martedì 23 dicembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Carrón: Il Natale e la Speranza - Julián Carrón - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
2) MORALE/ Un futuro da incubo: se la natura umana viene rinnegata in nome dell’eugenetica “positiva” - Massimo Borghesi - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
3) 23/12/2008 08:56 - ISRAELE – PALESTINA - Patriarca di Gerusalemme: Cristo la Luce nel buio e nel conflitto della Terra Santa - Nel Messaggio dei capi cristiani si ricorda la disperazione e la povertà in cui vivono le persone della Terra Santa. Una esplicita preghiera per Barak Obama e per i leader mondiali perché portino la pace in Medio oriente, privilegiando la soluzione dei “due Stati” e la fine dell’occupazione e dell’embargo a Gaza.
4) 22/12/2008 13:40 – VATICANO - Papa: la Chiesa deve difendere il creato e impedire l’autodistruzione dell’uomo - Lo Spirito ha creato la natura in modo intelligente e ciò fa parte del Credo della Chiesa, che afferma il valore del matrimonio. Il termine ‘gender’ si risolve nella autoemancipazione dell’uomo dal Creatore. La Giornata della gioventù non è “una specie di festival rock modificato in senso ecclesiale, con il Papa quale star”.
5) Galileo, il cosmo e la pretesa cristiana - Marco Bersanelli, Mario Gargantini - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
6) CHIESA/ Magister: la chiarezza del Papa, in difesa della natura umana - INT. Sandro Magister - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
7) ELUANA/ La bocciatura della Corte europea? Non mette un argine all'illusione dell'uomo perfetto - Redazione - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
8) SCUOLA/ Israel: i programmi prima di tutto. E attenzione a puntare troppo sull’autonomia - INT. Giorgio Israel - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
9) VANGELI/ Socci: ecco la mia indagine, svolta al lume della ragione - INT. Antonio Socci - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
10) RESPONSABILITÀ PER IL CREATO - UNA TUTELA NON PARZIALE NÉ DEPOTENZIATA - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 23 dicembre 2008
11) ACCOMPAGNARE UNA MADRE FINO ALL’ULTIMO RESPIRO - L’inaspettata Bellezza dentro il dolore – Avvenire, 23 dicembre 2008
12) LA DIFESA DELLA VITA - «Lieve, tenace è la vita» Teatro civile per Eluana - L’iniziativa promossa da «Scienza&Vita» per invitare alla riflessione sulla dignità della persona - Monologo di Rondoni su Sat2000 - Sul palco anche Mario Melazzini, oncologo malato di Sla e quattro giovani cantanti liriche – Avvenire, 23 dicembre 2008 - DA ROMA PINO CIOCIOLA
13) tra Shakespeare, Melville e Vico - «Al mito del cinema di Hollywood preferisco Thomas Mann e De Sica» - DI CESARE PAVESE, Avvenire, 23 dicembre 2008


Carrón: Il Natale e la Speranza - Julián Carrón - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Caro direttore, sono stato colpito dalle letture che la Liturgia ambrosiana proponeva il lunedì della terza settimana di Avvento. Come devono essere rimasti sconcertati i membri dell’antico popolo di Israele davanti alle parole del profeta Geremia: «Divorerà le tue messi e il tuo pane; divorerà i tuoi figli e le tue figlie; divorerà i greggi e gli armenti; distruggerà le città fortificate nelle quali riponevi la fiducia» (Ger 5,17). Annunciava loro che un’altra nazione stava per sconfiggere il regno su cui avevano riposto fiducia. «Allora, se diranno: "Perché il Signore nostro Dio ci fa tutte queste cose?", tu risponderai: "Come voi avete abbandonato il Signore e avete servito divinità straniere nel vostro paese, così servirete gli stranieri in un paese non vostro"» (Ger5,19).
E come se questo fosse detto per noi; oggi vediamo segnali che preoccupano tutti, come se quello che ha sostenuto la nostra storia non potesse resistere all’urto dei tempi: un giorno sono l’economia, la finanza e il lavoro, un altro la politica e la giustizia, un altro ancora la famiglia, l’inizio della vita e la sua fine naturale. E così, come l’antico Israele di fronte a una situazione preoccupante, anche noi ci domandiamo: «Perché accade tutto questo?». Perché anche noi siamo stati talmente presuntuosi da pensare di cavarcela dopo avere tagliato la radice che sosteneva l’edificio della nostra civiltà. Negli ultimi secoli, infatti, la nostra cultura ha pensato di poter costruire il futuro da sé, abbandonando Dio. Ora vediamo dove ci sta portando questa pretesa.
Davanti a tutto questo che ci siamo procurati, il Signore che cosa fa? Ce lo indica il profeta Zaccaria, parlando al suo popolo Israele: «Ecco, io manderò», attenzione al nome, «il mio servo Germoglio» (Zc 3,8). E come se davanti alla crisi di un mondo, il nostro - i profeti userebbero per descriverla un’immagine a loro molto cara, quella del tronco secco -, spuntasse un segno di speranza. Tutta l’enormità del tronco secco non può evitare che in mezzo al popolo, umile e fragile, spunti un germoglio, nel quale è riposta la speranza del futuro.
Ma c`è un inconveniente: anche noi, quando vediamo apparire questo germoglio - come coloro che erano davanti a quel bambino a Nazareth -, possiamo dire scandalizzati: «É mai possibile che una cosa così effimera possa essere la risposta alla nostra attesa di liberazione?». Da una realtà così piccola come la fede in Gesù può venire la salvezza? Ci pare impossibile che tutta la nostra speranza possa poggiare sulla appartenenza a questo fragile segno, ed è motivo di scandalo la promessa che solo a partire da esso si possa ricostruire tutto. Eppure uomini come san Benedetto e san Francesco hanno fatto proprio così: cominciarono a vivere appartenendo a quel germoglio che si era inoltrato nel tempo e nello spazio, la Chiesa. E sono diventati protagonisti di popolo e di storia.
Benedetto non affrontò da arrabbiato la fine dell’impero, non protestò perché il mondo non era cristiano, né si lamentò perché tutto crollava, accusando l’immoralità dei suoi contemporanei. Piuttosto testimoniò alla gente del suo tempo una compiutezza del vivere, una soddisfazione e una pienezza che divenne attraente per tanti. E fu l’albore di un mondo nuovo, piccolo quanto si vuole - quasi un niente paragonato al tutto, un tutto che pur franava d a ogni parte -, ma reale. Quel nuovo inizio fu talmente concreto che l’opera di Benedetto e di Francesco è durata nei secoli e ha trasformato l’Europa, umanizzandola.
«Egli si è mostrato. Egli personalmente», ha detto Benedetto XVI parlando del Dio-con-noi. E don Giussani: «Quell`uomo di duemila anni fa si cela, diventa presente, sottolatenda, sotto l’aspetto di un’umanità diversa», in un segno reale che desta il presentimento di quella vita che tutti attendiamo per non soccombere al nostro male e ai segnati del nulla che avanza. E la speranza che ci annuncia il Natale, per cui gridiamo: «Vieni, Signore Gesù!».
Pubblicato su La Repubblica del 23 Dicembre 2008


MORALE/ Un futuro da incubo: se la natura umana viene rinnegata in nome dell’eugenetica “positiva” - Massimo Borghesi - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
La difesa della “natura” umana, richiesta da Benedetto XVI nel suo discorso del 22 dicembre, non è una posizione di retroguardia rispetto all’incalzare del progresso tecnico che pare, ogni giorno, abbattere e dissolvere confini che sembravano eterni. Si tratta di una posizione “progressista”, non maltusiana,che intercetta, al presente, talune delle voci più significative della cultura contemporanea. Valga per tutte la riflessione di Jürgen Habermas che, proprio in un testo del 2001, si poneva il problema de Il futuro della natura umana (Einaudi 2002). La pretesa della tecnica moderna di modificare la natura dell’uomo, intervenendo nel patrimonio genetico, lascia intravedere scenari inquietanti, creazioni di “chimere”. Le nanotecnologie immaginano fusioni produttive di uomo e macchina, l’ingegneria informatica disegna robot umanoidi destinati a sostituire gli uomini. Questo attacco concentrico all’idea di uomo, all’uomo così come è stato concepito fino ad oggi, tende, secondo Habermas a «modificare la nostra autocomprensione etica del genere fino al punto da coinvolgere la stessa coscienza morale, intaccando quei requisiti di naturalità in assenza dei quali non possiamo intenderci quali autori della nostra vita e membri giuridicamente equiparati della comunità morale». Per Habermas la disinvoltura con cui il naturalismo positivistico gioca con i mattoni della vita prelude ad un’idea selettiva che mina, alla radice, l’autonomia del soggetto e l’ordinamento democratico. Paradossalmente l’autottimizzazione genetica del genere umano potrebbe essere portata avanti in direzioni diverse. Secondo Allen Buchanan, citato da Habermas, «dobbiamo ammettere la possibilità che, a partire da un certo momento del futuro, diversi gruppi di esseri umani possano seguire, usando l’ingegneri genetica, strade evolutive divergenti. Se questo accadrà, ci saranno gruppi diversi di esseri, ciascuno con la sua propria “natura” che si relazionano l’un l’altro solo attraverso un comune antenato (la razza umana)».
Questo processo di diversificazione può essere iniziato da subito con un programma di eugenetica positiva, tesa a “migliorare” la specie. In tal modo le parti ricche del pianeta potranno, sin d’ora, avviare programmi di selezione dei migliori. Gli altri, gli abitanti delle zone povere, rimarrebbero allo stadio attuale della “natura”, retrocessi a sotto-uomini, individui del passato portatori di difetti e di malattie. A questo quadro, affatto pacificante, si aggiunga l’ipotesi della clonazione richiamata da Habermas con esemplificazioni tratte da Hans Jonas. Per essa un individuo futuro viene privato del suo “presente”, di uno sviluppo originale. Un altro (che non è Dio), decide per lui, in anticipo, la forma della sua personalità, lo priva della sua identità. Egli è il “doppione” di ciò che è già stato. In tutti questi esempi è evidente la svolta “antidemocratica” a cui porta la genetica “liberale”, le conseguenze maltusiane, selettive;quelle conseguenze che una sinistra “post-moderna”, dimentica della propria tradizione, non riesce più a riconoscere come patrimonio storico della destra. Il post-umanesimo, naturalisticamente declinato, non promette un futuro radioso ma un tempo di disuguaglianze e di lotta. Se la “natura” umana diviene un concetto mobile, modificabile – così come da tempo lascia intendere la teoria evoluzionistica – la stessa dottrina morale che legittima il quadro democratico, fondata su diritti personali e sull’uguaglianza, appare desueta. La tecnica mutando la forma dell’uomo, la sua natura, relativizza anche i valori morali che divengono relativi all’uomo così come lo conosciamo ora. L’uomo del futuro, che possiamo solo immaginare come “analogo” in qualche modo con quello di oggi, avrà valori diversi. La coscienza morale viene a dipendere dal progresso tecnologico. Quel progresso afferma, da ora, di essere in grado di sciogliere le differenze che hanno segnato la storia dell’umanità, quelle tra uomo e donna, tra uomo e animale, tra naturale ed artificiale. Il risultato è un “terzo genere”, un ibrido, una sorta di coincidentia oppositorum. Una rivoluzione che fa saltare tutte le categorie morali.
La spinta, apparentemente irresistibile, che muove la tecnica odierna è quindi la negazione della natura come ambito di forme immutabili. La natura è, al contrario, la “metamorfosi”, il continuo mutare delle forme ad opera di una tecnica che, come riconosce giustamente Emmanuele Severino, è ormai il surrogato della fede. Tecnica e nichilismo: è l’essenza del positivismo odierno. Non è esatto chiamarlo “naturalistico” poiché la ragione lungi dal conformarsi alla natura tende qui a rifiutarla. Essa riconosce solo quanto è sua “produzione”. La ragione puramente tecnica è una ragione senza “logos”, senza un ordine oggettivo del mondo. Donde la critica di Habermas, ultimo erede della Scuola di Francoforte, a questa “ragione strumentale”. Sulla sua linea si colloca il discorso di Benedetto XVI. Il recupero dell’idea di “natura” umana non è, oggi, un’idea fuori moda. È un punto di difesa dell’umano a fronte di un processo di mercificazione dell’umano che non conosce confini.


23/12/2008 08:56 - ISRAELE – PALESTINA - Patriarca di Gerusalemme: Cristo la Luce nel buio e nel conflitto della Terra Santa - Nel Messaggio dei capi cristiani si ricorda la disperazione e la povertà in cui vivono le persone della Terra Santa. Una esplicita preghiera per Barak Obama e per i leader mondiali perché portino la pace in Medio oriente, privilegiando la soluzione dei “due Stati” e la fine dell’occupazione e dell’embargo a Gaza.
Gerusalemme (AsiaNews) – Il patriarca latino di Gerusalemme, mons. Foud Twal ha diffuso il Messaggio di Natale firmato insieme ad altri 12 capi delle Chiese cristiane, in cui essi riaffermano la fede in Gesù Cristo, nato a Betlemme come la luce che splende nelle tenebre. Nel Messaggio i presuli notano che “nel mondo attorno a noi c’è sempre più buio, conflitto, disperazione”, ma i cristiani sono chiamati a ricordare a tutti che “Gesù è la luce che non si spegne mai”.
Dopo aver sottolineato l’urgenza di condivisione verso i più poveri, i senzatetto e i disoccupati, i capi cristiani affermano che la luce di Cristo rende possibile “lavorare in modo più realistico per la soluzione di due stati [Israele e Palestina], che potrebbe far terminare il fardello di restrizioni che si producono con l’occupazione”.
I vescovi pregano anche “per il presidente eletto degli Stati Uniti, perché lui e gli altri leader del mondo possano vedere il bisogno di pace in Medio oriente e oltre”. E chiedono a tutti di “guardare nella luce di Cristo la situazione in cui molti soffrono a Gaza, per compiere uno sforzo deciso e portare loro un aiuto urgente”.
I capi cristiani ringraziano tutti i pellegrini giunti quest’anno i Terra Santa e chiedono loro di “camminare sulle orme di Gesù” e nelle “pause” della loro visita ai Luoghi Santi, essere attenti alla “situazione di molti fratelli cristiani”.


22/12/2008 13:40 – VATICANO - Papa: la Chiesa deve difendere il creato e impedire l’autodistruzione dell’uomo - Lo Spirito ha creato la natura in modo intelligente e ciò fa parte del Credo della Chiesa, che afferma il valore del matrimonio. Il termine ‘gender’ si risolve nella autoemancipazione dell’uomo dal Creatore. La Giornata della gioventù non è “una specie di festival rock modificato in senso ecclesiale, con il Papa quale star”.
Città del Vaticano (AsiaNews) - La fede attribuisce all’uomo una responsabilità verso il creato, ma anche verso se stesso, per il suo dover essere “in sintonia” con il disegno dello Spirito creatore, quello che ha strutturato la materia “in modo intelligente”, rendendocela, così, comprensibile. E’ lo stesso Spirito che il Risorto ha donato agli apostoli e del quale è frutto la gioia, quella che dà vita allo spirito missionario della Chiesa, il quale “ non è altro che l’impulso di comunicare la gioia che ci è stata donata”. E che le dà il compito di difendere la natura, ma anche “l’uomo da se stesso”, affermando la verità sul matrimonio tra un uomo e una donna, contro il “gender”.
E’ una articolata riflessione sullo Spirito il discorso che Benedetto XVI ha rivolto oggi alla Curia romana nel tradizionale appuntamento per lo scambio degli auguri natalizi, occasione nella quale, per consuetudine, i papi fanno una riflessione sulla vita della Chiesa nel corso dell’anno.
Nell’analisi di Benedetto XVI, focalizzata in particolare sulla Giornata della gioventù – che non è “una specie di festival rock modificato in senso ecclesiale, con il Papa quale star” - sul Sinodo dei vescovi e l’Anno paolino, il filo conduttore è dunque lo Spirito, tema dell’incontro di Sydney, ma anche, “in modo più nascosto” del Sinodo sulla Parola e di insegnamenti di San Paolo. E ci sono i due viaggi, l’uno negli Stati Uniti e l’altro in Francia, nei quali “la Chiesa si è resa visibile davanti al mondo e per il mondo come una forza spirituale che indica cammini di vita e, mediante la testimonianza della fede, porta luce al mondo”.
L’anno che sta per concludersi, nelle parole del Papa, ha fatto ricordare i 50 anni dalla morte di Pio XII e del’elezione di Giovanni XXIII, i 40 trascorsi dalla pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae e i 30 dalla morte del suo autore, Paolo VI” esso ha permesso di andare più indietro con la memoria: “la sera del 28 giugno, alla presenza del Patriarca ecumenico Bartolomeo I di Costantinopoli e di rappresentanti di molte altre Chiese e Comunità ecclesiali” è stato inaugurao l’Anno Paolino. Esso è “un anno di pellegrinaggio non soltanto nel senso di un cammino esteriore verso i luoghi paolini, ma anche, e soprattutto, in quello di un pellegrinaggio del cuore, insieme con Paolo, verso Gesù Cristo”.
Al Sinodo dei vescovi, “ci siamo nuovamente resi conto che Dio in questa sua Parola si rivolge a ciascuno di noi, parla al cuore di ciascuno: se il nostro cuore si desta e l’udito interiore si apre, allora ognuno può imparare a sentire la parola rivolta appositamente a lui. Ma proprio se sentiamo Dio parlare in modo così personale a ciascuno di noi, comprendiamo anche che la sua Parola è presente affinché noi ci avviciniamo gli uni agli altri; affinché troviamo il modo di uscire da ciò che è solamente personale. Questa Parola ha plasmato una storia comune e vuole continuare a farlo. Allora ci siamo nuovamente resi conto che – proprio perché la Parola è così personale – possiamo comprenderla in modo giusto e totale solo nel ‘noi’ della comunità istituita da Dio”. Dei lavori sinodali il Papa ha ricordato il “contributo prezioso” di “un Rabbì sulle Sacre Scritture di Israele, che appunto sono anche le nostre Sacre Scritture. Un momento importante per il Sinodo, anzi, per il cammino della Chiesa nel suo insieme, è stato quello in cui il Patriarca Bartolomeo, alla luce della tradizione ortodossa, con penetrante analisi ci ha aperto un accesso alla Parola di Dio”.
La Giornata della gioventù, poi, “è stata una festa della gioia – una gioia che infine ha coinvolto anche i riluttanti”. Ma, “qual è la natura di ciò che succede” in una Gmg? “Quali sono le forze che vi agiscono? Analisi in voga tendono a considerare queste giornate come una variante della moderna cultura giovanile, come una specie di festival rock modificato in senso ecclesiale con il Papa quale star. Con o senza la fede, questi festival sarebbero in fondo sempre la stessa cosa, e così si pensa di poter rimuovere la questione su Dio. Ci sono anche voci cattoliche che vanno in questa direzione”. Ma “con ciò, tuttavia, la peculiarità di quelle giornate e il carattere particolare della loro gioia, della loro forza creatrice di comunione, non trovano alcuna spiegazione”. Per capire, va tenuto conto che le Gmg hanno una lunga preparazione e “le Giornate solenni sono soltanto il culmine di un lungo cammino, col quale si va incontro gli uni agli altri e insieme si va incontro a Cristo. In Australia non per caso la lunga Via Crucis attraverso la città è diventata l’evento culminante di quelle giornate”.
La “gioia come frutto dello Spirito santo” ha spinto Benedetto XVI a parlare delle “dimensioni” del tema “Spirito santo”. A cominciare dalla creazione.
Il fatto che la “struttura intelligente” della natura “proviene dallo stesso Spirito creatore che ha donato lo spirito anche a noi, comporta insieme un compito e una responsabilità. Nella fede circa la creazione sta il fondamento ultimo della nostra responsabilità verso la terra. Essa non è semplicemente nostra proprietà che possiamo sfruttare secondo i nostri interessi e desideri. È piuttosto dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci e con ciò ci ha dato i segnali orientativi a cui attenerci come amministratori della sua creazione”. “Lo Spirito che li ha plasmati, è più che matematica – è il Bene in persona che, mediante il linguaggio della creazione, ci indica la strada della vita retta”.
E “poiché – ha proseguito il Papa - la fede nel Creatore è una parte essenziale del Credo cristiano, la Chiesa non può e non deve limitarsi a trasmettere ai suoi fedeli soltanto il messaggio della salvezza. Essa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere anche l’uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come una ecologia dell’uomo, intesa nel senso giusto. Non è una metafisica superata, se la Chiesa parla della natura dell’essere umano come uomo e donna e chiede che quest’ordine della creazione venga rispettato. Qui si tratta di fatto della fede nel Creatore e dell’ascolto del linguaggio della creazione, il cui disprezzo sarebbe un’autodistruzione dell’uomo e quindi una distruzione dell’opera stessa di Dio. Ciò che spesso viene espresso ed inteso con il termine ‘gender’, si risolve in definitiva nella autoemancipazione dell’uomo dal creato e dal Creatore. L’uomo vuole farsi da solo e disporre sempre ed esclusivamente da solo ciò che lo riguarda. Ma in questo modo vive contro la verità, vive contro lo Spirito creatore”. “Partendo da questa prospettiva occorrerebbe rileggere l’Enciclica Humanae vitae: l’intenzione di Papa Paolo VI era di difendere l’amore contro la sessualità come consumo, il futuro contro la pretesa esclusiva del presente e la natura dell’uomo contro la sua manipolazione”.
In secondo luogo, “se lo Spirito creatore si manifesta innanzitutto nella grandezza silenziosa dell’universo, nella sua struttura intelligente, la fede, oltre a ciò, ci dice la cosa inaspettata, che cioè questo Spirito parla, per così dire, anche con parole umane, è entrato nella storia e, come forza che plasma la storia, è anche uno Spirito parlante, anzi, è Parola che negli Scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento ci viene incontro”.
“Leggendo la Scrittura insieme con Cristo, impariamo a sentire nelle parole umane la voce dello Spirito Santo e scopriamo l’unità della Bibbia”.
La “terza dimensione” sul tema dello Spirito, è stata descritta dal Papa come la “inseparabilità di Cristo e dello Spirito Santo”. “Lo Spirito Santo è il soffio di Cristo. E come il soffio di Dio nel mattino della creazione aveva trasformato la polvere del suolo nell’uomo vivente, così il soffio di Cristo ci accoglie nella comunione ontologica con il Figlio, ci rende nuova creazione”.
“Così, come quarta dimensione, emerge spontaneamente la connessione tra Spirito e Chiesa”, Corpo di Cristo”.
“Così con il tema ‘Spirito Santo’, che orientava le giornate in Australia e, in modo più nascosto, anche le settimane del Sinodo – ha concluso il Papa - si rende visibile tutta l’ampiezza della fede cristiana, un’ampiezza che dalla responsabilità per il creato e per l’esistenza dell’uomo in sintonia con la creazione conduce, attraverso i temi della Scrittura e della storia della salvezza, fino a Cristo e da lì alla comunità vivente della Chiesa, nei suoi ordini e responsabilità come anche nella sua vastità e libertà, che si esprime tanto nella molteplicità dei carismi quanto nell’immagine pentecostale della moltitudine delle lingue e delle culture”.


Galileo, il cosmo e la pretesa cristiana - Marco Bersanelli, Mario Gargantini - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
L’augurio che il papa ha indirizzato domenica in piazza San Pietro “a tutti coloro che parteciperanno a vario titolo alle iniziative per l’anno mondiale dell’astronomia, il 2009, indetto nel 4° centenario delle prime osservazioni al telescopio di Galileo Galilei”, ha innescato il tam tam delle agenzie di stampa e ispirato molti titoli sui giornali. Ma a dire il vero, da sempre il magistero della Chiesa è costellato di riferimenti al valore dell’astronomia, tanto che fra i predecessori di Benedetto XVI, come lui stesso ha ricordato, “vi sono stati cultori di questa scienza, come Silvestro II, che la insegnò, Gregorio XIII, a cui dobbiamo il nostro calendario, e san Pio X, che sapeva costruire orologi solari.” Ed è interessante il fatto che la Specola Vaticana, fondata nel 1578 da Gregorio XIII, è una delle più antiche istituzioni al mondo nel panorama degli osservatori astronomici.
Ma perché questa particolare attenzione della Chiesa per l’astronomia? Indubbiamente la tradizione giudaico-cristiana è ricca di testimonianze del legame profondo tra l’astronomia e la liturgia. La definizione delle feste più importanti richiedeva la conoscenza dei cicli lunari e solari. La Pasqua è legata all’equinozio e al plenilunio e, come ha ricordato ieri il papa, “la stessa collocazione della festa del Natale è legata al solstizio d’inverno, quando le giornate, nell’emisfero boreale, ricominciano ad allungarsi.” Le antiche cattedrali erano vere e proprie rappresentazioni cosmiche. Il loro orientamento indicava i punti cardinali, l’orologio solare dettava le ore del giorno. “Questo ci ricorda la funzione dell’astronomia nello scandire i tempi della preghiera”, ha detto il papa. “Piazza San Pietro è anche una meridiana: il grande obelisco, infatti, getta la sua ombra lungo una linea che corre sul selciato... ed in questi giorni l’ombra è la più lunga dell’anno.” Colpisce quest’immagine della meridiana che da secoli segna le ore del giorno, unendo il movimento del cielo con il cammino dell’uomo sulla terra. Spesso poi, sulla facciata delle chiese, erano presenti i regoli per la misura delle distanze, che servivano da unità di misura per costruire le strade e le case in cui vivevano.
Ma non è solo questo. Sia la tradizione ebraica che quella cristiana hanno saputo esaltare il valore evocativo e educativo dello sguardo al cielo. La contemplazione del firmamento aiuta l’uomo a considerare la propria natura, la propria sproporzione e il desiderio di infinito che lo costituisce, e può riaccendere in lui lo stupore per la creazione. Così Giovanni Paolo II nel 1979 rivolgendosi a un gruppo di cosmologi disse: “La vostra scienza è per l’uomo una via maestra alla meraviglia... La ragione scientifica, dopo un lungo cammino... ci induce a riproporre con rinnovata intensità alcune delle grandi domande dell’uomo di sempre: da dove veniamo? dove andiamo?; ci porta a misurarci ancora una volta sulle frontiere del mistero, quel mistero di cui Einstein ha detto che è “il sentimento fondamentale, che sta accanto alla culla della vera arte e della vera scienza” e, aggiungiamo noi, della vera metafisica e della vera religione.”
Esattamente mezzo secolo prima, Pio XI affermava: “La meraviglia non è che l'universo visibile materiale sia così grande, così immenso, come la scienza viene rivelando, travolgendo le intelligenze di studiosi in abissi pieni di mistero di cui nulla annuncia il fondo: la meraviglia è che tutto questo noi abbracciamo in un pensiero, noi esprimiamo in una parola: universo.” E la bellezza della creazione invita la ragione a riconoscere il mistero che la genera in ogni istante. Per questo l’osservazione dell’universo, fino allo svelarsi dell’ordine nascosto nelle leggi di natura attraverso la scienza moderna, è percepita dalla Chiesa come un’occasione privilegiata per rendere lode al Creatore. Come ha detto domenica il papa, “Se i cieli, secondo le belle parole del salmista, ‘narrano la gloria di Dio’, anche le leggi della natura, che nel corso dei secoli tanti uomini e donne di scienza ci hanno fatto capire sempre meglio, sono un grande stimolo a contemplare con gratitudine le opere del Signore.”
Il nesso tra il senso religioso dell’uomo e la contemplazione del cielo è naturalmente un tratto comune a diverse grandi tradizioni religiose. C’è però una particolarità nel cristianesimo. In esso, l’aspetto decisivo non è una legge morale o una dottrina religiosa, ma un fatto apparentemente ordinario: la nascita di un bimbo in un piccolo paese alla periferia dell’impero, e quel bimbo è il senso di tutto l’universo. La pretesa cristiana ha una portata cosmica: nella vastità dello spazio e del tempo, in un punto impercettibile “il mistero di Dio si fa uomo” per rispondere all’attesa di ogni uomo e di tutta la creazione. Come ha detto Benedetto XVI nel suo messaggio: “Questo mistero di salvezza, oltre a quella storica, ha una dimensione cosmica: Cristo è il sole di grazia che, con la sua luce, trasfigura e accende l’universo in attesa”.


CHIESA/ Magister: la chiarezza del Papa, in difesa della natura umana - INT. Sandro Magister - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Una sorta di bilancio di fine anno. Questo è stato il discorso tenuto ieri da Benedetto XVI davanti alla Curia nel tradizionale incontro per gli auguri di Natale. Un’occasione per ripercorrere gli appuntamenti più importanti per il Papa nell’arco di questo 2008, insieme ad alcune delle tematiche fondamentali del suo pensiero e del suo magistero. E non sono mancati i passaggi che hanno fatto discutere: da una parte il discorso relativo alla natura dell’uomo e della donna, che come ovvio attirano di più le attenzioni dei media; ma ancor più importanti, secondo il vaticanista dell’Espresso Sandro Magister, i riferimenti a certe posizioni critiche che si trovano all’interno della Chiesa, sulle quali Benedetto XVI ha ritenuto fosse opportuno fare chiarezza.
Il Papa, ripercorrendo le vicende dell’anno appena trascorso, ha insistito molto sulle occasioni che la Chiesa ha avuto per «rendersi visibile di fronte al mondo» (i viaggi in Usa e Francia, le Giornate Mondiali della Gioventù). Cosa significa questo «rendersi visibile»?
Il Papa con questa espressione ha richiamato un concetto cui tiene moltissimo, e cioè che la Chiesa si mostra al mondo attraverso gesti e parole ben precisi, cioè le celebrazioni. I viaggi e le Giornate della Gioventù cui il Pontefice ha fatto riferimento non vengono ricordati come semplici escursioni di un Papa viaggiatore, ma come momenti in cui la Chiesa rivela il suo vero volto, fatto di proclamazione e annuncio della Parola di Dio, e di celebrazione della Parola stessa che si fa realtà nei Sacramenti. Parlando della GMG di Sydney, infatti, il Papa si riferisce a due momenti in particolare, che ne rivelano il vero significato: il primo è la via crucis, sorta di moderna sacra rappresentazione, rispetto alla quale il Papa non si pone come protagonista, ma come vicario che indica il vero protagonista, cioè Cristo crocefisso e risorto; secondo, la grande liturgia solenne, in cui avviene – dice il Papa – non quello che noi siamo in grado di produrre, ma quello che viene prodotto da Dio stesso. Queste sono le rivelazioni che la Chiesa, secondo le parole del Papa, è in grado di dare al mondo.
Perché ha poi deciso di fare un appunto sul fatto che le GMG non sono da intendere come grandi concerti, con il Papa come star? Qual è la preoccupazione che ha portato il Papa a questa precisazione?
Si tratta di una preoccupazione per critiche che non vengono solo dall’esterno, come si potrebbe dare per scontato, ma che vengono anche dall’interno del mondo cattolico. In effetti è così: c’è una corrente di pensiero nel campo cattolico che, fin da quando le GMG sono state inventate da Giovanni Paolo II, critica frontalmente queste forme di aggregazione, giudicandole manifestazioni che non hanno nulla di sostanziale riguardo la professione della fede, ma semplici fenomeni di massa, in poco differenti dai grandi incontri profani come i concerti. Si tratta per altro di una critica molto ricorrente. Benedetto XVI ha mostrato di respingere con forza questa critica: non l’ha fatto cioè con l’aria di chi incamera un’eredità un po’ pesante lasciata dal predecessore, cui il professor Ratzinger si sarebbe dovuto adeguare un po’ controvoglia.
In effetti c’è chi la pensa così.
E invece Benedetto XVI ha mostrato di aver colto in queste Giornate qualcosa di specifico: sono momenti di fede, visibile soprattutto nei gesti come appunto la via crucis e la celebrazione solenne, che sono una seminagione di nuove forme comunitarie di vita di fede per i giovani che vi partecipano. La fede si costruisce anche da questi rapporti diretti con la proclamazione e con la visibilità della fede stessa. E in queste giornate Benedetto XVI fa di tutto perché ciò avvenga. Il Pontefice, inoltre, non si adegua affatto ai moduli canonici dei raduni oceanici: quando ad esempio c’è stata la veglia notturna, sia in Germania sia quest’anno in Australia, non ha esitato a inginocchiarsi davanti al Santissimo e a stare in silenzio per molto tempo. Una cosa che non è certo caratteristica dei grandi raduni di massa. E lo ha fatto volutamente per indicare le cose che contano in questi gesti, rispetto alle cose che invece non contano niente.
C’è stato poi il passaggio, molto ripreso dai media, sulla natura dell’essere umano come uomo e donna, contro ogni manipolazione. Il Papa ha parlato di una “metafisica non superata”: cosa significa?
Il Papa ha preso le mosse dallo Spirito Santo come creatore, che è elemento essenziale del Credo cristiano. A partire da qui, ha svolto il discorso intorno al fatto che lo Spirito creatore ha immesso nel creato un disegno che è una sorta di struttura matematica, un disegno ragionevole, ordinato. Il mondo non è un accumulo di realtà affastellate dal caso, ma è tenuto insieme da questo grande disegno, il quale che consente alle moderne scienze della natura di funzionare, e senza del quale verrebbe meno la capacità prevedere i fenomeni e di fare calcoli. Oltre al grande ordinamento del cosmo, il Papa ha parlato poi dell’ordinamento dell’uomo, che è maschio e femmina secondo una struttura che è letteralmente metafisica: non è qualcosa di manipolabile, che può essere variato a piacimento. Anzi, pretendere di variare questo ordine vuol dire intaccare la natura dell’uomo, e di conseguenza auto-distruggersi. Quindi – ha concluso il Papa – il creato va difeso non soltanto nelle foreste, nell’acqua e nell’aria, ma anche nell’uomo.
Il richiamo all’equilibrio del cosmo e delle regole matematiche che lo spiegano si collega ai richiami scientifici fatti durante l’Angelus di domenica. Che valore culturale ha questo rilancio del discorso scientifico?
Naturalmente il Papa all’Angelus non ha parlato dettagliatamente della questione, ma ha fatto un rapido accenno alla sostanza del discorso. Egli è partito dal dato liturgico della celebrazione del Natale in cui il “Sol iustitiae” coincide col sole naturale, quando cioè l’avvento di Cristo luce del mondo coincide con la ripresa di una maggior durata della luce solare; e a tal proposito ha fatto riferimento all’obelisco di Piazza San Pietro come gnomone di una grande meridiana, ricollegandosi poi a Galileo e all’anno astronomico che si aprirà fra poco. Questo è servito per dire quello che poi nel discorso di ieri è stato espresso in maniera esplicita: che i cieli narrano la gloria di Dio, una gloria che non è disordinata ma che è una meravigliosa sinfonia di luce, di colori e di strutture matematiche che governano il cosmo.
Quali altri elementi del discorso di ieri sono particolarmente importanti?
C’è un altro elemento rilevante che bisogna sottolineare. Sviluppando le considerazioni sull’ordine naturale delle cose e dell’uomo, e sul valore metafisico di questo ordine, il Papa ha sostenuto ancora una volta una difesa energica dell’Humanae vitae. È vero che il Papa ha fatto un accenno esplicito alle critiche anche cattoliche ai viaggi e alle Giornate della Gioventù; ma altrettanto sicuro in quest’ultimo passaggio è il riferimento a una critica frontale all’Humanae vitae, che proviene anche da parte cattolica ed ecclesiastica, nonché cardinalizia. Inutile nascondere che tale critica arriva in particolare dal Cardinale Carlo Maria Martini, il cui ultimo libro in cima ai best-seller dei saggi contiene un intero capitolo totalmente dedicato a questo punto. Si tratta dunque di una critica in corso, non di una cosa del passato; e il Papa su questo ha esposto chiaramente il suo pensiero.


ELUANA/ La bocciatura della Corte europea? Non mette un argine all'illusione dell'uomo perfetto - Redazione - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
La Corte europea dei diritti dell’uomo di Starsburgo ha giudicato “irricevibile” il ricorso presentato da 34 tra associazioni e tutori di soggetti disabili contro la “sentenza Englaro”, rigettandolo quindi senza valutare nel merito le sue argomentazioni. Ilsussidiario.net ha raggiunto l’avvocato Rosaria Elefante promotrice, insieme all’avv. Alfredo Granata, di questo ricorso, di cui ha ospitato già la voce di Claudio Taliento, marito e tutore di Ada Rossi, persona in stato vegetativo prima firmataria del ricorso per dare ai suoi lettori la possibilità di leggere e valutare le loro argomentazioni.


Avvocato Elefante, come hanno reagito le associazioni e le persone promotrici del ricorso presso la Corte europea dei diritti dell’uomo innanzi alla dichiarazione di irricevibilità?

Ho parlato solo con alcune delle associazioni; prendiamo atto del parere della Corte. Certamente sarebbe stato preferibile che il ricorso venisse valutato nel merito. La Corte non ha dato né ragione, né torto a nessuno: semplicemente non ha ritenuto soddisfatti tutti i presupposti necessari per avanzare un ricorso presso la sua giurisdizione. La Corte ha riunito tutti i ricorsi, e li ha dichiarati tutti irricevibili perché mancanti di un presupposto, ossia la cd. “legittimità ad agire”. Secondo la Corte per fare ricorso si deve essere qualificati come “vittime dirette o indirette”, e tali sono solo i familiari, il curatore e il tutore.


Quindi il ragionamento del decreto della Corte d’Appello di Milano non è rafforzato da tale dichiarazione?

No, per niente, anzi: nessuna delle agenzie ha riportato la parte più importante contenuta nella dichiarazione di irricevibilità. In tale dichiarazione, infatti, viene indicato molto chiaramente che quanto indicato dalla Corte d’Appello di Milano non è obbligatorio: la decisione della Corte d’Appello è un mero atto autorizzativo. È doverosa una riflessione da parte di tutti coloro che hanno salutato il decreto della Corte di Appello come una quasi-legge, quando invece è un semplice atto autorizzativo, non ha carattere vincolante. La Corte d’Appello attribuisce specificamente al tutore la facoltà di interrompere l’idratazione e l’alimentazione: se il tutore non esercitasse tale autorizzazione, non incorrerebbe in alcunché di illecito. Questo punto emerge con assoluta chiarezza dalla dichiarazione di irricevibilità emesso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.


Eppure c’è chi ha forzato il significato di questa dichiarazione, affermando che ora il decreto di Sacconi sia da ritirare perché ormai anche la Corte europea di Strasburgo si è pronunciata.

A parte che la Corte non si è pronunciata nel merito; e poi non sono assolutamente d’accordo. Il provvedimento di Sacconi è un provvedimento a mio parere doveroso e giustissimo; è un atto di indirizzo di un paese civile, dove non viene sospesa idratazione e alimentazione a un soggetto altamente disabile, oltretutto che non può alimentarsi da solo. È un atto doveroso.


Il presidente emerito della Corte costituzionale, Mirabelli, a ilsussidiario.net diceva che Sacconi non entra in conflitto con le sentenze della magistratura.

Appunto, tra la sentenza e il provvedimento di Sacconi non c’è assolutamente incompatibilità. I due atti si rivolgono a due ambiti completamente diversi: uno si rivolge alle strutture pubbliche e private, perché non venga interrotta l’alimentazione ai soggetti incapaci e altamente disabili. Non ha nulla a che vedere con il decreto autorizzatorio disposto dalla Corte d’Appello di Milano.


Torniamo al ricorso presso la Corte di Strasburgo, quali erano le motivazioni (su cui la Corte non è entrata nel merito)?

Le nostre erano motivazioni forti, perché nella decisione della Corte d’Appello non c’era stato contraddittorio tra le parti. La Cassazione, nella sentenza del 2007, pur discutibile, aveva stabilito almeno dei requisiti molto precisi che la Corte d’Appello di Milano avrebbe dovuto osservare per emettere il proprio decreto, vale a dire: 1) Compiere un rigoroso apprezzamento clinico sullo stato di salute di Eluana, e sull’irreversibilità del suo stato; 2) Ricostruire la personalità di Eluana. La Corte d’Appello non ha adempiuto né a uno, né all’altro dei due requisiti. Per quanto riguarda il quadro clinico, è stato nominato solo un Consulente tecnico di parte: il giudice non ha nominato nemmeno un CTU esterno, quindi lo stato di salute di Eluana non è stato vagliato in maniera imparziale. C’è il solo certificato medico di De Fante del 2002 (Consulente tecnico della parte che chiedeva l’interruzione dell’alimentazione), che dice che Eluana è in uno stato vegetativo irreversibile. Per dirle quant’è attendibile quel parere, alla fine di novembre cè stato un congresso di medicina in cui si è affermato che il cervello di quelle persone lavora, i soggetti in stato vegetativo provano disagio e lo manifestano. Tutto ciò non è stato considerato nelle indagini della Corte d’Appello. Per quanto riguarda la ricostruzione della personalità di Eluana non è stata proprio fatta: sono state sentite una compagna e 2 amiche. Eluana aveva 27 compagne di classe: possibile che solo 1 si ricordava delle dichiarazioni di Eluana? Perché non si sono sentite le altre 26? Su tutti questi aspetti non c’è stato un contraddittorio valido.


Rispetto a questi abusi della magistratura non resta che approvare una legge sul testamento biologico?

Non sarei così drastica. In verita c’è un problema di fondo: giuridicamente, stante il nostro ordinamento giuridico, non saprei come si potrebbe legiferare in materia di testamento biologico. Secondo il nostro ordinamento giuridico esistono dei beni disponibili e dei beni indisponibili. Attualmente del bene vita non si può disporre. Nel codice civile si dice che ci sono atti personalissimi che non possono essere delegati a un terzo. Quindi, prima bisogna introdurre nel codice un concetto di delegabilità degli atti personalissimi, ma è molto problematica.


Eppure oggi pare che ci sia la convergenza politica sul testamento biologico...

E come lo risolveranno il problema? Anche io preferisco un provvedimento fatto dal parlamento e non dai magistrati. Eppure il nostro ordinamento stabilisce che gli atti personalissimi non sono delegabili. E poi bisogna considerare il problema dell’ “attualità del consenso”. Per qualsiasi contratto ci vuole un consenso attuale. Anche quanto stabilisco in un testamento, finché sono in vita posso revocarlo, ed è una prassi normalissima che la gente faccia testamenti e li modifichi. Ma una persona in stato vegetativo come fa? Non può, non può più revocare quanto ha detto, e nemmeno confermarlo.


Come prosegue ora la vostra battaglia? Dopo la bocciatura di Strasburgo non resta che “tornarsene a casa” dall'Europa?

Staremo a vedere come si evolvono gli eventi. Sicuramente non me ne andrò “a casa”, ma quello che ho in mente non ve lo posso dire. Quel che è certo è che siamo di fronte a un fatto molto grave. Il problema è di dimensioni enormi. Con questa sentenza abbiamo aperto le porte all’eugenetica, e non ce ne stiamo rendendo conto.


SCUOLA/ Israel: i programmi prima di tutto. E attenzione a puntare troppo sull’autonomia - INT. Giorgio Israel - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Puntare tutti sui programmi, discostandosi il più possibile dall’impianto della legge Moratti; rivedere il sistema scolastico generale, lasciando in secondo piano per ora l’autonomia e il ruolo delle Regioni. Questa l’opinione di Giorgio Israel, docente di Matematica alla Sapienza di Roma, e collaboratore del ministero dell’Istruzione, per cui lavora a un Tavolo per ridefinire i profili di formazione degli insegnanti.
Professor Israel, dunque secondo lei la Gelmini ha fatto bene a discostarsi dall’impianto generale della riforma Moratti: perché?
Il problema che io vorrei porre al centro – di cui solitamente nessuno parla – è quello dei contenuti, cioè dei programmi. Bisogna chiedersi quali implicazioni avrebbe, proprio dal punto di vista dei programmi, l’attuazione della riforma Moratti. In effetti è vero che i regolamenti della Gelmini, implicando tagli orari molto forti, hanno portato sotto certi aspetti a uno stravolgimento dell’impianto presente nella legge Moratti. Ma personalmente ritengo che tali cambiamenti di direzione siano del tutto salutari, e anzi in alcuni casi insufficienti. Quindi la pausa di riflessione di un anno può servire proprio per approfondire certi elementi che finora sono stati solo abbozzati.
E cosa ci sarebbe di positivo secondo lei in queste modifiche?
Una cosa molto importante è che siano state eliminate materie come l’educazione all’affettività, l’educazione stradale o l’educazione alla cittadinanza. Quest’ultimo aspetto, in particolare, mi pare che coincidesse con l’educazione alla cittadinanza del governo Zapatero. E non si può essere schizofrenici: condannare per statolatria Zapatero, e poi non rendersi conto di quello che succede qui da noi. Poi ho visto che la Commissione Cultura della Camera ha emanato una raccomandazione relativa all’implementazione dell’educazione all’affettività nella scuola primaria, e questa è una cosa che mi preoccupa moltissimo. Su questo bisogna vigilare; e da questo punto di vista i tecnici del ministero hanno secondo me lavorato bene. Sono infatti stati limati e migliorati molti aspetti critici dei programmi che derivavano dalla legge Moratti.
Veniamo alle critiche: c’è qualcosa che non condivide dei regolamenti della Gelmini?
Come già accennavo, la nuova impostazione dei programmi deve imporre una riflessione più profonda di quella fatta fino ad ora; ecco perché sono contento che il tutto sia stato rinviato. L’impostazione dei programmi che emergevano dalla riforma Moratti tendeva alla scuola olistica, a livellare il più possibile la dimensione disciplinare: questa è una cosa pessima che potrebbe portare alla catastrofe della scuola superiore italiana. Quindi, rispetto ai regolamenti della legge Moratti, bisogna fare delle modifiche ancor più sostanziali, introducendo una maggiore distinzione disciplinare e lasciando perdere tutto il ciarpame ideologico relativo alla scolastica delle competenze.
Lasciamo da parte un attimo il confronto con la Moratti; ci sono altri elementi che non la convincono nei provvedimenti della Gelmini?
Sono preoccupato dall’introduzione del liceo delle scienze umane. In realtà sappiamo che questo liceo non è altro che una riproposizione delle magistrali: però allora bisognerebbe dirlo esplicitamente, e chiamarlo liceo pedagogico. Le scienze umane si sa cosa sono: sono la storia, l’antropologia, la sociologia e così via. La struttura dei programmi di questo liceo è una cosa aberrante: ci sono spezzoni di scienze umane inserite nel tessuto delle scienze pedagogiche. Ecco: il dibattito culturale da aprire è proprio su questione come questa. E poi bisogna evitare che venga introdotta nei tecnici una materia come “scienze integrate”. I tecnici hanno una grande tradizione dovuta al fatto di aver sempre avuto insegnanti con formazioni distinte, dove ciascuno insegnava la materia specifica su cui si era laureato. Introdurre una materia unificata porterebbe alla perdita di questo, riproponendo lo stesso errore delle medie, dove chi è laureato in chimica può insegnare matematica.
Giuste queste preoccupazioni; però ci sono altri elementi di critica sostanziale all’impianto generale dei provvedimenti della Gelmini. Pare che ci sia un ritorno a una visione statalista, per cui tutto viene deciso dal centro. Cosa ne dice?
Secondo me è giusto guardare al sistema complessivo. Io sono anche favorevole allo sviluppo delle autonomie; ma al momento dobbiamo ragionare sul fatto che abbiamo una struttura grandiosa che è la scuola pubblica, e che tale rimarrà per lungo tempo. Abbiamo una scuola in condizione critica, e quando ci si ritrova in questa situazione non si risolvono i problemi con una spinta drastica verso l’autonomia. Bisogna in primo luogo cercare di “imbullonare” il sistema, di farlo funzionare, come è stato fatto nella scuola primaria, con provvedimenti di carattere generale. Pur se hanno sapore un po’ centralistico, questi provvedimenti servono a creare le condizioni perché il sistema risanato possa poi procedere ad altri sviluppi. Ma alla medicina dell’autonomia in quanto tale non credo molto. E non riesco a vedere nelle proposte di legge che sono state fatte in merito qualcosa di convincente. Per esempio: veramente pensiamo che il reclutamento di istituto possa portare a un miglioramento delle scuole?
Effettivamente non sono in pochi a pensare che questo possa portare a un reale miglioramento…
Io non credo: per me è una pazzia. In futuro, in una realtà veramente cambiata, si potrebbe anche arrivare a questo. Ma se ora avessimo un’assunzione diretta da parte dell’istituto significherebbe in alcune parti d’Italia consegnare la scuola alla malavita organizzata, aprendole un nuovo terreno di attività. Non possiamo delegare a un piccolo preside della Calabria il fatto del reclutamento. Allo stesso modo sono un po’scettico sul fatto della regionalizzaione, perché non credo molto nella virtù del “locale”. Noi dobbiamo formare la preparazione di base e questa deve avere un carattere di omogeneità. L’idea dell’aggancio al territorio, della funzionalizzazione di un istituto tecnico alle esigenze produttive del territorio secondo me è sbagliato. E poi dov’è che funziona un modello del genere? Ci sono paesi dove questo avviene e funziona? A questo si aggiunga poi il fatto che noi abbiamo una struttura produttiva altamente frammentaria, con moltissime industrie piccole, e quindi a basso livello tecnologico. L’aggancio al territorio non porta a uno sviluppo di qualità. Bisogna pensare al sistema in generale. E secondo me, come ho detto all’inizio, il punto essenziale è quello di puntare tutto sui programmi. Il resto viene di conseguenza.


VANGELI/ Socci: ecco la mia indagine, svolta al lume della ragione - INT. Antonio Socci - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
In un periodo in cui sembra essere tornata di “moda” la figura di Cristo, oggetto di speculazioni storiche, filosofiche e addirittura giornalistiche che ultimamente sembrano, a vedere le numerose pubblicazioni in commercio, appannaggio dei maîtres à penser del laicismo, Antonio Socci propone la sua “indagine”. Uno studio rigoroso e obiettivo, sebbene l’autore non neghi una certa simpatia nei confronti del “ricercato”, che si pone a distanza da coloro che con la scusa dell’osservazione scientifica sfrondano l’immagine di Gesù da qualsivoglia connotazione divina per ridurla o alla dimensione esclusivamente morale e rivoluzionaria o a un ultimo residuo di mitologia.
Indagine su Gesù è il titolo dell'ultimo libro di Antonio Socci. Come mai, gli chiediamo, ha deciso di utilizzare proprio il termine “indagine”?
Anche se mi pare ovvio che dal volume traspaia la mia personale passione per quel nome, per quel volto, per quella persona, la mia vuole essere una ricerca laica. Nel senso di una valutazione obiettiva e molto concreta dei fatti, al di là della pre-conoscenza religiosa. Faccio un esempio: le profezie. Come se facessi un’inchiesta giornalistica, mi sono immedesimato con chi dovesse ricercare su un personaggio storico ed ho scoperto che è stato preceduto da mille e cinquecento anni da profezie che hanno predetto nel dettaglio la sua vicenda personale e persino il tempo in cui sarebbe apparso al mondo. Questo, come dice Guitton, innanzitutto pone una domanda alla ragione. Se partiamo da una precomprensione religiosa, sembra tutto un po' scontato; da un punto di vista laico è una cosa che stupisce e sconvolge.
Per questo il prologo del libro è la storia di uno studioso, Antony Flew, professatosi ateo per decenni e poi giunto all'ammissione dell'esistenza di Dio?
La ragione di questa mia scelta è spiegata da una dichiarazione dogmatica del Concilio Vaticano I che, riprendendo un’antica tradizione della Chiesa, dice «se qualcuno dirà che l'unico vero Dio, nostro Creatore e Signore, non può essere conosciuto con certezza dal lume naturale della ragione, attraverso le cose che da Lui sono state fatte: sia anatema». Ciò dimostra che nessuno come la Chiesa esalta la ragione. Sono i razionalisti che la svalutano, ritenendola incapace di arrivare a questo culmine. D'altro canto quel testo dogmatico mette in evidenza qual è oggi il vero problema: che non si usa la ragione. Lo stesso non fare i conti con i fatti, non essere leali con le fonti storiche cui si assiste quando si tratta di Gesù è uno svilimento della ragione.
Infatti si dice, era scritto su un quotidiano proprio domenica scorsa, che il Vangelo non ha nulla di storico.
E invece sono pochi i testi che possono vantare la storicità dei Vangeli. Pensiamo ad un personaggio storico come Alessandro Magno: gli autori che ne parlano vengono quattrocento anni dopo di lui. I manoscritti di Platone che possediamo sono di mille e duecento anni dopo la sua vita. Così i codici degli storici romani; il manoscritto più antico del De bello gallico è del IX secolo. Gli autori dei Vangeli, invece, testimoniano fatti avvenuti nella loro generazione. A cavallo tra il primo e il secondo secolo abbiamo circa cento frammenti di papiri che riportano brani evangelici. Il più antico frammento del Vangelo di Giovanni è del 110; la scuola esegetica contraria alla storicità dei vangeli pensava che il testo giovanneo fosse stato scritto nel terzo secolo e poi si è scoperto quel frammento e la loro tesi è crollata. E infatti gli scavi archeologici hanno dimostrato che Giovanni descrive molto precisamente i luoghi della vicenda di Cristo, soprattutto Gerusalemme. Abbiamo manoscritti completi dei Vangeli già attorno al 300, con una continuità e fedeltà dei testi straordinaria. Insomma una sicurezza “storica” eccezionale.
Ma va aggiunta una cosa importante. A testimonianza della veridicità dei fatti evangelici dodici uomini, che erano molto concreti e non andavano dietro a «fantasie artificiosamente inventate» come dice Pietro, hanno dato la vita. Loro e molti altri hanno sopportato il martirio per attestare che quei fatti sono veri e loro li hanno visti coi loro occhi e toccati col le loro mani.
Bisogna avere un grave pregiudizio ideologico per non riconoscere che i Vangeli riportano testimonianze oculari. Le varie “Vite di Gesù” di matrice illuminista e idealista hanno come punto di partenza l'odio per il soprannaturale; vogliono «strappare da Gesù la sua veste soprannaturale per buttargli addosso i suoi panni da comune ebreo» come ha detto Schweitzer. Questo odio si è espresso nell'esclusione pregiudiziale della possibilità che il soprannaturale irrompa nel mondo. I miracoli non possono accadere; tutto ciò che nel Vangelo parla di questo viene dichiarato non credibile e quindi lo si fa fuori. Ma la possibilità del miracolo si può indagare andando a vedere se “oggi” accadono i miracoli. Alexis Carrel, scettico, è andato a Lourdes e si è trovato davanti al fatto del miracolo e si è convertito.
Come mai queste idee, sostanzialmente vecchie, tornano a galla adesso?
È vero, sono idee già confutate dall'esegesi cattolica e smentite dalle ricerche archeologiche degli ultimi trent'anni. Oggi vengono presentate come scoperte a causa dell'ignoranza diffusa, che permette di presentare come scoop cose assolutamente pacifiche e vecchissime. Ma credo che la vera tragedia sia stata che dopo il Concilio l'esegesi cattolica, come ha ricordato Benedetto XVI, ha dimenticato il patrimonio di erudizione accumulato nei decenni per appiattirsi sulla esegesi protestante e razionalista.
Penso anche che oggi, crollate le ideologie, la forza e il fascino di Gesù siano ancora più dirompenti che in passato; per cui molti cercano di mettere dei paletti preventivi.
Alla fine del libro lei scrive che «per fare i conti davvero con Gesù bisogna guardare sinceramente se stessi, la propria vita, il dramma dell'umanità e gli immensi desideri del nostro cuore».
Mi è capitato di parlare a dei ragazzi di liceo che mi hanno posto il problema di quale sia l'approccio scientifico ed obiettivo al “caso” Gesù. Prima ho cercato di mostrare che l'obiettività scientifica è un mito, perché ogni conoscenza è in qualche modo è parziale e questo è ovvio e normale. Ma soprattutto ho cercato di spiegar loro che nei confronti di Gesù c'è una conoscenza che non mente: è il fatto che Lui corrisponde profondamente a tutto ciò che noi siamo, attendiamo, cerchiamo e ci domandiamo. Non siamo dei ricercatori asettici che col camice bianco analizziamo una cellula; siamo esseri desideranti che fanno i conti ogni istante con la solitudine, col desiderio e l'incapacità di essere amati e di amare, con la brancolante ricerca del senso della vita. Tutto questo groviglio infuocato di domande e di aspettative nell'impatto con Gesù reagisce, vibra, si stupisce e si meraviglia. Gesù ha un alleato dentro di noi. Questa è una forma di conoscenza assolutamente certa, perché l'uomo conosce con tutto il suo essere; è la formula della conoscenza dell'innamorarsi.


RESPONSABILITÀ PER IL CREATO - UNA TUTELA NON PARZIALE NÉ DEPOTENZIATA - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 23 dicembre 2008
Nel discorso che ha pronunciato ieri nel corso dell’udienza alla Cu­ria romana, in occasione degli auguri natalizi, Benedetto XVI ha offerto agli ascoltatori alcune sottili riflessioni teo­logiche. Una, in particolare, merita at­tenzione. Dopo aver ribadito che la Chiesa non può e non deve limitarsi a trasmettere ai propri fedeli soltanto il messaggio della salvezza, ma che «es­sa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico», il Papa ha aggiun­to che nel 'creato', che è oggi sotto­posto a grandi pericoli di distruzione e che va difeso come un bene appar­tenente a tutti, rientra ovviamente an­che l’uomo. È compito primario della Chiesa «proteggere l’uomo contro la distruzione di se stesso».
È facile immaginare che queste paro­le del Papa troveranno ampio consen­so in tutti coloro che vedono con preoccupazione il degrado ambienta­le come un’autentica minaccia per la sopravvivenza stessa del genere uma­no. Ma il Papa va al di là di queste pur giuste preoccupazioni, chiaramente da lui pienamente condivise. «Le foreste tropicali – egli ha detto – meritano, sì, la nostra protezione, ma non la meri­ta meno l’uomo come creatura, nella quale è iscritto un messaggio che non significa contraddizione della nostra libertà, ma la sua condizione». Se l’uo­mo corre un pericolo di distruzione, è anche perché abusa della propria na­tura, affidandosi ciecamente a illuso­rie pretese di autoemancipazione, tra le quali Benedetto XVI cita esplicita­mente quella del 'gender', l’ideologia secondo la quale l’uomo sarebbe le­gittimato a scegliere e a elaborare in sovrana e insindacabile libertà i pro­pri orientamenti pulsionali, dato che l’identità sessuale – maschile e fem­minile – del nostro corpo andrebbe considerata alla stregua di un irrile­vante dato biologico. La questione è cruciale. Teoretica­mente essa rimanda ad una questio­ne metafisica, quella della natura del­l’essere umano, che – dice il Papa – non può essere ritenuta 'superata'. Teologicamente, essa investe il pro­blema dell’'ordine della creazione', che siamo chiamati a rispettare, nella consapevolezza che qualsiasi mani­polazione di quest’ordine sul piano spirituale è un’autentica offesa a Dio e sul piano materiale è una minaccia per l’uomo. La questione possiede però anche un suo rilievo mediatico, che non va trascurato. Si sono di re­cente moltiplicate sui mass-media le critiche alla fermezza con cui la Chie­sa sta prendendo le distanze da di­chiarazioni, atti di indirizzo, conven­zioni nazionali e internazionali, nelle quali ( spesso – perché non dirlo? – subdolamente) sono stati introdotti, nella pretesa di denunciare qualsiasi discriminazione, indebiti riferimenti alla logica del 'gender'.
Spiace rilevare come studiosi di pur al­to profilo – si veda l’editoriale di Carlo Galli, su Repubblica di ieri – si dimo­strino non in grado di percepire quale sia la vera posta in gioco. Insegnare ai bambini e ai ragazzi, nel contesto di u­na disciplina scolastica quale l’Educa­zione alla Costituzione che il matri­monio non presuppone la diversità sessuale (come avviene in Spagna) o imporre che nei sussidiari delle scuo­le elementari non si usino termini co­me 'papà e mamma' (come succede in Inghilterra), perché portatori di va­lenze discriminatorie (!!!), non signifi­ca insegnare pluralismo e tolleranza, ma veicolare con l’autorevolezza che la scuola dovrebbe possedere (ma che sempre meno possiede) una visione deformante dell’identità umana. «È ne­cessario che ci sia qualcosa come una ecologia dell’uomo, intesa nel senso giusto», ha detto ieri il Papa. A quando una franca discussione su questi temi, liberata da pregiudizi laicisti, divenuti oramai soffocanti e insopportabili?


ACCOMPAGNARE UNA MADRE FINO ALL’ULTIMO RESPIRO - L’inaspettata Bellezza dentro il dolore – Avvenire, 23 dicembre 2008
C aro Direttore, il 17 dicembre è morta mia madre per infarto intestinale, una complicazione subentrata alla malattia di cui soffriva, il morbo di Alzheimer, che le era stato diagnosticato nel 1998, all’età di 69 anni.
Questo per me ha voluto dire prendermi cura di lei come ci si prende cura di un bambino piccolo, sapendo però che invece di educarlo a crescere lo si accompagna alla morte.
Ho potuto stare con lei con questa coscienza, ogni giorno e ogni notte, grazie alla compagnia di alcuni amici, che una volta don Giussani aveva definito così: compagnia guidata al Destino. Il 17 dicembre, primo giorno della novena del Natale e san Lazzaro di Betania, il Destino di mia madre si è compiuto, e ora lei è davanti a Colui che l’ha chiamata alla vita. E che ha chiamato anche me.
Decidere di stare con lei fino alla fine è stata una scommessa vincente, perché non sento affatto di aver sprecato la mia vita o di essermi liberata di un peso, mi sento invece come si sentirebbe un’artista che ha finito di scolpire la sua opera e la guarda in silenzio.
Ho passato con lei questi ultimi giorni tenendola sempre per mano (anche perché era lei che non me la lasciava mai) e tutte le volte che la lotta per la sopravvivenza le dava un po’ di tregua e io entravo nell’orizzonte del suo sguardo, lei mi sorrideva; mi guardava e sorrideva, dato che da tempo, avendo perso la capacità di esprimersi a parole, il suo modo di relazionarsi con le persone era il sorriso.
In quei momenti mi sono domandata: ma c’è qualcosa che è più forte del dolore? del dolore che ti lacera, che ti ammazza, che ti farebbe maledire di essere venuto al mondo?
Guardando il volto di mia madre che mi sorrideva in quella circostanza così estrema, posso dire di sì: c’è qualcosa che è più forte, che vince il dolore. Altrimenti non si spiegherebbe come fa, una persona che soffre così tanto, a essere felice; perché mia madre era felice per il solo fatto che io fossi lì con lei. Con lei fino all’ultimo respiro.
Ecco, il bello della vita è questo: vivere tutto fino in fondo, l’amore e il dolore, senza perdersi neanche un istante di quella Bellezza, strana e misteriosa, che invade la nostra vita e che ci fa piangere e ridere insieme, in una prospettiva che, di schianto, spalanca le porte dell’Eterno adesso, facendoci intuire che la scommessa sulla vita la si vince ora, o mai.
Antonella Cavagnoli


LA DIFESA DELLA VITA - «Lieve, tenace è la vita» Teatro civile per Eluana - L’iniziativa promossa da «Scienza&Vita» per invitare alla riflessione sulla dignità della persona - Monologo di Rondoni su Sat2000 - Sul palco anche Mario Melazzini, oncologo malato di Sla e quattro giovani cantanti liriche – Avvenire, 23 dicembre 2008 - DA ROMA PINO CIOCIOLA
Il letto è in metallo, ha le len­zuola bianche e la copertina bianca, come bianchi sono il comodino e l’abat jour poggiata sopra. Un letto d’ospedale. Dietro, una porta, solo una porta, an­ch’essa d’una stanza di ospedale. È tutto qui il palco. La scenografia è così. Scarna, essenziale. Pode­rosa. Un graffio all’anima, ieri se­ra, appena entri nella sala del­l’Auditorium Parco della musica di Roma. E stai per assistere a ' Lieve, tenace è la vita': serata di teatro civile organizzata da “Scien­za & vita” insieme a Sat2000 ( che la manderà in onda questa sera al­le 21,40 replicandola alle 9,05 do­mattina).
Un’ora e mezza – il cui filo con­duttore è un monologo del poeta Davide Rondoni – curata da Fran­cesco Porcelli e con la regia di Pi­no Leoni. Un’ora e mezza, come l’ha voluta ' Scienza & vita', « per Eluana e per tutti noi » , aperta e chiusa da quattro meravigliose vo­ci liriche di altrettante ragazze.
La luce bianca è forte e sparata dritta verso il leggìo. « Dicono: è fi­nita. Dicono: non ha vera vita. Io non so, sono solo un uomo delle pulizie. Ma se non è vita, cosa è questa presenza che tanto movi- menta, inquieta, tormenta? » , re­cita Luca Ward. E la ferita di quel graffio brucia un po’ meno.
Il letto è alle sue spalle: presenza ingombrante e dolce sulla scena. Un letto che è vuoto eppure ha so­pra Eluana. Ha le donne e gli uo­mini che vivono come lei: chi vie­ne considerato ' morto' eppure il suo cuore batte, eppure respira, deglutisce, è amato.
Buio e s’accende lo schermo quat­tro volte interrompendo il mono­logo, ma legandocisi strettamen­te. Sono le testimonianze. Quella di un medico, un altro medico e ancora un altro: specialisti che hanno a che fare quotidianamen­te con chi viene considerato 'mor­to'. Poi quella di un uomo il cui fi­glio è morto dopo un anno e mez­zo di ' stato vegetativo' e adesso si occupa e si batte per chi non può parlare perché in quello ' sta­to'. Tutti loro lo sanno, l’hanno imparato: la dignità della vita – an­che quando di quest’ultima si per­cepisce un barlume appena – non è mai scalfita. Umanamente. Ra­gionevolmente. Scientificamente. Il letto bianco d’ospedale è avvol­to di controluce. La suggestione di immagini e parole è forte come l’emozione che suscitano, però le si deve tenere a bada: sono stati d’animo che possono ingigantirsi fino a deformare le realtà, specie se si sta comodamente seduti in un magnifico teatro. Mario Me­lazzini no, lui è un uomo in carne e ossa.
Sale sul palco trascinandosi con la sua compagna: la Sla, Sclerosi la­terale amiotrofica. Melazzini è un oncologo costretto su una sedia con le ruote, che si nutre attraver­so un sondino gastrico percuta­neo, che la notte senza un aiuto meccanico quasi non respirereb­be. Lui non è pericolosa sugge­stione e neppure emozione che ri­schia d’essere fiammata di un i­stante. Lui parla di speranza e gioia, ma che lo dica conta meno che ne sia una materializzazione. In carne, ossa e cuore.
Luca Ward continua a recitare: « Piccola » , la chiama l’uomo delle pulizie. E ora è davanti ad Eluana: « È duro stare nella tua stanza. Co­me stare su un precipizio immen­so. Ci vuole senso dell’equilibrio e anche il senso dell’immensità » . È un uomo semplice. E proprio per­ché tale capace, ancora, di trepi­dare e sperare davanti alla fragi­lità: « C’è un mare qui, e ti vorrei sollevare sulle onde, tenerti in braccio, e farci insieme cullare. È delirio o forse è l’unica visione vi­tale? » . Applausi. Fra lacrime si­lenziose.


tra Shakespeare, Melville e Vico - «Al mito del cinema di Hollywood preferisco Thomas Mann e De Sica» - DI CESARE PAVESE, Avvenire, 23 dicembre 2008
Sono ormai dieci anni che la critica ha la bontà di occuparsi regolarmente di me, dei vari rac­conti che vado scrivendo, e negli ultimi anni ha detto su qualcuno di questi racconti cose assai lusinghiere e fini, cose che sarei felice di sottoscrivere io stesso. Sia quindi chiaro che se oggi farò un appunto a questa critica – pre­sa nel suo insieme – ciò non nasce da scioc­ca insofferenza di giovane autore, bensì – o­so dire – dal desiderio di collaborare al chia­rimento di uno dei problemi più discussi del­la nostra odierna cultura. Parlo del cosiddetto influsso nordamericano, cioè non soltanto di me, Cesare Pavese, ben­sì di quella piccola rivoluzione che, intorno agli anni della guer­ra, ha mutato – dicono – la faccia della nostra narrativa. Quando si parla di Hemingway, Faulkner, Cain, Lee Masters, Dos Passos, del vecchio Dreiser, e del loro depre­cato influsso su noi scrittori ita­liani, presto o tardi si pronuncia la parola fatale e accusatrice: neo­realismo. Ora, vorrei ricordare che questa pa­rola ha soprattutto oggi un senso cinemato­grafico, definisce dei film che, come «Osses­sione », «Roma città aperta», «Ladri di bici­clette », hanno stupito il mondo, americani compresi – e sono apparsi una rivelazione di stile che in sostanza nulla o ben poco deve al­l’esempio di quel cinematografo di Hollywood che pure dominava in Italia negli stessi anni in cui vi si diffondevano i narratori america­ni. Come avviene che la stessa etichetta defi­nisca con lode una cinematografia e con bia­simo una narrativa, che pure sono nate con­temporaneamente sullo stesso terreno intri­so di succhi nordamericani? L’appunto che vorrei fare alla nostra critica è questo: si è mai provata questa critica a defi­nire lo stile, la maniera narrativa nordameri­cana, ricercandone le radici e i modelli stori­ci? Lo sa questa critica che senza Kipling non si spiega Hemingway, senza l’espressionismo tedesco e i russi non si spiegano né O’Neill né Faulkner, senza Mau­passant non si spiegano Fitzgerald, Cain e tutti gli altri? Non occorre­va affatto uscire dall’Europa per diventare, come si dice, neoreali­sti. Ancora un passo e potremo so­stenere, con ragione, che furono gli americani a imparare in Europa il neorea­lismo narrativo (beninteso, come tecnica, non come spirito), così adesso stanno di fatto rim­parando da noi quello cinematografico.
Il tradurre – parlo per esperienza – insegna come non si deve scrivere; fa sentire a ogni passo come una diversa sensibilità e cultura si sono espresse in un dato stile, e lo sforzo per rendere questo stile guarisca da ogni tentazione che si potesse ancora nutrire di sperimentar­lo in proprio. Alla fine di un pe­riodo intenso di traduzioni - An­derson, Joyce, Dos Passos, Faulkner, Gertrude Stein – io sa­pevo esattamente quali erano i moduli e le movenze letterarie che non mi sono consentiti, che mi restano esterni, che mi lasciano freddo. Come sempre quando ci si mescola e avvez­za a gente molto esotica e impensata, mi ri­trovavo alla fine più isolato, più scontroso, ma anche più furbo, nel vecchio senso piemon­tese del termine. E poi, guardiamo alle date. Nessuno dei miei critici vuol credere che il mio racconto Carce­re sia stato scritto, nella forma in cui compa­re nel volume Prima che il gallo canti,
nel 1939 – e ciò perché col suo stile tutto evocativo e fantastico minaccia di rovinare la teoria ch’io abbia cominciato proprio in quell’anno col neorealismo all’americana. Ciò è semplicisti­co, e del resto nella carriera letteraria che mi si traccia non troverebbero posto libri come
Feria d’agosto o i Dialoghi con Leucò,
quei dia­loghi che sono forse la cosa meno infelice ch’io abbia messo sulla carta.
Mi si consenta di parlare della mia opera co­me se fosse quella di un altro, e io un critico che non ha nulla da perdere. Dirò dunque che quest’opera, cominciata scontrosamente in pieno periodo ermetico e di prosa d’arte, quando il castello della chiusa civiltà lettera­ria italiana resisteva imperterrito ai venti ga­gliardi del mondo, non ha sinora rinunciato alla sua ambigua natura, all’ambizione cioè di fondare in unità le due aspirazioni che vi si so­no combattute fin dall’inizio: sguardo aperto alla realtà imme­diata, quotidiana, «rugosa», e ri­serbo professionale, artigiano, u­manistico – consuetudine coi classici come fossero contempo­ranei e coi contemporanei come fossero classici, la cultura insom­ma intesa come mestiere. Della civiltà umanistica quest’opera vuole (sia detto con tutta umiltà) conservare il distacco contemplativo e formale, il gusto delle strutture intellettualistiche, la lezione dantesca e baudelairiana di un mondo stili­sticamente chiuso e in definitiva simbolico. Della realtà contemporanea rendere il ritmo, la passione, il sapore, con la stessa casuale im­mediatezza di un Cellini, di un Defoe, di un chiacchierone incontrato al caffè.
Esigenze difficilmente conciliabili, è chiaro. Ma ci sembra che il tempo sia giunto: o ades­so o mai più. Per far questo, va da sé che sarà necessario non essere sordi né all’esempio in­tellettuale del passato – il mestiere dei classi­ci, – né al tumulto rivoluzionario, informe, dialettale, dei nostri giorni. La crisi è, benin­teso, soprattutto politica. Prima che italiane le mie letture sono classi­che e poi sovente straniere. Massimi narrato­ri sono i greci Erodoto e Platone, scrittori che mirano non tanto al personaggio – come fan­no invece Omero e Sofocle – quanto al ritmo degli eventi o alla costruzione intellettualisti­co- simbolica della scena. Mi piace molto Shakespeare, ma non per la romantica ragio­ne che questi crea personaggi indimentica­bili, bensì per una più vera: il suo assurdo e meraviglioso linguaggio tragico (e anche co­mico), le terribili frasi o tirate del quinto atto in cui, per diversi che fossero i ca­ratteri dei personaggi, tutti dico­no sempre la stessa cosa. Mi pia­ce, come narratore, Giovanni Bat­tista Vico – narratore di un’avven­tura intellettuale, descrittore ed e­vocatore rigoroso di un mondo – quello eroico dei primi popoli – che mi ha sempre interessato e da anni fatto smettere ogni lettura a­mena per dedicarsi alle relazioni e ai docu­menti etnologici, – testi in cui si ritrova quel senso di una realtà simbolica e insieme fon­data su saldissime istituzioni che è la fonte prima di ogni poesia degna di questo nome. Infine, mi piace assai Herman Melville, il cui
Moby
ho tradotto, non so con quanta com­petenza, ma con molto trasporto una venti­na di anni fa e che ancora adesso mi serve di pungolo a concepire i racconti non come de­scrizioni ma come giudizi fantastici della realtà.
Questa lista di letture è, s’intende, solamente indicativa. Ma a che scopo fare un facile sfog­gio di nomi? Resterebbero i viventi, gli italia­ni viventi, ma a che scopo farsi degli amici in­teressati e dei nemici? Meglio evitare il tra­bocchetto e dichiarare – del resto, secondo verità – che il maggior narratore contempo­raneo è Thomas Mann e, tra gli italiani, Vitto­rio De Sica.
«Ai critici dico: senza gli europei non ci sarebbero né Faulkner, né Hemingway» Lo sguardo sulla realtà quotidiana e la lettura dei classici come «contemporanei»

lunedì 22 dicembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) 21/12/2008 16.35.44 – Radio Vaticana – Il Papa all’Angelus riflette sul mistero dell’Annunciazione e rende omaggio all’astronomia, poi invita a gustare la gioia di accogliere Gesù
2) Lettera Apostolica del Papa per il VII centenario della morte del beato Duns Scoto - CITTA' DEL VATICANO, domenica, 21 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Riportiamo il testo della Lettera Apostolica che Benedetto XVI ha inviato all'Arcivescovo di Colonia, il Cardinale Joachim Meisner, e ai partecipanti al Congresso scientifico internazionale in occasione del VII Centenario della morte del beato Giovanni Duns Scoto.
3) Più rispetto e assistenza per i malati mentali - Richiesta di "Cristiani per servire" - di Antonio Gaspari
4) Dannazione e redenzione nel cinema di John Ford - È la polvere la stoffa di cui è fatto il mondo - di Andrea Monda – L’Osservatore Romano, 21 dicembre 2008
5) La via dell'esodo lungo il deserto della Monument Valley - di Luca Miele – L’Osservatore Romano, 21 dicembre 2008
6) EDUCAZIONE/ Il "regalo" di Tatiana - Mario Mauro - lunedì 22 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
7) ELUANA/ Ventorino: quando dietro la parola “pietas” si nasconde il proprio egoismo - Don Francesco Ventorino - lunedì 22 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
8) SCUOLA/ Memorandum per il ministro Gelmini: si riforma solo ripartendo dall’educazione - INT. Giorgio Chiosso - lunedì 22 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
9) TENDE AVSI/ Paraguay: La cittadella dell'amore di Padre Trento - Redazione - lunedì 22 dicembre 2008 – IlSussidiario.net


21/12/2008 16.35.44 – Radio Vaticana – Il Papa all’Angelus riflette sul mistero dell’Annunciazione e rende omaggio all’astronomia, poi invita a gustare la gioia di accogliere Gesù
Le leggi della natura siano di stimolo per contemplare le opere del Signore. Benedetto XVI all’Angelus spiega il ruolo dell’astronomia per scandire i tempi della preghiera ed invita - a pochi giorni dal Natale – a prepararsi per accogliere il Redentore.
Il servizio di Roberta Gisotti:http://62.77.60.84/audio/ra/00143075.RMhttp://62.77.60.84/audio/ra/00143075.RM

Un’insolita lezione di astronomia del Papa, che è partito nella sua riflessione dal tema dell’Annunciazione - offerto dal Vangelo nella quarta domenica di Avvento - mistero cui ritorniamo ogni giorno recitando l’Angelus, la preghiera che ci fa rivivivere “il momento decisivo in cui Dio bussò al cuore di Maria e, ricevuto il suo sì incomincio a prendere carne in lei e da lei”. A pochi giorni dal Natale il Papa ha quindi invitato “a fissare lo guardo sul mistero ineffabile che Maria ha custodito per nove mesi nel suo grembo verginale:”

“Il mistero di Dio che si fa uomo. E’ questo il primo cardine della redenzione. Il secondo è la morte e risurrezione di Gesù, e questi due cardini inseparabili manifestano un unico disegno divino: salvare l’umanità e la sua storia assumendole fino in fondo col farsi carico interamente di tutto il male che le opprime”.

Mistero di salvezza che “oltre a quella storica, ha una dimensione cosmica”: “Cristo – ha sottolineato il Santo Padre - è il sole di grazia che, con la sua luce, trasfigura ed accende l’universo in attesa”. E la stessa Festa del Natale – ha spiegato il Papa – è legata al solstistizio d’inverno, che segna l’allungarsi delle giornate nell’emisfero boreale, e questo a partire dalle ore 12 del 21 dicembre.

Benedetto XVI ha ricordato che Piazza San Pietro è una meridiana, laddove il grande obelisco getta la sua ombra – la più lunga dell’anno in questi tempi - lungo una linea che corre sul selciato, verso la fontana sotto la sua finestra. Questo per rimarcare il ruolo dell’astronomia nello scandire i tempi della preghiera, come l’Angelus recitato al mattino, a mezzogiorno e a sera; per cui anticamente con la meridiana si conosceva il ‘mezzogiorno vero’ e si regolavano gli orologi.

Il Papa ha così colto l’occasione per segnalare l’Anno mondiale 2009 dell’Astronomia, indetto nel 4° centenario delle prime osservazioni al telescopio di Galileo Galilei. Diversi furono - ha poi rammentato - i pontefici cultori di questa scienza come “Silvestro II che la insegnò, Gregorio XIII, cui dobbiamo il nostro calendario, e San Pio X che sapeva costruire orologi solari”.

“Se i cieli, secondo le belle parole del salmista, “narrano la gloria di Dio”, anche le leggi della natura, che nel corso dei secoli tanti uomini e donne di scienza ci hanno fatto capire sempre meglio, sono un grande stimolo a contemplare con gratitudine le opere del Signore”.

Tornando al tema del Natale, impariamo - ha concluso Benedetto XVI - da Giuseppe e Maria il segreto del raccoglimento per gustare la gioia di accogliere Gesù:
“Prepariamoci ad accogliere con fede il Redentore che viene a stare con noi, Parola d’amore di Dio per l’umanità di ogni tempo”.

Dopo la recita dell’Angelus, nei saluti ai pellegrini di tutto il mondo, il Papa ha rivolto un indirizzo particolare a 50 novelli sacerdoti dei Legionari di Cristo, ordinati ieri dal cardinale Angelo Sodano nella Basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma, ed ancora all’associazione palermitana “Quelli della Rosa Gialla”, che ha realizzato un’opera teatrale ispirata alla vita di don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia 15 anni fa.


Lettera Apostolica del Papa per il VII centenario della morte del beato Duns Scoto - CITTA' DEL VATICANO, domenica, 21 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Riportiamo il testo della Lettera Apostolica che Benedetto XVI ha inviato all'Arcivescovo di Colonia, il Cardinale Joachim Meisner, e ai partecipanti al Congresso scientifico internazionale in occasione del VII Centenario della morte del beato Giovanni Duns Scoto.
* * *
BENEDETTO XVI
SOMMO PONTEFICE
Lettera Apostolica
al Nostro Venerato Fratello
Joachim Meisner, Cardinale di S.R.C.,
Arcivescovo di Colonia,
e a quanti da ogni parte del mondo partecipano
al Congresso scientifico internazionale
in occasione del VII Centenario della morte
del beato Giovanni Duns Scoto
Rallégrati, città di Colonia, che un giorno hai accolto fra le tue mura Giovanni Duns Scoto, uomo dottissimo e piissimo, il quale l'8 novembre del 1308 passò dalla vita presente alla patria celeste; e tu, con grande ammirazione e venerazione, ne conservi le spoglie.
I Nostri Venerabili Predecessori, Servi di Dio Paolo VI e Giovanni Paolo II, lo hanno esaltato con elevate espressioni; anche Noi ora vogliamo circondarlo di meritata lode e invocarne il patrocinio.
Giustamente perciò e meritatamente viene ora celebrato il settimo centenario del suo pio transito. E mentre, per questa felice occasione, in diverse parti del mondo si stanno pubblicando articoli e intere opere in onore del beato Giovanni Duns Scoto e si tengono congressi, tra i quali è ora in preparazione quello solenne di Colonia, che si svolgerà nei giorni 5-9 del prossimo mese di novembre, riteniamo essere dovere del Nostro servizio, in questa circostanza, dire alcune parole su un uomo così esimio, che si è reso tanto benemerito nel contribuire al progresso della dottrina della Chiesa e della scienza umana.
Egli infatti, associando la pietà con la ricerca scientifica, secondo quella sua invocazione: "II primo Principio degli esseri mi conceda di credere, gustare ed esprimere quanto è gradito alla sua maestà e innalza le nostre menti alla sua contemplazione" (1), con il suo raffinato ingegno così profondamente è penetrato nei segreti della verità naturale e rivelata e ne ha ricavato una dottrina tale da essere chiamato "Dottore dell'Ordine", "Dottore Sottile" e "Dottore Mariano", divenendo maestro e guida della Scuola Francescana, luce ed esempio a tutto il popolo cristiano.
Desideriamo pertanto richiamare gli animi degli studiosi e di tutti, credenti e non credenti, all'itinerario e al metodo che Scoto ha seguito per stabilire l'armonia tra fede e ragione, nel definire in tale maniera la natura della teologia da esaltarne costantemente l'azione, l'influsso, la prassi, l'amore, piuttosto che la pura speculazione; nel compiere questo lavoro, egli si fece guidare dal Magistero della Chiesa e da un sano senso critico in merito alla crescita nella conoscenza della verità, ed era persuaso che la scienza ha valore nella misura con cui viene realizzata nella prassi.
Ben saldo nella fede cattolica, egli si è sforzato di comprendere, spiegare e difendere le verità della fede alla luce della ragione umana. Pertanto null'altro si sforzò di fare se non di dimostrare la consonanza di tutte le verità, naturali e soprannaturali, che promanano da un'unica e medesima Fonte.
Accanto alla Sacra Scrittura, divinamente ispirata, si colloca l'autorità della Chiesa. Egli sembra seguire il detto di S. Agostino: "Non crederei al Vangelo, se prima non credessi alla Chiesa" (2). Infatti, il nostro Dottore non di rado pone in speciale risalto la suprema autorità del Successore di Pietro. Secondo il suo dire, "sebbene il Papa non possa dispensare contro il diritto naturale e divino (poiché il suo potere è inferiore ad entrambi), tuttavia, essendo il Successore di Pietro, il Principe degli Apostoli, egli ha la medesima autorità che ebbe Pietro" (3).
Pertanto la Chiesa Cattolica, che ha come Capo invisibile lo stesso Cristo, il quale lasciò i suoi Vicari nella persona del beato Pietro e nei suoi Successori, guidata dallo Spirito di verità, è custode autentica del deposito rivelato e ,regola della fede. La Chiesa è criterio saldo e stabile della canonicità della Sacra Scrittura. Essa infatti "ha stabilito quali sono i libri da ritenersi autentici nel canone della Bibbia" (4).
Altrove afferma che "le Scritture sono state esposte con quel medesimo Spirito col quale furono scritte, e così si deve ritenere che la Chiesa cattolica le abbia presentate con quel medesimo Spirito con cui ci è stata trasmessa la fede, istruita cioè dallo Spirito di verità" (5).
Dopo aver provato con vari argomenti, tratti dalla ragione teologica, il fatto stesso della preservazione della Beata Vergine Maria dal peccato originale, egli era assolutamente pronto anche a rigettare questa persuasione, qualora fosse risultato che essa non fosse in sintonia con l'autorità della Chiesa, dicendo: "Se non contrasta con l'autorità della Chiesa o con l'autorità della Scrittura, sembra probabile doversi attribuire a Maria ciò che è più eccellente" (6).
II primato della volontà mette in luce che Dio è prima di tutto carità. Questa carità, questo amore, Duns Scoto lo tiene presente quando vuole ricondurre la teologia ad un'unica espressione, cioè alla teologia pratica. Secondo il suo pensiero, essendo Dio "formalmente amore e formalmente carità" (7), comunica con grandissima generosità al di fuori di sé i raggi della sua bontà e del suo amore (8). E in realtà, è per amore che Dio "ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo" (Ef 1, 3-4).
Fedele discepolo di san Francesco d'Assisi, il beato Giovanni contemplò e predicò assiduamente l'incarnazione e la passione salvifica del Figlio di Dio. Ma la carità o l'amore di Cristo si manifesta in modo speciale non soltanto sul Calvario, ma anche nel santissimo sacramento dell'Eucarestia, senza il quale "scomparirebbe ogni pietà nella Chiesa, né si potrebbe - se non attraverso la venerazione del medesimo sacramento - tributare a Dio il culto di latria" (9). Questo sacramento inoltre è sacramento di unità e di amore; per mezzo di esso siamo indotti ad amarci scambievolmente e ad amare Dio come bene comune e da essere coamato dagli altri.
E come quest'amore, questa carità, fu l'inizio di tutto, così anche nell'amore e nella carità soltanto sarà la nostra beatitudine: "Il volere oppure la volontà amorevole è semplicemente la vita eterna, beata e perfetta" (10).
Avendo Noi all'inizio del Nostro ministero innanzitutto predicato la carità, che è lo stesso Dio, vediamo con gioia che la dottrina singolare di questo Beato riserva un luogo particolare a questa verità, che massimamente riteniamo degna di essere indagata ed insegnata nel nostro tempo. Pertanto volentieri venendo incontro alla richiesta del Venerato Fratello Nostro Joachim Meisner, Cardinale di S.R.C., Arcivescovo di Colonia, inviamo questa Lettera Apostolica con la quale desideriamo onorare il beato Giovanni Duns Scoto ed invocare su di Noi la sua celeste intercessione. Infine a coloro che in qualsiasi modo partecipano a questo congresso internazionale ed ad altre iniziative riguardanti questo esimio figlio di San Francesco, impartiamo di cuore la Nostra Benedizione Apostolica.
Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 28 ottobre 2008, quarto anno del Nostro Pontificato.
BENEDICTUS PP. XVI
______________________________________________________
1 DUNS SCOTUS, Tractatus de primo Principio, c. 1 (ed. MULLER M., Friburgi Brisgoviae, 1941, 1).
2 Idem, Ordinatio I d.5 n.26 (ed. Vat. IV 24-25).
3 Idem, Rep. IV d.33 q.2 n. 19 (ed. VIVES XXIV 439 a.)
4 Idem, Ordinatio I d.5 n. 26 (ed. Vat. IV 25).
5 Ibid., IV d.11 q.3 n. 15 (ed. Vat. IX 181).
6 Ibid., III d.3 n. 34 (ed. VIVES XIX 167 b).
7 Ibid., I d.17 n. 173 (ed. Vat. V 221-222).
8 Cfr idem, Tractatus de primo Principio, c.4 (ed. MULLER M., 127).
9 Idem, Rep. IV d.8 q.1 n.3 (ed. VIVES XXIV 9-10).
10 Ibid., IV d.49 q.2 n. 21 (ed VIVES XXIV 630a).

[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]


Più rispetto e assistenza per i malati mentali - Richiesta di "Cristiani per servire" - di Antonio Gaspari
ROMA, domenica, 21 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Il 20 dicembre si è celebrata la 38ma "Giornata dei diritti dell'handicappato mentale".
L'evento non ha avuto molto risalto sui mezzi di comunicazione di massa. Per questo motivo, ZENIT ha intervistato Franco Previte, presidente dell'Associazione "Cristiani per servire" (http://digilander.libero.it/cristianiperservire), che da anni si occupa del tema.
Perché questa ricorrenza?
Previte: Si celebra la 38ma "Giornata dei diritti dell'handicappato mentale" voluta dall'ONU per ricordare quanto nella sostanza ha come obiettivo il ribadire "che questo tipo di malato deve godere in tutta la misura possibile degli stessi diritti degli altri esseri umani", così come è stato voluto dall'ONU.
Tra questi diritti, (che condividiamo) :
il diritto alla vita, (no all'eutanasia);
il diritto ad essere riconosciuto come persona (prima che come "categoria");
il diritto ad avere una famiglia (cioè sostenere con i meccanismi della solidarietà sociale);
il diritto ad avere una migliore assistenza possibile (medica, riabilitativa);
il diritto alla scuola, (quando si può);
il diritto al lavoro, (quando è possibile);
il diritto a partecipare alla vita della comunità (religiosa, ricreativa, sociale).
Qual è la situazione in Italia e in Europa per l'assistenza agli affetti da malattie mentali?
Previte: In Italia è in atto un grande disorientamento sia verso i servizi sociali che sono carenti, sia verso le famiglie che sono state abbandonate al loro destino da moltissimo tempo. In Europa vi è una carente Normativa Comunitaria. Come abbiamo sottolineato nel nostro Ricorso n.44330/06 del 13 ottobre 2006 alla "Corte Europea per i Diritti dell'Uomo" di Strasburgo. Comunque in alcuni Stati ogni 3/5 anni viene rivista la legge sulla malattia mentale, cosa che non avviene in Italia.
Per esempio sono in enorme crescita fenomeni come l'anoressia e la bulimia. Due facce della stessa medaglia e consistono nella perdita o nell'eccesso di appetito che colpisce in maniera speciale le ragazze. Questa patologia si potrebbe definire uno stato di ansia che, se esagerato, comporta un rapporto errato con il proprio corpo, un difetto nutrizionale a danno della salute fisica e mentale. Esse sono manifestazioni di un disagio in una varietà di disturbi che interessano la sfera psichica dell'individuo.
L'anoressia e la bulimia sono gravi disturbi sotto il profilo medico-sociale. Nel 9% dei casi colpiscono i giovani fra i 9 e i 15 anni. Malattie come l'anoressia e la bulimia, unitamente ad altri "fenomeni", costituiscono una verità, una fondamentale dimostrazione di quanto sia grave il disagio sociale e di quanto siano urgenti interventi atti a migliorare la qualità dei servizi delle cure e dell'eventuale inserimento sociale dei "soggetti".
E' quindi urgente e necessaria una forte presa di coscienza del Parlamento e del Governo.
Come si può intervenire?
Previte: Come "Cristiani per servire" abbiamo richiesto nelle nostre Petizioni giacenti in Parlamento interventi a livello della prevenzione, della diagnosi, delle terapie, della pedagogia, delle istituzioni di ricovero della famiglia, dell'ambiente sociale, delle relazioni tra persona ed ambiente, dell'economia.
Prevenzione: della medicina prenatale ( esempio assistenza in gravidanza);
Diagnosi: dovere del medico e delle istituzioni sanitarie per la ricerca di deficit genetici;
Terapie: trattamento psico-farmacologico;
Pedagogia: rilevamento dei limiti di funzionamento intellettivo. Fondamentale è la scuola, e l'integrazione scolastica costituisce un obiettivo di grande civiltà.
Istruzioni di ricovero: sarebbero auspicabili piccole strutture di accoglienza con modelli di vita comunitaria che possono facilitare l'inserimento sociale.
Famiglia: essa costituisce l'anello più importante e più delicato nella catena degli interventi (specie verso i bambini), in quanto l'umanizzazione è tanto possibile quanto è maggiore la solidità dell'istituto familiare, esclusi i soggetti schizofrenici.
Ambiente sociale: può contribuire a ridurre il tasso di prevalenza del ritardo mentale.
Relazioni tra persona e ambiente: un ambiente ricco di stimoli, ma non ansiogeno, né coercitivo quale spazio verde, attività verso il mondo agricolo (accudire animali domestici da cortile, cultura fiori ecc.), nonché incontri con animali domestici, come passeggiate a dorso di cavallo, asini, oppure a piedi in compagnia di cani di razza Terranova, adatti per il loro carattere bonaccione, la cosiddetta "pet therapy".
Cosa è necessario in pratica?
Previte: E' essenziale e prioritario quanto abbiamo richiesto nella nostra Petizione n.5 assegnata alla 12ma Commissione Igiene e Sanità e n.6 alla III Commissione Esteri del Senato della Repubblica; e con la petizione n.9 assegnata alla 12ma Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati.
Queste necessità le ho già illustrate il 17 marzo 2005 nella Sala Verde di Palazzo Chigi in occasione della "Giornata di riflessione sulla depressione" e sono condensate in 9 punti essenziali:
1. Eventuale costituzione di un Fondo Speciale Economico (Dopo di noi)
2. Possibile attivazione della ricerca scientifico-farmacologica sulle malattie mentali
3. Aggiornamento assegni di assistenza.
4.Deducibilità dal reddito complessivo agli effetti IRPEF delle spese socio-alberghiere.
5. Riforma Ospedali Psichiatrici Giudiziari.
6. Proibizione della terapia elettroconvulsionante e braccialetto elettronico
7. Aumento posto letto da 15 a 30 negli Enti Ospedalieri.
8. Riqualificazione Operatori Sanitari ( Medici ed Infermieri).
9. Nelle strutture residenziali esistenti spazio verde.
La cronaca riporta spesso di tristi episodi nei quali sono protagoniste persone psichicamente instabili. Qual è il suo parere in merito?
Previte: Oggi assistiamo all'affermarsi del fenomeno della frammentazione delle "cose" e per questo è difficile e spesso vana la ricerca di un "senso". Scrisse il Santo Padre Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica "Fides et Ratio": Non pochi si chiedono se abbia ancora senso porsi la domanda sul senso".E' una degradazione della ragione senza ricercare la verità, senza ricercare la realtà. Oggi il cittadino che continua nella strada della morale ha il timore di perdere quei diritti che fanno parte dell'etica civile, cioè il rispetto della persona. I psicolabili "violentati" nei loro diritti e le loro famiglie abbandonate da molto tempo reclamano solidarietà e giustizia.
La patologia mentale colpisce a vari livelli, dalla depressione alla schizofrenia, ma continua a gemere sotto la cenere del silenzio e dell'indifferenza delle Istituzioni, mentre è crescente tra persone di ogni età, specie tra i giovani, di circa il 20% della popolazione, il 16% per varie forme di disagio mentale, il 4% per disordini mentali.
Per porre riparo a una situazione così grave non bastano manifestazioni esteriori, come quando accadono casi eclatanti, allora tutti fanno finta di "muoversi", e poi ....il "problema" svanisce nel giro di una notte!
I tempi della politica non tengono conto del dolore e delle difficoltà della gente sofferente!
Non possiamo non ricordare le finalità pastorali etico-sociali nel Messaggio dei Vescovi per la "30ma Giornata per la vita", perché è servire la vita anche "quando è scomoda e dolorosa anche per chi è gravemente ammalato".
La nostra viva riconoscenza, autentica e sincera, è rivolta oltre che al Santo Padre Giovanni Paolo II anche al Pontefice Benedetto XVI per le parole di sostegno, di denuncia e di impegno profuse con coraggio e senza mezzi termini nel Messaggio in occasione della 14ma Giornata Mondiale del Malato "sui problemi connessi col disagio mentale".
Che cosa propone l'Associazione Cristiani per Servire?
Previte: Servizi specifici ed adeguati in uguali strutture, questo abbiamo richiesto al Parlamento italiano e a quello europeo.
Molto importante è il "dopo di noi", cioè cosa accadrà ai malati mentali quando i parenti non ci saranno più. C'è bisogno di un sistema sociale studiato e programmato che si riveli idoneo ai bisogni assistenziali (anche economici) sulla autonomia della persona-malata in grado di garantire il domani.
In sede europea, con la Petizione n.146/99 inoltrata dalla nostra Associazione (la prima Associazione ad introdurre questa "problematica" in Europa), la UE ha riconosciuto primaria l'importanza della promozione della salute. Con un'altra Petizione del 21 dicembre 2004 si è voluto porre in evidenza l'inadeguata attenzione della Costituzione Europea sull'handicap mentale richiedendo un provvedimento legislativo, Risoluzione o Direttiva Comunitaria sui portatori di disagio psichico, soprattutto per una libera circolazione delle persone in sicurezza, già prevista dal Trattato di Schengen, a fronte dei gravi rischi per la diversificazione dei provvedimenti vigenti in ciascun Stato.
Respinta la Petizione per "incompetenza dell'Unione Europea nel settore della sanità pubblica compresa quella relativa alla malattia mentale", ho fatto ricorso alla "Corte Europea per i diritti dell'Uomo" di Strasburgo (rubricato al n.44330/06), con il quale si ritiene una violazione dei diritti inerenti il comparto socio-sanitario dal quale non è possibile non considerare la patologia mentale da parte della Costituzione Europea che ha disatteso, confuso, unificato il disagio psichico col patogeno fisico ritenuto uguale nel mondo della sofferenza e del dolore, come ha compiuto la "Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità" dell'ONU, ancora da ratificare da parte del Governo Italiano, richiesta fortemente voluta con le citate nostre Petizioni.
Attendiamo gli sviluppi formali del Ricorso alla Corte Europea, con la speranza che si addivenga ad una Sentenza definitiva di riconoscimento e di stimolo al Parlamento Europeo per una Direttiva Comunitaria uguale e con la stessa valenza in tutti gli Stati della Unione Europea.
Mentre il Governo italiano ha presentato un disegno di legge iniziante la ratifica della "Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità" che dovrà essere approvato dal Parlamento, noi abbiamo presentato un appello al Governo Berlusconi ed al Consesso Parlamentare, per sollecitare alcuni punti ritenuti prioritari ed indilazionabili, e cioè:
a.) ai sensi dell'art.43 la ratifica come consenso vincolante e nel rispetto delle dignità umana precise riserve ai sensi dell'art.47 e tali da escludere ogni possibile riferimento all'aborto, ad ogni metodo o modalità della salute riproduttiva;
b.) emendamento per riconoscere il termine giuridico di handicappato mentale ai sensi dell'art.47 da parte dell'Italia onde apportare, come recita l'art. 4 della "Convenzione", norme migliorative in sostituzione delle leggi 180 e 833 del 1978 in conformità con la legge n.104/1992;
c.) richiesta all'ONU di indizione di una " Giornata Mondiale sulla salute mentale" ;
d.) che il Parlamento adotti una legge-quadro di riordino dell'assistenza psichiatrica.


Dannazione e redenzione nel cinema di John Ford - È la polvere la stoffa di cui è fatto il mondo - di Andrea Monda – L’Osservatore Romano, 21 dicembre 2008
"Il mio nome è John Ford. Faccio western". Questa forse è la battuta più celebre di Sean Aloysious O'Feeney, nato alla fine dell'Ottocento da emigranti irlandesi e diventato famoso per le decine di film che hanno raccontato l'ultima grande epica della storia moderna, quella del Far West e della violenta e avventurosa nascita degli Stati Uniti d'America. Come osservava Ludovico Alessandrini, compianto e illuminato dirigente della Rai, se si mettessero insieme tutti i migliori film western di Ford se ne ricaverebbe una sorta di poema epico, degno di Omero, capace di raccontare attraverso i diversi "canti" - il primo film di Ford è del 1917, l'ultimo del 1966 - la nascita di una nazione sorta da quel continuo affrontare e superare la frontiera, il mondo selvaggio, l'ignoto, la sfida dell'integrazione e del melting pot. Con il solito acume il poeta argentino Jorge Luis Borges ha riassunto molto bene la questione affermando che: "Seppure per motivi commerciali, Hollywood ha salvato l'epica", e a John Ford spetta senz'altro il ruolo maggiore in questo lavoro di salvataggio. Ma per una volta proviamo a porre l'accento non su John, ma su Sean, cioè sul "lato oscuro" della sua filmografia, sulle opere non-western, quelle che rischiano di essere sbilanciate dal peso imponente delle pellicole con il cowboy come protagonista. Dare un'occhiata all'altro piatto della bilancia vuol dire imbattersi in altri film straordinari - e anche pluripremiati, tra l'altro Ford, con i quattro premi Oscar vinti come regista detiene ancora un record insuperato - da Il traditore a Furore, da Un uomo tranquillo a Com'era verde la mia valle, da La croce di fuoco a L'ultimo hurrah. Sono film dove è forte la presenza della città, come ne Il traditore o ne L'ultimo hurrah; o altri dove invece prevale il paesaggio rurale, a metà strada tra la natura selvaggia e la presenza dell'uomo: un paesaggio quasi sospeso, una dimensione da "soglia" - come nel Messico de La croce di fuoco, l'Irlanda di Un uomo tranquillo e il Galles di Com'era verde la mia valle. La realtà è che Ford è Ford sia negli scenari infiniti della Monument Valley, sia tra i vicoli notturni e nebbiosi di Dublino, in quelli corrotti dei bassifondi messicani o in quelli, non meno opachi, della città del New England, teatro delle sfide elettorali de L'ultimo hurrah. Un regista che "sa di che cosa è fatto il mondo", diceva Orson Welles, suo grande estimatore e imitatore; sarà lo stesso autore di Quarto Potere a riconoscere, un giorno, l'influenza, anche tecnica, ricevuta da film come Ombre rosse. Ford sa di cosa è fatto l'uomo, e sa che la vita di ogni uomo assomiglia all'attraversamento di un deserto. Questa immagine egli ripropone anche quando non si tratta del deserto dell'Arizona: la vita umana è sempre contesa tra i due poli della dannazione e della redenzione. In questo senso sono assimilabili due film, Il traditore e La croce di fuoco, che il regista americano ricava da due intensi romanzi: quello di Liam O'Flaherty e Il potere e la gloria di Graham Greene. I due protagonisti, Gypo Nolan, il membro dell'Ira irlandese che ha tradito il suo amico, e l'anonimo prete vigliacco inseguito dalla polizia messicana, compiono un'odissea estrema e dolorosa che li porterà, anche contro la loro immediata volontà, a una sorta di riscatto finale. Sono due fuggitivi - The fugitive è il titolo originale, migliore di quello italiano, del film tratto da Greene - che scappano da loro stessi, dal peso della responsabilità che li schiaccia inesorabilmente e la fotografia, cupa, asfissiante, delle due pellicole rende in modo quasi tangibile il senso della notte dell'angoscia che i due personaggi stanno vivendo. Emerge prepotentemente in questi due film la dimensione religiosa e il peso, anche "iconografico" della fede cattolica del regista d'origine irlandese. Se il finale di In nome di Dio con quel camminare, anzi lo strisciare per terra, di John Wayne l'unico cowboy superstite che arranca con in braccio il bambino salvato nel deserto, è evidentemente figura del mistero del Natale di Cristo, il finale de Il traditore con Victor MacLaglen nei panni del "giuda" Gypo Nolan, anch'egli strisciante, ma tra le panche della chiesa dublinese, mendicando il perdono per il tradimento, rinvia esplicitamente al mistero della croce, così come l'ultima scena di The Fugitive, con la luce che fende l'oscurità e il ritorno del sacerdote, rappresenta un richiamo forte e chiaro alla risurrezione di Cristo e, con lui, del suo popolo. Il cinema di Ford ha la forza dell'essere popolare, nel senso concreto, incarnato; un cinema che riesce a parlare un linguaggio forte e chiaro, fatto di passioni estreme e sanguigne, ma che non riduce mai la complessità dell'esistenza umana che rispetta sempre quel mistero che è l'uomo. Così un film all'apparenza solare e lieve, come Un uomo tranquillo, che sembra solo una scanzonata celebrazione della terra e dello spirito irlandese, rivela al suo interno molto di più: una zona d'ombra e di "forza" che striscia latente in tutti i film di Ford e permette un godimento del suo cinema che non diminuisce nel tempo. È forse questa "custodia della complessità" a spiegare come mai sia stato Ford a realizzare uno dei film migliori sul tema, così difficile e scivoloso, della politica. L'ultimo hurrah è uno degli ultimi film del regista americano, uscito cinquant'anni fa negli Usa e ispirato dal romanzo omonimo di Edwyn O'Connor, un film crepuscolare, dolente e struggente, grazie anche a una intensa interpretazione di Spencer Tracy. A distanza di mezzo secolo la storia non ha perso il suo smalto rivelandosi uno dei pochi film nell'intera storia del cinema che parla di politica senza cadere nel rischio, molto diffuso non solo nel nostro Paese, del moralismo ipocrita e del manicheismo. Da questo punto di vista il film di Ford rinvia non solo al romanzo di Edwyn O'Connor, ma anche ai romanzi di Flannery O'Connor - anche lei di origine irlandese come rivela il cognome - una scrittrice cattolica allergica a ogni forma di moralismo e di manicheismo. Per la O'Connor ogni racconto è la descrizione dell'opera della Grazia nei territori del diavolo; e quindi è difficile trovare nelle sue narrazioni storielle a lieto fine: il suo scrivere "da cattolica", non vuol dire costruire trame edificanti, ma approfondire il mistero della realtà, penetrarla attraverso una discesa ad inferos. Questa è la lezione della O'Connor che ha compreso bene come rischi, per l'uomo contemporaneo, siano lo spiritualismo, il moralismo e il sentimentalismo - e forse sta qui, nel sentimentalismo, la ragione della strana assenza di buoni film sulla politica. È quanto mai attuale la lezione della O'Connor, specie nella sua critica al manicheismo che, per la scrittrice americana, non è solo cattiva teologia, ma anche pessima letteratura: "La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate di impolverarvi, non dovreste tentare di scrivere narrativa". È la stessa lezione di John Ford, "esperto di umanità", che ha raccontato la polvere, cioè la stoffa di cui è fatto il mondo, anche quando, a mostrarlo, non siano direttamente le nuvole di polvere desertica della Monument Valley.
(©L'Osservatore Romano - 21 dicembre 2008)


La via dell'esodo lungo il deserto della Monument Valley -
di Luca Miele – L’Osservatore Romano, 21 dicembre 2008
Solo cowboy, duelli all'Ok Corral, scazzottate e bevute? A distanza di più di trenta anni dalla morte, la produzione cinematografica di John Ford appare ancora troppo schiacciata sull'iconografia western. Negli anni - complice una certa opacità della critica - si è sedimentata una lettura semplicistica di Ford e della sua opera, solo recentemente ribaltata. A riguardarli, i film del regista americano di origini irlandesi conservano intatti forza e fascino. Da dove nasce tale fascino? Ha scritto bene Fabio Troncarelli: esso si sprigiona dalla "sottile trama di enigmi che accompagnano come un ricamo misterioso le opere fordiane". Le immagini di Ford "hanno un senso segreto, una iridescente varietà di significati". Più che la semplicità o l'univocità o, ancora, la perentorietà di certi "messaggi", è la ricchezza e l'abbondanza dei punti di vista, dei piani narrativi e dei simboli - polisemia - la chiave per accostarsi all'opera del regista americano. Ford si muove dentro la costellazione di opposizioni binarie tipiche del genere western; e che la sua stessa opera ha contribuito a codificare: il deserto e il giardino; il matrimonio e il celibato; il maschile e il femminile; il bianco e l'indiano; la legge e la sua violazione. Ma - come già notava Franco Ferrini - tra poli opposti il regista instaura una serie di connivenze segrete, di transiti, di scambi. Queste ambivalenze trovano espressione a livello iconografico. Basti pensare all'immagine del portico - ricorrente, da Sentieri Selvaggi a Sfida infernale - spazio di ibridazione tra il "dentro" e il "fuori", di esitazione tra gli spazi immensi della wilderness e quelli privati della famiglia, tra la natura e la civiltà. L'immagine dunque di Ford, regista un poco sempliciotto che amava riprendere cazzotti e bevute, dalla filmografia volta esclusivamente a nutrire il mito western, è da archiviare. La stessa ricchezza delle fonti visive, confluite nella sua composizione - la pittura di Frederic Remington e di Winslow Homer, ma anche la fotografia di Timothy O' Sullivan - è una controprova della complessità e del genio del regista. Nel cuore dell'ispirazione fordiana si staglia prepotente la componente religiosa. Come ha scritto Franco Ferrini, nella sua ormai classica monografia dedicata al regista, "l'iconografia cattolica presiede in larghissima parte allo statuto dell'iconografia fordiana". In un film del 1948, questa ispirazione è quanto mai trasparente. In Three Godfathers (In nome di Dio) tre "dannati" raccolgono nel deserto un bimbo appena nato, ormai orfano. I tre partono di notte seguendo una stella. Un versetto della Bibbia li guida verso una città chiamata Nuova Gerusalemme. Due dei tre protagonisti muoiono durante il tragitto, lasciando il terzo da solo a badare al bambino. L'uomo stremato troverà un'asina con la quale portare il piccolo nella città, proprio alla vigilia di Natale. Nel film Ford non solo mette in scena una Natività, ma struttura la sua storia - come ha sottolineato Janey Ann Place - sulla parabola del figlio prodigo. L' "eroe", attraverso il sacrificio personale, riscatta un passato di dannazione. L'urgenza che accomuna molti degli eroi fordiani è infatti la redenzione, la loro condizione l'essere sospesi tra l'inevitabilità della caduta e l'anelito al riscatto. Nei three bad men viene rievocato, attraverso continui effetti visivi, il modello trinitario. "Nella chiusa del film - ha notato Ferrini - si vedono le silhouette dei tre cavalcare e sparire all'orizzonte mentre protendono le braccia in una raffigurazione stilizzata della crocifissione". Ma la "polisemia", come cifra della regia di Ford, è rintracciabile soprattutto nel motivo del deserto che, nella trama dei film del regista americano, costituisce un elemento essenziale: in particolare con la Monument Valley e le sue cattedrali solitarie che suggeriscono, con il loro stesso manifestarsi, la vertigine del sacro. Il cinema di Ford è "un cinema di attraversamenti" (Francesco Ballo) e il luogo privilegiato di questo peregrinare è proprio il deserto. Attraversamenti solitari come quelli di Ethan Edwards di Sentieri Selvaggi o di gruppo - La Carovana dei Mormoni, Furore, La pattuglia sperduta, Il grande sentiero - come atto costitutivo della nazione americana che si struttura sull'esodo biblico. È possibile istituire un parallelismo tra il deserto fordiano e quello biblico? Quali risonanze rimbalzano da uno all'altro? È possibile comprendere il deserto di Ford senza rintracciarne l'origine nel testo biblico? "Il deserto - ha scritto Bruno Forte - è metafora dell'intera esperienza umana davanti all'Eterno". Esso "è il luogo - ha notato Lisa Cremaschi - in cui appare con più forza la simultaneità tra grazia e tentazione; è il luogo in cui Dio ha sigillato l'alleanza con il suo popolo, il luogo dell'intimità con Dio; ma è anche il luogo della ribellione, il deserto inospitale in cui deve morire la generazione infedele e ribelle, in cui viene cacciato il capro espiatorio che porta con sé il peso dei peccati del popolo". Se il deserto è polvere che cancella ogni traccia di chi lo attraversa, il protagonista di Sentieri Selvaggi, Ethan Edwards lotta contro questa dissolvenza: le orme che lo conducono sulle tracce della nipote - rapita ancora bambina dagli indiani - si dissolvono, l'uomo lotta contro l'evanescenza del passaggio dell'uomo sulla terra. Un paesaggio - il deserto - che può nullificare l'uomo e travolgere le sue strutture simboliche, come in Furore nel quale la siccità spinge all'esodo e provoca la dissoluzione della famiglia Joad. Il deserto è il luogo della solitudine estrema, solitudine nella quale attecchisce la tentazione. Per Ethan Edwards essa si manifesta nell'azzardo di farsi legge a se stesso, a idolatrare l'odio e la vendetta. Ma il grumo di violenza che tiranneggia il protagonista di Sentieri Selvaggi, finisce per sciogliersi nell'atto del perdono. Il deserto è anche il luogo in cui si manifesta la Grazia; il che, nel cinema fordiano, accade spesso con il motivo della nascita. Nascita che è una vera e propria Natività in Three Godfathers, ma la nascita di un bambino compare anche in Ombre rosse. Il deserto infine come luogo dell'intimità con Dio: è ancora in Three Godfathers un versetto della Bibbia - la memoria e il riattualizzarsi di questa intimità - a indicare la via da percorrere.
(©L'Osservatore Romano - 21 dicembre 2008)


EDUCAZIONE/ Il "regalo" di Tatiana - Mario Mauro - lunedì 22 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Muammar Gheddafi è uno dei più grandi donatori esistenti per una scuola cattolica. È un paradosso ma è la verità.
Il 21 dicembre del 1988 un Boeing PanAm esplose in volo e precipitò sul piccolo villaggio scozzese di Lockerbie, uccidendo in tutto 270 persone. Da quel giorno, Cia, Fbi, Scotland Yard e servizi segreti britannici misero in piedi una colossale caccia all'uomo, un'indagine che si è conclusa il 14 novembre 1991, quando contemporaneamente i giudici scozzesi e quelli americani hanno annunciato i loro mandati di cattura, puntando l'indice sui due libici, Abdel Basset Al Megrahi, 39 anni, sospettato di essere il capo dei servizi segreti nelle linee aeree libiche, e Amin Khalifa Fhimah, 35 anni, agente segreto che ha lavorato negli uffici della Libyan Airlines a Malta.
Dopo 15 anni in cui Stati Uniti e nazioni Unite hanno pesantemente sanzionato il governo libico che non voleva riconoscere la propria responsabilità. Nel 2003 è stato trovato un accordo e Gheddafi ha accettato di pagare 10 milioni di dollari per ciascuna delle 270 vittime della strage. Fin qui sembrerebbe una “normalissima” storia di terrorismo internazionale e risarcimenti per poter rientrare nella comunità internazionale, fatto che conviene molto a Gheddafi che non può rimanere isolato soprattutto dal punto di vista economico.
Il fatto eclatante e incredibile è che il destino ha voluto che quasi due milioni e mezzo di dollari del risarcimento per una delle vittime andassero nelle casse di una scuola cattolica americana. Tatiana, la madre di Andre Guervorguian, prima di morire nel 1999, ha infatti devoluto tutti i soldi del risarcimento alla scuola cattolica De la Salle nell’Upper West side di New York, fondata dal figlio nel 1984. Nei giorni scorsi è arrivata l’ultima rata dei pagamenti, che ammontava a 491.000 dollari.
È la fine paradossale della storia del rapporto tra una madre, immigrata dalla Russia e vedova da quando il figlio era bambino, e appunto Andre, il figlio affidato a un’educazione cattolica a scuola e in parrocchia. Una storia bellissima non perché la madre ha scelto la scuola cattolica invece di altre scuole, ma perché il figlio e la sua educazione sono sempre stati la ricchezza più grande per lei, la sola e più importante ragione di vita. Ha capito che tutto passa attraverso l’educazione e la scelta di affidare questo figlio a Fratel Brian della parrocchia di Amsterdam Avenue è stato l’incontro decisivo per la vita di suo figlio e per la sua.
Questa storia, il paradosso di Gheddafi, è uno spunto per ribadire la battaglia sulla scuola e sulla libertà di educazione, la battaglia per la libertà di scelta, il ruolo stesso della famiglia all’interno dell’esperienza educativa. Queste espressioni infatti che abbiamo visto a volte compresse in un dibattito fuori dalla logica, come quello che si è consumato in Italia per oltre cinquant’anni, sono in realtà attori di un dibattito molto più vasto, che oggi ci pone radicalmente di fronte a grandi responsabilità.
Quanto queste siano urgenti la dice lunga su quale sia l’importanza di quello che ognuno di noi, nel suo piccolo porta avanti con dedizione e con generosità; e dice anche quanto sia irresponsabile sottrarsi a tali responsabilità con dei gesti che hanno una valenza politica enorme, quale quello di rimettere continuamente in discussione la riforma dei processi educativi.
Quando discutiamo di educazione e cerchiamo un ruolo per la famiglia, scopriamo che il ruolo lo dobbiamo cercare per la scuola perché la famiglia ha per sua natura il ruolo di autorità; la famiglia è per sua natura depositaria di questo dialogo perché la Provvidenza stessa gliel’ha affidato per poter concorrere a compiere il destino dei figli che ha generato.
Educare, a mio modo di vedere, significa aiutare a trasmettere il significato della vita e delle cose e favorire così l’esperienza, l'avventura della conoscenza.
Per sua natura quindi educare è possibile solo nella libertà. Quando sviluppiamo l'organizzazione di un sistema educativo senza rispettare questa condizione noi neghiamo lo scopo di quel sistema, lo usiamo male.
L’educazione nasce dall’incontro di due libertà: la libertà di chi viene educato e la libertà di colui che educa: ora, la messa in moto di questo processo richiede la libertà di chi è stato provocato o risvegliato, che potrebbe scegliere di non rispondere alla sfida, e di rimanere nel suo torpore. Dall’altro lato il rischio riguarda colui che educa, chiamato a mettersi in gioco in prima persona, a stimolare l’altro senza imporsi e ad essere disposto a cambiare a cambiare egli stesso.
Mamma Tatiana ha lasciato milioni di dollari per la scuola fondata dal figlio perché ha capito che questo è ciò che salva il Mondo, solo l’educazione permette alla persona di diventare consapevole del valore della sua esistenza e dei bisogni più profondi che definiscono la sua umanità: il bisogno di significato, di bellezza, di verità, di giustizia, di felicità.


ELUANA/ Ventorino: quando dietro la parola “pietas” si nasconde il proprio egoismo - Don Francesco Ventorino - lunedì 22 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
La Casa di cura “Città” di Udine ha confermato la disponibilità ad assistere Eluana Englaro nei suoi ultimi giorni di vita, «a patto però che la Regione Friuli Venezia Giulia si prenda la responsabilità di condividere questo percorso di pietas». È quanto ha dichiarato il dottor Claudio Riccobon, amministratore delegato della struttura sanitaria.
Gli animali si uccidono per pietà, per non farli soffrire quando la loro vita è definitivamente compromessa. Oggi si vorrebbe introdurre un principio che legittimi questa azione anche quando si tratti di un uomo o di una donna. Ma l’equazione non regge, perché l’animale ha una funzione di utilità, compiuta la quale, la sua esistenza non ha più ragione di essere; l’uomo, invece, è una persona, cioè un assoluto: la sua esistenza non è relativa a nessuno scopo che non sia la propria realizzazione. Non può darsi nessuna condizione nella quale la vita dell’uomo non sia più “utile”, perché essa è solo per se stessa. Il “caso Eluana” costringe, quindi, a interrogarsi sul valore della vita dell’uomo, su ciò in cui consiste la sua realizzazione.
A partire dalla esigenza profondamente inscritta nel cuore di ogni uomo bisogna rispondere che questa realizzazione consiste nella felicità. Ma qui insorge una domanda ancora più grave sulla natura della felicità e la possibilità del suo attuarsi. La felicità dell’uomo è assicurata forse dalla capacità che egli ha di stabilire relazioni e di disporre di se stesso? Ma, allora tutti gli uomini “sani” e liberi dovrebbero essere felici. La verità che, invece, si impone a noi nella sua evidenza è che nessuna cosa al mondo, nessun rapporto umano, è in grado di darci la felicità secondo la misura in cui il nostro cuore la desidera. Tanto meno ci rende felici la possibilità di fare quello che ci pare e piace.
Da qui si sono tratte da sempre due conclusioni. La prima: l’uomo è fatto male, perché è un desiderio irrealizzabile, una “passione inutile” come ha detto Jean-Paul Sartre; ma in questo caso la vita umana non ha più senso, neanche quando gode di ottima salute, e sarebbe sempre ragionevole sopprimerla, come lo stesso Sartre faceva dire ad uno dei suoi personaggi ne “Il Muro”. Ma c’è un’altra conclusione, più ragionevole. Il desiderio naturale non può essere vano e quindi esso è “promessa” di un compimento. L’esigenza più profonda del nostro cuore è esigenza di qualcosa che “ha da esserci”, come diceva il mio conterraneo Luigi Pirandello. Altrimenti “non mi spiegherei quest’ansia che mi tiene, e mi fa sospirar le stelle”. Questa promessa, che costituisce la grandezza della persona umana, esige da parte nostra, in qualunque istante o situazione della vita, uno “stare” davanti alla propria esistenza e a quella degli altri, che ha la Madonna come modello. Maria “stava” presso il suo Figlio Crocifisso come di fronte alla forma misteriosa del compiersi di un destino, che trascende inevitabilmente le possibilità che l’esistenza terrena può offrire e non è legato alle condizioni o “qualità di vita” che ci sono date.
La pietas da sempre è stata intesa dagli uomini come la capacità di stare di fronte a questo mistero, di condividerne il peso e di esplorarne il significato, come ci hanno dimostrato le suore misericordine che da anni accudiscono Eluana e che chiedono adesso che sia loro conservata, perché continui ad essere un forte richiamo al significato e al valore della loro personale esistenza e di quella di ogni uomo. La pietà, invece, come è intesa dalla struttura sanitaria che ha dato la sua disponibilità a uccidere Eluana, non è diversa da quella che uccide il feto malato o l’anziano inabile e insufficiente. Forse vuole essere una pietà verso se stessi, verso la propria incapacità di condivisione del dolore, e quindi la giustificazione della suprema forma del proprio egoismo.


SCUOLA/ Memorandum per il ministro Gelmini: si riforma solo ripartendo dall’educazione - INT. Giorgio Chiosso - lunedì 22 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
«Penso che si debba dare atto al ministro Gelmini di aver ripreso un percorso riformista, che era venuto meno con il ministro precedente». Giorgio Chiosso, professore di Storia dell’Educazione all’Università di Torino, riconosce un primo merito al ministro Gelmini: si è tornati quanto meno a parlare di riforma delle superiori, e questo è già un elemento importante. Sul come se ne stia parlando, e sulla sostanza dei primi provvedimenti approvati in Consiglio dei ministri, il giudizio non è però altrettanto positivo.
Professore, prima il positivo: che cosa c’è di buono in quanto emerso dall’ultimo Consiglio dei ministri a proposito del riordino della scuola superiore?
Direi che al di là delle tante critiche che sono emerse in questi mesi, spesso su cose non sostanziali, bisogna riconoscere al ministro che c’è l’intenzione di riprendere il filo di un ripensamento complessivo del sistema scolastico, come già era avvenuto nel quinquennio Moratti. In particolare è poi importante che si torni a parlare di scuola superiore: non bisogna dimenticare che la scuola secondaria superiore è sostanzialmente ferma agli anni Sessanta, fatta eccezione per i progetti Brocca dei primi anni Novanta. In questi decenni non c’è stato altro se non l’esplosione smisurata di sperimentazioni, fino ad arrivare al numero abnorme di maturità che abbiamo in questo momento. Quindi mi pare utile tornare a porre il problema dell’esigenza di un processo di razionalizzazione, che ci allinea agli altri paesi che hanno ripensato la struttura della scuola secondaria.
Se col ministro precedente si era interrotto il discorso riformistico, allora vale la pena, come lei già accennava, riprendere il discorso della riforma Moratti: quanto previsto dalla Gelmini si colloca su quella scia?
Ecco, da questo punto di vista mi pare invece che si debba muovere una critica alla Gelmini. Il ministro sta infatti snaturando la sostanza della riforma Moratti: ha fatto proprie una serie di richieste che si sono snodate in questi due anni con il lavoro di un’apposita commissione sull’istruzione tecnica e professionale (la commissione De Toni) e che ha radicalmente modificato l’impianto della riforma Moratti. Il fatto di ricondurre tutta l’istruzione tecnica e professionale dentro la scuola governata dallo Stato, senza riconoscere invece il ruolo delle Regioni in questo campo (come per altro previsto dal Titolo V della Costituzione) mi sembra essere il segno di un ritorno a un neo-centralismo statalista. Lo dico con molta franchezza: in questo vedo sia un elemento di scarso coraggio, sia il fatto di perdere di vista il valore di un tipo di istruzione e formazione molto legata al territorio e alle esigenze del mondo economico e produttivo. Si ritorna indietro rispetto alla svolta concettuale portata avanti con la riforma Moratti.
Qual era la sostanza di questa svolta concettuale, su cui secondo lei bisognerebbe tornare?
La riforma Moratti si basava sul principio del doppio canale: un canale liceale e poi universitario, e un canale della formazione professionale e dell’istruzione superiore di tipo professionale, in tutto alternativo al precedente, e che doveva svolgersi in maniera compiuta dai 14 ai 22 anni. Questi due canali dovevano acquisire la stessa rilevanza, anche dal punto di vista sociale, superando la visione tipica della struttura scolastica italiana, secondo la quale i licei devono rivestire un ruolo di predominanza e di maggiore validità.
Dunque era una valorizzazione dell’importanza del lavoro, anche manuale.
Il principio fondamentale era proprio questo: sottrarre la formazione professionale a quella visione riduttiva che portava a concepire il lavoro come opzione di riserva, da lasciare ai drop-out, ai ragazzi in difficoltà per vari motivi, agli immigrati, a chi non era in grado di svolgere il percorso scolastico. Era un grande salto culturale: recuperare la piena dignità del lavoro, affiancata alla cultura teorica del liceo. Il tutto tenendo conto della personalizzazione: la scuola e la formazione professionale devono essere al servizio delle inclinazioni, delle caratteristiche dei ragazzi. La vocazione al sapere operativo deve avere un suo proprio riconoscimento, e non bisogna costringere i ragazzi a rimanere prolungatamente nella scuola. Ricondurre tutto alla dimensione “scolastico-centrica” mi sembra dunque un elemento di debolezza culturale.
Per attuare questo, si diceva, è fondamentale il ruolo delle Regioni. Molti sostengono però che alcune Regioni non sarebbero pronte a questa impostazione: come ovviare a questo limite?
Questo è uno degli argomenti che viene portato per giustificare la resistenza del modello centralista. Non nego che l’obiezione sia giustificata; ma nulla vieta che questo processo potesse essere programmato in modo graduale. Lo stesso, ad esempio, avviene per gli ingressi dei vari paesi nell’Unione europea, per cui i paesi entrano nel sistema europeo quando sono pronti; così nulla vietava che le Regioni che sono già pronte potessero da subito acquisire la padronanza complessiva del sistema, mentre altre vi accedessero invece in modo più graduale. A volte però si sostiene categoricamente che alcune Regioni siano incapaci di gestire cose importanti: questo mi rifiuto di crederlo.
Ora abbiamo di fronte un anno, e si è detto che servirà per aprire un "ampio dibattito": quali dovranno esserne gli elementi centrali?
È giusta l’idea di aprire un dibattito, di far capire alle famiglie quali sono le novità, di permettere agli insegnanti di familiarizzare con i nuovi orientamenti dei programmi. Credo che ci sia la necessità di metabolizzare l’idea di cambiamento. Però c’è anche una preoccupazione, e cioè che il dibattito finisca con lo svolgersi solo sul piano tecnico-informativo, oppure secondo una logica di sindacalismo meramente rivendicativo. Non vorrei che si evitasse (ancora una volta) di andare a toccare il cuore del problema: che senso ha la scuola oggi per i ragazzi che hanno tra i 14 e i 19 anni? Che senso ha lavorare con gli adolescenti? Che senso ha oggi mettersi in concorrenza con i grandi produttori di mentalità, di stili di vita dei ragazzi? Gli insegnanti sono solo dei tecnici che impartiscono conoscenze, o hanno una responsabilità più grande?
È il grande tema dell’emergenza educativa…
È proprio questo. Bisognerebbe tornare ad avere un ampio dibattito sulla sostanza: la riforma, infatti, ha senso se noi rilanciamo un grande dibattito sull’idea educativa nella scuola. Altrimenti facciamo un passaggio che si limita a riorganizzare le strutture. Finché poi, a un certo punto, emergono episodi come il bullismo o il disagio dei ragazzi, e improvvisamente ci rendiamo conto che c’è un problema educativo di cui non si era tenuto conto. Dobbiamo porci da subito il problema: c’è una grandissima quantità di studenti che fa fatica ad andare a scuola, che si annoia, che trova più stimoli a navigare in rete o a fare altro. Tutto questo è casuale, o c’è una qualche responsabilità educativa della scuola? Ecco da dove bisogna ripartire.
(Rossano Salini


TENDE AVSI/ Paraguay: La cittadella dell'amore di Padre Trento - Redazione - lunedì 22 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
In tutta Asunción è difficile trovare qualcuno che non conosca la parrocchia San Rafael.
Recentemente il parroco, padre Aldo Trento, è stato insignito delle «chiavi della città» con una cerimonia che ha stupito persino la CNN. Ma la fama della parrocchia non si limita alla capitale del Paraguay. A quattrocento chilometri c’è Ciudad del Este, città contrabbandiera e selvaggia per antonomasia. Capita spesso che i giudici del tribunale locale si rifacciano alla legge che concede ai condannati di espiare la pena versando denaro alle iniziative di carità e le opere parrocchiali sono tra le più gettonate.
San Rafael è un posto che vuole assomigliare a una «riduzione», reducción, le comunità degli indios guaraní create nel 1600 dai missionari gesuiti. Il Paraguay è la terra delle reducciones, luogo di vita comunitaria eretto per l’evangelizzazione, la libertà e la difesa degli indios, che vennero però spazzate via a metà del 1700 con la ferocia di un potere invidioso e inumano. Una civiltà sepolta troppo presto e che ai più resta purtroppo sconosciuta.
Padre Aldo viene da Belluno e appartiene alla Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo, una delle esperienze più originali nate dal movimento di Comunione e Liberazione. Fu proprio don Giussani a parlare ad Aldo delle reducciones nel momento in cui gli propose di partire nel 1989 per il Paraguay. Questo è un paese pieno di tanti mondi diversi. I pochi ricchissimi e i tanti poveri, gli indios e gli spagnoli, le donne, moltissime senza marito, e gli uomini che una sociologia a buon mercato dipinge come sfaccendati buoni a nulla. Ma soprattutto la città e la campagna. E cioè Asunción, fondata nel Cinquecento dagli spagnoli sulle rive del rio Paraguay, e un paio di altri centri degni di nota, accanto a tutto il resto del paese. Come le altre realtà urbane dell’America Latina anche Asunción si trova a cavallo tra Terzo Mondo e Duemila, ma è più modesta e provinciale delle cugine del Cono Sur.
La vita di San Rafael offre un contrasto spettacolare con i ritmi e le immagini del resto del paese. La gente che popola gli spazi parrocchiali, i volontari, la quantità e varietà di opere di carità, cultura e missione. La scuola, il coro polifonico, la pizzeria, il Centro di aiuto alla vita, la distribuzione di cibo e vestiti e poi il «gioiello» della clinica per malati terminali, lo scrigno che racchiude il cuore di padre Aldo e padre Paolino, che l’hanno voluta sfidando tutto e tutti: la «Casa della Divina Provvidenza» dedicata a San Riccardo Pampuri.
È già stata l’ultima casa per centinaia e centinaia di malati, raccolti dalle strade e dagli altri ospedali che non volevano più tenerli. Un addio alla vita dato tra lenzuola candide e infermiere amorevoli, soccorsi e medicati come in nessun altro luogo, circondati di amore e tenerezza. La clinica, nata nel 2004, col passare degli anni si è allargata più volte. Da allora sono quasi 600 i malati di AIDS (18%), cancro (63%) o altre patologie ospitati dalla clinica, 500 dei quali accompagnati alla morte. Ridare dignità umana a questi poveri abbandonati è una delle sfide principali della clinica.
Ma la San Riccardo non è l’unica opera nata in seno alla parrocchia San Rafael. Da essa si dipana una lunga catena di opere caritatevoli realizzate grazie al contributo privato e personalissimo della gente. La casa di accoglienza Padre Pio raccoglie malati di AIDS emarginati e abbandonati che non hanno un luogo dove vivere. Il policonsultorio Juan Pablo II nato nel 2002, che, con la carità di alcuni amici medici, offre assistenza sanitaria gratuita (14.872 le persone assistite dall’ambulatorio tra il 2003 e l’aprile 2008). Ma la lista di iniziative è difficile da esaurire.
Ultima arrivata è la Casita de Belén, creata per accogliere i bambini a rischio, innanzitutto gli orfani di mamme e papà morti nella Casa della Divina Provvidenza. Fondata l’8 febbraio 2008, la casa ospita 20 bambini tra i 3 e gli 11 anni. Qui hanno trovato nuovi genitori, persone che si occupano della loro salute, dell’alimentazione e del loro sviluppo integrale.
Padre Aldo li saluta tutte le mattine prima di andare a scuola, il cuore giovane della parrocchia, frequentata da duecento bambini di famiglie povere, aiutati dal sostegno a distanza dell’AVSI.

(Tratto dal libro Lo sviluppo ha un volto. Riflessioni su un'esperienza a cura di Roberto Fontolan, con l'introduzione di Alberto Piatti - Edizioni Guerini e Associati)