerriglia e terrorismo (anarchico o ecologista o islamista).
Molti fra i protagonisti del Sessantotto hanno poi fatto carriera nella società e nelle istituzioni. Basti ricordare politici come Capanna, Boato, Manconi, Menapace, Cacciari, Vattimo, Turco, Treu, Langer; intellettuali o giornalisti come Sofri, Viale, Piperno, Franceschini, Casalini, Negri, Salvati, Tronti, Manghi, Rusconi, Lerner, Santoro, Mentana, Sposini, Freccero. Insomma, i contestatori e sovversivi di ieri sono diventati oggi uomini di governo, esponenti dei "poteri forti", manipolatori della opinione pubblica. L’eresia e la sovversione di ieri sono diventate l’ortodossia e l’istituzione di oggi; quello che ieri era vietato (divorzio, aborto, droga, omosessualità) oggi viene promosso e tutelato dalle leggi. C’è quindi da temere che la sovversione di oggi possa diventare l’istituzione di domani. Viene quindi smentito un altro luogo comune: non è affatto vero che in Italia "tutto finge di cambiare per restare lo stesso"; anzi, qui "tutto finge di restare lo stesso per cambiare", e in profondità!
Una diagnosi della malattia
Fra coloro che diagnosticarono e combatterono il sessantottismo alla luce della teologia della storia, segnaliamo due lungimiranti intellettuali cattolici: Augusto Del Noce in Europa e Plinio Correa de Oliveira nelle Americhe.
Del Noce ammonì che il ‘68 mirava a distruggere le ultime istituzioni (scuola, famiglia e Chiesa) capaci di istruire, educare e santificare le generazioni. A tal scopo, esso preparava l’avvento di una nuova forma di totalitarismo, quello del desiderio e dell’arbitrio, e una nuova forma di persecuzione religiosa, quella che costringe il popolo a "liberarsi" dalle tradizioni cristiane. Difatti, oggi Parlamenti e Tribunali internazionali cercano d’imporre una rivoluzione familiare e sessuale vietando ogni "discriminazione" e promuovendo i "diritti umani riproduttivi". De Oliveira denunciò il ‘68 come l’estremo tentativo di realizzare l’anarchia mediante una nuova fase rivoluzionaria che mira a distruggere l’uomo nelle sue radici (sociali, psicologiche e perfino biologiche) per renderlo schiavo di sé e ribelle a Dio. L’anima umana viene sottomessa alle pretese di una sensibilità morbosa, ribelle e anarchica, estinguendo la luce della verità, la voce della coscienza e il richiamo della fede. Manipolando tendenze, abitudini e pratiche di massa, l’uomo d’oggi viene immerso fin da ragazzo in ambienti rivoluzionari (come la discoteca) che lo corrompono fin dalla giovinezza. La soluzione decisiva verrà quindi da una restaurazione delle tendenze e degli ambienti sani e formativi.
II ‘68 ebbe successo non tanto nel campo politico quanto in quello culturale e sociale. La rivoluzione nei costumi, negli ambienti, nella mentalità, nella vita quotidiana ha diffuso nelle masse il relativismo e la rivoluzione sessuale, rendendo impossibile la contemplazione sociale della verità e la pratica sociale delle virtù (specie della temperanza). La sovversione morale ha generato una "questione antropologica" che mette in forse la sopravvivenza dell’uomo come creatura, ossia come immagine di Dio Creatore, e ancor più come cristiano, ossia come somiglianza di Dio Redentore. Si vuole insomma imporre un modello di vita tribale, reso possibile da un supporto tecnologico che dispenserà l’uomo dallo studiare, lavorare e procreare per abbandonarsi al gioco, alla lussuria e alla violenza. In un suo romanzo intitolato L’isola, Aldous Huxley raffigurò nel 1962 questa "utopia positiva", che egli propose come sola alternativa possibile all’utopia negativa" prima denunciata nel suo celebre Il mondo nuovo. Ma siamo dunque davvero a questo bivio: o rassegnarci alla grigia prigione della società borghese, o distruggerla scatenando l’anarchia tribale, o almeno evadere temporaneamente dalla prima per stordirci nella seconda? Questa falsa alternativa esclude irrazionalmente l’unica vera soluzione possibile: la restaurazione di una società cristiana. Se i propagandisti no global proclamano che "un altro mondo è possibile", rispondiamo che certamente lo è, ma non sarà l’utopia anarchica, bensì la futura civiltà cristiana: quella profetizzata dalla Madonna a Fatima.
© il Timone
www.iltimone.org
DIBATTITO IN RETE
Avvenire, 19 giugno 2008
«Piùvoce.net» rilancia: in vista di una vera libertà di scelta la strada è quella della parità scolastica
Emergenza educativa, la sfida irrinunciabile
DI LUCIA BELLASPIGA
«Il giorno in cui dovremo spiegare ai nostri figli perché non è bene sgozzare il compagno di banco, perché non è giusto minacciare un uomo col coltello per prendere i suoi soldi o perché è immorale frodare chi fatica a risparmiare due soldi, è molto vicino. E sarà un bruttissimo giorno...», scrive
Luca Doninelli, partecipando con un articolo al dibattito sull’emergenza
educativa lanciato dal sito www.piuvoce.net, il network dei cattolici in Rete. Allarmismo? No: basta leggere la cronaca quotidiana per capire che già ci siamo. E non ci consoli il pensiero che si tratta pur sempre di una minoranza: «...quel giorno scopriremo che non si danno spiegazioni di queste cose - spiega lucidamente lo scrittore . Quando cominciano ad affiorare certi 'perché?', che la partita è già finita».
Non semplice emergenza educativa, dunque, ma antropologica, umana, per arginare la quale non basteranno una buona riforma o qualche provvedimento politico. Ne sono consci e seriamente allarmati - tutti gli intervenuti al dibattito, aperto nella pagina iniziale del sito dal portavoce di Scienza&Vita Domenico Delle Foglie, che rilancia la questione posta di recente da Benedetto XVI, e poi dal cardinale Angelo Bagnasco: quella crisi ormai preoccupante nella 'trasmis- sione fra generazioni', come l’ha chiamata il Papa. O, come dice Bagnasco, quella 'interruzione del racconto che una generazione deve fare all’altra' per sconfiggere le 'passioni tristi' oggi prevalenti tra i ragazzi.
Una frattura nel racconto, dunque. Significa che, se i giovani sono allo sbando, il problema sono gli adulti. Lo ribadisce Luisa Santolini, deputata Udc, citando di nuovo il Papa quando disse che 'se educare non è mai stato facile, oggi lo è ancora meno, perché non pochi educatori dubitano della possibilità stessa di educare e dunque rinunciano'. Vediamo genitori impotenti, insegnanti impauriti e messi alla berlina, adulti convinti che educare sia fuori moda, antiquato, lesivo persino della libertà dei figli. «L’educazione non è la vernice superficiale del conformismo e delle regole ricorda allora la parlamentare - ma la disciplina che corregge l’egoismo e fa attenti all’altro...». Di più: «Quella vera è l’unico antidoto alla guerra, alla grossolanità, alla villania, al razzismo, alla violenza. L’unico antidoto a tanta parte della tv e della cultura da essa prodotta». Ma - ricorda Franco Miano, presidente nazionale di Azione Cattolica l’appello del Papa si è rivolto anche alla Chiesa, per la quale l’emergenza educativa assume il volto particolare della «trasmissione della fede alle nuove generazioni». Un invito che il 4 maggio Benedetto XVI ha rivolto direttamente a tutta la Ac riunita in piazza San Pietro e al quale Miano oggi risponde «mettendo a disposizione la sapienza educativa maturata in 140 anni di storia». Una storia fatta di impegno vissuto, nella coscienza che «l’educatore è innanzitutto un testimone ». Contro la tv punta il dito anche il senatore Francesco Rutelli, denunciando lo scempio di un «dominante messaggio televisivo, che premia la devozione al dominio del 'dio denaro' e l’emulazione verso l’irresponsabilità, anziché quel coraggio che non è bullismo, ma dedizione all’altro». L’altra priorità trascurata, poi, è l’uso di droghe e la miscela di sostanze che circolano persino tra i 12enni: un dramma «senza precedenti per diffusione sociale e per la scarsità di strumenti inibitori», soprattutto perché - è la grave denuncia di Rutelli - la politica non è consapevole di quanto sta succedendo, non ne ha «sufficiente coscienza ». Peggio, «continua a ballare sul Titanic », scrive nel suo intervento Francesco Nembrini, presidente della Compagnia delle Opere, con una felice metafora che accomuna l’irresponsabilità di chi dovrebbe fare qualcosa e la portata del problema. In particolare è nella scuola che lo Stato dovrebbe correre ai ripari, mettendo in atto un concetto costituzionale, la sussidiarietà, quella collaborazione tra pubblico e privato che sola può dare «forte iniezione di libertà» a tutti i livelli del sistema. In concreto: gestione autonoma negli istituti dei fondi e del personale, ripensamento della carriera degli insegnanti, vera libertà di scelta educativa da parte delle famiglie. In Sierra Leone, Paese poverissimo, lo Stato stipendia gli insegnanti delle scuole cattoliche aperte dai missionari: «In un Paese conciato così da dove dovremmo ripartire se non dalla scuola?», gli ha spiegato il ministro dell’Istruzione locale, stupito del suo stupore...
La sfida è gigantesca, ma se ne può uscire, dice Valentina Aprea, presidente Pdl della commissione Cultura alla Camera. La via l’ha indicata il Papa parlando all’Università Cattolica di Washington in aprile: l’educatore ha la responsabilità di condurre i giovani alla verità, che è molto più della conoscenza, per questo - interviene la Aprea - «ogni insegnamento deve essere testimonianza», le idee trasmesse non devono solo «ammobiliare la mente» ma «incendiare anche il cuore», come ben sa chiunque si sia seduto dietro una cattedra. La vera sfida, allora, è «riallocare le risorse finanziarie riservate all’istruzione partendo dalla libertà di scelta delle famiglie, secondo il principio che le risorse governative seguono l’alunno »: piena parità tra scuole statali e non statali.
Scienza & Vita mette un argine all’eugenetica
di Emanuela Vinai
protagonisti
La difesa della Legge 40, l’impegno per ridurre gli aborti in Italia, l’occhio vigile sull’impatto che la genetica sta avendo sull’intera pratica medica. Parlano i presidenti dell’associazione a difesa della vita e della ricerca, Maria Luisa Di Pietro e Bruno Dallapiccola
I temi eticamente sensibili, toccando l’essenza stessa dell’essere umano, sono oggetto di sempre maggior interesse da parte degli esperti e non solo. Alla vigilia di un appuntamento istituzionale importante come l’Assemblea annuale dei soci fondatori, l’Associazione Scienza & Vita, per voce dei suoi presidenti, fa il punto su quanto fatto finora e si prepara a fronteggiare le nuove sfide che si profilano all’orizzonte. Ne parliamo con i presidenti dell’Associazione, il genetista Bruno Dallapiccola e la bioeticista Maria Luisa Di Pietro.
La prima emergenza scientifica cui far fronte è, a parere del prof. Dallapiccola, quella legata all’uso improprio della genetica: «Sicuramente bisogna essere vigili sulla genetica, perché è oggetto di interessi trasversali e perché riguarda tutta l’umanità: tutti noi siamo fatti di Dna e geni. L’impossibilità di non riuscire mai a controbilanciare i reali traguardi della medicina e della genetica con le enormi promesse che vengono propagandate, apre sicuramente gravi scenari. Basta vedere i siti internet che pubblicizzano terapie improbabili o pacchetti diagnostici prenatali». Il rischio, insomma, è che le biotecnologie, nella loro continua evoluzione, finiscano per essere più veloci delle competenze necessarie a comprenderle appieno. «Stanno diventando disponibili, in maniera incontrollata – prosegue il professore – tecnologie che ci consentiranno di costruire e di disporre di una carta d’identità genetica, creando inevitabili inquietudini, perché riveleranno le naturali imperfezioni genetiche di cui tutti siamo portatori, senza tuttavia fornire le necessarie delucidazioni. Il medico rischia di diventare sempre più 'genomico', non avendone però le competenze adeguate, vuoi per l’inadeguatezza degli studi, vuoi per la continua evoluzione di una materia che ogni giorno si arricchisce di nuove scoperte. Di conseguenza non tutti potranno essere in grado di valutare compiutamente le naturali variazioni genetiche presenti nel Dna che segnalano la possibilità di malattie, ma che raramente si trasformano in malattie vere e proprie».
In questa prospettiva, conclude il genetista, il ruolo che si propone l’Associazione Scienza & Vita è quello di creare una cultura della genetica e delle biotecnologie.
La professoressa Di Pietro prova a tracciare un bilancio dell’anno appena trascorso: «Tra Legge 40 e Legge 194 è stato davvero un anno intenso. Abbiamo notato un comportamento decisamente schizofrenico nel dibattito sulla revisione di leggi vigenti. Se da un lato si sta cercando, anche con modalità inadeguate per luoghi e per tempi, di modificare la Legge 40, approvata solo nel 2004 e confermata dal fallimento di un referendum abrogativo (il 74,1% degli italiani si è avvalso del diritto di astensione), dall’altra si ritiene immodificabile la Legge 194 che ha ben 30 anni di vita e che ha mostrato nel tempo i suoi limiti. L’Associazione Scienza & Vita è impegnata da una parte ad evitare forme di tradimento ai contenuti della Legge 40, la cui applicazione ha ampiamente messo in evidenza il suo ruolo di 'riduzione del danno'. Per quanto riguarda l’aborto procurato si sta lavorando sul piano della prevenzione e si è avviata una riflessione sulle ambiguità della Legge 194 che tale prevenzione potrebbero ostacolare. È evidente, comunque, l’urgenza di interventi di tipo informativo e formativo per la promozione della salute e la tutela della vita nascente».
Emerge così il primo obiettivo che l’Associazione vuole perseguire, ovvero implementare la ricerca in ambito medico, biologico, filosofico e giuridico sui temi della vita e della salute. Nel corso dell’incontro odierno, si cercherà anche di esporre una strategia operativa condivisa con tutti i membri dell’associazione, che, in base alle rispettive competenze, sono un’inesausta risorsa scientifica e culturale. «Per il prosieguo dell’anno – conclude la Di Pietro – ci concentreremo anche sull’azione culturale e politica.
Continueremo a vigilare sulle situazioni ancora in sospeso, ad esempio il dibattito sulla Legge 40, sulla prevenzione dell’aborto procurato, sulle questioni di fine vita, ma vi è anche, da parte di Scienza & Vita, la piena disponibilità a raccogliere la cosiddetta 'sfida educativa' in tutte le accezioni e le modalità in cui essa si coniuga».
argomenti
Fisichella: la scienza non ha l’ultima parola
« L’Accademia per la Vita, come noi sappiamo, tocca i temi più delicati e sensibilmente etici come vengono chiamati oggi, che sono sul tappeto e non soltanto in Italia, ma in tutto l’Occidente. È questa una responsabilità che mi sembra debba anche coniugarsi con la capacità di poter guardare al futuro, non soltanto interpretandolo, ma anche trovando tutte le forme per fare in modo che la visione cristiana della vita possa essere accolta ed accettata anche da persone che vivono scelte differenti e con culture diverse». Così esordiva ieri monsignor Rino Fisichella, nuovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita, voluta e istituita da Giovanni Paolo II nel febbraio del 1994 con il motu proprio Vitae Mysterium, in una intervista concessa a Radio Vaticana. Alla domanda su come promuovere un’autentica cultura della vita, di respiro universale, il presule ha ricordato l’importanza di riscoprire i principi fondamentali del diritto naturale: «Quest’anno, proprio nel 60° della Dichiarazione dei diritti universali, il richiamo alla legge naturale diventa obbligatorio perché quei diritti sono stati formulati in questo modo proprio alla luce della consapevolezza che ci sono dei principi che vanno al di là delle confessioni, delle etnie, delle scelte politiche e hanno un denominatore comune che tocca ogni persona in qualsiasi parte della terra».
E sulla reiterata accusa alla Chiesa di voler frenare lo slancio della ricerca biomedica, Fisichella ha fatto presente che «la Chiesa guarda, contrariamente a quello che tante volte viene detto, con estrema attenzione e fiducia alla scienza. Ma la scienza deve essere anche consapevole che non è l’ultima risposta che può essere data alle esigenze delle persone. La scienza è uno strumento, la scienza è una di quelle fondamentali acquisizioni che l’uomo ha conquistato. Penso, quindi, che dovremmo recuperare un rapporto positivo con la scienza, ma dovremmo anche essere capaci di far comprendere agli scienziati che nessuno di noi può sostituirsi all’azione creativa di Dio».
Quali, allora le priorità della Pontificia Accademia? «Anzitutto non possiamo dimenticare il tema della vita sic et simpliciter, con tutte le sue implicazioni: c’è il tema della sperimentazione sulla cellula umana; c’è il tema dell’eutanasia. Bisogna essere capaci a mio avviso, in questi casi, di ritrovare delle priorità, soprattutto nella consapevolezza che sul tema della vita non possiamo lavorare da soli ma abbiamo bisogno di un lavoro comune, perché la vita umana riguarda tutti e non soltanto un gruppo di persone».
1) Benedetto XVI presenta la figura di Sant’Isidoro di Siviglia
2) La cura giusta: meno spesa, e un liberalismo intriso di attenzione sociale
3) La cura giusta: meno spesa, e un liberalismo intriso di attenzione sociale
4) Bene la strada dei tagli, ma il più resta ancora da fare
5) Il Sessantotto italiano
6) Emergenza educativa, la sfida irrinunciabile
7) Scienza & Vita mette un argine all’eugenetica
8) Fisichella: la scienza non ha l’ultima parola
Benedetto XVI presenta la figura di Sant’Isidoro di Siviglia
Intervento in occasione dell'Udienza generale
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 18 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell'intervento pronunciato questo mercoledì mattina da Benedetto XVI nel corso dell'Udienza generale in piazza San Pietro in Vaticano, incentrata sulla figura di Sant’Isidoro di Siviglia.
* * *
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare di sant’Isidoro di Siviglia: era fratello minore di Leandro, Vescovo di Siviglia e grande amico del Papa Gregorio Magno. Il rilievo è importante, perché permette di tenere presente un accostamento culturale e spirituale indispensabile alla comprensione della personalità di Isidoro. Egli deve infatti molto a Leandro, persona molto esigente, studiosa e austera, che aveva creato intorno al fratello minore un contesto familiare caratterizzato dalle esigenze ascetiche proprie di un monaco e dai ritmi di lavoro richiesti da una seria dedizione allo studio. Inoltre Leandro si era preoccupato di predisporre il necessario per far fronte alla situazione politico-sociale del momento: in quei decenni infatti i Visigoti, barbari e ariani, avevano invaso la penisola iberica e si erano impadroniti dei territori appartenuti all’Impero romano. Occorreva conquistarli alla romanità e al cattolicesimo. La casa di Leandro e di Isidoro era fornita di una biblioteca assai ricca di opere classiche, pagane e cristiane. Isidoro, che si sentiva attratto simultaneamente sia verso le une che verso le altre, fu educato perciò a sviluppare, sotto la responsabilità del fratello maggiore, una disciplina molto forte nel dedicarsi al loro studio, con discrezione e discernimento.
Nell’episcopio di Siviglia si viveva, perciò, in un clima sereno ed aperto. Lo possiamo dedurre dagli interessi culturali e spirituali di Isidoro, così come essi emergono dalle sue stesse opere, che comprendono una conoscenza enciclopedica della cultura classica pagana e un’approfondita conoscenza della cultura cristiana. Si spiega così l’eclettismo che caratterizza la produzione letteraria di Isidoro, il quale spazia con estrema facilità da Marziale ad Agostino, da Cicerone a Gregorio Magno. La lotta interiore che dovette sostenere il giovane Isidoro, divenuto successore del fratello Leandro sulla cattedra episcopale di Siviglia nel 599, non fu affatto leggera. Forse si deve proprio a questa lotta costante con se stesso l’impressione di un eccesso di volontarismo che s’avverte leggendo le opere di questo grande autore, ritenuto l’ultimo dei Padri cristiani dell’antichità. Pochi anni dopo la sua morte, avvenuta nel 636, il Concilio di Toledo del 653 lo definì: "Illustre maestro della nostra epoca, e gloria della Chiesa cattolica".
Isidoro fu senza dubbio un uomo dalle contrapposizioni dialettiche accentuate. E, anche nella sua vita personale, sperimentò un permanente conflitto interiore, assai simile a quello che avevano avvertito già san Gregorio Magno e sant’Agostino, fra desiderio di solitudine, per dedicarsi unicamente alla meditazione della Parola di Dio, ed esigenze della carità verso i fratelli della cui salvezza si sentiva, come Vescovo, incaricato. Scrive per esempio a proposito dei responsabili delle Chiese: "Il responsabile di una Chiesa (vir ecclesiasticus) deve da una parte lasciarsi crocifiggere al mondo con la mortificazione della carne e dall’altra accettare la decisione dell’ordine ecclesiastico, quando proviene dalla volontà di Dio, di dedicarsi al governo con umiltà, anche se non vorrebbe farlo" (Sententiarum liber III, 33, 1: PL 83, col 705 B). Aggiunge poi appena un paragrafo dopo: "Gli uomini di Dio (sancti viri) non desiderano affatto di dedicarsi alle cose secolari e gemono quando, per un misterioso disegno di Dio, vengono caricati di certe responsabilità… Essi fanno di tutto per evitarle, ma accettano ciò che vorrebbero fuggire e fanno ciò che avrebbero voluto evitare. Entrano infatti nel segreto del cuore e là dentro cercano di capire che cosa chieda la misteriosa volontà di Dio. E quando si rendono conto di doversi sottomettere ai disegni di Dio, umiliano il collo del cuore sotto il giogo della decisione divina" (Sententiarum liber III, 33, 3: PL 83, coll. 705-706).
Per capire meglio Isidoro occorre ricordare, innanzitutto, la complessità delle situazioni politiche del suo tempo, a cui ho già accennato: durante gli anni della fanciullezza aveva dovuto sperimentare l’amarezza dell’esilio. Ciò nonostante era pervaso di entusiasmo apostolico: sperimentava l’ebbrezza di contribuire alla formazione di un popolo che ritrovava finalmente la sua unità, sul piano sia politico che religioso, con la provvidenziale conversione dell’erede al trono visigoto Ermenegildo dall’arianesimo alla fede cattolica. Non si deve tuttavia sottovalutare l’enorme difficoltà di affrontare in modo adeguato problemi assai gravi come quelli dei rapporti con gli eretici e con gli Ebrei. Tutta una serie di problemi che appaiono molto concreti anche oggi, soprattutto se si considera ciò che avviene in certe regioni nelle quali sembra quasi di assistere al riproporsi di situazioni assai simili a quelle presenti nella penisola iberica in quel sesto secolo. La ricchezza delle conoscenze culturali di cui disponeva Isidoro gli permetteva di confrontare continuamente la novità cristiana con l’eredità classica greco-romana, anche se più che il dono prezioso della sintesi sembra che egli avesse quello della collatio, cioè della raccolta, che si esprimeva in una straordinaria erudizione personale, non sempre ordinata come si sarebbe potuto desiderare.
Da ammirare è, in ogni caso, il suo assillo di non trascurare nulla di ciò che l’esperienza umana aveva prodotto nella storia della sua patria e del mondo intero. Isidoro non avrebbe voluto perdere nulla di ciò che era stato acquisito dall’uomo nelle epoche antiche, fossero esse pagane, ebraiche o cristiane. Non deve stupire pertanto se, nel perseguire questo scopo, gli succedeva a volte di non riuscire a far passare adeguatamente, come avrebbe voluto, le conoscenze che possedeva attraverso le acque purificatrici della fede cristiana. Di fatto, tuttavia, nelle intenzioni di Isidoro, le proposte che egli fa restano sempre in sintonia con la fede cattolica, da lui sostenuta con fermezza. Nella discussione dei vari problemi teologici, egli mostra di percepirne la complessità e propone spesso con acutezza soluzioni che raccolgono ed esprimono la verità cristiana completa. Ciò ha consentito ai credenti nel corso dei secoli di fruire con gratitudine delle sue definizioni fino ai nostri tempi. Un esempio significativo in materia ci è offerto dall’insegnamento di Isidoro sui rapporti tra vita attiva e vita contemplativa. Egli scrive: "Coloro che cercano di raggiungere il riposo della contemplazione devono allenarsi prima nello stadio della vita attiva; e così, liberati dalle scorie dei peccati, saranno in grado di esibire quel cuore puro che, unico, permette di vedere Dio" (Differentiarum Lib II, 34, 133: PL 83, col 91A). Il realismo di un vero pastore lo convince però del rischio che i fedeli corrono di ridursi ad essere uomini ad una dimensione. Perciò aggiunge: "La via media, composta dall’una e dall’altra forma di vita, risulta normalmente più utile a risolvere quelle tensioni che spesso vengono acuite dalla scelta di un solo genere di vita e vengono invece meglio temperate da un’alternanza delle due forme" (o.c., 134: ivi, col 91B).
La conferma definitiva di un giusto orientamento di vita Isidoro la cerca nell’esempio di Cristo e dice: "Il Salvatore Gesù ci offrì l’esempio della vita attiva, quando durante il giorno si dedicava a offrire segni e miracoli in città, ma mostrò la vita contemplativa quando si ritirava sul monte e vi pernottava dedito alla preghiera" (o.c. 134: ivi). Alla luce di questo esempio del divino Maestro, Isidoro può concludere con questo preciso insegnamento morale: "Perciò il servo di Dio, imitando Cristo, si dedichi alla contemplazione senza negarsi alla vita attiva. Comportarsi diversamente non sarebbe giusto. Infatti come si deve amare Dio con la contemplazione, così si deve amare il prossimo con l’azione. E’ impossibile dunque vivere senza la compresenza dell’una e dell’altra forma di vita, né è possibile amare se non si fa esperienza sia dell’una che dell’altra" (o.c., 135: ivi, col 91C). Ritengo che questa sia la sintesi di una vita che cerca la contemplazione di Dio, il dialogo con Dio nella preghiera e nella lettura della Sacra Scrittura, come pure l’azione a servizio della comunità umana e del prossimo. Questa sintesi è la lezione che il grande Vescovo di Siviglia lascia a noi, cristiani di oggi, chiamati a testimoniare Cristo all’inizio di un nuovo millennio.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In italiano ha detto:]
Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare ai sacerdoti novelli della diocesi di Brescia. Carissimi, mentre prego il Signore affinché vi sostenga nel vostro ministero, vi invito a diffondere intorno a voi quella gioia che nasce dalla generosa e fedele corrispondenza alla divina chiamata. Saluto poi voi, cari fedeli della parrocchia di San Pietro, in San Martino in Pensilis, ed auspico che questo incontro susciti in ciascuno un rinnovato slancio apostolico, per testimoniare ovunque Cristo e il Vangelo.
Il mio pensiero va, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Siamo alle soglie del periodo estivo, tempo di turismo e di pellegrinaggi, di ferie e di riposo. Cari giovani, mentre penso ai vostri coetanei che stanno ancora affrontando gli esami, auguro a voi già in vacanza di profittare dell’estate per utili esperienze sociali e religiose. Auguro a voi, cari malati, di trovare conforto e sollievo nella vicinanza dei vostri familiari. E a voi, cari sposi novelli, rivolgo l’invito ad utilizzare questo periodo estivo per approfondire sempre più il valore della missione nella Chiesa e nella società.
Il mio pensiero va ora ai partecipanti al Congresso Eucaristico Internazionale, che si sta svolgendo in questi giorni nella città di Québec in Canada, sul tema "L’Eucaristia, dono di Dio per la vita del mondo". Mi rendo spiritualmente presente in così solenne incontro ecclesiale, ed auspico che esso sia per le comunità cristiane canadesi e per la Chiesa universale un tempo forte di preghiera, di riflessione e di contemplazione del mistero della santa Eucaristia. Sia pure occasione propizia per riaffermare la fede della Chiesa nella presenza reale di Cristo nel Santissimo Sacramento dell’Altare. Preghiamo inoltre perché questo Congresso Eucaristico Internazionale ravvivi nei credenti, non solo del Canada ma di tante altre Nazioni nel mondo, la consapevolezza di quei valori evangelici e spirituali che hanno forgiato la loro identità lungo il corso della storia.
[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]
La cura giusta: meno spesa, e un liberalismo intriso di attenzione sociale
Oscar Giannino19/06/2008
Autore(i): Oscar Giannino. Pubblicato il 19/06/2008 – IlSussidiario.net
Ci vorrà ancora tempo per comprendere fino in fondo tutti i dettagli, del centinaio di punti diversi in cui è articolato il disegno di legge che si accompagna al decreto con cui Berlusconi e Tremonti hanno presentato il biglietto da visita del governo in politica economica. Ma da subito si comprende che è un cambio d’orizzonte complessivo, rispetto al biennio prodiano. Dal più tasse, più gravami e più spesa pubblica dell’Unione, all’esatto opposto. L’azzeramento del deficit al 2011 come promesso da Prodi all’Europa non viene rinviato alla prossima finanziaria. L’esperienza negativa delle dilazioni che nutrivano i dubbi e facevano perdere incisività al Silvio III, tra 2001 e 2006, ha fatto lezione. I colleghi di governo e le autonomie si vedono subito presentato il conto che ciascuno dovrà onorare, per centrare l’obiettivo. Sono 35 miliardi di euro in 3 anni, nella massima parte finalmente di minori spese. “Meno spesa”è la cura giusta, in un Paese in cui adottando gli standard efficienti di servizio pubblico in sanità, assistenza e previdenza si individuano almeno 80 miliardi di sprechi, come scrive l’ottimo professor Luca Ricolfi, insospettabile di berlusconismo.
Così facendo si libera tempo prezioso, nella tradizionale sessione di bilancio autunnale, per la riforma fiscale vera di questa legislatura. La più attesa da noi che tifiamo per la sussidiarietà. Il federalismo fiscale. Il Capo dello Stato, le Autonomie e l’opposizione sono stati chiari: non si approva il federalismo senza un confronto approfondito. Con la manovra a giugno, il governo pone le premesse per un dibattito serio, tra settembre e dicembre. Per stabilire quale sia la soglia di perequazione a vantaggio delle Regioni meno avanzate ma abbandonando il principio inefficiente della copertura dei costi storici, che hanno premiato i più inefficienti. E per decidere con chiarezza quali – pochi – grandi tributi lasciare alla piena competenza locale, e quali allo Stato. Con tanto di devoluzione alle Autonomie anche di parti congrue del demanio pubblico, in maniera che d’ora in poi abbiano attivi patrimoniali da mettere a reddito e a fronte dei propri debiti, che altrimenti finiscono sul groppone dello Stato e di noi tutti. Come nel caso di Roma.
I pilastri della manovra varata ieri sono mirati a esercitare effetti più sull’offerta aggiuntiva, che sulla domanda. E’ questo il sentiero scelto dal governo per sostenere la crescita. Si spiegano così le abolizioni di una fitta coltre di gravami aggiuntivi introdotti da Prodi e Visco con la scusa della lotta all’evasione, in realtà per accrescere indirettamente la produttività costringendo un paio di milioni di lavoratori autonomi a diventare lavoratori dipendenti, e tante piccole imprese a chiudere i battenti. La cancellazione di obblighi come il reintrodotto libro clienti-fornitori, dei massimali bassissimi per gli assegni non trasferibili, dell’obbligo di fido bancario per i creditori del fisco, il concordato fiscale fino a 20mila euro d’imposta, rispondono tutti a questo obiettivo.
In attesa dei contratti decentrati e del salario di produttività, si torna intanto a più flessibilità e alla legge Biagi originale, in materia di mercato del lavoro. Di qui il ritorno del lavoro su chiamata, modifiche alle rigorosissime eccezioni che erano sopravvissute, per motivare la persistenza di contratti a tempo determinato invece di trasformarli automaticamente in assunzioni permanenti. Di qui una tendenziale parificazione tra lavoro privato e pubblico, che è alla radice del piano industriale della Pubblica amministrazione, promesso da Brunetta e che nella manovra ha iniziato a prendere forma. Senza prendersela solo coi fannulloni. Perché ci sono anche limiti alle stock option per i manager pubblici e un taglio ai compensi e alla numerosità dei Cda delle società pubbliche. Aggiungete tempi e procedure stringenti per il nuovo piano energetico che spetterà al ministro Scajola pilotare, in modo da realizzare entro un numero non troppo elevato di anni una percentuale non simbolica di nucleare, per riequilibrare il mix energetico troppo spericolatamente squilibrato verso gas e petrolio. E infine gli spunti che io definisco di ordine “culturale”. Ne fanno parte la Robin Tax su petrolieri, banche e assicurazioni, cioè a carico dei settori che hanno realizzato i maggiori boom ai propri profitti per la finanza derivata, che pesa invece sui mutui immobiliari e alla pompa di benzina. Ma anche l’identificazione concreta delle risorse e procedure per il piano casa-popolare e per il cosiddetto social-housing. E insieme le norme a favore di una decisa liberalizzazione accompagnata da una sensibile apertura ai privati nelle utilities locali, per la gestione dei servizi pubblici con obbligo di gara e caduta delle concessioni e gestioni in house: tutto ciò che la legge di Linda Lanzillotta prometteva all’inizio, e che mai fu tradotto in legge dal centrosinistra.
Parlo di spunti “culturali” perché definiscono a mio modo di vedere un liberalismo compassionevole, fortemente intriso di sociale e di attenzione per i ceti a reddito basso e medio-basso, di cui Giulio Tremonti e in realtà l’intero governo sono questa volta convinti alfieri. Non è la mera riproposizione di un liberismo d’antan. Farà probabilmente arricciare il naso a qualche professore ed editorialista sedicente liberista, ma deriva dalla riflessione sulla crisi finanziaria in atto da oltre un anno sui mercati, e sugli effetti sperequativi che essa ha finito per produrre in una società già troppo immobilizzata da statalismi e dirigismi di troppo.
Non intendo vedere solo motivi di soddisfazione e nessuna perplessità. Le resistenze saranno tante, e già ieri hanno preso a manifestarsi. Ma se davvero le misure vengono approvate entro la pausa agostana e sopravvivono a chi vorrà stravolgerle e attutirle, è il meglio che il governo abbia mostrato sinora. E promettono, soprattutto, più ancora di quel che attuano, per esercitare appieno l’effetto di una crescita del Pil non ferma sullo zerovirgola, per il 2008.
Bene la strada dei tagli, ma il più resta ancora da fare
Ugo Bertone19/06/2008
Autore(i): Ugo Bertone. Pubblicato il 19/06/2008 – IlSussidiario.net
È stato il Consiglio dei ministri più rapido della storia. Almeno per quanto riguarda la Finanziaria, il tormentone tradizionale dell’annata parlamentare. Solo nove minuti, assicura Giulio Tremonti, per licenziare un testo già illustrato, nelle linee generali, alle parti sociali. Anche questo, secondo il ministro dell'Economia, sta ad indicare la “discontinuità” con i rituali del passato: al serpentone infinito che paralizzava l'attività delle Camere per mesi, trasformando la legge in una sorta di convoglio ferroviario Omnibus in cui infilare provvedimenti di ogni tipo, dovrebbe oggi sostituirsi un testo semplificato, con una strategia e una filosofia coerente. Da discutere, particolare non da poco, entro l'estate senza l'assillo dell'incubo dell'esercizio provvisorio. E da accompagnare, in autunno, con una discussione ancor più impegnativa, sul federalismo fiscale.
Fin qui, nulla da eccepire. Poco da obiettare, inoltre, sul fronte contabile. Tremonti, in questo caso, ha riutilizzato senza modifiche la cornice degli impegni già presi da Tommaso Padoa Schioppa in sede comunitaria: l'obiettivo resta perciò il pareggio di bilancio entro il 2011. Per raggiungerlo, sarà necessario raccogliere 34,8 miliardi in tre anni. Difficile sperare, di fronte ad una congiuntura economica che volge al brutto stabile, in un extragettito. E sarebbe suicida puntare ad un incremento della pressione fiscale, a fronte di consumi in calo.
Di qui la strada obbligata: privilegiare i tagli (9 miliardi per l'esercizio 2009), limitare i maggiori prelievi ad alcune categorie “ricche”. Le banche, parzialmente graziate per la disponibilità dimostrata sul fronte dei mutui (comunque in pericolosa ascesa, per quanto riguarda i variabili) e per l'alto livello della tassazione attuale. E i petrolieri, soprattutto, “vittime” della Robin Tax che agisce sul fronte delle aliquote sugli utili, riportate al 33 % (il governo Prodi le aveva abbassate al 27%), sulle royalties per il petrolio italiano (che non è una porzione poi così trascurabile vuoi per l'Eni che per Total e Shell) e sulle riserve, ovvero sul greggio già acquistato a prezzi ben inferiori ai 140 dollari al barile sfiorati in questi giorni.
Al di là degli strepiti o sulle battute (invise solo agli interisti) sull'ingaggio a Mourinho, è difficile contestare l'equità del prelievo, soprattutto se, come dichiarato, i fondi raccolti finiranno al sostegno dei ceti più deboli. Così come raccoglie (almeno in superficie) universale consenso la “stretta” sulle stock options, finora comoda scorciatoia per retribuzioni milionarie tassate al 12,5 % come un Bot.
Ma la parte del leone, si sa, la faranno i tagli. L’obiettivo è di raccogliere, per questa via, oltre 9 miliardi. A prima vista sembra un'enormità. O, peggio, l'ennesima partita di giro: tagliare la spesa pubblica al centro per scaricare l'onere in periferia, magari a Regioni e Comuni allettate, come nel recente passato, dal richiamo dei “derivati”, cioè i prestiti concessi da banche, in prevalenza istituti internazionali, a condizioni solo all'apparenza “oneste”, ma dietro cui si nascondono leve finanziarie molto pericolose.
A questo proposito la Finanziaria prevede però lo stop ai derivati per gli enti locali. D'ora in poi l'“ingegneria finanziaria” sarà solo un gioco per professionisti: ovvero un fondo, gestito in accordo con la Cassa Depositi e Prestiti ed alimentato da privati e da istituzioni pubbliche, che fornirà i mezzi per investire nelle infrastrutture. Non è l'unico provvedimento “centralizzatore”: d'ora in poi i fondi Ue saranno gestiti direttamente dal Cipe che ha sede a Palazzo Chigi. In sostanza, proprio alla vigilia del salto verso il federalismo fiscale, lo Stato torna sui suoi passi promuovendo, in alcuni casi, un maggior potere al centro. Non è un male assoluto, purché la tendenza s’abbini alla semplificazione, alle liberalizzazioni e ad una maggior libertà d'azione per le imprese, come invocano, tra l'altro, i “campioni del Made in Italy” che continuano a mietere, contro le previsioni, ottimi risultati sul fronte dell'export. Piace, al proposito, sia la possibilità per i distretti a stipulare mutui che, soprattutto, la semplificazione delle regole per la posa della banda larga, decisiva per un salto di produttività del sistema.
Fin qui, insomma, più elogi che critiche. Almeno sul piano delle intenzioni che, tra l'altro, prevedono un ambizioso piano casa. Senza farsi troppe illusioni sulle non poche “quadrature del cerchio” imposte dalla tabella di marcia. Non sarà facile risparmiare 6 miliardi sul fronte della Sanità. Almeno, non lo sarà per tutti, perché alcune regioni hanno già fatto molto. Altre nulla o quasi. Certo, la liberalizzazione dei servizi pubblici locali potrà creare occupazione, ridurre sprechi, garantire miglior qualità dei servizi.
La sensazione, però, è che al quadro generale manchi qualcosa. Non si vede una politica strutturale a favore della sussidiarietà o un recupero del ruolo della famiglia . Non si vede, in particolare, una politica in grado di abbinare la crescita dell'occupazione femminile (decisiva per una ripartenza del Pil) a una strategia per la ripresa della natalità. O un impegno per la scuola che non passi da qualche proclama velleitario. Forse non si poteva far di più. Forse è sbagliato chiedere tutto in una Finanziaria. O subito, dentro la Finanziaria. Ma è giusto non dimenticare che il più, al di là dei parametri di Maastricht, resta da fare.
Il Sessantotto italiano
di Guido Vignelli
Cenni utili per capire dove e come nasce la rivoluzione culturale che cambiò una generazione.
[Da «il Timone», n. 69, gennaio 2008]
L’incubazione del virus
Verso la fine degli anni Sessanta circolava in Occidente un clima di ottimismo. Il progresso culturale, economico e scientifico sembrava preparare un’era di pace, sicurezza, ricchezza e comodità; il Cristianesimo stesso, con l’appena concluso Concilio Vaticano II, sembrava avviato verso l’unione dei cristiani delle varie confessioni religiose e la riconciliazione con la "modernità". Le tre figure simboliche di Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII avevano incarnato queste speranze tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Eppure, come ammoniva san Paolo, quando tutti annunciano "pace e sicurezza", proprio allora bisogna temere l’arrivo di una sciagura: o un colpo di mano diabolico che si approfitta della ingenuità umana, o un castigo divino che risveglia alla dura realtà, o entrambe le cose. Molti segni evidenti smentivano questo facile ottimismo. Il rilassamento dei costumi aveva favorito il sonno delle coscienze e aveva provocato una grave fragilità sociale. La "cultura della rivolta" circolava liberamente nelle scuole, nella letteratura, nel giornalismo, negli spettacoli, soprattutto nella musica giovanile. La propaganda sinistrorsa esaltava idee, personaggi e comportamenti "trasgressivi" e incitava a nuove forme di "lotta di classe": quelle tra vecchi e giovani, tra insegnanti e scolari, tra genitori e figli, tra marito e moglie, tra uomo e donna, tra clero e laici. La ribellione giovanile, la contestazione scolastica, la rivolta sindacale, la dissidenza ecclesiale, la rivoluzione sessuale cominciavano già a manifestarsi in forme marginali e pittoresche, che venivano guardate con simpatia o antipatia, ma non venivano comprese né combattute nella loro gravità.
Questa propaganda dell’assoluta libertà di pensiero e di parola pretendeva ormai di realizzarsi in un’assoluta libertà di azione. Il tranquillo conformismo degli anni Sessanta stava per essere rovesciato dalla "rivolta globale", favorita non da un clima di moralistica repressione, come immaginavano gli psicoanalisti, bensì da un clima di rilassatezza e permissivismo (la "dolce vita") che rifiutava non solo l’autorità, il lavoro e il sacrificio, ma anche l’ordine, la società, la civiltà.
L’esplosione del virus
Tanto per smentire il luogo comune, secondo cui gl’Italiani importerebbero le rivoluzioni e le ammorbidirebbero per neutralizzarle, quella sessantottina scoppiò proprio in Italia, durando più a lungo e avendo un carattere più violento che altrove. Inoltre scoppiò in anticipo, il 16 novembre 1967, sei mesi prima d’iniziare ufficialmente nel famoso "maggio parigino". Paradossalmente, poi, scoppiò in ambiente cattolico: fu infatti nell’apparentemente tranquilla Università del Sacro Cuore a Milano che il Movimento Studentesco di Mario Capanna suscitò le prime manifestazioni, marce, occupazioni e devastazioni. Poco dopo, a partire dal 15 gennaio 1968, come eseguendo un piano preordinato scattato a un segno dato, le Università statali di tutte le città principali insorsero contemporaneamente. Nel 1970 nacquero il Movimento per la Liberazione della Donna, quello per la liberazione omosessuale e quello nudista; il 6 dicembre 1975 si tenne a Roma la grande manifestazione femminista che auspicava la distruzione della famiglia. L’impunita contestazione si trasformò ben presto in guerriglia urbana. II 1 marzo 1968 avvenne a Roma la "battaglia di Valle Giulia" e il 21 marzo ebbe luogo a Milano la "battaglia di largo Gemelli", scatenate da studenti universitari; nel settembre 1969 iniziarono i violenti "autunni caldi" operai promossi dalla Triplice sindacale. La polizia dovette soccombere alle violenze per obbedire all’ordine di non reprimerle; i colpevoli arrestati vennero tutti rilasciati o amnistiati. Le poche autorità che osarono opporsi alla guerriglia vennero diffamate dalla stampa, delegittimate dai politici, abbandonate dai superiori, talvolta uccise, come nel caso del commissario Calabresi. L’impunita guerriglia urbana generò poi il terrorismo; non pochi protagonisti della contestazione studentesca diventarono promotori del terrore rosso, a partire da Renato Curcio, che si era "allenato" all’Università di Trento; nel 1971, in parte dal "braccio armato" clandestino del PCI nacquero le Brigate Rosse, che colpirono personalità avverse alla comunistizzazione della società.
Come si vede, quella del Sessantotto fu una rivoluzione facile, perché ebbe pochi oppositori e molti complici palesi od occulti: politici, giornalisti, intellettuali, teologi, docenti, rettori e cappellani universitari, perfino alcuni Ministri del Governo, tutti favorirono o almeno tollerarono le violenze e i soprusi.
Impossibile qui ripercorrere le fasi del sessantottismo. Possiamo solo dire che non è mai finito, perché una regìa occulta suscita periodicamente rivolte neo-sessantottine, usandole come eccitanti per scuotere la società, spingendola ad accettare una nuova fase rivoluzionaria. Dopo la crisi del periodo del "riflusso", ci furono vari tentativi di riprendere la lotta. Tra il 1977 e il 1979, ci provò il movimento dei punk e degli "indiani metropolitani"; tra il 1985 e il 1987, ci provò il "movimento dell’Ottantacinque"; infine, a partire dal 1999 (manifestazioni di Seattle), una nuova fase di contestazione internazionale venne avviata dal movimento no global. In Italia questo movimento viene guidato dai "centri sociali autogestiti", che da una parte ottengono appoggi dalle autorità politiche della sinistra e dall’altra affiancano le nuove forme di guerriglia e terrorismo (anarchico o ecologista o islamista).
Molti fra i protagonisti del Sessantotto hanno poi fatto carriera nella società e nelle istituzioni. Basti ricordare politici come Capanna, Boato, Manconi, Menapace, Cacciari, Vattimo, Turco, Treu, Langer; intellettuali o giornalisti come Sofri, Viale, Piperno, Franceschini, Casalini, Negri, Salvati, Tronti, Manghi, Rusconi, Lerner, Santoro, Mentana, Sposini, Freccero. Insomma, i contestatori e sovversivi di ieri sono diventati oggi uomini di governo, esponenti dei "poteri forti", manipolatori della opinione pubblica. L’eresia e la sovversione di ieri sono diventate l’ortodossia e l’istituzione di oggi; quello che ieri era vietato (divorzio, aborto, droga, omosessualità) oggi viene promosso e tutelato dalle leggi. C’è quindi da temere che la sovversione di oggi possa diventare l’istituzione di domani. Viene quindi smentito un altro luogo comune: non è affatto vero che in Italia "tutto finge di cambiare per restare lo stesso"; anzi, qui "tutto finge di restare lo stesso per cambiare", e in profondità!
Una diagnosi della malattia
Fra coloro che diagnosticarono e combatterono il sessantottismo alla luce della teologia della storia, segnaliamo due lungimiranti intellettuali cattolici: Augusto Del Noce in Europa e Plinio Correa de Oliveira nelle Americhe.
Del Noce ammonì che il ‘68 mirava a distruggere le ultime istituzioni (scuola, famiglia e Chiesa) capaci di istruire, educare e santificare le generazioni. A tal scopo, esso preparava l’avvento di una nuova forma di totalitarismo, quello del desiderio e dell’arbitrio, e una nuova forma di persecuzione religiosa, quella che costringe il popolo a "liberarsi" dalle tradizioni cristiane. Difatti, oggi Parlamenti e Tribunali internazionali cercano d’imporre una rivoluzione familiare e sessuale vietando ogni "discriminazione" e promuovendo i "diritti umani riproduttivi". De Oliveira denunciò il ‘68 come l’estremo tentativo di realizzare l’anarchia mediante una nuova fase rivoluzionaria che mira a distruggere l’uomo nelle sue radici (sociali, psicologiche e perfino biologiche) per renderlo schiavo di sé e ribelle a Dio. L’anima umana viene sottomessa alle pretese di una sensibilità morbosa, ribelle e anarchica, estinguendo la luce della verità, la voce della coscienza e il richiamo della fede. Manipolando tendenze, abitudini e pratiche di massa, l’uomo d’oggi viene immerso fin da ragazzo in ambienti rivoluzionari (come la discoteca) che lo corrompono fin dalla giovinezza. La soluzione decisiva verrà quindi da una restaurazione delle tendenze e degli ambienti sani e formativi.
II ‘68 ebbe successo non tanto nel campo politico quanto in quello culturale e sociale. La rivoluzione nei costumi, negli ambienti, nella mentalità, nella vita quotidiana ha diffuso nelle masse il relativismo e la rivoluzione sessuale, rendendo impossibile la contemplazione sociale della verità e la pratica sociale delle virtù (specie della temperanza). La sovversione morale ha generato una "questione antropologica" che mette in forse la sopravvivenza dell’uomo come creatura, ossia come immagine di Dio Creatore, e ancor più come cristiano, ossia come somiglianza di Dio Redentore. Si vuole insomma imporre un modello di vita tribale, reso possibile da un supporto tecnologico che dispenserà l’uomo dallo studiare, lavorare e procreare per abbandonarsi al gioco, alla lussuria e alla violenza. In un suo romanzo intitolato L’isola, Aldous Huxley raffigurò nel 1962 questa "utopia positiva", che egli propose come sola alternativa possibile all’utopia negativa" prima denunciata nel suo celebre Il mondo nuovo. Ma siamo dunque davvero a questo bivio: o rassegnarci alla grigia prigione della società borghese, o distruggerla scatenando l’anarchia tribale, o almeno evadere temporaneamente dalla prima per stordirci nella seconda? Questa falsa alternativa esclude irrazionalmente l’unica vera soluzione possibile: la restaurazione di una società cristiana. Se i propagandisti no global proclamano che "un altro mondo è possibile", rispondiamo che certamente lo è, ma non sarà l’utopia anarchica, bensì la futura civiltà cristiana: quella profetizzata dalla Madonna a Fatima.
© il Timone
www.iltimone.org
DIBATTITO IN RETE
Avvenire, 19 giugno 2008
«Piùvoce.net» rilancia: in vista di una vera libertà di scelta la strada è quella della parità scolastica
Emergenza educativa, la sfida irrinunciabile
DI LUCIA BELLASPIGA
«Il giorno in cui dovremo spiegare ai nostri figli perché non è bene sgozzare il compagno di banco, perché non è giusto minacciare un uomo col coltello per prendere i suoi soldi o perché è immorale frodare chi fatica a risparmiare due soldi, è molto vicino. E sarà un bruttissimo giorno...», scrive
Luca Doninelli, partecipando con un articolo al dibattito sull’emergenza
educativa lanciato dal sito www.piuvoce.net, il network dei cattolici in Rete. Allarmismo? No: basta leggere la cronaca quotidiana per capire che già ci siamo. E non ci consoli il pensiero che si tratta pur sempre di una minoranza: «...quel giorno scopriremo che non si danno spiegazioni di queste cose - spiega lucidamente lo scrittore . Quando cominciano ad affiorare certi 'perché?', che la partita è già finita».
Non semplice emergenza educativa, dunque, ma antropologica, umana, per arginare la quale non basteranno una buona riforma o qualche provvedimento politico. Ne sono consci e seriamente allarmati - tutti gli intervenuti al dibattito, aperto nella pagina iniziale del sito dal portavoce di Scienza&Vita Domenico Delle Foglie, che rilancia la questione posta di recente da Benedetto XVI, e poi dal cardinale Angelo Bagnasco: quella crisi ormai preoccupante nella 'trasmis- sione fra generazioni', come l’ha chiamata il Papa. O, come dice Bagnasco, quella 'interruzione del racconto che una generazione deve fare all’altra' per sconfiggere le 'passioni tristi' oggi prevalenti tra i ragazzi.
Una frattura nel racconto, dunque. Significa che, se i giovani sono allo sbando, il problema sono gli adulti. Lo ribadisce Luisa Santolini, deputata Udc, citando di nuovo il Papa quando disse che 'se educare non è mai stato facile, oggi lo è ancora meno, perché non pochi educatori dubitano della possibilità stessa di educare e dunque rinunciano'. Vediamo genitori impotenti, insegnanti impauriti e messi alla berlina, adulti convinti che educare sia fuori moda, antiquato, lesivo persino della libertà dei figli. «L’educazione non è la vernice superficiale del conformismo e delle regole ricorda allora la parlamentare - ma la disciplina che corregge l’egoismo e fa attenti all’altro...». Di più: «Quella vera è l’unico antidoto alla guerra, alla grossolanità, alla villania, al razzismo, alla violenza. L’unico antidoto a tanta parte della tv e della cultura da essa prodotta». Ma - ricorda Franco Miano, presidente nazionale di Azione Cattolica l’appello del Papa si è rivolto anche alla Chiesa, per la quale l’emergenza educativa assume il volto particolare della «trasmissione della fede alle nuove generazioni». Un invito che il 4 maggio Benedetto XVI ha rivolto direttamente a tutta la Ac riunita in piazza San Pietro e al quale Miano oggi risponde «mettendo a disposizione la sapienza educativa maturata in 140 anni di storia». Una storia fatta di impegno vissuto, nella coscienza che «l’educatore è innanzitutto un testimone ». Contro la tv punta il dito anche il senatore Francesco Rutelli, denunciando lo scempio di un «dominante messaggio televisivo, che premia la devozione al dominio del 'dio denaro' e l’emulazione verso l’irresponsabilità, anziché quel coraggio che non è bullismo, ma dedizione all’altro». L’altra priorità trascurata, poi, è l’uso di droghe e la miscela di sostanze che circolano persino tra i 12enni: un dramma «senza precedenti per diffusione sociale e per la scarsità di strumenti inibitori», soprattutto perché - è la grave denuncia di Rutelli - la politica non è consapevole di quanto sta succedendo, non ne ha «sufficiente coscienza ». Peggio, «continua a ballare sul Titanic », scrive nel suo intervento Francesco Nembrini, presidente della Compagnia delle Opere, con una felice metafora che accomuna l’irresponsabilità di chi dovrebbe fare qualcosa e la portata del problema. In particolare è nella scuola che lo Stato dovrebbe correre ai ripari, mettendo in atto un concetto costituzionale, la sussidiarietà, quella collaborazione tra pubblico e privato che sola può dare «forte iniezione di libertà» a tutti i livelli del sistema. In concreto: gestione autonoma negli istituti dei fondi e del personale, ripensamento della carriera degli insegnanti, vera libertà di scelta educativa da parte delle famiglie. In Sierra Leone, Paese poverissimo, lo Stato stipendia gli insegnanti delle scuole cattoliche aperte dai missionari: «In un Paese conciato così da dove dovremmo ripartire se non dalla scuola?», gli ha spiegato il ministro dell’Istruzione locale, stupito del suo stupore...
La sfida è gigantesca, ma se ne può uscire, dice Valentina Aprea, presidente Pdl della commissione Cultura alla Camera. La via l’ha indicata il Papa parlando all’Università Cattolica di Washington in aprile: l’educatore ha la responsabilità di condurre i giovani alla verità, che è molto più della conoscenza, per questo - interviene la Aprea - «ogni insegnamento deve essere testimonianza», le idee trasmesse non devono solo «ammobiliare la mente» ma «incendiare anche il cuore», come ben sa chiunque si sia seduto dietro una cattedra. La vera sfida, allora, è «riallocare le risorse finanziarie riservate all’istruzione partendo dalla libertà di scelta delle famiglie, secondo il principio che le risorse governative seguono l’alunno »: piena parità tra scuole statali e non statali.
Scienza & Vita mette un argine all’eugenetica
di Emanuela Vinai
protagonisti
La difesa della Legge 40, l’impegno per ridurre gli aborti in Italia, l’occhio vigile sull’impatto che la genetica sta avendo sull’intera pratica medica. Parlano i presidenti dell’associazione a difesa della vita e della ricerca, Maria Luisa Di Pietro e Bruno Dallapiccola
I temi eticamente sensibili, toccando l’essenza stessa dell’essere umano, sono oggetto di sempre maggior interesse da parte degli esperti e non solo. Alla vigilia di un appuntamento istituzionale importante come l’Assemblea annuale dei soci fondatori, l’Associazione Scienza & Vita, per voce dei suoi presidenti, fa il punto su quanto fatto finora e si prepara a fronteggiare le nuove sfide che si profilano all’orizzonte. Ne parliamo con i presidenti dell’Associazione, il genetista Bruno Dallapiccola e la bioeticista Maria Luisa Di Pietro.
La prima emergenza scientifica cui far fronte è, a parere del prof. Dallapiccola, quella legata all’uso improprio della genetica: «Sicuramente bisogna essere vigili sulla genetica, perché è oggetto di interessi trasversali e perché riguarda tutta l’umanità: tutti noi siamo fatti di Dna e geni. L’impossibilità di non riuscire mai a controbilanciare i reali traguardi della medicina e della genetica con le enormi promesse che vengono propagandate, apre sicuramente gravi scenari. Basta vedere i siti internet che pubblicizzano terapie improbabili o pacchetti diagnostici prenatali». Il rischio, insomma, è che le biotecnologie, nella loro continua evoluzione, finiscano per essere più veloci delle competenze necessarie a comprenderle appieno. «Stanno diventando disponibili, in maniera incontrollata – prosegue il professore – tecnologie che ci consentiranno di costruire e di disporre di una carta d’identità genetica, creando inevitabili inquietudini, perché riveleranno le naturali imperfezioni genetiche di cui tutti siamo portatori, senza tuttavia fornire le necessarie delucidazioni. Il medico rischia di diventare sempre più 'genomico', non avendone però le competenze adeguate, vuoi per l’inadeguatezza degli studi, vuoi per la continua evoluzione di una materia che ogni giorno si arricchisce di nuove scoperte. Di conseguenza non tutti potranno essere in grado di valutare compiutamente le naturali variazioni genetiche presenti nel Dna che segnalano la possibilità di malattie, ma che raramente si trasformano in malattie vere e proprie».
In questa prospettiva, conclude il genetista, il ruolo che si propone l’Associazione Scienza & Vita è quello di creare una cultura della genetica e delle biotecnologie.
La professoressa Di Pietro prova a tracciare un bilancio dell’anno appena trascorso: «Tra Legge 40 e Legge 194 è stato davvero un anno intenso. Abbiamo notato un comportamento decisamente schizofrenico nel dibattito sulla revisione di leggi vigenti. Se da un lato si sta cercando, anche con modalità inadeguate per luoghi e per tempi, di modificare la Legge 40, approvata solo nel 2004 e confermata dal fallimento di un referendum abrogativo (il 74,1% degli italiani si è avvalso del diritto di astensione), dall’altra si ritiene immodificabile la Legge 194 che ha ben 30 anni di vita e che ha mostrato nel tempo i suoi limiti. L’Associazione Scienza & Vita è impegnata da una parte ad evitare forme di tradimento ai contenuti della Legge 40, la cui applicazione ha ampiamente messo in evidenza il suo ruolo di 'riduzione del danno'. Per quanto riguarda l’aborto procurato si sta lavorando sul piano della prevenzione e si è avviata una riflessione sulle ambiguità della Legge 194 che tale prevenzione potrebbero ostacolare. È evidente, comunque, l’urgenza di interventi di tipo informativo e formativo per la promozione della salute e la tutela della vita nascente».
Emerge così il primo obiettivo che l’Associazione vuole perseguire, ovvero implementare la ricerca in ambito medico, biologico, filosofico e giuridico sui temi della vita e della salute. Nel corso dell’incontro odierno, si cercherà anche di esporre una strategia operativa condivisa con tutti i membri dell’associazione, che, in base alle rispettive competenze, sono un’inesausta risorsa scientifica e culturale. «Per il prosieguo dell’anno – conclude la Di Pietro – ci concentreremo anche sull’azione culturale e politica.
Continueremo a vigilare sulle situazioni ancora in sospeso, ad esempio il dibattito sulla Legge 40, sulla prevenzione dell’aborto procurato, sulle questioni di fine vita, ma vi è anche, da parte di Scienza & Vita, la piena disponibilità a raccogliere la cosiddetta 'sfida educativa' in tutte le accezioni e le modalità in cui essa si coniuga».
argomenti
Fisichella: la scienza non ha l’ultima parola
« L’Accademia per la Vita, come noi sappiamo, tocca i temi più delicati e sensibilmente etici come vengono chiamati oggi, che sono sul tappeto e non soltanto in Italia, ma in tutto l’Occidente. È questa una responsabilità che mi sembra debba anche coniugarsi con la capacità di poter guardare al futuro, non soltanto interpretandolo, ma anche trovando tutte le forme per fare in modo che la visione cristiana della vita possa essere accolta ed accettata anche da persone che vivono scelte differenti e con culture diverse». Così esordiva ieri monsignor Rino Fisichella, nuovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita, voluta e istituita da Giovanni Paolo II nel febbraio del 1994 con il motu proprio Vitae Mysterium, in una intervista concessa a Radio Vaticana. Alla domanda su come promuovere un’autentica cultura della vita, di respiro universale, il presule ha ricordato l’importanza di riscoprire i principi fondamentali del diritto naturale: «Quest’anno, proprio nel 60° della Dichiarazione dei diritti universali, il richiamo alla legge naturale diventa obbligatorio perché quei diritti sono stati formulati in questo modo proprio alla luce della consapevolezza che ci sono dei principi che vanno al di là delle confessioni, delle etnie, delle scelte politiche e hanno un denominatore comune che tocca ogni persona in qualsiasi parte della terra».
E sulla reiterata accusa alla Chiesa di voler frenare lo slancio della ricerca biomedica, Fisichella ha fatto presente che «la Chiesa guarda, contrariamente a quello che tante volte viene detto, con estrema attenzione e fiducia alla scienza. Ma la scienza deve essere anche consapevole che non è l’ultima risposta che può essere data alle esigenze delle persone. La scienza è uno strumento, la scienza è una di quelle fondamentali acquisizioni che l’uomo ha conquistato. Penso, quindi, che dovremmo recuperare un rapporto positivo con la scienza, ma dovremmo anche essere capaci di far comprendere agli scienziati che nessuno di noi può sostituirsi all’azione creativa di Dio».
Quali, allora le priorità della Pontificia Accademia? «Anzitutto non possiamo dimenticare il tema della vita sic et simpliciter, con tutte le sue implicazioni: c’è il tema della sperimentazione sulla cellula umana; c’è il tema dell’eutanasia. Bisogna essere capaci a mio avviso, in questi casi, di ritrovare delle priorità, soprattutto nella consapevolezza che sul tema della vita non possiamo lavorare da soli ma abbiamo bisogno di un lavoro comune, perché la vita umana riguarda tutti e non soltanto un gruppo di persone».