Nella rassegna stampa di oggi:
1) Benedetto XVI: “ Dio ci dona il suo tempo” - Discorso introduttivo all'Angelus domenicale
2) Discorso di Benedetto XVI a San Lorenzo fuori le Mura - Per il 1750° anniversario del martirio di San Lorenzo - CITTA' DEL VATICANO, domenica, 30 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI nel visitare la parrocchia di San Lorenzo fuori le Mura, per il 1750° anniversario del martirio di San Lorenzo e nel quadro delle visite annuali alle parrocchie romane.
3) INDIA/ Vian: come i cristiani vincono la paura del terrorismo - INT. Giovanni Maria Vian - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
4) COLLETTA/ Un grande risultato che mostra quanto può fare il “contagio della carità” - Gianluigi Da Rold - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
5) TESTAMENTO BIOLOGICO/ Fine vita, i progetti di legge che non hanno imparato molto dal caso Eluana (1) - Riccardo Marletta – IlSussidiario.net
6) SPAGNA/ Se deve essere un ateo a ricordarci l’importanza del crocefisso - José Luis Restan - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
7) Solženicyn/ Le tre vocazioni di un grande scrittore - INT. Nikita Struve - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
8) MEDICINA/ Lo strano caso dei neuroni specchio, una scoperta che allarga il mistero dell'agire umano - Redazione - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
9) IMPRESA/ Il calzaturificio pronto a “fare le scarpe” alla concorrenza orientale - Redazione - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
10) INDIA/ Padre Grugni (Pime): servono “profeti”, uomini che sappiano parlare al cuore di tutti - INT. Antonio Grugni – IlSussidiario.net
11) IL PRIMO ANNIVERSARIO DELLASPE SALVI - Quella certezza di futuro che già cambia il presente - GIACOMO SAMEK LODOVICI
12) La prima volta di un musulmano sul giornale del papa - Il nuovo columnist è Khaled Fouad Allam. In sorprendente sintonia con Benedetto XVI. Entrambi a favore di un dialogo cristiano-islamico che non sia un compromesso tra le fedi ma un incontro tra le culture - di Sandro Magister
13) Da recordman di aborti a primo obiettore di coscienza serbo. La parabola di Stojan Adasevic - di Lorenzo Fazzini, per Tempi.it, del 27/11/2008
14) 01/12/2008 13:10 – VATICANO - Papa: dal computer il rischio di non sapersi più concentrare e di isolarsi nel virtuale - In ogni autentica riforma, compresa quella dell’università, “occorre prima di tutto che ciascuno cominci col riformare se stesso”. L’università deve essere libera da condizionalemnti, ma veramente libera lo è quando cura la formazione scientifica e culturale delle persone per lo sviluppo dell’intera comunità sociale e civile.
Benedetto XVI: “ Dio ci dona il suo tempo” - Discorso introduttivo all'Angelus domenicale
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 30 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI affacciandosi alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare la preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini convenuti in Piazza San Pietro in Vaticano.
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Cari fratelli e sorelle!
Iniziamo oggi, con la prima Domenica di Avvento, un nuovo Anno liturgico. Questo fatto ci invita a riflettere sulla dimensione del tempo, che esercita sempre su di noi un grande fascino. Sull’esempio di quanto amava fare Gesù, desidererei tuttavia partire da una constatazione molto concreta: tutti diciamo che "ci manca il tempo", perché il ritmo della vita quotidiana è diventato per tutti frenetico. Anche a tale riguardo la Chiesa ha una "buona notizia" da portare: Dio ci dona il suo tempo. Noi abbiamo sempre poco tempo; specialmente per il Signore non sappiamo o, talvolta, non vogliamo trovarlo. Ebbene, Dio ha tempo per noi! Questa è la prima cosa che l’inizio di un anno liturgico ci fa riscoprire con meraviglia sempre nuova. Sì: Dio ci dona il suo tempo, perché è entrato nella storia con la sua parola e le sue opere di salvezza, per aprirla all’eterno, per farla diventare storia di alleanza. In questa prospettiva, il tempo è già in se stesso un segno fondamentale dell’amore di Dio: un dono che l’uomo, come ogni altra cosa, è in grado di valorizzare o, al contrario, di sciupare; di cogliere nel suo significato, o di trascurare con ottusa superficialità.
Tre poi sono i grandi "cardini" del tempo, che scandiscono la storia della salvezza: all’inizio la creazione, al centro l’incarnazione-redenzione e al termine la "parusia", la venuta finale che comprende anche il giudizio universale. Questi tre momenti però non sono da intendersi semplicemente in successione cronologica. Infatti, la creazione è sì all’origine di tutto, ma è anche continua e si attua lungo l’intero arco del divenire cosmico, fino alla fine dei tempi. Così pure l’incarnazione-redenzione, se è avvenuta in un determinato momento storico, il periodo del passaggio di Gesù sulla terra, tuttavia estende il suo raggio d’azione a tutto il tempo precedente e a tutto quello seguente. E a loro volta l’ultima venuta e il giudizio finale, che proprio nella Croce di Cristo hanno avuto un decisivo anticipo, esercitano il loro influsso sulla condotta degli uomini di ogni epoca.
Il tempo liturgico dell’Avvento celebra la venuta di Dio, nei suoi due momenti: dapprima ci invita a risvegliare l’attesa del ritorno glorioso di Cristo; quindi, avvicinandosi il Natale, ci chiama ad accogliere il Verbo fatto uomo per la nostra salvezza. Ma il Signore viene continuamente nella nostra vita. Quanto mai opportuno è quindi l’appello di Gesù, che in questa prima Domenica ci viene riproposto con forza: "Vegliate!" (Mc 13,33.35.37). E’ rivolto ai discepoli, ma anche "a tutti", perché ciascuno, nell’ora che solo Dio conosce, sarà chiamato a rendere conto della propria esistenza. Questo comporta un giusto distacco dai beni terreni, un sincero pentimento dei propri errori, una carità operosa verso il prossimo e soprattutto un umile e fiducioso affidamento alle mani di Dio, nostro Padre tenero e misericordioso. Icona dell’Avvento è la Vergine Maria, la Madre di Gesù. InvochiamoLa perché aiuti anche noi a diventare un prolungamento di umanità per il Signore che viene.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Il 30 novembre ricorre la festa dell’Apostolo sant’Andrea, fratello di Simon Pietro. Entrambi furono dapprima seguaci di Giovanni il Battista e, dopo il battesimo di Gesù nel Giordano, divennero suoi discepoli, riconoscendo in Lui il Messia. Sant’Andrea è patrono del Patriarcato di Costantinopoli, così che la Chiesa di Roma si sente legata a quella costantinopolitana da un vincolo di speciale fraternità. Perciò, secondo la tradizione, in questa felice circostanza una delegazione della Santa Sede, guidata dal Cardinale Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, si è recata in visita al Patriarca Ecumenico Bartolomeo I. Di tutto cuore rivolgo il mio saluto e il mio augurio a lui e ai fedeli del Patriarcato, invocando su tutti l’abbondanza delle celesti benedizioni.
Vorrei invitarvi a unirvi nella preghiera per le numerose vittime sia dei brutali attacchi terroristici di Mumbai, in India, sia degli scontri scoppiati a Jos, in Nigeria, come pure per i feriti e quanti, in qualsiasi modo, sono stati colpiti. Diverse sono le cause e le circostanze di quei tragici avvenimenti, ma comuni devono essere l’orrore e la deplorazione per l’esplosione di tanta crudele e insensata violenza. Chiediamo al Signore di toccare il cuore di coloro che si illudono che questa sia la via per risolvere i problemi locali o internazionali e sentiamoci tutti spronati a dare esempio di mitezza e di amore per costruire una società degna di Dio e dell’uomo.
Discorso di Benedetto XVI a San Lorenzo fuori le Mura - Per il 1750° anniversario del martirio di San Lorenzo - CITTA' DEL VATICANO, domenica, 30 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI nel visitare la parrocchia di San Lorenzo fuori le Mura, per il 1750° anniversario del martirio di San Lorenzo e nel quadro delle visite annuali alle parrocchie romane.
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Cari fratelli e sorelle,
con l’odierna prima domenica di Avvento, entriamo in quel tempo di quattro settimane con cui inizia un nuovo anno liturgico e che immediatamente ci prepara alla festa del Natale, memoria dell’incarnazione di Cristo nella storia. Il messaggio spirituale dell’Avvento è però più profondo e ci proietta già verso il ritorno glorioso del Signore, alla fine della storia. Adventus è parola latina, che potrebbe tradursi con ‘arrivo’, ‘venuta’, ‘presenza’. Nel linguaggio del mondo antico era un termine tecnico che indicava l’arrivo di un funzionario, in particolare la visita di re o di imperatori nelle province, ma poteva anche essere utilizzato per l’apparire di una divinità, che usciva dalla sua nascosta dimora e manifestava così la sua potenza divina: la sua presenza veniva solennemente celebrata nel culto.
Adottando il termine Avvento, i cristiani intesero esprimere la speciale relazione che li univa a Cristo crocifisso e risorto. Egli è il Re, che, entrato in questa povera provincia denominata terra, ci ha fatto dono della sua visita e, dopo la sua risurrezione ed ascensione al Cielo, ha voluto comunque rimanere con noi: percepiamo questa sua misteriosa presenza nell’assemblea liturgica. Celebrando l’Eucaristia, proclamiamo infatti che Egli non si è ritirato dal mondo e non ci ha lasciati soli, e, se pure non lo possiamo vedere e toccare come avviene con le realtà materiali e sensibili, Egli è comunque con noi e tra noi; anzi è in noi, perché può attrarre a sé e comunicare la propria vita ad ogni credente che gli apre il cuore. Avvento significa dunque far memoria della prima venuta del Signore nella carne, pensando già al suo definitivo ritorno e, al tempo stesso, significa riconoscere che Cristo presente tra noi si fa nostro compagno di viaggio nella vita della Chiesa che ne celebra il mistero. Questa consapevolezza, cari fratelli e sorelle, alimentata nell’ascolto della Parola di Dio, dovrebbe aiutarci a vedere il mondo con occhi diversi, ad interpretare i singoli eventi della vita e della storia come parole che Iddio ci rivolge, come segni del suo amore che ci assicurano la sua vicinanza in ogni situazione; questa consapevolezza, in particolare, dovrebbe prepararci ad accoglierlo quando "di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà mai fine", come ripeteremo tra poco nel Credo. In questa prospettiva l’Avvento diviene per tutti i cristiani un tempo di attesa e di speranza, un tempo privilegiato di ascolto e di riflessione, purché ci si lasci guidare dalla liturgia che invita ad andare incontro al Signore che viene.
"Vieni, Signore Gesù": tale ardente invocazione della comunità cristiana degli inizi deve diventare, cari amici, anche nostra costante aspirazione, l’aspirazione della Chiesa di ogni epoca, che anela e si prepara all’incontro con il suo Signore. "Vieni oggi Signore, aiutaci, illuminaci, dacci la pace, aiutaci a vincere la violenza, vieni Signore preghiamo proprio in queste settimane, Signore, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi": abbiamo pregato così, poco fa, con le parole del Salmo responsoriale. Ed il profeta Isaia ci ha rivelato, nella prima lettura, che il volto del nostro Salvatore è quello di un padre tenero e misericordioso, che si prende cura di noi in ogni circostanza perché siamo opera delle sue mani: "Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore" (63,16). Il nostro Dio è un padre disposto a perdonare i peccatori pentiti e ad accogliere quanti confidano nella sua misericordia (cfr Is 64,4). Ci eravamo allontanati da Lui a causa del peccato cadendo sotto il dominio della morte, ma Egli ha avuto pietà di noi e di sua iniziativa, senza alcun merito da parte nostra, ha deciso di venirci incontro, inviando il suo unico Figlio come nostro Redentore. Dinanzi a un così grande mistero d’amore, sorge spontaneo il nostro ringraziamento e più fiduciosa si fa la nostra invocazione: "Mostraci, Signore, oggi nel nostro tempo in tutte le parti del mondo la tua misericordia e donaci la tua salvezza" (cfr Canto al Vangelo).
Cari fratelli e sorelle, il pensiero della presenza di Cristo e del suo certo ritorno al compimento dei tempi, è quanto mai significativo in questa vostra Basilica attigua al cimitero monumentale del Verano, dove riposano, in attesa della risurrezione, tanti cari nostri defunti. Quante volte in questo tempio si celebrano liturgie funebri; quante volte risuonano colme di consolazioni le parole della liturgia: "In Cristo tuo Figlio, nostro salvatore, rifulge a noi la speranza della beata risurrezione, e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consoli la promessa dell’immortalità futura"! (cfr Prefazio dei defunti I).
Ma questa vostra monumentale Basilica, che ci conduce col pensiero a quella primitiva fatta costruire dall’imperatore Costantino e poi trasformata sino ad assumere l’attuale fisionomia, parla soprattutto del glorioso martirio di san Lorenzo, arcidiacono del Papa san Sisto II e suo fiduciario nell’amministrazione dei beni della comunità. Sono venuto a celebrare quest’oggi la santa Eucaristia per unirmi a voi nel rendergli omaggio in una circostanza quanto mai singolare, in occasione dell’Anno Giubilare Laurentiano, indetto per commemorare i 1750 anni della nascita al cielo del santo Diacono. La storia ci conferma quanto sia glorioso il nome di questo Santo, presso il cui sepolcro siamo riuniti. La sua sollecitudine per i poveri, il generoso servizio che rese alla Chiesa di Roma nel settore dell’assistenza e della carità, la fedeltà al Papa, da lui spinta al punto di volerlo seguire nella prova suprema del martirio e l’eroica testimonianza del sangue, resa solo pochi giorni dopo, sono fatti universalmente noti. San Leone Magno, in una bella omelia, commenta così l’atroce martirio di questo "illustre eroe": "Le fiamme non poterono vincere la carità di Cristo; e il fuoco che lo bruciava fuori fu più debole di quello che gli ardeva dentro". Ed aggiunge: "Il Signore ha voluto esaltare a tal punto il suo nome glorioso in tutto il mondo che dall’Oriente all’Occidente, nel fulgore vivissimo della luce irradiata dai più grandi diaconi, la stessa gloria che è venuta a Gerusalemme da Stefano è toccata anche a Roma per merito di Lorenzo" (Homilia 85,4: PL 54, 486).
Cade quest’anno il 50° anniversario della morte del Servo di Dio, Papa Pio XII, e questo ci richiama alla memoria un evento particolarmente drammatico nella storia plurisecolare della vostra Basilica, verificatosi durante il secondo conflitto mondiale, quando, esattamente il 19 luglio 1943, un violento bombardamento inflisse danni gravissimi all’edificio e a tutto il quartiere, seminando morte e distruzione. Non potrà mai essere cancellato dalla memoria della storia il gesto generoso compiuto in quella occasione da quel mio venerato Predecessore, che corse immediatamente a soccorrere e consolare la popolazione duramente colpita, tra le macerie ancora fumanti. Non dimentico inoltre che questa stessa Basilica accoglie le urne di due altre grandi personalità: nell’ipogeo infatti sono poste alla venerazione dei fedeli le spoglie mortali del beato Pio IX, mentre, nell’atrio, è collocata la tomba di Alcide De Gasperi, guida saggia ed equilibrata per l’Italia nei difficili anni della ricostruzione post-bellica e, al tempo stesso, insigne statista capace di guardare all’Europa con un’ampia visione cristiana.
Mentre siamo qui riuniti in preghiera, mi è caro salutare con affetto tutti voi, ad iniziare dal Cardinale Vicario, da Monsignor Vicegerente, che è anche Abate Commendatario della Basilica, dal Vescovo Ausiliare del Settore Nord e dal vostro Parroco, P. Bruno Mustacchio, che ringrazio per le gentili parole che mi ha rivolto all’inizio della celebrazione liturgica. Saluto il Ministro Generale dell’Ordine dei Cappuccini e i Confratelli della Comunità che svolgono il loro servizio con zelo e dedizione, accogliendo i numerosi pellegrini, assistendo con carità i poveri e testimoniando la speranza in Cristo risorto a quanti si recano in visita al cimitero del Verano. Desidero assicurarvi il mio apprezzamento e, soprattutto, il mio ricordo nella preghiera. Saluto inoltre i vari gruppi impegnati per l'animazione della catechesi, della liturgia, della carità, i membri dei due Cori Polifonici, il Terz’Ordine Francescano locale e regionale. Ho appreso poi con piacere che da qualche anno è qui ospitato il "laboratorio missionario diocesano" per educare le comunità parrocchiali alla coscienza missionaria, e mi unisco volentieri a voi nell’auspicare che questa iniziativa della nostra Diocesi contribuisca a suscitare una coraggiosa azione pastorale missionaria, che porti l’annuncio dell’amore misericordioso di Dio in ogni angolo di Roma, coinvolgendo principalmente i giovani e le famiglie. Vorrei infine estendere il mio pensiero agli abitanti del quartiere, specialmente agli anziani, ai malati, alle persone sole e in difficoltà. Tutti e ciascuno ricordo in questa Santa Messa.
Cari fratelli e sorelle, in quest’inizio dell’Avvento, quale miglior messaggio raccogliere da san Lorenzo che quello della santità? Egli ci ripete che la santità, cioè l’andare incontro a Cristo che viene continuamente a visitarci, non passa di moda, anzi, col trascorrere del tempo, risplende in modo luminoso e manifesta la perenne tensione dell’uomo verso Dio. Questa ricorrenza giubilare sia pertanto occasione per la vostra comunità parrocchiale di una rinnovata adesione a Cristo, di un maggiore approfondimento del senso di appartenenza al suo Corpo mistico che è la Chiesa, e di un costante impegno di evangelizzazione attraverso la carità. Lorenzo, testimone eroico di Cristo crocifisso e risorto, sia per ciascuno esempio di docile adesione alla volontà divina perché, come abbiamo sentito l’apostolo Paolo ricordare ai Corinzi, anche noi viviamo in modo da essere trovati "irreprensibili" nel giorno del Signore (cfr 1 Cor 1,7-9).
Prepararci all’avvento di Cristo è pure l’esortazione che raccogliamo dal Vangelo di oggi: "Vegliate", ci dice Gesù nella breve parabola lucana del padrone di casa che parte ma non si sa quando tornerà (cfr Mc 13,33-37). Vegliare significa seguire il Signore, scegliere ciò che Lui ha scelto, amare ciò che Lui ha amato, conformare la propria vita alla sua; vegliare comporta trascorrere ogni attimo del nostro tempo nell’orizzonte del suo amore senza lasciarsi abbattere dalle inevitabili difficoltà e problemi quotidiani. Così ha fatto san Lorenzo, così dobbiamo fare noi e chiediamo al Signore che ci doni la sua grazia perché l’Avvento sia stimolo per tutti a camminare in questa direzione. Ci guidino e ci accompagnino con la loro intercessione l’umile Vergine di Nazareth, Maria, eletta da Dio per diventare la Madre del Redentore, sant’Andrea, di cui oggi celebriamo la festa, e san Lorenzo, esempio di intrepida fedeltà cristiana sino al martirio. Amen!
INDIA/ Vian: come i cristiani vincono la paura del terrorismo - INT. Giovanni Maria Vian - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
«Pregare per le numerose vittime» dei «brutali attacchi a Mumbai», esprimendo «orrore e deplorazione per l’esplosione di tanta crudele e insensata violenza»: così all’Angelus di ieri Benedetto XVI è tornato sui tragici fatti che pochi giorni fa hanno insanguinato le strade di Mumbai.
Dopo mesi di attacchi ripetuti ai cristiani della regione dell’Orissa, ora questi nuovi eventi mettono in luce ancora una volta quanto sia delicata e complessa la situazione del subcontinente indiano, sotto diversi punti di vista. Un problema «intrinseco» alla più grande democrazia del mondo, come spiega il direttore dell’Osservatore Romano Giovanni Maria Vian, che tiene insieme realtà molto diverse tra loro, e che nasconde tensioni che l’Occidente ha forse a lungo ignorato o sottovalutato.
Direttore, con quale animo il Santo Padre sta seguendo le notizie che arrivano dall’India?
Certamente il Papa e la Santa Sede stanno seguendo con grandissima attenzione e preoccupazione questi avvenimenti, non solo per la gravità in sé, ma anche per il fatto che tutto ciò va ad aggiungersi ad una situazione indiana critica già da molti mesi, a causa di una vera e propria persecuzione contro i cristiani. Questa attenzione è stata mostrata fin da subito, con il telegramma che il Segretario di Stato ha inviato a nome del Papa al vescovo di Mumbai, nonché dalle dichiarazioni del direttore della Sala stampa vaticana. A questo si aggiunge anche la continuità con cui il nostro giornale e tutti media vaticani stanno seguendo l’evolversi di questa situazione, che risulta ancora poco chiara.
I cristiani in India soffrono, come lei ora ricordava, per una persecuzione che negli ultimi mesi ha avuto momenti di forte recrudescenza. Ora, di fronte a questi atti di terrorismo, sebbene non diretti contro i cristiani, a quale nuovo compito è chiamata la Chiesa in India?
Ogni momento di crisi è un momento che interpella i cristiani, non solo i cattolici ma tutti i cristiani, sul loro modo di essere nel mondo. Il cristiano deve essere un richiamo alla coerenza, alla testimonianza che porta con sé una risposta. E questa, come ripetuto costantemente da molti vescovi e dalla stessa Santa Sede, non può che essere una risposta di riconciliazione, un vincere il male con il bene. C’è un modo diverso da parte dei cristiani di rispondere alla violenza, e le cronache di questi mesi lo stanno mostrando con chiarezza. Noi stessi abbiamo pubblicato testimonianze di cattolici, di religiosi e, soprattutto, di religiose che si trovano in questi mesi ad affrontare una situazione nuova. Certo continua a colpire l’indifferenza con cui l’opinione pubblica, che ora segue attentamente i recentissimi avvenimenti, abbia per lo più ignorato quello che nei mesi scorsi accadeva sempre in India, a danno dei cristiani. Fatta eccezione, naturalmente, per l’autorevolezza di grandi voci istituzionali che si sono pronunciate su questo, come il Capo dello Stato e il ministro degli Esteri, nonché alcuni importanti giornalisti, come ad esempio Pierluigi Battista sul Corriere della Sera.
In effetti le persecuzioni contro i cristiani non sono certo state un episodio meno grave di quello appena verificatosi; eppure è stato trattato dai media con un’attenzione decisamente minore. Come giudica il modo con cui l’informazione, e anche l’opinione pubblica, sta seguendo le notizie che arrivano dall’India?
Bisogna sicuramente tenere conto della novità, molto preoccupante, che ha contraddistinto questo ultimo attacco: si è trattato di un vero e proprio attacco militare al cuore dell’India, attentamente premeditato e altrettanto accuratamente messo in opera da professionisti, come le testimonianze riportate dalla stampa internazionale sembrano dimostrare. Si tratta di un terrorismo usato come arma da guerra, e questo è certamente ciò che colpisce. Detto questo, è anche vero che l’Occidente sembra scoprire solo ora che la democrazia più grande del mondo, come giustamente ritiene di essere l’India, non sia poi quell’immagine e quel mito di tolleranza che tra noi occidentali corre da decenni. E questo ha colpito anche molti sinceri amici dell’India. C’è una forte preoccupazione per una democrazia che ha i suoi limiti, intrinseci per la fisionomia di un paese così vasto e popoloso, che non a caso viene definito subcontinente: oltre un miliardo di persone, centinaia di lingue e di etnie, un forte sviluppo economico, dovuto anche alla globalizzazione, ma pur sempre con il mantenimento di grandi disuguaglianze. Non dimentichiamo che uno dei motivi che fomentano le violenze contro i cristiani è la destabilizzazione del sistema delle caste.
Di fronte a queste vicende si parla spesso della religione come di una cosa pericolosa, fonte in sé di scontri e di violenze: come rispondere a questa che è evidentemente una semplificazione?
Cercando di informarsi accuratamente, e di respingere con argomentazioni questi che non sono altro che stereotipi, spesso indotti ad arte e privi di fondamento. Che certi eventi, come quelli recenti, siano spesso legati a concezioni e a visioni religiose con tendenze fondamentaliste, questo è un fatto; ma ciò non significa che le religioni stesse siano responsabili della violenza. Nessuna religione lo è; anche se va sicuramente notato che è la storia stessa, e in particolare proprio la storia delle religioni, a mostrarci chiaramente le differenze che ci sono state nell’evoluzione delle singole credenze.
L’attacco terroristico in India è arrivato qualche giorno dopo la notizia dei timore di nuovi attentati a New York, come emerso da un report dell’Fbi. Il terrorismo genera paura, una paura diffusa che va a incrinare anche le certezze della vita quotidiana: di fronte a questi sentimenti di incertezza, che risposta e che speranza portano i cristiani?
I cristiani, insieme a tutti gli uomini sinceramente religiosi, sono nel mondo per testimoniare che il male non avrà l’ultima parola, e che quindi non c’è motivo di lasciarsi dominare dalla paura. È una certezza che attraversa tutta la storia della cristianità, presente fin dai primi neotestamentari, per giungere alle parole anche degli ultimi pontefici. Tutti ricordano le parole che furono pronunciate il 22 ottobre del 1978 da Papa Giovanni Paolo II, quel “Non abbiate paura!” detto con una forza e un’energia che colpiscono ancora oggi, e il cui messaggio è stato recepito e continuato dal successore Benedetto XVI. Si tratta di un’esortazione che affonda le proprie radici nell’intimo della fede cristiana: la fiducia nel Dio cui non sfugge nemmeno il passero che cade. La Provvidenza divina è onnipotente e onnisciente, ed è questa la certezza su cui quell’esortazione si fonda. Bisogna avere fiducia nel fatto che il male non prevarrà; e questo è un invito che vale non solo per gli uomini di fede, ma per ogni persona umana di buona volontà.
COLLETTA/ Un grande risultato che mostra quanto può fare il “contagio della carità” - Gianluigi Da Rold - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
I numeri sono ancora positivi e su quelli ci soffermeremo per qualche considerazione. Ma l’impatto e l’importanza della dodicesima Colletta alimentare rivelano ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, l’intuizione di don Luigi Giussani e di Danilo Fossati.
Il semplice atto di carità, il semplice gesto del dono batte tutte i modelli e tutti i programmi di rilancio economico, svela l’autentica povertà dei meccanismi della tecnofinanza. Soprattutto in un momento come questo di grave crisi finanziaria mondiale e di recessione economica ormai dichiarata dagli osservatori internazionali.
Come diceva Luigi Giussani agli amici anche più increduli: si assisterà con questa giornata allo spettacolo della carità. Si pensi solo a questo raffronto: i consumi a livello nazionale calano in percentuale del 3%: la Colletta alimentare aumenta ancora la portata complessiva della sua raccolta in un giorno solo avvicinandosi alle novemila tonnellate e segnando un nuovo incremento percentuale che è quasi di un punto.
E poiché l’importanza del gesto prevale sempre sul risultato, va anche aggiunto che questa volta l’ultimo “sabato di novembre” è coinciso con una giornata in cui la stessa Protezione civile, per le eccezionali condizioni atmosferiche di freddo, neve e pioggia, consigliava di starsene a casa.
L’atto di carità vale quasi un piccolo “peccato di disobbedienza civile”, perché malgrado le avverse
condizioni di tempo, ancora una volta oltre cinque milioni di italiani hanno donato una parte della loro spesa ai poveri e almeno più di centomila italiani si sono presentati nei grandi punti di vendita
per aiutare la raccolta, per trasportare le merci, per immagazzinarle al fine poi di distribuirle.
Se questo non è lo spettacolo di un popolo civile, attento e consapevole verso il bisogno dell’altro, si può anche ridiscutere lo stesso concetto di civiltà che è nato da tradizioni secolari.
Il fatto più importante da sottolineare resta sempre quello di un doppio stupore: il primo è quello di una mobilitazione spontanea, che diventa incredibilmente ordinata ed efficiente; il secondo è la portata economica e sociale che il Banco Alimentare ha innescato nella società italiana. Può anche fare poco effetto il controvalore (decine di milioni di euro) della merce destinata alla popolazione più disagiata.
Ma certo, dopo anni di attività, viene attestato da economisti e da grandi uomini di finanza che il meccanismo della raccolta nella Giornata della Colletta e quello stesso che il Banco Alimentare mette in atto per tutto l’anno, sono da “premio Nobel”, come dice un grande economista, Luigi Campiglio. Oppure hanno aspetti e criteri di efficienza e razionalità che sono da primato in fatto di imprenditorialità, come ha dichiarato l’amministratore delegato di Intesa San Paolo, Corrado Passera.
Alla fine, di fronte a una cultura scettica dominante, emerge sempre lo stupore complessivo di come il cuore dell’uomo sappia cogliere e rispondere, con semplicità e spontaneità, ai bisogni più urgenti.
Non è solo questo l’aspetto prevalente che si coglie nell’attività del Banco Alimentare e della Giornata della Colletta. C’è in più la coincidenza di una partecipazione singola e collettiva degna di un grande racconto o di milioni di storie personali, tutte differenti, tutte incredibili da vedere.
Ieri c’erano i volontari di Torino e del Piemonte, in oggettiva difficoltà per una tormenta di neve su tutta la loro regione. Il problema non era solo la raccolta nei supermercati, ma anche la difficoltà del trasporto e dell’immagazzinamento. Ecco come si può dare “qualcosa in più”. Si può fermarsi nei magazzini, magari gelidi, ammucchiare le merci e metterle in scatola, poi dormire nei sacchi a pelo pur di completare un lavoro nel giro di poche ore al mattino successivo.
Il problema non è di latitudine, perché nel Materano, le condizioni meteorologiche e di viabilità erano ancora peggiori. E lì c’è voluto tutto il sacrificio personale e corale di andare a recuperare quello che è stato raccolto nei punti più disagevoli della zona.
Ma per cogliere lo spirito dell’iniziativa bastava guardare al di fuori di un grande supermercato della cintura milanese e vedere come anziani pensionati portavano spontaneamente interi carrelli di merce in dono, riservandosi per loro la spesa consueta del weekend.
Bastava alla fine ascoltare i brevi colloqui tra i donatori e i volontari: «Questo è il mio pacchetto, ma come posso fare per rendermi ancora più utile? Posso venire anch’io a darvi una mano?» È come se si formasse una sorta di “contagio” benefico, come se l’esempio e il dono si unissero per raggiungere un traguardo più ampio. Si assiste di nuovo all’aspetto più bello, cioè al fatto che fare del bene agli altri, coinvolge al punto che fa stare bene anche l’autore del dono.
Le storie dei singoli, segnalate per cronaca, riempiono ogni anno lo “spettacolo della carità”. Impossibile segnalarli tutti, ricordali tutti. Vale la pena di ricordare ancora, come cadano in questa giornata tutte le differenze culturali e religiose, sociali e politiche.
Se in tutti i mesi dell’anno puoi guardare, talvolta, quasi con sopportazione gli immigrati, gli extracomunitari che fanno parte ormai di ogni grande città o provincia italiana, nella Giornata della Colletta, ti accorgi che la carità alla fine sembra la strada migliore per un momento di autentica integrazione.
Come a Pisa, dove dieci nordafricani islamici e ospitati in un dormitorio pubblico hanno fatto per tutta la giornata i volontari, o come a Milano dove un gruppo di ragazzi - anche loro musulmani - hanno aiutato i volontari a inscatolare quanto raccolto.
O come Mario, egiziano con un piccolo negozio di pizzeria e kebab a Milano, che sabato ha dedicato due ore alla Colletta, anche se, preso tra mille difficoltà, non chiude quasi mai il suo negozio. E' da poco riuscito a portare in Italia sua moglie e i suoi tre figli, così prova a tirare avanti la famiglia e la sua impresa, cercando l'asilo per i due piccolini, di seguire la maggiore nei compiti e di insegnare alla moglie un po' di italiano. È un cristiano, con la pelle scura, insomma quanto basta per farsi guardare con diffidenza dai connazionali e dagli italiani. Eppure quelle due ore di lavoro (in cui avrà perso qualche cliente) gli "sono sembrate volare".
«Sai - ha detto al volontario che lo aveva invitato a venire, mentre preparava le scatole con una velocità e una cura impressionanti - sono contento di essere qui, oggi è il compleanno di mia moglie, ma so che anche lei è contenta: è giusto dare una mano a chi fa fatica, e poi volevo conoscere i tuoi amici». Poche parole, e tanto lavoro per Mario, sabato come ogni giorno. Fuori piove e ci sono le pizze da consegnare in motorino. Ma con un sorriso in più, e la consapevolezza di non essere soli.
CIPRO/ Quando la libertà religiosa è urgente anche per l'Europa - Mario Mauro - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Come fu per la presa della cattedrale di Santa Sofia, nel 1453, da parte delle orde turche, quando saccheggiata, privata della immagini sacre e circondata da minareti, venne trasformata in moschea, così anche la vicina isola di Cipro porta su di sé i segni dell'occupazione ottomana.
I cristiani ciprioti vivono ancora con dolore la perdita di numerosi luoghi sacri a loro particolarmente cari. Dal 329, quando con il Concilio di Nicea venne confermata l'autonomia della chiesa di Cipro, quest'isola si professa cristiana. Sul cristianesimo, riconfermato nuovamente dal Concilio di Efeso, si fondano le origini di questo Paese che, dal 2004, è membro dell'Unione Europea: le pareti delle chiese (le chiese dipinte, proclamate dall'Unesco patrimonio dell'umanità, sono soltanto una piccola parte di questo immenso tesoro), le immagini sacre nelle case, i volti e i cuori delle persone testimoniano la devozione e la fede che vivono ancora oggi e che è stata tramandata lungo i secoli.
Dall'assedio di Famagosta nel 1571 - cioè dalla conquista Ottomana dopo lunghe e sanguinose battaglie - la terza isola più grande per estensione del Mediterraneo ha sempre vissuto con conflitto l'invasione turca. Ottenuta l'indipendenza dall'impero ottomano nel 1898, il problema dell'occupazione dell'isola da parte dei turchi si ripropose nel 1974 con lo sbarco sull'isola di soldati che si sono concentrati nella parte a nord del Paese.
I risultati di questo insediamento, rafforzatosi poi nel 1983, sono sotto i nostri occhi: sono oltre 170mila i cittadini ciprioti, che rappresentavano quasi un terzo della popolazione della Repubblica di Cipro nel 1974, a esser diventati profughi nella loro stessa patria, più di 500 chiese, cappelle e monasteri cattolici, maroniti, armeni e ortodossi, sono stati occupati o distrutti.
Dal 1974, anno dell'occupazione militare, fino a oggi la Turchia ha trasferito oltre 160mila coloni nel territorio occupato che si trova nella parte a nord di Cipro. Senza contare che i fedeli cristiani, per secoli, hanno visto soffocare la loro fede attraverso la perdita e la dissacrazione dei loro - dei nostri - luoghi sacri.
La convivenza tra le diverse etnie non si può definire pacifica quando l'una cerca di prevalere sull'altra, quando un credo religioso cerca di sopraffare l'altro, osteggiarlo o, peggio, annullarlo. A testimonianza di questo possiamo ascoltare il grido di dolore dei maggiori esponenti della chiesa cipriota, come di tutti i fedeli che, lungo i secoli, e, in special modo, nei decenni che ci siamo appena lasciati alle spalle, hanno visto espropriate le testimonianze della propria fede.
L'occupazione turca ha cercato di cancellare molte di queste testimonianze visibili del fervore religioso di questo meraviglioso popolo. Ha cercato a più riprese di annullare, con lenti e continui attacchi, più di duemila anni di storia, ma non ha potuto cancellare la fede che è stata tramandata di generazione in generazione che ancora oggi è più che mai viva e presente tra i suoi abitanti. I resti, le macerie, i tentativi di annientamento di queste radici sono i baluardi - e al contempo le prove evidenti - di tale tentativo.
Dal 1974 si è venuta poi a creare una demarcazione, forzata dagli eventi bellici, tra i due diversi culti, acuitasi a causa di una separazione geografica della popolazione. Nella parte sud, la popolazione di etnia greco-cipriota rappresenta il 95% di quella totale, mentre in quella nord l'etnia turco-cipriota rappresenta il 98%. Ciò è dovuto alla deportazione, dalla parte nord dell'isola verso l'area sud, di circa 200mila abitanti greco-ciprioti. Ed è particolarmente a nord che i loro beni sono stati confiscati ed i loro simboli religiosi in gran parte distrutti.
Tutte le più importanti moschee - Keryneia, Lefkkosia, Famagosta, Pafos, Larnaka, Lemesos - inizialmente costruite come chiese cristiane, furono occupate dai turchi e trasformate in luoghi di culto. Ma c'è di più. Quelle che erano le chiese di un tempo, depredate e private della loro sacralità, versano oggi in uno stato di abbandono, o peggio, sono diventate non più luogo di culto, ma musei, hotel, cascinali, palestre. Gli affreschi e le decorazioni, tesori artistici e spirituali, cancellati e deturpati, totalmente o in maniera parziale, sono la prova della decisa volontà di annullare le profonde radici cristiane dell'isola di Cipro.
Oggi si invoca libertà religiosa, usando però due pesi e due misure. Anche ai cristiani, invece, deve essere consentita la possibilità di riappropriarsi dei loro luoghi sacri. È una questione di giustizia. A Cipro, quest'isola straordinaria per la presenza di testimonianze e tesori archeologici, la tutela della libertà religiosa, quella libertà che da sola garantisce una piena realizzazione della dignità di ogni uomo, diviene ancora più urgente.
TESTAMENTO BIOLOGICO/ Fine vita, i progetti di legge che non hanno imparato molto dal caso Eluana (1) - Riccardo Marletta – IlSussidiario.net
lunedì 1 dicembre 2008
Con questo articolo Riccardo Marletta, avvocato e membro della Libera Associazione Forense, comincia l'analisi dei disegni di legge in discussione in commissione al Senato per arrivare a una legge sul fine vita da più parti auspicata. Oggi sono presi in considerazione i ddl MARINO (Pd), TOMASSINI (PdL) e MASSIDDA (PdL) che potrebbero segnare il rischio di una deriva verso nuovi "casi Englaro". I temi eticamente sensibili, come vedremo, sono assolutamente trasversali agli schieramenti.
A seguito della vicenda giudiziaria di Eluana Englaro una larghissima parte dell’opinione pubblica è ormai fermamente convinta della necessità di una legge che disciplini il fine vita.
Alcun giorni fa anche il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, rispondendo a un appello a favore della vita di Eluana presentato dal Movimento per la Vita, ha sottolineato l’urgenza dell’introduzione di una normativa in materia.
Attualmente sono all’esame della Commissione “Igiene e Sanità” del Senato undici progetti di legge sull’argomento, presentati nell’arco temporale intercorrente tra la fine di aprile e il mese di novembre del corrente anno.
Ben poche notizie circa i contenuti di tali progetti di legge sono giunte dagli organi di informazione.
Può dunque essere opportuno analizzarne i tratti salienti, augurandosi davvero che si possa giungere al più presto ad una soluzione legislativa largamente condivisa che tuteli appieno la vita umana anche nella sua fase terminale.
Esaminando i primi progetti di legge presentati, si scopre che i progetti di legge Marino (Pd), Tomassini (Pdl) e Massidda (PdL) hanno contenuti in larga parte analoghi.
Tali progetti di legge, oltre a sancire il principio secondo cui il trattamento sanitario è subordinato all’esplicito consenso dell’interessato (tranne che nei casi di assoluta urgenza), contemplano la possibilità di rilasciare dichiarazioni anticipate di trattamento in forma scritta (nel progetto Massidda denominate “testamento di vita” ), revocabili in qualunque momento, mediante le quali l’interessato potrebbe dettare disposizioni in merito all’accettazione o al rifiuto dei trattamenti sanitari che dovessero rendersi necessari in futuro.
Una previsione analoga è contenuta anche nel progetto di legge presentato dal senatore Musi (Pd), nel quale è altresì precisato che le dichiarazioni anticipate di trattamento potrebbero prevedere anche il rifiuto dei «cosiddetti trattamenti di sostegno vitale quali la ventilazione, l’idratazione e l’alimentazione artificiale». A proposito di tali trattamenti, il progetto Tomassini con una previsione dalla formulazione tutt’altro che felice, stabilisce invece che «l’idratazione e l’alimentazione parenterale non sono assimilate all’accanimento terapeutico» (di cui peraltro il progetto di legge non fornisce una definizione), senza tuttavia chiarire se le dichiarazioni anticipate di trattamento potrebbero riguardare o meno anche queste forme di sostegno vitale.
I progetti Marino, Tomassini e Massidda prevedono poi che le direttive contenute nelle dichiarazioni anticipate di trattamento siano impegnative per le scelte sanitarie del medico. Quest’ultimo potrebbe disattendere tali dichiarazioni soltanto quando esse fossero divenute inattuali sulla base degli sviluppi delle conoscenze scientifiche e terapeutiche; secondo quanto previsto nel progetto Marino, nell’effettuazione di questa valutazione il medico sarebbe comunque tenuto ad acquisire il parere del comitato etico della struttura sanitaria interessata e ad adeguarvisi e non potrebbe dunque mai decidere autonomamente di disattendere le direttive contenute nelle dichiarazioni anticipate di trattamento.
Nessuno dei progetti in questione indica un termine temporale massimo di validità delle dichiarazioni anticipate di trattamento, il che sancirebbe definitivamente la negazione del principio, enunciato anche dalla giurisprudenza precedente alle sentenze della Cassazione sul caso Englaro, della necessità dell’attualità del consenso all’effettuazione dei trattamenti sanitari ovvero del rifiuto degli stessi.
I progetti di legge in esame prevedono poi che nell’ambito delle dichiarazioni anticipate di trattamento si possa (progetti Marino, Massidda e Musi) ovvero si debba (progetto Tomassini) nominare un fiduciario cui affidare l’esecuzione delle disposizioni di cui alle dichiarazioni stesse.
In mancanza di indicazioni nell’ambito delle dichiarazioni anticipate di trattamento, il fiduciario, al pari degli altri soggetti tenuti a dare attuazione a tali dichiarazioni, dovrebbe operare «nell’esclusivo e migliore interesse dell’incapace», tenendo altresì conto «dei valori e delle convinzioni notoriamente proprie della persona in stato di incapacità».
È evidente, con riguardo a quest’ultimo profilo, il riferimento ai criteri introdotti dalla Cassazione nel caso di Eluana Englaro.
Con un’importante notazione. Ove questi progetti fossero approvati, per certi aspetti si andrebbe addirittura oltre a quanto sancito dalla Cassazione nella vicenda Englaro.
Anche in presenza di dichiarazioni anticipate di trattamento, infatti, il fiduciario del soggetto che ha reso tali dichiarazioni potrebbe rifiutare per conto del rappresentato trattamenti sanitari che si rendessero necessari per quest’ultimo, anche se nelle dichiarazioni anticipate l’interessato non abbia affatto espresso la volontà di sottrarsi a quei determinati trattamenti.
Appare del tutto evidente che previsioni di questo tipo si muovono nella direzione opposta a quella indicata da molta parte dell’opinione pubblica e da alcuni rappresentanti del Governo, secondo cui uno degli intenti principali della futura legge sarebbe quello di evitare altri “casi Eluana”.
C’è da augurarsi che il Parlamento ne tenga adeguatamente conto.
(Continua - 1)
SPAGNA/ Se deve essere un ateo a ricordarci l’importanza del crocefisso - José Luis Restan - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
La sentenza di un giudice di Valladolid che obbliga a togliere il crocefisso dalle aule della scuola pubblica Macías Picavea ha suscitato una curiosa divisione nel campo socialista. Mentre il ministro dell’Educazione Mercedes Cabrera vorrebbe lasciare questo tipo di decisione ai Consigli scolastici di ogni paese, il vicesegretario del Psoe Blanco e il portavoce al Congresso Alonso ritengono che questa sentenza, che non è definitiva e che riguarda solamente una scuola, sia da trasformare in una dottrina da applicare in via generale a tutto l’ambito educativo spagnolo.
La proposta di Cabrera sembra sensata e l’averla applicata al caso specifico di Valladolid avrebbe permesso ai crocifissi di rimanere nelle aule, perché la maggioranza dei genitori appoggiava la loro permanenza, ed è stato l’impegno di una minoranza laicista che ha portato il caso ai tribunali con la conclusione conosciuta.
Purtroppo c’è da temere che la dottrina unificata del Psoe sia quella incarnata da Blanco e Alonso (che ho già segnalato la scorsa settimana riguardo al caso di Madre Maravillas), e che quindi il loro partito voglia eliminare gradualmente dall’ambito pubblico tutti i simboli religiosi. I socialisti non avrebbero potuto ricevere regalo migliore di questa sentenza, che è stupefacente perché segnala la presenza del crocefisso quale violazione della libertà religiosa e attentato all’articolo 16 della Costituzione.
La questione del crocefisso nella scuola vi è stata già in altri Paesi europei e ha dato luogo a diverse soluzioni politiche e giuridiche. In Francia si è battuta la strada laicista di sopprimere i simboli religiosi nelle aule (arrivando anche a disciplinare l’abbigliamento), mentre in Italia si è riconosciuto che il crocefisso è un punto di riferimento della cultura comune su cui si basa la laicità della Repubblica, e pertanto può essere appeso nelle aule. La legge statale della Baviera va oltre e riconosce nel simbolo della croce la volontà di realizzare i valori costituzionali ispirati a quelli cristiani e occidentali. Come si vede, la gamma di soluzioni è ampia e offre spunti per un dibattito approfondito.
In un’intervista concessa nel novembre del 2004 al vaticanista Marco Politi, l’allora cardinal Ratzinger affrontava la questione spiegando che possono esistere Paesi in cui il crocefisso non esprime un riferimento o un orientamento morale comune, perché la presenza cristiana non ha segnato la sua storia. Tuttavia per gli altri, tra cui la Spagna, il crocefisso resta un punto di orientamento che può essere riconosciuto tanto dai credenti quanto dai non credenti, quale punto di riferimento essenziale del tessuto etico-culturale condiviso dalla maggioranza della società.
Più avanti il cardinal Ratzinger spiegava il significato del crocefisso: «La Croce ci parla di un Dio che si fa uomo e muore per l’uomo, che ama l’uomo e lo perdona; questa è una visione di Dio che esclude il terrorismo e le guerre di religione in nome di Dio».
Tutta la cultura occidentale (la filosofia, la politica, la scienza e il diritto) affonda le sue radici nella concezione di Dio e dell’uomo che il crocefisso rappresenta in modo supremo. È proprio questa concezione che è alla radice della laicità, che solamente ha potuto svilupparsi su questo substrato. Senza la presenza di ciò che significa e rappresenta il crocefisso, la laicità sarà un vuoto desolante come le pareti nude che vuole il Psoe di Zapatero.
Nel recente libro Dio salvi la ragione, pubblicato da Ediciones Encuentro, il filosofo ateo Gustavo Bueno spiega perché il Dio dei cristiani ha salvato la ragione umana dai suoi diversi deliri nel corso della storia dell’Occidente, e fino a che punto ha senso dire che la continuerà a salvare nel futuro, date le minacce del nichilismo, della prepotenza dello Stato o del fondamentalismo islamico.
Secondo Bueno, che non professa la morte del Dio fatto uomo sulla croce, la notizia arrivata da Valladolid può solamente significare un impoverimento delle difese della nostra già debole e complessata cultura.
La presenza della croce, come segno e bussola della grande avventura della cultura occidentale, non viola i diritti di nessuno e non provoca coercizione o diminuzione della libertà, ma offre un punto di incontro, una memoria del meglio della nostra impresa comune e un aggancio sicuro con la storia. Al contrario, la soppressione dei crocefissi a colpi di decreti o di sentenze giuridiche vuol dire impegnarsi a svuotare una società della sua sostanza, provocare una rottura traumatica ed escludere la dimensione religiosa dalla costruzione della città.
Questa sembra essere la via scelta dal socialismo spagnolo: non gli importa qual è la realtà sociale, che nella maggioranza dei casi riconosce il valore di convivenza che suppone la croce e che può risolvere in modo pacifico le divergenze che possono sorgere, ma impone una rottura e pretende di dar forma alla stessa realtà sociale secondo i suoi parametri ideologici.
D’altra parte, in quella stessa intervista il cardinal Ratzinger già aveva avvisato del fatto che sarebbe potuto accadere in futuro che un popolo perdesse la sua sostanza cristiana, così che il segno della croce smettesse di avere una rilevanza che potesse avvallare la sua presenza nell’ambito pubblico. È un saggio avvertimento, perché il processo in corso punta in questa direzione e non lo si ferma con ricorsi giudiziali né con calorosi discorsi.
È indiscutibile che la radice della Spagna è cristiana (e il crocefisso è il segno più eloquente di questo), ma questa radice non può nutrire la vita degli uomini e delle donne di questa generazione, e questo ci porta ancora una volta alla sfida di una nuova missione, di una testimonianza e di un’educazione che permettano di sperimentare nel presente la verità e il bene rappresentati dal simbolo della croce. Questa è l’unica risposta vincente di fronte a qualsiasi laicismo.
Solženicyn/ Le tre vocazioni di un grande scrittore - INT. Nikita Struve - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Nikita Struve conosce molto bene Solženicyn. Gli è stato fraterno amico per trent’anni, ha pubblicato presso la sua casa editrice parigina YMCA Press Arcipelago GULag, ha tenuto una orazione ai funerali dello scrittore. Ora è in partenza per Mosca, dove parteciperà al grande convegno di studi che era stato pensato per celebrare i novant’anni di Solženicyn. Prima ha trovato il tempo di tenere una affollata conferenza agli studenti dell’Università Cattolica di Milano, dove è anche allestita la mostra che già molti hanno visto allo scorso Meeting di Rimini. Professor Struve, chi era veramente Aleksandr Solženicyn?
È indubbio che Solženicyn sia stato un grande del Ventesimo secolo. Eppure non è facile spiegare questa sua grandezza umana e letteraria. Non si riescono a trovare le parole per descrivere la sua opera, che è quasi un unicum nel panorama letterario mondiale. Baudelaire ha scritto che gli uomini grandi sono solo il poeta, il prete e il soldato. E da piccolo Solženicyn diceva di sé che avrebbe voluto diventare, in ordine, un condottiero, un prete, uno scrittore. Poi il destino ha scelto per lui la strada dello scrittore, ma io credo che in realtà egli abbia realizzato tutte e tre queste sue «vocazioni» infantili.
Proviamo ad analizzare queste vocazioni.
Partiamo da quella più evidente. Solženicyn è stato un grande, un grandissimo scrittore. E, come ho accennato prima, per lui è stata veramente una vocazione. Vi si è dedicato a partire dai quarant’anni, dopo aver fatto la terribile esperienza della guerra, del lager, del cancro. Avendo ritrovato al fede, ha compreso che la sua vita aveva un compito: quello di conservare, attraverso la scrittura, la memoria di ciò che aveva visto. Pensi che già a 18 anni immaginava di scrivere una grande opera epica sulla rivoluzione d’ottobre. Lo fece decenni più tardi, dopo tante vicissitudini personali, scrivendo la gigantesca Ruota rossa. Solženicyn era così convinto della sua missione di scrittore che in lager, dove non era assolutamente possibile scrivere alcunché, si è dedicato alla poesia: il ritmo dei versi e la rima gli hanno consentito di ricordare fino alla liberazione quello che andava componendo nella sua mente. Appena ha potuto esprimersi, la sua vena di scrittore è esplosa; la sua opera omnia consta di trenta volumi. Ed è un’opera straordinariamente innovativa in termini linguistici, sintattici, estetici.
In che senso Solženicyn fu anche un soldato?
Anzitutto in quello ovvio che desiderò partecipare alla guerra in difesa della sua patria e si comportò molto onorevolmente, ricevendo anche parecchie medaglie. Ma quello che voglio sottolineare è la sua tempra di stratega e il suo coraggio. Ce ne voleva molto, di coraggio, per mandare ad una rivista ufficiale un racconto come Una giornata di Ivan Denisovic che parlava, per la prima volta, dei lager sovietici. E ci voleva una grande intelligenza strategica per scrivere un libro come Arcipelago GULag nascondendo le copie del dattiloscritto, distribuendole tra gli amici in modo tale che il KGB non le trovasse. Se noi abbiamo potuto leggerlo è stato per questa sua intelligenza.
Veniamo alla vocazione di sacerdote.
Secondo me Solženicyn l’ha realizzata al suo livello più alto, quello del profeta. Il profeta è anzitutto colui che vede quello di cui altri non si accorgono; e Solženicyn era proprio così: aveva un'intelligenza acutissima e comprendeva la situazione del suo interlocutore prima che questi parlasse. Il profeta, poi, è colui che ha il coraggio di denunciare la menzogna e l’ingiustizia e, per questo, è odiato. In Solženicyn questo aspetto è evidentissimo: basta pensare alle sue forti prese di posizione di fronte a ogni attacco contro la verità (anche in occidente), e alla consapevolezza che per questa libertà si deve pagare di persona. Lui ha pagato, non solo con la persecuzione e l’espulsione dal suo paese. Solženicyn sapeva che la sua profezia avrebbe potuto costargli la vita; e infatti nel 1971 tentarono di ucciderlo avvelenandolo.
Solženicyn, quindi, realizzò le sue aspirazioni di bambino?
Certamente. Ma occorre tenere presente un aspetto per me fondamentale e che documenta ulteriormente la sua genialità. Tutti quelli che l’hanno conosciuto hanno notato la sua straordinaria forza di volontà e il suo coraggio. Ma sotto a tutto questo sta un’altra dinamica, molto più profonda. Voglio parlare di quello che san Paolo, nella lettera ai Filippesi, chiama kenosi, cioè lo svuotamento di Cristo, che da Dio si è fatto uomo e, come uomo, si è annullato fino alla morte. Ecco, Solženicyn è stato un condottiero, un sacerdote e uno scrittore di eccezionale grandezza, perché ha accettato per sé questa strada. Pensi che il primo periodo di lager l’ha trascorso in una condizione privilegiata: si trovava in un campo per scienziati (non dimentichiamo che Solženicyn era un valente matematico) nel quale le condizioni di vita erano molto migliori che negli altri luoghi di reclusione. Bene, Solženicyn, insieme ad altri, ha chiesto di essere trasferito in un lager «normale», quindi molto più duro, proprio per bere fino in fondo il calice della sofferenza. Del resto molti personaggi dei suoi racconti sono grandi proprio perché rinunciano a se stessi per un ideale grande. Pensi a Matriona del celebre racconto che dona tutta se stessa oppure a quel funzionario di partito, Innokentij Volodin che avrebbe potuto diventare ambasciatore in Francia, ed invece fa filtrare all’estero notizie sulla fabbricazione dell’atomica in URSS e per questo viene arrestato. Ma proprio in prigione, cioè al fondo della kenosi, egli ritrova la sua umanità. Ma allora, c’è una parola sintetica che oso utilizzare per descrivere Solženicyn: santità.
MEDICINA/ Lo strano caso dei neuroni specchio, una scoperta che allarga il mistero dell'agire umano - Redazione - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
I neuroni specchio (mirror neurons) sono una delle star scientifiche di questo 2008: almeno in libreria e nella divulgazione. Il loro singolare coinvolgimento una quantità di esperienza quotidiane comuni a tutti, li rende intriganti e degni di considerazione e approfondimento.
Ma cosa sono i neuroni specchio? Scoperti casualmente nell’area premotoria F5 (e successivamente in una regione del lobo parietale posteriore connessa con F5) della corteccia cerebrale delle scimmie da laboratorio (Macaca nemestrina), questi scaricano (cioè producono impulsi elettrici) sia quando la scimmia compie un determinato atto motorio che comporti un’interazione effettore-oggetto sia quando essa si limita ad osservare un altro (scimmia o sperimentatore) compiere il medesimo atto. Questa duplice attivazione ci indica che i messaggi inviati dai neuroni visuo-motori (cioè quei neuroni che rispondono sia a stimoli visivi che a stimoli motori) che sono dotati di proprietà specchio sono gli stessi sia quando la scimmia interagisce con un determinato oggetto sia quando essa si limita ad osservare la stessa operazione compiuta da un altro. Questo fatto ci indica come per questa speciale classe di neuroni l’informazione di tipo sensoriale e quella di tipo motorio siano riconducibili ad un “formato” comune. L’attivazione dei neuroni specchio durante l’osservazione di un atto motorio, non seguito dall'effettiva esecuzione del medesimo atto da parte della scimmia osservatrice, rappresenta quindi l’automatica “evocazione interna” e potenziale di quello stesso atto motorio che la scimmia stessa compie quando interagisce con il medesimo oggetto.
Questa scoperta si inserisce in un più ampio quadro di revisione delle funzionalità delle aree della corteccia cerebrale (sia delle scimmie che umane), che ha messo in evidenza come una netta divisione tra le aree sensoriali (atte a codificare fenomeni sensoriali come quelli visivi, somatosensitivi e uditivi) e quelle motorie (atte cioè all’organizzazione dei movimenti), così come era stata ipotizzata in passato, non sia adatta a rappresentare efficacemente la complessità e la mutua correlazione vigente tra di esse. Queste aree non sono etichettabili solo come “sensitive pure” e “motorie pure”: è infatti a livello dell’area premotoria F5 della scimmia, che sono stati scoperti i cosiddetti “neuroni visuo-motori canonici”: essi si attivano cioè sia quando la scimmia interagisce con un oggetto sia quando si limita ad osservarlo. Questa duplice attivazione fornisce una conferma alla teoria delle affordances formulata da James Gibson circa cinquant’anni fa, secondo cui gli oggetti offrono all’osservatore delle possibilità di azione semplicemente presentando visivamente le proprie possibilità di presa/utilizzo, e configurandosi quindi come poli di atti virtuali. I neuroni visuo-motori di F5 però non codificano le singole affordances offerte da un oggetto, quanto piuttosto gli atti motori ad esse congruenti.
Ma i neuroni specchio possiedono delle proprietà ancora più interessanti: il loro specifico schema di attivazione ci indica infatti come essi permettano – a differenza di quelli visuo-motori canonici di F5 – una comprensione delle azioni degli altri, comprensione che è di natura preriflessiva ed immediata: il fatto che nella scimmia che osserva un determinato tipo d’atto si attivino gli stessi neuroni che scaricano quando è essa stessa a compiere quell’atto fornisce all’animale una comprensione dell’azione dell’altro che è caratterizzata da una forte pregnanza motoria interna. C’è chi, per descrivere efficacemente questo fenomeno, ha parlato infatti di “simulazione incarnata”. Bisogna però sottolineare che i neuroni specchio della scimmia non rispondono ad atti mimati o intransitivi (cioè privi di un correlato oggettuale).
Nelle scimmie inoltre i neuroni specchio codificano anche atti motori finalizzati ad uno scopo preciso (come “afferrare per portare alla bocca” o “afferrare per spostare”); sono poi stati scoperti anche i neuroni specchio audio-visivi, che scaricano cioè sia quando la scimmia osserva lo sperimentatore compiere un’operazione che produce un rumore (ad esempio rompere una nocciolina), sia quando essa ascolta il rumore causato dalla rottura della nocciolina stessa. Infine, sono stati scoperti i neuroni specchio “comunicativi”, quelli cioè che non solo risultano correlati all’esecuzione ed all’osservazione di azioni della bocca, ma anche all’osservazione di espressioni facciali comunicative compiute dallo sperimentatore.
La scoperta dei neuroni specchio nelle scimmie ha subito interrogato gli scienziati sull’esistenza di un sistema simile nell’uomo. Essi sono stati in effetti scoperti anche nella nostra specie, grazie a metodi di indagine dell’attività cerebrale non invasivi, come la risonanza magnetica funzionale (fMRI), la tomografia ad emissione di positroni (PET) e la stimolazione magnetica transcranica (TMS). I nostri neuroni specchio presentano alcune similarità rispetto a quelli delle scimmie: come la proprietà di poter codificare non solo singoli atti bensì intere catene d’atti, e la capacità di comprendere non solo il tipo di atto eseguito ma anche lo scopo per il quale quell’atto è compiuto. Esso presenta però alcune importanti differenze: nell’uomo infatti il sistema dei neuroni specchio appare più esteso di quello delle scimmie; inoltre essi si attivano anche alla vista di azioni mimate ed intransitive (cioè non dirette ad un correlato oggettuale). Sono stati osservati neuroni specchio legati alla codifica di azioni compiute da mano, bocca e anche piede.
Ulteriori studi sull’uomo hanno mostrato come essi siano coinvolti nel processo imitativo: non solo su quello che si basa su un substrato neuronale interpretabile come un “vocabolario interno di atti motori” già posseduto, ma anche nell’apprendimento di atti non conosciuti precedentemente. E la presenza di neuroni specchio nella parte posteriore dell’area di Broca (considerata l’omologo umano di F5), unitamente al fatto che questa area si attiva durante l’esecuzione di movimenti orofacciali, brachiomanuali ed orolaringei, ed a seguito di ulteriori esperimenti che hanno messo in evidenza come la lettura silenziosa di parole o frasi che descrivono azioni eseguite da effettori diversi come la mano, la bocca e il piede attivi settori della corteccia premotoria e motoria che controllano quelle stesse azioni, ha fornito una ulteriore conferma di quella teoria dell’evoluzione del linguaggio che prevede una interazione tra gestualità e fonazione allo scopo di stabilire una “piattaforma comunicativa comune”. Sarebbe infatti grazie alla mano ed ai suoi movimenti che potremmo comunicare al meglio con coloro con i quali interagiamo, grazie alla formazione di un “prerequisito di parità” evolutivamente ancestrale che avrebbe poi permesso lo sviluppo di un sistema di fonazione altamente complesso.
Un’altra importantissima scoperta che riguarda i neuroni specchio dell’uomo è la loro presenza a livello della regione anteriore dell’insula: questa regione cerebrale, responsabile della percezione olfattivo-gustativa, presenta connessioni con i centri viscerali profondi, scatenando in particolare reazioni di disgusto a seguito della percezione di odori o sapori sgradevoli. È stato scoperto che essa risulta collegata all’area visiva STS, implicata nella percezione dei volti; i neuroni specchio presenti in questa regione cerebrale scaricano quindi anche alla semplice vista delle reazioni di disgusto di volti osservati. Questa risposta è interpretata dagli scienziati come quella coloritura emotiva che ci permette di avere un’esperienza più profonda degli altri e di ciò che sta succedendo a coloro che ci circondano. Ecco dunque che i neuroni specchio si dimostrano essere co-responsabili della formazione di quella “piattaforma emotiva condivisa” che ci permette di essere empatici con gli altri, in un modo che, essendo mediato dai neuroni specchio, ci permette di vivere primariamente, in prima persona ed in maniera profonda le emozioni altrui, che vengono quindi in questo caso comprese come facenti parte del nostro stesso set emotivo.
Cosa si può concludere da questo discorso? Cosa ci indica la scoperta e l’importante ruolo che i neuroni specchio assumono nella scimmia, ma soprattutto nell’uomo? Essi ci indicano che siamo “ingabbiati” in una rete di rispecchiamento, gettati insieme ai nostri con specifici in un “labirinto degli specchi” all’interno del quale non possiamo fare altro che “comprendere solo neuralmente”, “imitare solo neuralmente” ed essere “semplicemente neuralmente empatici”? Cioè che tutte le nostre peculiarità sono riducibili ad un mero e costringente schema neuronale? Le cose non sembrano stare in questi termini. Quello che i neuroni specchio ci dicono è piuttosto che noi siamo fatti per essere sociali e cooperativi: siamo dotati di un sistema neuronale che ci permette di fare esperienza degli altri in prima persona e che ci permette di avere una piattaforma empatica basilare per partecipare delle emozioni altrui. Siamo cioè biologicamente dotati di un substrato neuronale basale comune, grazie al quale possiamo comprendere immediatamente quello che fanno gli altri, possiamo imitarli (ma anche inibire l’imitazione), possiamo stabilire una connessione neuronale per una comunicazione “paritaria” e possiamo infine comprendere in termini di condivisione viscerale profonda le emozioni altrui. Sembra quindi che le nostre menti siano “costruite” per essere in relazione con gli altri, per essere relazionali secondo modalità sofisticate e profonde; siamo l’unica specie che ha sviluppato queste potenzialità a livelli così alti. I neuroni specchio ci indicano che nella coscienza del sé è sempre compreso un “tu”: l’uomo è in questo caso descrivibile con l’efficace “analogia della medaglia”, usata da Iacoboni: ogni uomo è una medaglia costituita da due facce, «una delle quali è il sé, [e] l’altra, in un gioco inevitabile di parole, l’altro».
Questi neuroni ci offrono inoltre nuovi spunti per una riflessione sulla valenza che l’etica e la morale hanno per l’uomo: la scoperta dei neuroni specchio implicati nel fenomeno empatico ci indicano che noi sembriamo essere dotati di una “morale biologica primaria”, una “morale prima della morale” (dal titolo di un saggio di Laura Boella) che ci qualifica come esseri tendenti per natura ad accorgersi degli altri, a prendersene cura e ad essere empatici. Può questo tradursi in una raffinata ma “costringente” forma di riduzionismo etico neuronale? Può cioè la scoperta dei neuroni specchio condurci a dedurre una definitiva determinazione biologica delle nostre facoltà etiche e morali? Sembra di no: infatti «condividere a livello visceromotorio lo stato emotivo di un altro è cosa (…) diversa dal provare un coinvolgimento empatico nei suoi confronti. (…) Ciò spesso accade, ma i due processi sono distinti, nel senso che il secondo implica il primo, non viceversa». Cioè la storia personale e la diversità intraspecifica sono elementi chiave, non meno importanti del substrato neuronale che condividiamo con gli altri. Infatti la nostra irriducibile peculiarità personale e la vastissima gamma di possibilità “inscritte nel nostro cervello”, «rendono impossibile, almeno allo stato attuale delle conoscenze, ricondurre anche un solo unico comportamento morale esclusivamente a fattori organici».
(Amerigo Maria Barzaghi)
IMPRESA/ Il calzaturificio pronto a “fare le scarpe” alla concorrenza orientale - Redazione - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Cinquant’anni di storia
Nel 1956 Giuseppe Sagripanti decide di avviare un laboratorio artigianale con l’intento di perpetuare l’antica tradizione della produzione di pantofole risalente allo Stato Pontificio a cui apparteneva il territorio della provincia di Macerata. Nel settembre del 2006 una grande festa con milleseicento invitati celebra a Milano, durante il Micam, i dieci lustri di attività dell’azienda. In mezzo c’è di tutto: l’ingresso fin dai primi anni sessanta sui mercati esteri, la continua ricerca del perfezionamento qualitativo, l’entrata della seconda generazione con i fratelli Marino, Nazzareno e Angelo: proprio dalle loro iniziali nascerà la ragione sociale della nuova impresa che opererà, prima come Srl, poi, dagli anni ottanta, come Spa nell’innovativo stabilimento di Montecosaro. Qualche anno dopo si registra l’ingresso in azienda della terza generazione che a partire da Cleto, attuale giovane amministratore delegato, si inserisce agevolmente in una realtà da sempre votata alla valorizzazione delle persone. Il rispetto delle competenze, la forte propensione alla delega e l’incentivo dato all’apprendimento prima e più del fare vale da sempre per tutti i collaboratori ed è fattore di successo anche per il passaggio generazionale. Nel 1997 Manas ottiene, prima in Italia, per il settore calzaturiero la certificazione ISO 9000. Dal 2005, infine, è sponsor ufficiale del concorso di Miss Italia.
Due aree critiche: innovazione e formazione
Lo sviluppo dell’azienda si è realizzato secondo un percorso virtuoso che ha fatto dell’innovazione continua il fine e della formazione il mezzo. In un contesto economico sempre più polarizzato tra chi investe molto in ricerca e sviluppo e chi si basa solo, o soprattutto, su costi nettamente inferiori a quelli dei potenziali concorrenti, Manas ha operato una chiara scelta di campo: puntare con continuità su conoscenza e tecnologia per posizionarsi il più in alto possibile nella catena del valore. Ciò ha implicato quasi naturalmente il riconoscimento e il potenziamento delle competenze esistenti in azienda al di fuori della famiglia proprietaria e la managerializzazione della gestione. Ma non solo: da molti anni cinque collaboratori sono entrati a far parte con una piccola quota pro-capite del capitale sociale dell’azienda, un fatto abbastanza raro per l’epoca in cui avvenne e del tutto naturale invece per la proprietà di Manas che volle così riconoscere l’importanza del contributo professionale e relazionale di queste persone. La volontà e la capacità di coinvolgere le figure chiave è sempre stata, infatti, una caratteristica vincente dell’azienda. Anche a questo fine risponde il progetto “Scuola Manas”, una scuola professionale e gestionale aperta a tutti i collaboratori aziendali e ai partner esterni: nelle lezioni settimanali vengono affrontati con coordinatori e docenti interni problemi inerenti la produzione, la logistica, l’organizzazione aziendale. Gli incontri servono a ricercare e trasmettere soluzioni, ma soprattutto a creare gruppo e spirito di corpo ed anche visione comune delle vicissitudini aziendali. «Coltiviamo ogni giorno la passione per le persone che lavorano per noi e con noi – sostiene con forza Cleto Sagripanti - perché abbiamo imparato che dietro a una calzatura di qualità, a un prezzo competitivo, a un marchio forte e a una distribuzione efficace ci sono sempre loro».
Una precisa scelta strategico-organizzativa
Posti di fronte nei primi anni del nuovo secolo all’alternativa tra delocalizzare la produzione per ridurre i costi e mantenere la produzione in Italia per aumentare qualità ed efficienza, i proprietari decisero di proseguire nello spirito dell’esperienza fin lì fatta e di restare dunque ancorati al territorio delle origini, apportando tuttavia alcuni cambiamenti al modo tradizionale di fare impresa. In particolare, venne approvato un piano di investimento in tecnologia per allestire un sistema di videoconferenze che integrasse l’attività di una trentina di piccoli calzaturieri marchigiani loro terzisti e una decina di showroom sparsi nel mondo. Viene creata un’organizzazione a rete, quasi un distretto nel distretto, dove sono concentrate tutte le funzioni chiave, dalla produzione alla progettazione, alla vendita e a servizi post-vendita. Questo sistema, che tiene costantemente connessi uffici di progettazione, reparti produttivi, uffici commerciali e distributori, ha permesso di aumentare la qualità dei prodotti e ridurre gli scarti. L’investimento è stato notevole, anche per risolvere il problema della scarsa diffusione di linee telefoniche a banda larga, ma con i risultati ottenuti in termini di produttività e fatturato è facile ipotizzare un rapido ammortamento. Far lavorare insieme progettisti e produttori consente di curare il dettaglio in ogni fase del processo e dunque un miglioramento del controllo della qualità del prodotto finale; anche le pause dovute a incomprensioni tra tecnici e progettisti che prima, quando la connessione era garantita da posta elettronica, fax o incontri diretti, spesso si traducevano in sospensioni della produzione di intere mezze giornate e di migliaia di scarpe prodotte in meno, si riducono a pochi minuti con grandi recuperi di efficienza. Questo sistema organizzativo consente di aggiornare velocemente le linee e sviluppare al meglio quello che il mercato richiede; il prodotto si evolve, muta le sue forme, i suoi materiali e colori grazie alle informazioni che provengono al centro quasi in tempo reale. Attualmente operano un centinaio di stazioni di videoconferenza diffuse nei vari uffici dell’azienda e dei terzisti, ai quali il televisore e l’apparato di trasmissione è fornito in comodato: i siti produttivi così collegati sono ben trentadue nel solo territorio circostante per un totale di quasi duemila addetti. I problemi incontrati sono stati molti, anche di natura psicologica: attraverso appositi incontri nell’ambito del progetto “Scuola Manas” si è cercato di trasmettere a tutti i collaboratori cosa significhi e come lavorare in videoconferenza. I risultati sono stati positivi e all’iniziale ritrosia si è sostituito il piacere di lavorare guardandosi in faccia e parlandosi direttamente, spesso in dialetto: è anche questo un modo per custodire e trasmettere quella capacità manuale che concorrenti stranieri, cinesi in testa, non riusciranno a costruire ancora per decenni. La costruzione e la valorizzazione di un legame con i collaboratori fondato sulla fiducia reciproca è dunque tra le prime preoccupazioni dell’azienda: tale fiducia ha un valore economico in grado di rivalutarsi con il passare degli anni, l’incrementarsi delle competenze specialistiche e il ridursi delle alternative di sostituzione.
Collaborare, collaborare, collaborare
Anche per vincere la naturale gelosia imprenditoriale tipica delle piccole medie imprese, in Manas, come si è visto, si è puntato molto su progetti che facilitassero le aggregazioni sia sul fronte dei servizi che su quello produttivo e commerciale. Nella stessa direzione vanno le due iniziative di retail collettivo varate pochissimi mesi fa: “Angeli della moda” è uno show-room di duecento metri quadrati inaugurato a Tokio da sei aziende calzaturiere marchigiane con l’intento di conquistare insieme, e dunque a minori costi, il mercato giapponese. All’operazione, ottimo esempio di convergenza sinergica, partecipano anche Confindustria Macerata, la Regione Marche, l’Istituto per il Commercio Estero e Banca delle Marche. Un’altra iniziativa dello stesso tipo è “Venetian fashion group” show-room a New York che unisce aziende venete e marchigiane per operare sul mercato statunitense.
Anche nella ricerca l’unione spesso fa la forza e così Manas è tra i cinquantaquattro partner di quattordici diverse nazioni europee che hanno dato vita al progetto “CEC-Made Shoe”: centri di ricerca, università e imprese del settore, sotto l’egida della Confederazione Europea Industria Calzaturiera (CEC), collaborano al fine di mettere a punto innovazioni inerenti prodotti, materiali e processi. Tali innovazioni saranno testate dalle aziende partecipanti al progetto che, qualora fossero da esse giudicate operativamente valide, ne godranno i diritti di proprietà industriale. Nello stesso progetto è prevista, infine, anche un’attività di formazione attraverso l’organizzazione di un “Master europeo in design e produzione” e di corsi rivolti a operai, manager e commercianti.
INDIA/ Padre Grugni (Pime): servono “profeti”, uomini che sappiano parlare al cuore di tutti - INT. Antonio Grugni – IlSussidiario.net
lunedì 1 dicembre 2008
Il suo progetto si chiama Sarva Prema, “sarva” vuol dire “per tutti” e “prema” amore. Padre Antonio Grugni, missionario del Pime, è in India dal 1976. Sacerdote e medico, ha fondato Sarva Prema Society, ong con due centri, uno a Mumbai e l’altro nel sud dell’India, che curano e fanno riabilitazione di pazienti affetti da lebbra, tubercolosi e sieropositivi. Padre Grugni si è trovato in città, a Mumbai, durante gli attacchi dei terroristi.
Padre Grugni, l’emergenza degli attacchi terroristici è rientrata, sia pure al prezzo di centinaia di morti. Qual è il clima che si respira a Mumbai?
A Mumbai gli attacchi terroristici non sono di per sé un fatto nuovo, ci sono stati anche negli anni passati, e sempre ad opera di un terrorismo di matrice islamica. Nulla però che fosse di queste proporzioni. In questo caso ha colpito il livello di organizzazione dei terroristi, venuti probabilmente dal Pakistan, e la violenza inaudita sferrata in modo indiscriminato contro persone inermi. A Mumbai si respira tanta rabbia e delusione, perché ci si aspettava che il governo fosse più preparato e potesse prevenire un attacco del genere.
Dopo i fatti dell’Orissa e le persecuzioni di cristiani, per chi non vive in India un mondo così diversificato e ricco di sfaccettature e influenze culturali dà l’impressione di un crogiolo di tensioni sempre pronte ad esplodere. Perché la convivenza è così difficile?
Perché l’India è fatta di una grandissima varietà di razze, culture, lingue e religioni. È un paese di un miliardo e cento milioni di abitanti a maggioranza indù, con una grossa minoranza musulmana e una piccolissima minoranza cristiana. Dietro le violenze, che scoppiano spesso e volentieri tra musulmani e indù, vi sono anche cause storiche. Il Pakistan è in stragrande maggioranza musulmano, mentre in India l’induismo è religione di Stato. È un fatto che in Pakistan vi sono cellule terroristiche che preparano, indottrinano e armano terroristi, anche terroristi indiani e l’India sospetta che il terrorismo sia nutrito dal Pakistan per creare instabilità.
Le persecuzioni contro i cristiani hanno mostrato una convivenza dominata spesso dall’odio e dal conflitto…
In quel caso si tratta di intolleranza religiosa, a cui si sommano fattori sociali come la divisione in caste, e il fatto che i cristiani promuovano una sensibilità e una cultura contraria alle caste e che aiuta i fuori casta. Spesso è questo a scatenare conflitti. Non bisogna però credere che tutta l’India sia come l’Orissa e che la caccia ai cristiani sia ovunque. Dove io lavoro, nel sud del paese, i cristiani vivono in pace. Altrettanto accade a Mumbai. Lo posso dire con sicurezza perché vi sono rimasto per vent’anni.
Come vivono i cristiani di fronte a questa violenza?
È sempre condannata, ma si cerca di dialogare. L’errore più grande sarebbe rispondere alla violenza con la violenza. La sofferenza più grande è vivere in una società così divisa: il problema delle caste è sentito in modo drammatico, la legge le ha abolite ma la vita delle persone si sviluppa tutt’ora nella casta. E poi ci sono le fratture fra le religioni, il guardare con sospetto l’altro, che determina una paura reciproca. L’India è il luogo della disomogeneità assoluta: sociale, religiosa e culturale.
Chi o che cosa può offrire una soluzione? Che cosa può portare a un cambiamento?
Uno dei pochi che vi hanno tentato è stato il Mahatma Gandhi. Sia pure in una situazione storicamente diversa, è riuscito a polarizzare l’attenzione di tutte le comunità, perché si sentiva fratello di tutti, indù, musulmani e cristiani. La sua idea di tolleranza e di non violenza può essere un faro per la nazione.
E i cristiani cos’hanno da dire?
La novità di vita che i cristiani possono mostrare in India è quella di madre Teresa di Calcutta. È riuscita a mostrare il volto del cristianesimo nella sua autenticità con un “linguaggio” che tutti possono vedere e condividere: quello del servizio e dell’amore agli ultimi, superando le barriere di casta, senza fare discorsi o polemiche. È una figura che non suscita controversie. Se si parla del Papa, molti non cristiani non sanno chi sia, mentre madre Teresa è cresciuta su questo suolo è entrata nel cuore di tutti. È una figura che non crea animosità, accettata da tutti come una sorella.
Questo non ha impedito a molti cristiani – come nel caso della regione dell’Orissa – di essere perseguitati e uccisi…
No, purtroppo. Quello che suscita animosità e odio è l’idea stessa di una conversione personale. Nella visione che l’induismo ha della realtà essere indiano è essere indù. Il tentativo di cambiare religione è visto come il tentativo di cambiare l’identità stessa della persona. Questo avviene soprattutto a livello di alcuni gruppi elitari, che si organizzano anche in partiti politici, ma non riguarda quasi mai la povera gente. Dove questi gruppi sono forti e accentrati, come in Orissa, esplodono le recrudescenze di odio e violenza che tutti conosciamo. Ma dire “cristiano” può essere generico.
Perché?
I cristiani in India sono circa 25 milioni, di cui circa 17 milioni sono cattolici, gli altri sono protestanti sotto diverse denominazioni. Ma la gente è propensa ad accomunarli: in ogni caso vedono una bibbia e una croce. Ma spesso la reazione è legata a gruppi protestanti, che sono molto aggressivi dal punto di vista del proselitismo religioso, e questo contrasta con le leggi anti conversione. Queste leggi mirano a punire una conversione che possa essere stata comprata. Per esempio in Orissa, se uno si converte dall’induismo al cristianesimo deve andare davanti al magistrato e dare le prove che si converte di sua spontanea volontà.
La sua missione di sacerdote e medico la mette a contatto con moltissime persone. Qual è la sua personale esperienza?
Io non ho mai avuto problemi o scontri. Io mi occupo degli ultimi e lavoro tra i baraccati con musulmani e indù, con laici e paramedici. Nemmeno a Mumbai ho incontrato ostilità, anzi; siamo ben voluti e anche le autorità locali collaborano e ci fanno avere tutto quello di cui abbiamo bisogno.
Non siete sospettati di proselitismo?
Se si va con grande umiltà in mezzo alla gente si è ben accolti. Ad attirare gelosia e invidia sono soprattutto le grandi strutture, che mostrano ricchezza e potere. Cosa ne fanno di quei soldi che arrivano dall’occidente?, allora si chiedono in molti.
Di cosa ha bisogno l’India oggi?
Ci vorrebbero dei profeti. In situazioni così gravi ci vogliono persone con una grande personalità e testimonianza di vita, che abbiano l’autorità morale di parlare e di essere ascoltate; persone in cui vita e parola siano la stessa cosa. Purtroppo in questo momento di profeti non ne vedo. Quello che devono fare i cristiani è testimoniare Cristo nella più assoluta umiltà, diffondendo come la rosa il profumo del Vangelo, per usare un’espressione di Gandhi, che, rivolgendosi ai cristiani, voleva significare che la novità del Vangelo non sono parole ma innanzitutto un’aria nuova che si diffonde. Anche un cieco, che non vede la rosa, ne percepisce il profumo e la presenza.
La politica aiuta a superare il clima di diffidenza e ostilità?
Ci sono partiti indù molto aggressivi verso le minoranze cristiane e musulmane. Il Pjp, il partito fondamentalista indù, fino a quattro anni fa era al potere ma ora è all’opposizione. Nell’aprile dell’anno prossimo ci saranno le elezioni e il Bjp ora giocherà ancor più la carta del terrorismo, puntando sulla difesa dell’identità nazionale indù e accusando l’attuale partito al governo di essere incapace di far fronte alla sicurezza nazionale.
IL PRIMO ANNIVERSARIO DELLASPE SALVI - Quella certezza di futuro che già cambia il presente - GIACOMO SAMEK LODOVICI
Ricorre oggi il primo anniversario della Spe salvi, l’enciclica di Benedetto XVI sulla speranza, un tema che stava a cuore anche a Giovanni Paolo II (si veda l’esortazione post-sinodale Ecclesia in Europa).
In effetti, si tratta di un tema decisivo e fondamentale, tanto più in un mondo come il nostro che prova spesso smarrimento nell’affrontare il futuro, in un’epoca di offuscamento del senso della vita, della sofferenza e della malattia (per esempio di un senso dello stato 'vegetativo').
Ora, la speranza è l’aspettativa fiduciosa di un bene, ritenuto raggiungibile durante la vita, o dopo la morte biologica, ed è l’energia – come racconta Viktor Frankl, psicoterapeuta sopravvissuto ai lager – che ha permesso a diversi internati, anche fisicamente deboli, di sopravvivere persino all’abominio del campo di concentramento. Similmente, la Spe salvi dice che un presente faticoso può essere accettato se conduce verso una meta grande di cui possiamo essere certi. E mentre le religioni antiche crollarono perchè dai loro dei non emanava una speranza ben fondata, viceversa il cristianesimo ha proposto una speranza affidabile, quella che hanno sperimentato i grandi credenti, che, nella relazione con il Dio-Amore, hanno potuto trovare le risorse per sopravvivere anche in condizioni disumane e di violenza, e che hanno sperimentato di essere attesi, anzi già amati da questo Amore. Il cristianesimo si fonda su una speranza affidabile nella vita eterna e nella sconfitta della morte, perchè nell’incontro con questo Dio i grandi credenti sperimentano già un anticipo di vita eterna: grazie alla fede,la vita eterna prende inizio in noi,già presente in germe, e ciò costituisce una prova della vita eterna futura che ancora non si vede. Così, il fatto che questo futuro esista cambia il presente.
Possiamo avere speranza perchè siamo in grado di comprendere (con la fede, ma anche, in una certa misura, con la filosofia) che non sono le leggi della materia che governano l’uomo, bensì un Dio personale. Dunque, tutti gli sforzi di miglioramento dell’umanità vanno promossi, ma non bisogna sostituire la speranza escatologica nel Dio di Gesù Cristo con una speranza intramondana, come fanno alcune concezioni atee o che portano all’ateismo. La Spe salvi cita, per esempio, la speranza del comunismo nella creazione del paradiso in terra, purchè venissero cambiate (anche con la violenza) le condizioni economiche, e la speranza degli scientisti (da non confondere con gli scienziati) nella possibilità che la scienza possa realizzare la redenzione. Queste aspettative sono state fallimentari: il comunismo ha prodotto uno spaventoso massacro di decine di milioni di morti e la scienza, chepuò contribuire molto all’umanizzazione del mondo, se non segue nel suo esercizio dei principi etici,può anche distruggere il mondo e l’uomo. In effetti,non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore. Quando un uomo nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, vive già un momento di 'redenzione'.
D’altra parte, l’essere umano ha bisogno di un Amore infinito, pertanto chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita. (cfr. Ef 2,12). La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora 'sino alla fine'( Gv, 13,1).
Avvenire 28-11-2008
La prima volta di un musulmano sul giornale del papa - Il nuovo columnist è Khaled Fouad Allam. In sorprendente sintonia con Benedetto XVI. Entrambi a favore di un dialogo cristiano-islamico che non sia un compromesso tra le fedi ma un incontro tra le culture - di Sandro Magister
ROMA, 1 dicembre 2008 – Non si sono né visti né sentiti, eppure entrambi, negli stessi giorni, hanno sostenuto tesi sorprendentemente vicine. Da una parte il papa, Benedetto XVI, in una lettera-prefazione ad un libro; dall'altra un pensatore musulmano, Khaled Fouad Allam (nella foto), il primo musulmano chiamato a scrivere sulla prima pagina del giornale pontificio, "L'Osservatore Romano".
La prossimità di pensiero tra i due è tanto più sorprendente in quanto si esercita su un terreno incandescente, il rapporto tra cristianesimo e islam. È di pochi giorni fa l'ultima grande esplosione di violenza del radicalismo musulmano, a Mumbai.
Ha scritto Benedetto XVI in una lettera all'autore di un libro uscito in questi giorni in Italia, Marcello Pera, filosofo liberale, discepolo di Karl Popper, non credente:
"Un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo".
Ha scritto Khaled Fouad Allam su "L'osservatore Romano" di domenica 30 novembre:
"Da decenni i rapporti tra musulmani e cristiani coinvolgono diverse dimensioni, tra le quali il confronto sul piano religioso, anche se spesso non si riesce ad approfondirlo e a evidenziarne luci e ombre, con il risultato che non di rado emerge la nostra incapacità a pensare oltre. Proprio per questa crisi generalizzata bisogna pensare il dialogo tra cristianesimo e islam nella sua dimensione filosofica".
Allam vede nell'eplosione della violenza e dell'intolleranza religiose "il segnale di un male che la nostra umanità sta vivendo". Questo male ha la sua radice nel "divorzio fra storia ed eternità".
Mentre l'Occidente tende a far coincidere la storia col tutto, l'islam radicale pretende di "impadronirsi dell'eternità" e per questa via "cerca di imporre il tragico ordine della tirannia".
La guarigione da questo male – prosegue Allam – è dunque in un dialogo tra cristianesimo e islam che ricongiunga storia ed eternità; un dialogo sulle radici culturali e i loro effetti, su questioni che vanno dalla libertà di religione alla bioetica.
Il che esige da un lato "liberare l’islam dal monopolio della teologia neofondamentalista", dall'altro "un’Europa che ritorni alle sue radici, aperte agli altri continenti".
Da recordman di aborti a primo obiettore di coscienza serbo. La parabola di Stojan Adasevic - di Lorenzo Fazzini, per Tempi.it, del 27/11/2008
Bimbo scampato ad un aborto chirurgico; medico conosciuto in tutto il paese come «recordman» di interruzioni di gravidanza (anche 35 operazioni al giorno, 9 ore quotidiane di «mortifera» sala operatoria); quindi cristiano ortodosso e attivista pro life convertito da San Tommaso d’Aquino. Se non fosse vera, la vicenda di Stojan Adasevic parrebbe uscita dalla fervida mente di uno sceneggiatore ipercattolico abituato a copioni strappalacrime. E invece la storia di questo medico serbo di Belgrado è tutt’altro che cinematografica.
«Non voglio discutere i miei convincimenti teologici o quello che ho sognato, ma solo parlare dei fatti puramente materiali, come i metodi tecnici usati nelle interruzioni di gravidanza» ha scritto Adasevic su Saint Lazarus, pubblicazione della Chiesa ortodossa serba. Adasevic è cresciuto alla scuola marxista per cui l’aborto era solo «l’asportazione di una massa indistinta di tessuti», come recitavano i libri di medicina nella Jugoslavia comunista sui quali si formò l’ex dottor Morte. Dopo 26 anni da grande fautore di aborti – ne ha conteggiati tra i 48 e i 62 mila – Adasevic ha detto basta. E si è tramutato in un alfiere della difesa della vita fin dal suo concepimento.
La sua storia professionale visse uno snodo importante nel giorno in cui, giovane universitario, sentì alcuni ginecologi parlare di un’interruzione di gravidanza riuscita male, operazione che aveva riguardato una donna, dentista in una clinica vicino all’ateneo: in lei Stojan riconobbe la propria madre e nell’aborto «malriuscito» nientemeno che se stesso. «Lei è morta, ma chissà cosa sarà stato di quel bambino?» si chiesero i medici tra un caffè e una sigaretta. «Sono io quel bambino!» gridò Adasevic. Nonostante, o forse proprio per via di quell’episodio, il giovane dottore decise di dedicarsi quasi esclusivamente all’interruzione di gravidanza, nella convinzione – maturata grazie all’educazione di stretta osservanza comunista – che si trattasse «solo di una procedura medica, non diversa dal rimuovere un’appendice. La sola differenza era il tipo di organo asportato: un pezzo di intestino nel primo caso, un tessuto embrionale nel secondo».
I primi dubbi sorsero in Adasevic con l’avvento delle tecniche di diagnosi ad ultrasuoni, approdate nell’allora Jugoslavia negli anni Ottanta: per la prima volta gli fu visibile quello che non aveva mai visto, il feto adagiato nel grembo della madre, che succhiava il dito e si muoveva. La svolta vera, tuttavia, arrivò una notte di 26 anni fa, quando Stojan sognò un campo «pieno di bambini e di giovani che giocavano e ridevano; avevano dai 4 ai 24 anni, scappavano da me con tanta paura» ha raccontato il medico al quotidiano spagnolo La Razon. Fino a quando – sempre nel sogno – Adasevic riuscì ad afferrare un bimbetto, che però gridò: «Aiuto! Un assassino! Salvatemi da questo assassino!». Fu allora che, sempre durante il sonno, comparve al medico di Belgrado «un uomo vestito di nero e di bianco», che si presentò come Tommaso d’Aquino. Ad Adasevic, cresciuto sui libri del regime ateo di Tito, il nome del Dottore Angelico non disse nulla: «Perché non chiedi a questi bambini chi sono?» gli chiese il santo, senza dargli il tempo di rispondere. «Sono quelli che tu hai ucciso quando facevi gli aborti. Vedi questo ragazzo di 22 anni? L’hai ammazzato quando aveva 3 mesi nel grembo di sua madre».
Dopo questi sogni Adasevic continuò per qualche tempo a portare avanti la sua attività abortiva. Fino ad un giorno cruciale, quando durante un intervento di questo tipo estrasse dall’utero di una donna i pezzi di un feto: «La mano si muoveva ancora, il cuore pulsava». La donna in questione iniziò ad avere perdite di sangue di notevoli proporzioni e la sua vita era in pericolo: fu allora che, per la prima volta dopo decenni – Adasevic era stato battezzato da bambino, ma era cresciuto come un ateo doc – si ritrovò a pregare: «Signore, salva questa donna, non me!». Quello divenne il suo ultimo aborto.
Dagli anni Novanta Adasevic inizia a viaggiare in tutto il paese, tenendo conferenze e scrivendo articoli pro life. Per due volte riesce addirittura a far trasmettere sulle televisioni nazionali il celebre video del ginecologo americano Bernard Nathanson, Il grido silenzioso, che a metà degli anni Ottanta denunciava l’atrocità delle vite umane stroncate nel grembo materno. Addirittura l’attivismo dell’ex medico abortista portò il parlamento della Jugoslavia post-Tito ad approvare un decreto a favore dei diritti del concepito: solo il veto dell’allora presidente Slobodan Milosevic bloccò questa decisione a tutti gli effetti pionieristica.
Vicino alle donne
In Serbia, afferma Adasevic, le statistiche dell’aborto fanno paura: «Non abbiamo nessuna cifra ufficiale, ma dai calcoli e le osservazioni che ho potuto fare in base alla mia esperienza, posso affermare che a metà anni Novanta ci sono stati 6 aborti per ogni nato nel paese. Negli anni Duemila la situazione è addirittura peggiorata: i reparti di maternità sono vuoti, le cliniche per aborti strapiene. Praticamente non esiste nessuna famiglia serba che non sia stata toccata da almeno un’interruzione di gravidanza. Questa è una guerra vera, dichiarata da chi è nato contro chi non è ancora nato. In questa guerra io ho passato la linea del fronte più volte: prima come bimbo non ancora nato condannato a morte, quindi come abortista, e ora come attivista pro-life». La scelta di schierarsi dalla parte della vita è costata vari sacrifici ad Adasevic: quando comunicò al suo ospedale di Belgrado che non avrebbe più fatto operazioni di questo tipo, i funzionari lo guardarono straniti: in Serbia nessun ginecologo si era mai rifiutato di compiere un aborto. Dopo la scelta, lo stipendio gli venne decurtato della metà, la figlia venne licenziata dal lavoro, il figlio non fu ammesso all’università.
Per il medico «convertito» alla vita è Madre Teresa di Calcutta ad aver ragione quando diceva: «Se una madre può uccidere il proprio figlio, cosa ci impedirà di ucciderci gli uni gli altri?». «La diffusione dell’aborto in Serbia è determinata anche dalla mancanza di educazione religiosa», annota. E Adasevic, da vero pro-life e sostenitore delle donne punta il dito contro gli uomini, responsabili anch’essi delle vite stroncate prima di nascere: «Troppo spesso hanno stili di vita da playboy. Seducono il maggior numero di donne possibile e dopo, proprio quando la paternità sarebbe la cosa più necessaria per loro e i loro figli, le abbandonano a se stesse».
01/12/2008 13:10 – VATICANO - Papa: dal computer il rischio di non sapersi più concentrare e di isolarsi nel virtuale - In ogni autentica riforma, compresa quella dell’università, “occorre prima di tutto che ciascuno cominci col riformare se stesso”. L’università deve essere libera da condizionalemnti, ma veramente libera lo è quando cura la formazione scientifica e culturale delle persone per lo sviluppo dell’intera comunità sociale e civile.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Messa in guardia da parte di Benedetto XVI verso il duplice forte rischio al quale le nuove tecnologie informatiche mettano i giovani: la riduzione della capacità di concentrazione e l’isolamento nella realtà virtuale. Un quadro che invece non si presenta nell’università, grazie al suo “virtuoso equilibrio” tra “il momento individuale e quello comunitario, tra la ricerca e la riflessione di ciascuno e la condivisione e il confronto aperti agli altri, in un orizzonte tendenzialmente universale”.
L’incontro avuto stamattina dal Papa con docenti e studenti dell’Università di Parma ha dato occasione all’ex professor Ratzinger per una riflessione sull’attività universitaria – “è stata il mio ambito di lavoro per tanti anni, e anche dopo averla lasciata non ho mai smesso di seguirla e di sentirmi spiritualmente legato ad essa” – ed anche sui concetti di riforma e libertà. Il Papa ha infatti preso spunto dalla figura di San Pier Damiani, a quell’ateneo particolarmente legata.
“Anche la nostra epoca, come quella di Pier Damiani, è segnata da particolarismi e incertezze, per carenza di principi unificanti. Gli studi accademici dovrebbero senz’altro contribuire a qualificare il livello formativo della società, non solo sul piano della ricerca scientifica strettamente intesa, ma anche, più in generale, nell’offerta ai giovani della possibilità di maturare intellettualmente, moralmente e civilmente, confrontandosi con i grandi interrogativi che interpellano la coscienza dell’uomo contemporaneo”.
Ricordando poi che Pier Damiani è annoverato tra i grandi "riformatori" della Chiesa dopo l’anno Mille, Benedetto XVI si è chiesto “qual è il genuino concetto di riforma? Un aspetto fondamentale – ha agiunto - che possiamo ricavare dagli scritti e più ancora dalla testimonianza personale di Pier Damiani è che ogni autentica riforma dev’essere anzitutto spirituale e morale, deve cioè partire dalle coscienze”. Perciò, quando si parla di riformare l’universtià, “penso che, fatte le debite proporzioni, rimanga sempre valido questo insegnamento: le modifiche strutturali e tecniche sono effettivamente efficaci se accompagnate da un serio esame di coscienza da parte dei responsabili a tutti i livelli, ma più in generale di ciascun docente, di ogni studente, di ogni impiegato tecnico e amministrativo”. “Se si vuole che un ambiente umano migliori in qualità ed efficienza, occorre prima di tutto che ciascuno cominci col riformare se stesso, correggendo ciò che può nuocere al bene comune o in qualche modo ostacolarlo”.
“Collegato al concetto di riforma, vorrei porre in risalto anche quello di libertà. In effetti, il fine dell’opera riformatrice di san Pier Damiani e degli altri suoi contemporanei era far sì che la Chiesa diventasse più libera, prima di tutto sul piano spirituale, ma poi anche su quello storico. Analogamente, la validità di una riforma dell’Università non può che avere come riscontro la sua libertà: libertà di insegnamento, libertà di ricerca, libertà dell’istituzione accademica nei confronti dei poteri economici e politici. Questo non significa isolamento dell’Università dalla società, né autoreferenzialità, né tanto meno perseguimento di interessi privati approfittando di risorse pubbliche. Non è di certo questa la libertà cristiana! Veramente libera, secondo il Vangelo e la tradizione della Chiesa, è quella persona, quella comunità o quella istituzione che risponde pienamente alla propria natura e al proprio fine, e la vocazione dell’Università è la formazione scientifica e culturale delle persone per lo sviluppo dell’intera comunità sociale e civile”.
1) Benedetto XVI: “ Dio ci dona il suo tempo” - Discorso introduttivo all'Angelus domenicale
2) Discorso di Benedetto XVI a San Lorenzo fuori le Mura - Per il 1750° anniversario del martirio di San Lorenzo - CITTA' DEL VATICANO, domenica, 30 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI nel visitare la parrocchia di San Lorenzo fuori le Mura, per il 1750° anniversario del martirio di San Lorenzo e nel quadro delle visite annuali alle parrocchie romane.
3) INDIA/ Vian: come i cristiani vincono la paura del terrorismo - INT. Giovanni Maria Vian - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
4) COLLETTA/ Un grande risultato che mostra quanto può fare il “contagio della carità” - Gianluigi Da Rold - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
5) TESTAMENTO BIOLOGICO/ Fine vita, i progetti di legge che non hanno imparato molto dal caso Eluana (1) - Riccardo Marletta – IlSussidiario.net
6) SPAGNA/ Se deve essere un ateo a ricordarci l’importanza del crocefisso - José Luis Restan - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
7) Solženicyn/ Le tre vocazioni di un grande scrittore - INT. Nikita Struve - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
8) MEDICINA/ Lo strano caso dei neuroni specchio, una scoperta che allarga il mistero dell'agire umano - Redazione - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
9) IMPRESA/ Il calzaturificio pronto a “fare le scarpe” alla concorrenza orientale - Redazione - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
10) INDIA/ Padre Grugni (Pime): servono “profeti”, uomini che sappiano parlare al cuore di tutti - INT. Antonio Grugni – IlSussidiario.net
11) IL PRIMO ANNIVERSARIO DELLASPE SALVI - Quella certezza di futuro che già cambia il presente - GIACOMO SAMEK LODOVICI
12) La prima volta di un musulmano sul giornale del papa - Il nuovo columnist è Khaled Fouad Allam. In sorprendente sintonia con Benedetto XVI. Entrambi a favore di un dialogo cristiano-islamico che non sia un compromesso tra le fedi ma un incontro tra le culture - di Sandro Magister
13) Da recordman di aborti a primo obiettore di coscienza serbo. La parabola di Stojan Adasevic - di Lorenzo Fazzini, per Tempi.it, del 27/11/2008
14) 01/12/2008 13:10 – VATICANO - Papa: dal computer il rischio di non sapersi più concentrare e di isolarsi nel virtuale - In ogni autentica riforma, compresa quella dell’università, “occorre prima di tutto che ciascuno cominci col riformare se stesso”. L’università deve essere libera da condizionalemnti, ma veramente libera lo è quando cura la formazione scientifica e culturale delle persone per lo sviluppo dell’intera comunità sociale e civile.
Benedetto XVI: “ Dio ci dona il suo tempo” - Discorso introduttivo all'Angelus domenicale
CITTA' DEL VATICANO, domenica, 30 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI affacciandosi alla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico Vaticano per recitare la preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini convenuti in Piazza San Pietro in Vaticano.
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Cari fratelli e sorelle!
Iniziamo oggi, con la prima Domenica di Avvento, un nuovo Anno liturgico. Questo fatto ci invita a riflettere sulla dimensione del tempo, che esercita sempre su di noi un grande fascino. Sull’esempio di quanto amava fare Gesù, desidererei tuttavia partire da una constatazione molto concreta: tutti diciamo che "ci manca il tempo", perché il ritmo della vita quotidiana è diventato per tutti frenetico. Anche a tale riguardo la Chiesa ha una "buona notizia" da portare: Dio ci dona il suo tempo. Noi abbiamo sempre poco tempo; specialmente per il Signore non sappiamo o, talvolta, non vogliamo trovarlo. Ebbene, Dio ha tempo per noi! Questa è la prima cosa che l’inizio di un anno liturgico ci fa riscoprire con meraviglia sempre nuova. Sì: Dio ci dona il suo tempo, perché è entrato nella storia con la sua parola e le sue opere di salvezza, per aprirla all’eterno, per farla diventare storia di alleanza. In questa prospettiva, il tempo è già in se stesso un segno fondamentale dell’amore di Dio: un dono che l’uomo, come ogni altra cosa, è in grado di valorizzare o, al contrario, di sciupare; di cogliere nel suo significato, o di trascurare con ottusa superficialità.
Tre poi sono i grandi "cardini" del tempo, che scandiscono la storia della salvezza: all’inizio la creazione, al centro l’incarnazione-redenzione e al termine la "parusia", la venuta finale che comprende anche il giudizio universale. Questi tre momenti però non sono da intendersi semplicemente in successione cronologica. Infatti, la creazione è sì all’origine di tutto, ma è anche continua e si attua lungo l’intero arco del divenire cosmico, fino alla fine dei tempi. Così pure l’incarnazione-redenzione, se è avvenuta in un determinato momento storico, il periodo del passaggio di Gesù sulla terra, tuttavia estende il suo raggio d’azione a tutto il tempo precedente e a tutto quello seguente. E a loro volta l’ultima venuta e il giudizio finale, che proprio nella Croce di Cristo hanno avuto un decisivo anticipo, esercitano il loro influsso sulla condotta degli uomini di ogni epoca.
Il tempo liturgico dell’Avvento celebra la venuta di Dio, nei suoi due momenti: dapprima ci invita a risvegliare l’attesa del ritorno glorioso di Cristo; quindi, avvicinandosi il Natale, ci chiama ad accogliere il Verbo fatto uomo per la nostra salvezza. Ma il Signore viene continuamente nella nostra vita. Quanto mai opportuno è quindi l’appello di Gesù, che in questa prima Domenica ci viene riproposto con forza: "Vegliate!" (Mc 13,33.35.37). E’ rivolto ai discepoli, ma anche "a tutti", perché ciascuno, nell’ora che solo Dio conosce, sarà chiamato a rendere conto della propria esistenza. Questo comporta un giusto distacco dai beni terreni, un sincero pentimento dei propri errori, una carità operosa verso il prossimo e soprattutto un umile e fiducioso affidamento alle mani di Dio, nostro Padre tenero e misericordioso. Icona dell’Avvento è la Vergine Maria, la Madre di Gesù. InvochiamoLa perché aiuti anche noi a diventare un prolungamento di umanità per il Signore che viene.
[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]
Il 30 novembre ricorre la festa dell’Apostolo sant’Andrea, fratello di Simon Pietro. Entrambi furono dapprima seguaci di Giovanni il Battista e, dopo il battesimo di Gesù nel Giordano, divennero suoi discepoli, riconoscendo in Lui il Messia. Sant’Andrea è patrono del Patriarcato di Costantinopoli, così che la Chiesa di Roma si sente legata a quella costantinopolitana da un vincolo di speciale fraternità. Perciò, secondo la tradizione, in questa felice circostanza una delegazione della Santa Sede, guidata dal Cardinale Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, si è recata in visita al Patriarca Ecumenico Bartolomeo I. Di tutto cuore rivolgo il mio saluto e il mio augurio a lui e ai fedeli del Patriarcato, invocando su tutti l’abbondanza delle celesti benedizioni.
Vorrei invitarvi a unirvi nella preghiera per le numerose vittime sia dei brutali attacchi terroristici di Mumbai, in India, sia degli scontri scoppiati a Jos, in Nigeria, come pure per i feriti e quanti, in qualsiasi modo, sono stati colpiti. Diverse sono le cause e le circostanze di quei tragici avvenimenti, ma comuni devono essere l’orrore e la deplorazione per l’esplosione di tanta crudele e insensata violenza. Chiediamo al Signore di toccare il cuore di coloro che si illudono che questa sia la via per risolvere i problemi locali o internazionali e sentiamoci tutti spronati a dare esempio di mitezza e di amore per costruire una società degna di Dio e dell’uomo.
Discorso di Benedetto XVI a San Lorenzo fuori le Mura - Per il 1750° anniversario del martirio di San Lorenzo - CITTA' DEL VATICANO, domenica, 30 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo le parole pronunciate questa domenica da Benedetto XVI nel visitare la parrocchia di San Lorenzo fuori le Mura, per il 1750° anniversario del martirio di San Lorenzo e nel quadro delle visite annuali alle parrocchie romane.
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Cari fratelli e sorelle,
con l’odierna prima domenica di Avvento, entriamo in quel tempo di quattro settimane con cui inizia un nuovo anno liturgico e che immediatamente ci prepara alla festa del Natale, memoria dell’incarnazione di Cristo nella storia. Il messaggio spirituale dell’Avvento è però più profondo e ci proietta già verso il ritorno glorioso del Signore, alla fine della storia. Adventus è parola latina, che potrebbe tradursi con ‘arrivo’, ‘venuta’, ‘presenza’. Nel linguaggio del mondo antico era un termine tecnico che indicava l’arrivo di un funzionario, in particolare la visita di re o di imperatori nelle province, ma poteva anche essere utilizzato per l’apparire di una divinità, che usciva dalla sua nascosta dimora e manifestava così la sua potenza divina: la sua presenza veniva solennemente celebrata nel culto.
Adottando il termine Avvento, i cristiani intesero esprimere la speciale relazione che li univa a Cristo crocifisso e risorto. Egli è il Re, che, entrato in questa povera provincia denominata terra, ci ha fatto dono della sua visita e, dopo la sua risurrezione ed ascensione al Cielo, ha voluto comunque rimanere con noi: percepiamo questa sua misteriosa presenza nell’assemblea liturgica. Celebrando l’Eucaristia, proclamiamo infatti che Egli non si è ritirato dal mondo e non ci ha lasciati soli, e, se pure non lo possiamo vedere e toccare come avviene con le realtà materiali e sensibili, Egli è comunque con noi e tra noi; anzi è in noi, perché può attrarre a sé e comunicare la propria vita ad ogni credente che gli apre il cuore. Avvento significa dunque far memoria della prima venuta del Signore nella carne, pensando già al suo definitivo ritorno e, al tempo stesso, significa riconoscere che Cristo presente tra noi si fa nostro compagno di viaggio nella vita della Chiesa che ne celebra il mistero. Questa consapevolezza, cari fratelli e sorelle, alimentata nell’ascolto della Parola di Dio, dovrebbe aiutarci a vedere il mondo con occhi diversi, ad interpretare i singoli eventi della vita e della storia come parole che Iddio ci rivolge, come segni del suo amore che ci assicurano la sua vicinanza in ogni situazione; questa consapevolezza, in particolare, dovrebbe prepararci ad accoglierlo quando "di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà mai fine", come ripeteremo tra poco nel Credo. In questa prospettiva l’Avvento diviene per tutti i cristiani un tempo di attesa e di speranza, un tempo privilegiato di ascolto e di riflessione, purché ci si lasci guidare dalla liturgia che invita ad andare incontro al Signore che viene.
"Vieni, Signore Gesù": tale ardente invocazione della comunità cristiana degli inizi deve diventare, cari amici, anche nostra costante aspirazione, l’aspirazione della Chiesa di ogni epoca, che anela e si prepara all’incontro con il suo Signore. "Vieni oggi Signore, aiutaci, illuminaci, dacci la pace, aiutaci a vincere la violenza, vieni Signore preghiamo proprio in queste settimane, Signore, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi": abbiamo pregato così, poco fa, con le parole del Salmo responsoriale. Ed il profeta Isaia ci ha rivelato, nella prima lettura, che il volto del nostro Salvatore è quello di un padre tenero e misericordioso, che si prende cura di noi in ogni circostanza perché siamo opera delle sue mani: "Tu, Signore, sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore" (63,16). Il nostro Dio è un padre disposto a perdonare i peccatori pentiti e ad accogliere quanti confidano nella sua misericordia (cfr Is 64,4). Ci eravamo allontanati da Lui a causa del peccato cadendo sotto il dominio della morte, ma Egli ha avuto pietà di noi e di sua iniziativa, senza alcun merito da parte nostra, ha deciso di venirci incontro, inviando il suo unico Figlio come nostro Redentore. Dinanzi a un così grande mistero d’amore, sorge spontaneo il nostro ringraziamento e più fiduciosa si fa la nostra invocazione: "Mostraci, Signore, oggi nel nostro tempo in tutte le parti del mondo la tua misericordia e donaci la tua salvezza" (cfr Canto al Vangelo).
Cari fratelli e sorelle, il pensiero della presenza di Cristo e del suo certo ritorno al compimento dei tempi, è quanto mai significativo in questa vostra Basilica attigua al cimitero monumentale del Verano, dove riposano, in attesa della risurrezione, tanti cari nostri defunti. Quante volte in questo tempio si celebrano liturgie funebri; quante volte risuonano colme di consolazioni le parole della liturgia: "In Cristo tuo Figlio, nostro salvatore, rifulge a noi la speranza della beata risurrezione, e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consoli la promessa dell’immortalità futura"! (cfr Prefazio dei defunti I).
Ma questa vostra monumentale Basilica, che ci conduce col pensiero a quella primitiva fatta costruire dall’imperatore Costantino e poi trasformata sino ad assumere l’attuale fisionomia, parla soprattutto del glorioso martirio di san Lorenzo, arcidiacono del Papa san Sisto II e suo fiduciario nell’amministrazione dei beni della comunità. Sono venuto a celebrare quest’oggi la santa Eucaristia per unirmi a voi nel rendergli omaggio in una circostanza quanto mai singolare, in occasione dell’Anno Giubilare Laurentiano, indetto per commemorare i 1750 anni della nascita al cielo del santo Diacono. La storia ci conferma quanto sia glorioso il nome di questo Santo, presso il cui sepolcro siamo riuniti. La sua sollecitudine per i poveri, il generoso servizio che rese alla Chiesa di Roma nel settore dell’assistenza e della carità, la fedeltà al Papa, da lui spinta al punto di volerlo seguire nella prova suprema del martirio e l’eroica testimonianza del sangue, resa solo pochi giorni dopo, sono fatti universalmente noti. San Leone Magno, in una bella omelia, commenta così l’atroce martirio di questo "illustre eroe": "Le fiamme non poterono vincere la carità di Cristo; e il fuoco che lo bruciava fuori fu più debole di quello che gli ardeva dentro". Ed aggiunge: "Il Signore ha voluto esaltare a tal punto il suo nome glorioso in tutto il mondo che dall’Oriente all’Occidente, nel fulgore vivissimo della luce irradiata dai più grandi diaconi, la stessa gloria che è venuta a Gerusalemme da Stefano è toccata anche a Roma per merito di Lorenzo" (Homilia 85,4: PL 54, 486).
Cade quest’anno il 50° anniversario della morte del Servo di Dio, Papa Pio XII, e questo ci richiama alla memoria un evento particolarmente drammatico nella storia plurisecolare della vostra Basilica, verificatosi durante il secondo conflitto mondiale, quando, esattamente il 19 luglio 1943, un violento bombardamento inflisse danni gravissimi all’edificio e a tutto il quartiere, seminando morte e distruzione. Non potrà mai essere cancellato dalla memoria della storia il gesto generoso compiuto in quella occasione da quel mio venerato Predecessore, che corse immediatamente a soccorrere e consolare la popolazione duramente colpita, tra le macerie ancora fumanti. Non dimentico inoltre che questa stessa Basilica accoglie le urne di due altre grandi personalità: nell’ipogeo infatti sono poste alla venerazione dei fedeli le spoglie mortali del beato Pio IX, mentre, nell’atrio, è collocata la tomba di Alcide De Gasperi, guida saggia ed equilibrata per l’Italia nei difficili anni della ricostruzione post-bellica e, al tempo stesso, insigne statista capace di guardare all’Europa con un’ampia visione cristiana.
Mentre siamo qui riuniti in preghiera, mi è caro salutare con affetto tutti voi, ad iniziare dal Cardinale Vicario, da Monsignor Vicegerente, che è anche Abate Commendatario della Basilica, dal Vescovo Ausiliare del Settore Nord e dal vostro Parroco, P. Bruno Mustacchio, che ringrazio per le gentili parole che mi ha rivolto all’inizio della celebrazione liturgica. Saluto il Ministro Generale dell’Ordine dei Cappuccini e i Confratelli della Comunità che svolgono il loro servizio con zelo e dedizione, accogliendo i numerosi pellegrini, assistendo con carità i poveri e testimoniando la speranza in Cristo risorto a quanti si recano in visita al cimitero del Verano. Desidero assicurarvi il mio apprezzamento e, soprattutto, il mio ricordo nella preghiera. Saluto inoltre i vari gruppi impegnati per l'animazione della catechesi, della liturgia, della carità, i membri dei due Cori Polifonici, il Terz’Ordine Francescano locale e regionale. Ho appreso poi con piacere che da qualche anno è qui ospitato il "laboratorio missionario diocesano" per educare le comunità parrocchiali alla coscienza missionaria, e mi unisco volentieri a voi nell’auspicare che questa iniziativa della nostra Diocesi contribuisca a suscitare una coraggiosa azione pastorale missionaria, che porti l’annuncio dell’amore misericordioso di Dio in ogni angolo di Roma, coinvolgendo principalmente i giovani e le famiglie. Vorrei infine estendere il mio pensiero agli abitanti del quartiere, specialmente agli anziani, ai malati, alle persone sole e in difficoltà. Tutti e ciascuno ricordo in questa Santa Messa.
Cari fratelli e sorelle, in quest’inizio dell’Avvento, quale miglior messaggio raccogliere da san Lorenzo che quello della santità? Egli ci ripete che la santità, cioè l’andare incontro a Cristo che viene continuamente a visitarci, non passa di moda, anzi, col trascorrere del tempo, risplende in modo luminoso e manifesta la perenne tensione dell’uomo verso Dio. Questa ricorrenza giubilare sia pertanto occasione per la vostra comunità parrocchiale di una rinnovata adesione a Cristo, di un maggiore approfondimento del senso di appartenenza al suo Corpo mistico che è la Chiesa, e di un costante impegno di evangelizzazione attraverso la carità. Lorenzo, testimone eroico di Cristo crocifisso e risorto, sia per ciascuno esempio di docile adesione alla volontà divina perché, come abbiamo sentito l’apostolo Paolo ricordare ai Corinzi, anche noi viviamo in modo da essere trovati "irreprensibili" nel giorno del Signore (cfr 1 Cor 1,7-9).
Prepararci all’avvento di Cristo è pure l’esortazione che raccogliamo dal Vangelo di oggi: "Vegliate", ci dice Gesù nella breve parabola lucana del padrone di casa che parte ma non si sa quando tornerà (cfr Mc 13,33-37). Vegliare significa seguire il Signore, scegliere ciò che Lui ha scelto, amare ciò che Lui ha amato, conformare la propria vita alla sua; vegliare comporta trascorrere ogni attimo del nostro tempo nell’orizzonte del suo amore senza lasciarsi abbattere dalle inevitabili difficoltà e problemi quotidiani. Così ha fatto san Lorenzo, così dobbiamo fare noi e chiediamo al Signore che ci doni la sua grazia perché l’Avvento sia stimolo per tutti a camminare in questa direzione. Ci guidino e ci accompagnino con la loro intercessione l’umile Vergine di Nazareth, Maria, eletta da Dio per diventare la Madre del Redentore, sant’Andrea, di cui oggi celebriamo la festa, e san Lorenzo, esempio di intrepida fedeltà cristiana sino al martirio. Amen!
INDIA/ Vian: come i cristiani vincono la paura del terrorismo - INT. Giovanni Maria Vian - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
«Pregare per le numerose vittime» dei «brutali attacchi a Mumbai», esprimendo «orrore e deplorazione per l’esplosione di tanta crudele e insensata violenza»: così all’Angelus di ieri Benedetto XVI è tornato sui tragici fatti che pochi giorni fa hanno insanguinato le strade di Mumbai.
Dopo mesi di attacchi ripetuti ai cristiani della regione dell’Orissa, ora questi nuovi eventi mettono in luce ancora una volta quanto sia delicata e complessa la situazione del subcontinente indiano, sotto diversi punti di vista. Un problema «intrinseco» alla più grande democrazia del mondo, come spiega il direttore dell’Osservatore Romano Giovanni Maria Vian, che tiene insieme realtà molto diverse tra loro, e che nasconde tensioni che l’Occidente ha forse a lungo ignorato o sottovalutato.
Direttore, con quale animo il Santo Padre sta seguendo le notizie che arrivano dall’India?
Certamente il Papa e la Santa Sede stanno seguendo con grandissima attenzione e preoccupazione questi avvenimenti, non solo per la gravità in sé, ma anche per il fatto che tutto ciò va ad aggiungersi ad una situazione indiana critica già da molti mesi, a causa di una vera e propria persecuzione contro i cristiani. Questa attenzione è stata mostrata fin da subito, con il telegramma che il Segretario di Stato ha inviato a nome del Papa al vescovo di Mumbai, nonché dalle dichiarazioni del direttore della Sala stampa vaticana. A questo si aggiunge anche la continuità con cui il nostro giornale e tutti media vaticani stanno seguendo l’evolversi di questa situazione, che risulta ancora poco chiara.
I cristiani in India soffrono, come lei ora ricordava, per una persecuzione che negli ultimi mesi ha avuto momenti di forte recrudescenza. Ora, di fronte a questi atti di terrorismo, sebbene non diretti contro i cristiani, a quale nuovo compito è chiamata la Chiesa in India?
Ogni momento di crisi è un momento che interpella i cristiani, non solo i cattolici ma tutti i cristiani, sul loro modo di essere nel mondo. Il cristiano deve essere un richiamo alla coerenza, alla testimonianza che porta con sé una risposta. E questa, come ripetuto costantemente da molti vescovi e dalla stessa Santa Sede, non può che essere una risposta di riconciliazione, un vincere il male con il bene. C’è un modo diverso da parte dei cristiani di rispondere alla violenza, e le cronache di questi mesi lo stanno mostrando con chiarezza. Noi stessi abbiamo pubblicato testimonianze di cattolici, di religiosi e, soprattutto, di religiose che si trovano in questi mesi ad affrontare una situazione nuova. Certo continua a colpire l’indifferenza con cui l’opinione pubblica, che ora segue attentamente i recentissimi avvenimenti, abbia per lo più ignorato quello che nei mesi scorsi accadeva sempre in India, a danno dei cristiani. Fatta eccezione, naturalmente, per l’autorevolezza di grandi voci istituzionali che si sono pronunciate su questo, come il Capo dello Stato e il ministro degli Esteri, nonché alcuni importanti giornalisti, come ad esempio Pierluigi Battista sul Corriere della Sera.
In effetti le persecuzioni contro i cristiani non sono certo state un episodio meno grave di quello appena verificatosi; eppure è stato trattato dai media con un’attenzione decisamente minore. Come giudica il modo con cui l’informazione, e anche l’opinione pubblica, sta seguendo le notizie che arrivano dall’India?
Bisogna sicuramente tenere conto della novità, molto preoccupante, che ha contraddistinto questo ultimo attacco: si è trattato di un vero e proprio attacco militare al cuore dell’India, attentamente premeditato e altrettanto accuratamente messo in opera da professionisti, come le testimonianze riportate dalla stampa internazionale sembrano dimostrare. Si tratta di un terrorismo usato come arma da guerra, e questo è certamente ciò che colpisce. Detto questo, è anche vero che l’Occidente sembra scoprire solo ora che la democrazia più grande del mondo, come giustamente ritiene di essere l’India, non sia poi quell’immagine e quel mito di tolleranza che tra noi occidentali corre da decenni. E questo ha colpito anche molti sinceri amici dell’India. C’è una forte preoccupazione per una democrazia che ha i suoi limiti, intrinseci per la fisionomia di un paese così vasto e popoloso, che non a caso viene definito subcontinente: oltre un miliardo di persone, centinaia di lingue e di etnie, un forte sviluppo economico, dovuto anche alla globalizzazione, ma pur sempre con il mantenimento di grandi disuguaglianze. Non dimentichiamo che uno dei motivi che fomentano le violenze contro i cristiani è la destabilizzazione del sistema delle caste.
Di fronte a queste vicende si parla spesso della religione come di una cosa pericolosa, fonte in sé di scontri e di violenze: come rispondere a questa che è evidentemente una semplificazione?
Cercando di informarsi accuratamente, e di respingere con argomentazioni questi che non sono altro che stereotipi, spesso indotti ad arte e privi di fondamento. Che certi eventi, come quelli recenti, siano spesso legati a concezioni e a visioni religiose con tendenze fondamentaliste, questo è un fatto; ma ciò non significa che le religioni stesse siano responsabili della violenza. Nessuna religione lo è; anche se va sicuramente notato che è la storia stessa, e in particolare proprio la storia delle religioni, a mostrarci chiaramente le differenze che ci sono state nell’evoluzione delle singole credenze.
L’attacco terroristico in India è arrivato qualche giorno dopo la notizia dei timore di nuovi attentati a New York, come emerso da un report dell’Fbi. Il terrorismo genera paura, una paura diffusa che va a incrinare anche le certezze della vita quotidiana: di fronte a questi sentimenti di incertezza, che risposta e che speranza portano i cristiani?
I cristiani, insieme a tutti gli uomini sinceramente religiosi, sono nel mondo per testimoniare che il male non avrà l’ultima parola, e che quindi non c’è motivo di lasciarsi dominare dalla paura. È una certezza che attraversa tutta la storia della cristianità, presente fin dai primi neotestamentari, per giungere alle parole anche degli ultimi pontefici. Tutti ricordano le parole che furono pronunciate il 22 ottobre del 1978 da Papa Giovanni Paolo II, quel “Non abbiate paura!” detto con una forza e un’energia che colpiscono ancora oggi, e il cui messaggio è stato recepito e continuato dal successore Benedetto XVI. Si tratta di un’esortazione che affonda le proprie radici nell’intimo della fede cristiana: la fiducia nel Dio cui non sfugge nemmeno il passero che cade. La Provvidenza divina è onnipotente e onnisciente, ed è questa la certezza su cui quell’esortazione si fonda. Bisogna avere fiducia nel fatto che il male non prevarrà; e questo è un invito che vale non solo per gli uomini di fede, ma per ogni persona umana di buona volontà.
COLLETTA/ Un grande risultato che mostra quanto può fare il “contagio della carità” - Gianluigi Da Rold - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
I numeri sono ancora positivi e su quelli ci soffermeremo per qualche considerazione. Ma l’impatto e l’importanza della dodicesima Colletta alimentare rivelano ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, l’intuizione di don Luigi Giussani e di Danilo Fossati.
Il semplice atto di carità, il semplice gesto del dono batte tutte i modelli e tutti i programmi di rilancio economico, svela l’autentica povertà dei meccanismi della tecnofinanza. Soprattutto in un momento come questo di grave crisi finanziaria mondiale e di recessione economica ormai dichiarata dagli osservatori internazionali.
Come diceva Luigi Giussani agli amici anche più increduli: si assisterà con questa giornata allo spettacolo della carità. Si pensi solo a questo raffronto: i consumi a livello nazionale calano in percentuale del 3%: la Colletta alimentare aumenta ancora la portata complessiva della sua raccolta in un giorno solo avvicinandosi alle novemila tonnellate e segnando un nuovo incremento percentuale che è quasi di un punto.
E poiché l’importanza del gesto prevale sempre sul risultato, va anche aggiunto che questa volta l’ultimo “sabato di novembre” è coinciso con una giornata in cui la stessa Protezione civile, per le eccezionali condizioni atmosferiche di freddo, neve e pioggia, consigliava di starsene a casa.
L’atto di carità vale quasi un piccolo “peccato di disobbedienza civile”, perché malgrado le avverse
condizioni di tempo, ancora una volta oltre cinque milioni di italiani hanno donato una parte della loro spesa ai poveri e almeno più di centomila italiani si sono presentati nei grandi punti di vendita
per aiutare la raccolta, per trasportare le merci, per immagazzinarle al fine poi di distribuirle.
Se questo non è lo spettacolo di un popolo civile, attento e consapevole verso il bisogno dell’altro, si può anche ridiscutere lo stesso concetto di civiltà che è nato da tradizioni secolari.
Il fatto più importante da sottolineare resta sempre quello di un doppio stupore: il primo è quello di una mobilitazione spontanea, che diventa incredibilmente ordinata ed efficiente; il secondo è la portata economica e sociale che il Banco Alimentare ha innescato nella società italiana. Può anche fare poco effetto il controvalore (decine di milioni di euro) della merce destinata alla popolazione più disagiata.
Ma certo, dopo anni di attività, viene attestato da economisti e da grandi uomini di finanza che il meccanismo della raccolta nella Giornata della Colletta e quello stesso che il Banco Alimentare mette in atto per tutto l’anno, sono da “premio Nobel”, come dice un grande economista, Luigi Campiglio. Oppure hanno aspetti e criteri di efficienza e razionalità che sono da primato in fatto di imprenditorialità, come ha dichiarato l’amministratore delegato di Intesa San Paolo, Corrado Passera.
Alla fine, di fronte a una cultura scettica dominante, emerge sempre lo stupore complessivo di come il cuore dell’uomo sappia cogliere e rispondere, con semplicità e spontaneità, ai bisogni più urgenti.
Non è solo questo l’aspetto prevalente che si coglie nell’attività del Banco Alimentare e della Giornata della Colletta. C’è in più la coincidenza di una partecipazione singola e collettiva degna di un grande racconto o di milioni di storie personali, tutte differenti, tutte incredibili da vedere.
Ieri c’erano i volontari di Torino e del Piemonte, in oggettiva difficoltà per una tormenta di neve su tutta la loro regione. Il problema non era solo la raccolta nei supermercati, ma anche la difficoltà del trasporto e dell’immagazzinamento. Ecco come si può dare “qualcosa in più”. Si può fermarsi nei magazzini, magari gelidi, ammucchiare le merci e metterle in scatola, poi dormire nei sacchi a pelo pur di completare un lavoro nel giro di poche ore al mattino successivo.
Il problema non è di latitudine, perché nel Materano, le condizioni meteorologiche e di viabilità erano ancora peggiori. E lì c’è voluto tutto il sacrificio personale e corale di andare a recuperare quello che è stato raccolto nei punti più disagevoli della zona.
Ma per cogliere lo spirito dell’iniziativa bastava guardare al di fuori di un grande supermercato della cintura milanese e vedere come anziani pensionati portavano spontaneamente interi carrelli di merce in dono, riservandosi per loro la spesa consueta del weekend.
Bastava alla fine ascoltare i brevi colloqui tra i donatori e i volontari: «Questo è il mio pacchetto, ma come posso fare per rendermi ancora più utile? Posso venire anch’io a darvi una mano?» È come se si formasse una sorta di “contagio” benefico, come se l’esempio e il dono si unissero per raggiungere un traguardo più ampio. Si assiste di nuovo all’aspetto più bello, cioè al fatto che fare del bene agli altri, coinvolge al punto che fa stare bene anche l’autore del dono.
Le storie dei singoli, segnalate per cronaca, riempiono ogni anno lo “spettacolo della carità”. Impossibile segnalarli tutti, ricordali tutti. Vale la pena di ricordare ancora, come cadano in questa giornata tutte le differenze culturali e religiose, sociali e politiche.
Se in tutti i mesi dell’anno puoi guardare, talvolta, quasi con sopportazione gli immigrati, gli extracomunitari che fanno parte ormai di ogni grande città o provincia italiana, nella Giornata della Colletta, ti accorgi che la carità alla fine sembra la strada migliore per un momento di autentica integrazione.
Come a Pisa, dove dieci nordafricani islamici e ospitati in un dormitorio pubblico hanno fatto per tutta la giornata i volontari, o come a Milano dove un gruppo di ragazzi - anche loro musulmani - hanno aiutato i volontari a inscatolare quanto raccolto.
O come Mario, egiziano con un piccolo negozio di pizzeria e kebab a Milano, che sabato ha dedicato due ore alla Colletta, anche se, preso tra mille difficoltà, non chiude quasi mai il suo negozio. E' da poco riuscito a portare in Italia sua moglie e i suoi tre figli, così prova a tirare avanti la famiglia e la sua impresa, cercando l'asilo per i due piccolini, di seguire la maggiore nei compiti e di insegnare alla moglie un po' di italiano. È un cristiano, con la pelle scura, insomma quanto basta per farsi guardare con diffidenza dai connazionali e dagli italiani. Eppure quelle due ore di lavoro (in cui avrà perso qualche cliente) gli "sono sembrate volare".
«Sai - ha detto al volontario che lo aveva invitato a venire, mentre preparava le scatole con una velocità e una cura impressionanti - sono contento di essere qui, oggi è il compleanno di mia moglie, ma so che anche lei è contenta: è giusto dare una mano a chi fa fatica, e poi volevo conoscere i tuoi amici». Poche parole, e tanto lavoro per Mario, sabato come ogni giorno. Fuori piove e ci sono le pizze da consegnare in motorino. Ma con un sorriso in più, e la consapevolezza di non essere soli.
CIPRO/ Quando la libertà religiosa è urgente anche per l'Europa - Mario Mauro - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Come fu per la presa della cattedrale di Santa Sofia, nel 1453, da parte delle orde turche, quando saccheggiata, privata della immagini sacre e circondata da minareti, venne trasformata in moschea, così anche la vicina isola di Cipro porta su di sé i segni dell'occupazione ottomana.
I cristiani ciprioti vivono ancora con dolore la perdita di numerosi luoghi sacri a loro particolarmente cari. Dal 329, quando con il Concilio di Nicea venne confermata l'autonomia della chiesa di Cipro, quest'isola si professa cristiana. Sul cristianesimo, riconfermato nuovamente dal Concilio di Efeso, si fondano le origini di questo Paese che, dal 2004, è membro dell'Unione Europea: le pareti delle chiese (le chiese dipinte, proclamate dall'Unesco patrimonio dell'umanità, sono soltanto una piccola parte di questo immenso tesoro), le immagini sacre nelle case, i volti e i cuori delle persone testimoniano la devozione e la fede che vivono ancora oggi e che è stata tramandata lungo i secoli.
Dall'assedio di Famagosta nel 1571 - cioè dalla conquista Ottomana dopo lunghe e sanguinose battaglie - la terza isola più grande per estensione del Mediterraneo ha sempre vissuto con conflitto l'invasione turca. Ottenuta l'indipendenza dall'impero ottomano nel 1898, il problema dell'occupazione dell'isola da parte dei turchi si ripropose nel 1974 con lo sbarco sull'isola di soldati che si sono concentrati nella parte a nord del Paese.
I risultati di questo insediamento, rafforzatosi poi nel 1983, sono sotto i nostri occhi: sono oltre 170mila i cittadini ciprioti, che rappresentavano quasi un terzo della popolazione della Repubblica di Cipro nel 1974, a esser diventati profughi nella loro stessa patria, più di 500 chiese, cappelle e monasteri cattolici, maroniti, armeni e ortodossi, sono stati occupati o distrutti.
Dal 1974, anno dell'occupazione militare, fino a oggi la Turchia ha trasferito oltre 160mila coloni nel territorio occupato che si trova nella parte a nord di Cipro. Senza contare che i fedeli cristiani, per secoli, hanno visto soffocare la loro fede attraverso la perdita e la dissacrazione dei loro - dei nostri - luoghi sacri.
La convivenza tra le diverse etnie non si può definire pacifica quando l'una cerca di prevalere sull'altra, quando un credo religioso cerca di sopraffare l'altro, osteggiarlo o, peggio, annullarlo. A testimonianza di questo possiamo ascoltare il grido di dolore dei maggiori esponenti della chiesa cipriota, come di tutti i fedeli che, lungo i secoli, e, in special modo, nei decenni che ci siamo appena lasciati alle spalle, hanno visto espropriate le testimonianze della propria fede.
L'occupazione turca ha cercato di cancellare molte di queste testimonianze visibili del fervore religioso di questo meraviglioso popolo. Ha cercato a più riprese di annullare, con lenti e continui attacchi, più di duemila anni di storia, ma non ha potuto cancellare la fede che è stata tramandata di generazione in generazione che ancora oggi è più che mai viva e presente tra i suoi abitanti. I resti, le macerie, i tentativi di annientamento di queste radici sono i baluardi - e al contempo le prove evidenti - di tale tentativo.
Dal 1974 si è venuta poi a creare una demarcazione, forzata dagli eventi bellici, tra i due diversi culti, acuitasi a causa di una separazione geografica della popolazione. Nella parte sud, la popolazione di etnia greco-cipriota rappresenta il 95% di quella totale, mentre in quella nord l'etnia turco-cipriota rappresenta il 98%. Ciò è dovuto alla deportazione, dalla parte nord dell'isola verso l'area sud, di circa 200mila abitanti greco-ciprioti. Ed è particolarmente a nord che i loro beni sono stati confiscati ed i loro simboli religiosi in gran parte distrutti.
Tutte le più importanti moschee - Keryneia, Lefkkosia, Famagosta, Pafos, Larnaka, Lemesos - inizialmente costruite come chiese cristiane, furono occupate dai turchi e trasformate in luoghi di culto. Ma c'è di più. Quelle che erano le chiese di un tempo, depredate e private della loro sacralità, versano oggi in uno stato di abbandono, o peggio, sono diventate non più luogo di culto, ma musei, hotel, cascinali, palestre. Gli affreschi e le decorazioni, tesori artistici e spirituali, cancellati e deturpati, totalmente o in maniera parziale, sono la prova della decisa volontà di annullare le profonde radici cristiane dell'isola di Cipro.
Oggi si invoca libertà religiosa, usando però due pesi e due misure. Anche ai cristiani, invece, deve essere consentita la possibilità di riappropriarsi dei loro luoghi sacri. È una questione di giustizia. A Cipro, quest'isola straordinaria per la presenza di testimonianze e tesori archeologici, la tutela della libertà religiosa, quella libertà che da sola garantisce una piena realizzazione della dignità di ogni uomo, diviene ancora più urgente.
TESTAMENTO BIOLOGICO/ Fine vita, i progetti di legge che non hanno imparato molto dal caso Eluana (1) - Riccardo Marletta – IlSussidiario.net
lunedì 1 dicembre 2008
Con questo articolo Riccardo Marletta, avvocato e membro della Libera Associazione Forense, comincia l'analisi dei disegni di legge in discussione in commissione al Senato per arrivare a una legge sul fine vita da più parti auspicata. Oggi sono presi in considerazione i ddl MARINO (Pd), TOMASSINI (PdL) e MASSIDDA (PdL) che potrebbero segnare il rischio di una deriva verso nuovi "casi Englaro". I temi eticamente sensibili, come vedremo, sono assolutamente trasversali agli schieramenti.
A seguito della vicenda giudiziaria di Eluana Englaro una larghissima parte dell’opinione pubblica è ormai fermamente convinta della necessità di una legge che disciplini il fine vita.
Alcun giorni fa anche il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, rispondendo a un appello a favore della vita di Eluana presentato dal Movimento per la Vita, ha sottolineato l’urgenza dell’introduzione di una normativa in materia.
Attualmente sono all’esame della Commissione “Igiene e Sanità” del Senato undici progetti di legge sull’argomento, presentati nell’arco temporale intercorrente tra la fine di aprile e il mese di novembre del corrente anno.
Ben poche notizie circa i contenuti di tali progetti di legge sono giunte dagli organi di informazione.
Può dunque essere opportuno analizzarne i tratti salienti, augurandosi davvero che si possa giungere al più presto ad una soluzione legislativa largamente condivisa che tuteli appieno la vita umana anche nella sua fase terminale.
Esaminando i primi progetti di legge presentati, si scopre che i progetti di legge Marino (Pd), Tomassini (Pdl) e Massidda (PdL) hanno contenuti in larga parte analoghi.
Tali progetti di legge, oltre a sancire il principio secondo cui il trattamento sanitario è subordinato all’esplicito consenso dell’interessato (tranne che nei casi di assoluta urgenza), contemplano la possibilità di rilasciare dichiarazioni anticipate di trattamento in forma scritta (nel progetto Massidda denominate “testamento di vita” ), revocabili in qualunque momento, mediante le quali l’interessato potrebbe dettare disposizioni in merito all’accettazione o al rifiuto dei trattamenti sanitari che dovessero rendersi necessari in futuro.
Una previsione analoga è contenuta anche nel progetto di legge presentato dal senatore Musi (Pd), nel quale è altresì precisato che le dichiarazioni anticipate di trattamento potrebbero prevedere anche il rifiuto dei «cosiddetti trattamenti di sostegno vitale quali la ventilazione, l’idratazione e l’alimentazione artificiale». A proposito di tali trattamenti, il progetto Tomassini con una previsione dalla formulazione tutt’altro che felice, stabilisce invece che «l’idratazione e l’alimentazione parenterale non sono assimilate all’accanimento terapeutico» (di cui peraltro il progetto di legge non fornisce una definizione), senza tuttavia chiarire se le dichiarazioni anticipate di trattamento potrebbero riguardare o meno anche queste forme di sostegno vitale.
I progetti Marino, Tomassini e Massidda prevedono poi che le direttive contenute nelle dichiarazioni anticipate di trattamento siano impegnative per le scelte sanitarie del medico. Quest’ultimo potrebbe disattendere tali dichiarazioni soltanto quando esse fossero divenute inattuali sulla base degli sviluppi delle conoscenze scientifiche e terapeutiche; secondo quanto previsto nel progetto Marino, nell’effettuazione di questa valutazione il medico sarebbe comunque tenuto ad acquisire il parere del comitato etico della struttura sanitaria interessata e ad adeguarvisi e non potrebbe dunque mai decidere autonomamente di disattendere le direttive contenute nelle dichiarazioni anticipate di trattamento.
Nessuno dei progetti in questione indica un termine temporale massimo di validità delle dichiarazioni anticipate di trattamento, il che sancirebbe definitivamente la negazione del principio, enunciato anche dalla giurisprudenza precedente alle sentenze della Cassazione sul caso Englaro, della necessità dell’attualità del consenso all’effettuazione dei trattamenti sanitari ovvero del rifiuto degli stessi.
I progetti di legge in esame prevedono poi che nell’ambito delle dichiarazioni anticipate di trattamento si possa (progetti Marino, Massidda e Musi) ovvero si debba (progetto Tomassini) nominare un fiduciario cui affidare l’esecuzione delle disposizioni di cui alle dichiarazioni stesse.
In mancanza di indicazioni nell’ambito delle dichiarazioni anticipate di trattamento, il fiduciario, al pari degli altri soggetti tenuti a dare attuazione a tali dichiarazioni, dovrebbe operare «nell’esclusivo e migliore interesse dell’incapace», tenendo altresì conto «dei valori e delle convinzioni notoriamente proprie della persona in stato di incapacità».
È evidente, con riguardo a quest’ultimo profilo, il riferimento ai criteri introdotti dalla Cassazione nel caso di Eluana Englaro.
Con un’importante notazione. Ove questi progetti fossero approvati, per certi aspetti si andrebbe addirittura oltre a quanto sancito dalla Cassazione nella vicenda Englaro.
Anche in presenza di dichiarazioni anticipate di trattamento, infatti, il fiduciario del soggetto che ha reso tali dichiarazioni potrebbe rifiutare per conto del rappresentato trattamenti sanitari che si rendessero necessari per quest’ultimo, anche se nelle dichiarazioni anticipate l’interessato non abbia affatto espresso la volontà di sottrarsi a quei determinati trattamenti.
Appare del tutto evidente che previsioni di questo tipo si muovono nella direzione opposta a quella indicata da molta parte dell’opinione pubblica e da alcuni rappresentanti del Governo, secondo cui uno degli intenti principali della futura legge sarebbe quello di evitare altri “casi Eluana”.
C’è da augurarsi che il Parlamento ne tenga adeguatamente conto.
(Continua - 1)
SPAGNA/ Se deve essere un ateo a ricordarci l’importanza del crocefisso - José Luis Restan - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
La sentenza di un giudice di Valladolid che obbliga a togliere il crocefisso dalle aule della scuola pubblica Macías Picavea ha suscitato una curiosa divisione nel campo socialista. Mentre il ministro dell’Educazione Mercedes Cabrera vorrebbe lasciare questo tipo di decisione ai Consigli scolastici di ogni paese, il vicesegretario del Psoe Blanco e il portavoce al Congresso Alonso ritengono che questa sentenza, che non è definitiva e che riguarda solamente una scuola, sia da trasformare in una dottrina da applicare in via generale a tutto l’ambito educativo spagnolo.
La proposta di Cabrera sembra sensata e l’averla applicata al caso specifico di Valladolid avrebbe permesso ai crocifissi di rimanere nelle aule, perché la maggioranza dei genitori appoggiava la loro permanenza, ed è stato l’impegno di una minoranza laicista che ha portato il caso ai tribunali con la conclusione conosciuta.
Purtroppo c’è da temere che la dottrina unificata del Psoe sia quella incarnata da Blanco e Alonso (che ho già segnalato la scorsa settimana riguardo al caso di Madre Maravillas), e che quindi il loro partito voglia eliminare gradualmente dall’ambito pubblico tutti i simboli religiosi. I socialisti non avrebbero potuto ricevere regalo migliore di questa sentenza, che è stupefacente perché segnala la presenza del crocefisso quale violazione della libertà religiosa e attentato all’articolo 16 della Costituzione.
La questione del crocefisso nella scuola vi è stata già in altri Paesi europei e ha dato luogo a diverse soluzioni politiche e giuridiche. In Francia si è battuta la strada laicista di sopprimere i simboli religiosi nelle aule (arrivando anche a disciplinare l’abbigliamento), mentre in Italia si è riconosciuto che il crocefisso è un punto di riferimento della cultura comune su cui si basa la laicità della Repubblica, e pertanto può essere appeso nelle aule. La legge statale della Baviera va oltre e riconosce nel simbolo della croce la volontà di realizzare i valori costituzionali ispirati a quelli cristiani e occidentali. Come si vede, la gamma di soluzioni è ampia e offre spunti per un dibattito approfondito.
In un’intervista concessa nel novembre del 2004 al vaticanista Marco Politi, l’allora cardinal Ratzinger affrontava la questione spiegando che possono esistere Paesi in cui il crocefisso non esprime un riferimento o un orientamento morale comune, perché la presenza cristiana non ha segnato la sua storia. Tuttavia per gli altri, tra cui la Spagna, il crocefisso resta un punto di orientamento che può essere riconosciuto tanto dai credenti quanto dai non credenti, quale punto di riferimento essenziale del tessuto etico-culturale condiviso dalla maggioranza della società.
Più avanti il cardinal Ratzinger spiegava il significato del crocefisso: «La Croce ci parla di un Dio che si fa uomo e muore per l’uomo, che ama l’uomo e lo perdona; questa è una visione di Dio che esclude il terrorismo e le guerre di religione in nome di Dio».
Tutta la cultura occidentale (la filosofia, la politica, la scienza e il diritto) affonda le sue radici nella concezione di Dio e dell’uomo che il crocefisso rappresenta in modo supremo. È proprio questa concezione che è alla radice della laicità, che solamente ha potuto svilupparsi su questo substrato. Senza la presenza di ciò che significa e rappresenta il crocefisso, la laicità sarà un vuoto desolante come le pareti nude che vuole il Psoe di Zapatero.
Nel recente libro Dio salvi la ragione, pubblicato da Ediciones Encuentro, il filosofo ateo Gustavo Bueno spiega perché il Dio dei cristiani ha salvato la ragione umana dai suoi diversi deliri nel corso della storia dell’Occidente, e fino a che punto ha senso dire che la continuerà a salvare nel futuro, date le minacce del nichilismo, della prepotenza dello Stato o del fondamentalismo islamico.
Secondo Bueno, che non professa la morte del Dio fatto uomo sulla croce, la notizia arrivata da Valladolid può solamente significare un impoverimento delle difese della nostra già debole e complessata cultura.
La presenza della croce, come segno e bussola della grande avventura della cultura occidentale, non viola i diritti di nessuno e non provoca coercizione o diminuzione della libertà, ma offre un punto di incontro, una memoria del meglio della nostra impresa comune e un aggancio sicuro con la storia. Al contrario, la soppressione dei crocefissi a colpi di decreti o di sentenze giuridiche vuol dire impegnarsi a svuotare una società della sua sostanza, provocare una rottura traumatica ed escludere la dimensione religiosa dalla costruzione della città.
Questa sembra essere la via scelta dal socialismo spagnolo: non gli importa qual è la realtà sociale, che nella maggioranza dei casi riconosce il valore di convivenza che suppone la croce e che può risolvere in modo pacifico le divergenze che possono sorgere, ma impone una rottura e pretende di dar forma alla stessa realtà sociale secondo i suoi parametri ideologici.
D’altra parte, in quella stessa intervista il cardinal Ratzinger già aveva avvisato del fatto che sarebbe potuto accadere in futuro che un popolo perdesse la sua sostanza cristiana, così che il segno della croce smettesse di avere una rilevanza che potesse avvallare la sua presenza nell’ambito pubblico. È un saggio avvertimento, perché il processo in corso punta in questa direzione e non lo si ferma con ricorsi giudiziali né con calorosi discorsi.
È indiscutibile che la radice della Spagna è cristiana (e il crocefisso è il segno più eloquente di questo), ma questa radice non può nutrire la vita degli uomini e delle donne di questa generazione, e questo ci porta ancora una volta alla sfida di una nuova missione, di una testimonianza e di un’educazione che permettano di sperimentare nel presente la verità e il bene rappresentati dal simbolo della croce. Questa è l’unica risposta vincente di fronte a qualsiasi laicismo.
Solženicyn/ Le tre vocazioni di un grande scrittore - INT. Nikita Struve - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Nikita Struve conosce molto bene Solženicyn. Gli è stato fraterno amico per trent’anni, ha pubblicato presso la sua casa editrice parigina YMCA Press Arcipelago GULag, ha tenuto una orazione ai funerali dello scrittore. Ora è in partenza per Mosca, dove parteciperà al grande convegno di studi che era stato pensato per celebrare i novant’anni di Solženicyn. Prima ha trovato il tempo di tenere una affollata conferenza agli studenti dell’Università Cattolica di Milano, dove è anche allestita la mostra che già molti hanno visto allo scorso Meeting di Rimini. Professor Struve, chi era veramente Aleksandr Solženicyn?
È indubbio che Solženicyn sia stato un grande del Ventesimo secolo. Eppure non è facile spiegare questa sua grandezza umana e letteraria. Non si riescono a trovare le parole per descrivere la sua opera, che è quasi un unicum nel panorama letterario mondiale. Baudelaire ha scritto che gli uomini grandi sono solo il poeta, il prete e il soldato. E da piccolo Solženicyn diceva di sé che avrebbe voluto diventare, in ordine, un condottiero, un prete, uno scrittore. Poi il destino ha scelto per lui la strada dello scrittore, ma io credo che in realtà egli abbia realizzato tutte e tre queste sue «vocazioni» infantili.
Proviamo ad analizzare queste vocazioni.
Partiamo da quella più evidente. Solženicyn è stato un grande, un grandissimo scrittore. E, come ho accennato prima, per lui è stata veramente una vocazione. Vi si è dedicato a partire dai quarant’anni, dopo aver fatto la terribile esperienza della guerra, del lager, del cancro. Avendo ritrovato al fede, ha compreso che la sua vita aveva un compito: quello di conservare, attraverso la scrittura, la memoria di ciò che aveva visto. Pensi che già a 18 anni immaginava di scrivere una grande opera epica sulla rivoluzione d’ottobre. Lo fece decenni più tardi, dopo tante vicissitudini personali, scrivendo la gigantesca Ruota rossa. Solženicyn era così convinto della sua missione di scrittore che in lager, dove non era assolutamente possibile scrivere alcunché, si è dedicato alla poesia: il ritmo dei versi e la rima gli hanno consentito di ricordare fino alla liberazione quello che andava componendo nella sua mente. Appena ha potuto esprimersi, la sua vena di scrittore è esplosa; la sua opera omnia consta di trenta volumi. Ed è un’opera straordinariamente innovativa in termini linguistici, sintattici, estetici.
In che senso Solženicyn fu anche un soldato?
Anzitutto in quello ovvio che desiderò partecipare alla guerra in difesa della sua patria e si comportò molto onorevolmente, ricevendo anche parecchie medaglie. Ma quello che voglio sottolineare è la sua tempra di stratega e il suo coraggio. Ce ne voleva molto, di coraggio, per mandare ad una rivista ufficiale un racconto come Una giornata di Ivan Denisovic che parlava, per la prima volta, dei lager sovietici. E ci voleva una grande intelligenza strategica per scrivere un libro come Arcipelago GULag nascondendo le copie del dattiloscritto, distribuendole tra gli amici in modo tale che il KGB non le trovasse. Se noi abbiamo potuto leggerlo è stato per questa sua intelligenza.
Veniamo alla vocazione di sacerdote.
Secondo me Solženicyn l’ha realizzata al suo livello più alto, quello del profeta. Il profeta è anzitutto colui che vede quello di cui altri non si accorgono; e Solženicyn era proprio così: aveva un'intelligenza acutissima e comprendeva la situazione del suo interlocutore prima che questi parlasse. Il profeta, poi, è colui che ha il coraggio di denunciare la menzogna e l’ingiustizia e, per questo, è odiato. In Solženicyn questo aspetto è evidentissimo: basta pensare alle sue forti prese di posizione di fronte a ogni attacco contro la verità (anche in occidente), e alla consapevolezza che per questa libertà si deve pagare di persona. Lui ha pagato, non solo con la persecuzione e l’espulsione dal suo paese. Solženicyn sapeva che la sua profezia avrebbe potuto costargli la vita; e infatti nel 1971 tentarono di ucciderlo avvelenandolo.
Solženicyn, quindi, realizzò le sue aspirazioni di bambino?
Certamente. Ma occorre tenere presente un aspetto per me fondamentale e che documenta ulteriormente la sua genialità. Tutti quelli che l’hanno conosciuto hanno notato la sua straordinaria forza di volontà e il suo coraggio. Ma sotto a tutto questo sta un’altra dinamica, molto più profonda. Voglio parlare di quello che san Paolo, nella lettera ai Filippesi, chiama kenosi, cioè lo svuotamento di Cristo, che da Dio si è fatto uomo e, come uomo, si è annullato fino alla morte. Ecco, Solženicyn è stato un condottiero, un sacerdote e uno scrittore di eccezionale grandezza, perché ha accettato per sé questa strada. Pensi che il primo periodo di lager l’ha trascorso in una condizione privilegiata: si trovava in un campo per scienziati (non dimentichiamo che Solženicyn era un valente matematico) nel quale le condizioni di vita erano molto migliori che negli altri luoghi di reclusione. Bene, Solženicyn, insieme ad altri, ha chiesto di essere trasferito in un lager «normale», quindi molto più duro, proprio per bere fino in fondo il calice della sofferenza. Del resto molti personaggi dei suoi racconti sono grandi proprio perché rinunciano a se stessi per un ideale grande. Pensi a Matriona del celebre racconto che dona tutta se stessa oppure a quel funzionario di partito, Innokentij Volodin che avrebbe potuto diventare ambasciatore in Francia, ed invece fa filtrare all’estero notizie sulla fabbricazione dell’atomica in URSS e per questo viene arrestato. Ma proprio in prigione, cioè al fondo della kenosi, egli ritrova la sua umanità. Ma allora, c’è una parola sintetica che oso utilizzare per descrivere Solženicyn: santità.
MEDICINA/ Lo strano caso dei neuroni specchio, una scoperta che allarga il mistero dell'agire umano - Redazione - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
I neuroni specchio (mirror neurons) sono una delle star scientifiche di questo 2008: almeno in libreria e nella divulgazione. Il loro singolare coinvolgimento una quantità di esperienza quotidiane comuni a tutti, li rende intriganti e degni di considerazione e approfondimento.
Ma cosa sono i neuroni specchio? Scoperti casualmente nell’area premotoria F5 (e successivamente in una regione del lobo parietale posteriore connessa con F5) della corteccia cerebrale delle scimmie da laboratorio (Macaca nemestrina), questi scaricano (cioè producono impulsi elettrici) sia quando la scimmia compie un determinato atto motorio che comporti un’interazione effettore-oggetto sia quando essa si limita ad osservare un altro (scimmia o sperimentatore) compiere il medesimo atto. Questa duplice attivazione ci indica che i messaggi inviati dai neuroni visuo-motori (cioè quei neuroni che rispondono sia a stimoli visivi che a stimoli motori) che sono dotati di proprietà specchio sono gli stessi sia quando la scimmia interagisce con un determinato oggetto sia quando essa si limita ad osservare la stessa operazione compiuta da un altro. Questo fatto ci indica come per questa speciale classe di neuroni l’informazione di tipo sensoriale e quella di tipo motorio siano riconducibili ad un “formato” comune. L’attivazione dei neuroni specchio durante l’osservazione di un atto motorio, non seguito dall'effettiva esecuzione del medesimo atto da parte della scimmia osservatrice, rappresenta quindi l’automatica “evocazione interna” e potenziale di quello stesso atto motorio che la scimmia stessa compie quando interagisce con il medesimo oggetto.
Questa scoperta si inserisce in un più ampio quadro di revisione delle funzionalità delle aree della corteccia cerebrale (sia delle scimmie che umane), che ha messo in evidenza come una netta divisione tra le aree sensoriali (atte a codificare fenomeni sensoriali come quelli visivi, somatosensitivi e uditivi) e quelle motorie (atte cioè all’organizzazione dei movimenti), così come era stata ipotizzata in passato, non sia adatta a rappresentare efficacemente la complessità e la mutua correlazione vigente tra di esse. Queste aree non sono etichettabili solo come “sensitive pure” e “motorie pure”: è infatti a livello dell’area premotoria F5 della scimmia, che sono stati scoperti i cosiddetti “neuroni visuo-motori canonici”: essi si attivano cioè sia quando la scimmia interagisce con un oggetto sia quando si limita ad osservarlo. Questa duplice attivazione fornisce una conferma alla teoria delle affordances formulata da James Gibson circa cinquant’anni fa, secondo cui gli oggetti offrono all’osservatore delle possibilità di azione semplicemente presentando visivamente le proprie possibilità di presa/utilizzo, e configurandosi quindi come poli di atti virtuali. I neuroni visuo-motori di F5 però non codificano le singole affordances offerte da un oggetto, quanto piuttosto gli atti motori ad esse congruenti.
Ma i neuroni specchio possiedono delle proprietà ancora più interessanti: il loro specifico schema di attivazione ci indica infatti come essi permettano – a differenza di quelli visuo-motori canonici di F5 – una comprensione delle azioni degli altri, comprensione che è di natura preriflessiva ed immediata: il fatto che nella scimmia che osserva un determinato tipo d’atto si attivino gli stessi neuroni che scaricano quando è essa stessa a compiere quell’atto fornisce all’animale una comprensione dell’azione dell’altro che è caratterizzata da una forte pregnanza motoria interna. C’è chi, per descrivere efficacemente questo fenomeno, ha parlato infatti di “simulazione incarnata”. Bisogna però sottolineare che i neuroni specchio della scimmia non rispondono ad atti mimati o intransitivi (cioè privi di un correlato oggettuale).
Nelle scimmie inoltre i neuroni specchio codificano anche atti motori finalizzati ad uno scopo preciso (come “afferrare per portare alla bocca” o “afferrare per spostare”); sono poi stati scoperti anche i neuroni specchio audio-visivi, che scaricano cioè sia quando la scimmia osserva lo sperimentatore compiere un’operazione che produce un rumore (ad esempio rompere una nocciolina), sia quando essa ascolta il rumore causato dalla rottura della nocciolina stessa. Infine, sono stati scoperti i neuroni specchio “comunicativi”, quelli cioè che non solo risultano correlati all’esecuzione ed all’osservazione di azioni della bocca, ma anche all’osservazione di espressioni facciali comunicative compiute dallo sperimentatore.
La scoperta dei neuroni specchio nelle scimmie ha subito interrogato gli scienziati sull’esistenza di un sistema simile nell’uomo. Essi sono stati in effetti scoperti anche nella nostra specie, grazie a metodi di indagine dell’attività cerebrale non invasivi, come la risonanza magnetica funzionale (fMRI), la tomografia ad emissione di positroni (PET) e la stimolazione magnetica transcranica (TMS). I nostri neuroni specchio presentano alcune similarità rispetto a quelli delle scimmie: come la proprietà di poter codificare non solo singoli atti bensì intere catene d’atti, e la capacità di comprendere non solo il tipo di atto eseguito ma anche lo scopo per il quale quell’atto è compiuto. Esso presenta però alcune importanti differenze: nell’uomo infatti il sistema dei neuroni specchio appare più esteso di quello delle scimmie; inoltre essi si attivano anche alla vista di azioni mimate ed intransitive (cioè non dirette ad un correlato oggettuale). Sono stati osservati neuroni specchio legati alla codifica di azioni compiute da mano, bocca e anche piede.
Ulteriori studi sull’uomo hanno mostrato come essi siano coinvolti nel processo imitativo: non solo su quello che si basa su un substrato neuronale interpretabile come un “vocabolario interno di atti motori” già posseduto, ma anche nell’apprendimento di atti non conosciuti precedentemente. E la presenza di neuroni specchio nella parte posteriore dell’area di Broca (considerata l’omologo umano di F5), unitamente al fatto che questa area si attiva durante l’esecuzione di movimenti orofacciali, brachiomanuali ed orolaringei, ed a seguito di ulteriori esperimenti che hanno messo in evidenza come la lettura silenziosa di parole o frasi che descrivono azioni eseguite da effettori diversi come la mano, la bocca e il piede attivi settori della corteccia premotoria e motoria che controllano quelle stesse azioni, ha fornito una ulteriore conferma di quella teoria dell’evoluzione del linguaggio che prevede una interazione tra gestualità e fonazione allo scopo di stabilire una “piattaforma comunicativa comune”. Sarebbe infatti grazie alla mano ed ai suoi movimenti che potremmo comunicare al meglio con coloro con i quali interagiamo, grazie alla formazione di un “prerequisito di parità” evolutivamente ancestrale che avrebbe poi permesso lo sviluppo di un sistema di fonazione altamente complesso.
Un’altra importantissima scoperta che riguarda i neuroni specchio dell’uomo è la loro presenza a livello della regione anteriore dell’insula: questa regione cerebrale, responsabile della percezione olfattivo-gustativa, presenta connessioni con i centri viscerali profondi, scatenando in particolare reazioni di disgusto a seguito della percezione di odori o sapori sgradevoli. È stato scoperto che essa risulta collegata all’area visiva STS, implicata nella percezione dei volti; i neuroni specchio presenti in questa regione cerebrale scaricano quindi anche alla semplice vista delle reazioni di disgusto di volti osservati. Questa risposta è interpretata dagli scienziati come quella coloritura emotiva che ci permette di avere un’esperienza più profonda degli altri e di ciò che sta succedendo a coloro che ci circondano. Ecco dunque che i neuroni specchio si dimostrano essere co-responsabili della formazione di quella “piattaforma emotiva condivisa” che ci permette di essere empatici con gli altri, in un modo che, essendo mediato dai neuroni specchio, ci permette di vivere primariamente, in prima persona ed in maniera profonda le emozioni altrui, che vengono quindi in questo caso comprese come facenti parte del nostro stesso set emotivo.
Cosa si può concludere da questo discorso? Cosa ci indica la scoperta e l’importante ruolo che i neuroni specchio assumono nella scimmia, ma soprattutto nell’uomo? Essi ci indicano che siamo “ingabbiati” in una rete di rispecchiamento, gettati insieme ai nostri con specifici in un “labirinto degli specchi” all’interno del quale non possiamo fare altro che “comprendere solo neuralmente”, “imitare solo neuralmente” ed essere “semplicemente neuralmente empatici”? Cioè che tutte le nostre peculiarità sono riducibili ad un mero e costringente schema neuronale? Le cose non sembrano stare in questi termini. Quello che i neuroni specchio ci dicono è piuttosto che noi siamo fatti per essere sociali e cooperativi: siamo dotati di un sistema neuronale che ci permette di fare esperienza degli altri in prima persona e che ci permette di avere una piattaforma empatica basilare per partecipare delle emozioni altrui. Siamo cioè biologicamente dotati di un substrato neuronale basale comune, grazie al quale possiamo comprendere immediatamente quello che fanno gli altri, possiamo imitarli (ma anche inibire l’imitazione), possiamo stabilire una connessione neuronale per una comunicazione “paritaria” e possiamo infine comprendere in termini di condivisione viscerale profonda le emozioni altrui. Sembra quindi che le nostre menti siano “costruite” per essere in relazione con gli altri, per essere relazionali secondo modalità sofisticate e profonde; siamo l’unica specie che ha sviluppato queste potenzialità a livelli così alti. I neuroni specchio ci indicano che nella coscienza del sé è sempre compreso un “tu”: l’uomo è in questo caso descrivibile con l’efficace “analogia della medaglia”, usata da Iacoboni: ogni uomo è una medaglia costituita da due facce, «una delle quali è il sé, [e] l’altra, in un gioco inevitabile di parole, l’altro».
Questi neuroni ci offrono inoltre nuovi spunti per una riflessione sulla valenza che l’etica e la morale hanno per l’uomo: la scoperta dei neuroni specchio implicati nel fenomeno empatico ci indicano che noi sembriamo essere dotati di una “morale biologica primaria”, una “morale prima della morale” (dal titolo di un saggio di Laura Boella) che ci qualifica come esseri tendenti per natura ad accorgersi degli altri, a prendersene cura e ad essere empatici. Può questo tradursi in una raffinata ma “costringente” forma di riduzionismo etico neuronale? Può cioè la scoperta dei neuroni specchio condurci a dedurre una definitiva determinazione biologica delle nostre facoltà etiche e morali? Sembra di no: infatti «condividere a livello visceromotorio lo stato emotivo di un altro è cosa (…) diversa dal provare un coinvolgimento empatico nei suoi confronti. (…) Ciò spesso accade, ma i due processi sono distinti, nel senso che il secondo implica il primo, non viceversa». Cioè la storia personale e la diversità intraspecifica sono elementi chiave, non meno importanti del substrato neuronale che condividiamo con gli altri. Infatti la nostra irriducibile peculiarità personale e la vastissima gamma di possibilità “inscritte nel nostro cervello”, «rendono impossibile, almeno allo stato attuale delle conoscenze, ricondurre anche un solo unico comportamento morale esclusivamente a fattori organici».
(Amerigo Maria Barzaghi)
IMPRESA/ Il calzaturificio pronto a “fare le scarpe” alla concorrenza orientale - Redazione - lunedì 1 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Cinquant’anni di storia
Nel 1956 Giuseppe Sagripanti decide di avviare un laboratorio artigianale con l’intento di perpetuare l’antica tradizione della produzione di pantofole risalente allo Stato Pontificio a cui apparteneva il territorio della provincia di Macerata. Nel settembre del 2006 una grande festa con milleseicento invitati celebra a Milano, durante il Micam, i dieci lustri di attività dell’azienda. In mezzo c’è di tutto: l’ingresso fin dai primi anni sessanta sui mercati esteri, la continua ricerca del perfezionamento qualitativo, l’entrata della seconda generazione con i fratelli Marino, Nazzareno e Angelo: proprio dalle loro iniziali nascerà la ragione sociale della nuova impresa che opererà, prima come Srl, poi, dagli anni ottanta, come Spa nell’innovativo stabilimento di Montecosaro. Qualche anno dopo si registra l’ingresso in azienda della terza generazione che a partire da Cleto, attuale giovane amministratore delegato, si inserisce agevolmente in una realtà da sempre votata alla valorizzazione delle persone. Il rispetto delle competenze, la forte propensione alla delega e l’incentivo dato all’apprendimento prima e più del fare vale da sempre per tutti i collaboratori ed è fattore di successo anche per il passaggio generazionale. Nel 1997 Manas ottiene, prima in Italia, per il settore calzaturiero la certificazione ISO 9000. Dal 2005, infine, è sponsor ufficiale del concorso di Miss Italia.
Due aree critiche: innovazione e formazione
Lo sviluppo dell’azienda si è realizzato secondo un percorso virtuoso che ha fatto dell’innovazione continua il fine e della formazione il mezzo. In un contesto economico sempre più polarizzato tra chi investe molto in ricerca e sviluppo e chi si basa solo, o soprattutto, su costi nettamente inferiori a quelli dei potenziali concorrenti, Manas ha operato una chiara scelta di campo: puntare con continuità su conoscenza e tecnologia per posizionarsi il più in alto possibile nella catena del valore. Ciò ha implicato quasi naturalmente il riconoscimento e il potenziamento delle competenze esistenti in azienda al di fuori della famiglia proprietaria e la managerializzazione della gestione. Ma non solo: da molti anni cinque collaboratori sono entrati a far parte con una piccola quota pro-capite del capitale sociale dell’azienda, un fatto abbastanza raro per l’epoca in cui avvenne e del tutto naturale invece per la proprietà di Manas che volle così riconoscere l’importanza del contributo professionale e relazionale di queste persone. La volontà e la capacità di coinvolgere le figure chiave è sempre stata, infatti, una caratteristica vincente dell’azienda. Anche a questo fine risponde il progetto “Scuola Manas”, una scuola professionale e gestionale aperta a tutti i collaboratori aziendali e ai partner esterni: nelle lezioni settimanali vengono affrontati con coordinatori e docenti interni problemi inerenti la produzione, la logistica, l’organizzazione aziendale. Gli incontri servono a ricercare e trasmettere soluzioni, ma soprattutto a creare gruppo e spirito di corpo ed anche visione comune delle vicissitudini aziendali. «Coltiviamo ogni giorno la passione per le persone che lavorano per noi e con noi – sostiene con forza Cleto Sagripanti - perché abbiamo imparato che dietro a una calzatura di qualità, a un prezzo competitivo, a un marchio forte e a una distribuzione efficace ci sono sempre loro».
Una precisa scelta strategico-organizzativa
Posti di fronte nei primi anni del nuovo secolo all’alternativa tra delocalizzare la produzione per ridurre i costi e mantenere la produzione in Italia per aumentare qualità ed efficienza, i proprietari decisero di proseguire nello spirito dell’esperienza fin lì fatta e di restare dunque ancorati al territorio delle origini, apportando tuttavia alcuni cambiamenti al modo tradizionale di fare impresa. In particolare, venne approvato un piano di investimento in tecnologia per allestire un sistema di videoconferenze che integrasse l’attività di una trentina di piccoli calzaturieri marchigiani loro terzisti e una decina di showroom sparsi nel mondo. Viene creata un’organizzazione a rete, quasi un distretto nel distretto, dove sono concentrate tutte le funzioni chiave, dalla produzione alla progettazione, alla vendita e a servizi post-vendita. Questo sistema, che tiene costantemente connessi uffici di progettazione, reparti produttivi, uffici commerciali e distributori, ha permesso di aumentare la qualità dei prodotti e ridurre gli scarti. L’investimento è stato notevole, anche per risolvere il problema della scarsa diffusione di linee telefoniche a banda larga, ma con i risultati ottenuti in termini di produttività e fatturato è facile ipotizzare un rapido ammortamento. Far lavorare insieme progettisti e produttori consente di curare il dettaglio in ogni fase del processo e dunque un miglioramento del controllo della qualità del prodotto finale; anche le pause dovute a incomprensioni tra tecnici e progettisti che prima, quando la connessione era garantita da posta elettronica, fax o incontri diretti, spesso si traducevano in sospensioni della produzione di intere mezze giornate e di migliaia di scarpe prodotte in meno, si riducono a pochi minuti con grandi recuperi di efficienza. Questo sistema organizzativo consente di aggiornare velocemente le linee e sviluppare al meglio quello che il mercato richiede; il prodotto si evolve, muta le sue forme, i suoi materiali e colori grazie alle informazioni che provengono al centro quasi in tempo reale. Attualmente operano un centinaio di stazioni di videoconferenza diffuse nei vari uffici dell’azienda e dei terzisti, ai quali il televisore e l’apparato di trasmissione è fornito in comodato: i siti produttivi così collegati sono ben trentadue nel solo territorio circostante per un totale di quasi duemila addetti. I problemi incontrati sono stati molti, anche di natura psicologica: attraverso appositi incontri nell’ambito del progetto “Scuola Manas” si è cercato di trasmettere a tutti i collaboratori cosa significhi e come lavorare in videoconferenza. I risultati sono stati positivi e all’iniziale ritrosia si è sostituito il piacere di lavorare guardandosi in faccia e parlandosi direttamente, spesso in dialetto: è anche questo un modo per custodire e trasmettere quella capacità manuale che concorrenti stranieri, cinesi in testa, non riusciranno a costruire ancora per decenni. La costruzione e la valorizzazione di un legame con i collaboratori fondato sulla fiducia reciproca è dunque tra le prime preoccupazioni dell’azienda: tale fiducia ha un valore economico in grado di rivalutarsi con il passare degli anni, l’incrementarsi delle competenze specialistiche e il ridursi delle alternative di sostituzione.
Collaborare, collaborare, collaborare
Anche per vincere la naturale gelosia imprenditoriale tipica delle piccole medie imprese, in Manas, come si è visto, si è puntato molto su progetti che facilitassero le aggregazioni sia sul fronte dei servizi che su quello produttivo e commerciale. Nella stessa direzione vanno le due iniziative di retail collettivo varate pochissimi mesi fa: “Angeli della moda” è uno show-room di duecento metri quadrati inaugurato a Tokio da sei aziende calzaturiere marchigiane con l’intento di conquistare insieme, e dunque a minori costi, il mercato giapponese. All’operazione, ottimo esempio di convergenza sinergica, partecipano anche Confindustria Macerata, la Regione Marche, l’Istituto per il Commercio Estero e Banca delle Marche. Un’altra iniziativa dello stesso tipo è “Venetian fashion group” show-room a New York che unisce aziende venete e marchigiane per operare sul mercato statunitense.
Anche nella ricerca l’unione spesso fa la forza e così Manas è tra i cinquantaquattro partner di quattordici diverse nazioni europee che hanno dato vita al progetto “CEC-Made Shoe”: centri di ricerca, università e imprese del settore, sotto l’egida della Confederazione Europea Industria Calzaturiera (CEC), collaborano al fine di mettere a punto innovazioni inerenti prodotti, materiali e processi. Tali innovazioni saranno testate dalle aziende partecipanti al progetto che, qualora fossero da esse giudicate operativamente valide, ne godranno i diritti di proprietà industriale. Nello stesso progetto è prevista, infine, anche un’attività di formazione attraverso l’organizzazione di un “Master europeo in design e produzione” e di corsi rivolti a operai, manager e commercianti.
INDIA/ Padre Grugni (Pime): servono “profeti”, uomini che sappiano parlare al cuore di tutti - INT. Antonio Grugni – IlSussidiario.net
lunedì 1 dicembre 2008
Il suo progetto si chiama Sarva Prema, “sarva” vuol dire “per tutti” e “prema” amore. Padre Antonio Grugni, missionario del Pime, è in India dal 1976. Sacerdote e medico, ha fondato Sarva Prema Society, ong con due centri, uno a Mumbai e l’altro nel sud dell’India, che curano e fanno riabilitazione di pazienti affetti da lebbra, tubercolosi e sieropositivi. Padre Grugni si è trovato in città, a Mumbai, durante gli attacchi dei terroristi.
Padre Grugni, l’emergenza degli attacchi terroristici è rientrata, sia pure al prezzo di centinaia di morti. Qual è il clima che si respira a Mumbai?
A Mumbai gli attacchi terroristici non sono di per sé un fatto nuovo, ci sono stati anche negli anni passati, e sempre ad opera di un terrorismo di matrice islamica. Nulla però che fosse di queste proporzioni. In questo caso ha colpito il livello di organizzazione dei terroristi, venuti probabilmente dal Pakistan, e la violenza inaudita sferrata in modo indiscriminato contro persone inermi. A Mumbai si respira tanta rabbia e delusione, perché ci si aspettava che il governo fosse più preparato e potesse prevenire un attacco del genere.
Dopo i fatti dell’Orissa e le persecuzioni di cristiani, per chi non vive in India un mondo così diversificato e ricco di sfaccettature e influenze culturali dà l’impressione di un crogiolo di tensioni sempre pronte ad esplodere. Perché la convivenza è così difficile?
Perché l’India è fatta di una grandissima varietà di razze, culture, lingue e religioni. È un paese di un miliardo e cento milioni di abitanti a maggioranza indù, con una grossa minoranza musulmana e una piccolissima minoranza cristiana. Dietro le violenze, che scoppiano spesso e volentieri tra musulmani e indù, vi sono anche cause storiche. Il Pakistan è in stragrande maggioranza musulmano, mentre in India l’induismo è religione di Stato. È un fatto che in Pakistan vi sono cellule terroristiche che preparano, indottrinano e armano terroristi, anche terroristi indiani e l’India sospetta che il terrorismo sia nutrito dal Pakistan per creare instabilità.
Le persecuzioni contro i cristiani hanno mostrato una convivenza dominata spesso dall’odio e dal conflitto…
In quel caso si tratta di intolleranza religiosa, a cui si sommano fattori sociali come la divisione in caste, e il fatto che i cristiani promuovano una sensibilità e una cultura contraria alle caste e che aiuta i fuori casta. Spesso è questo a scatenare conflitti. Non bisogna però credere che tutta l’India sia come l’Orissa e che la caccia ai cristiani sia ovunque. Dove io lavoro, nel sud del paese, i cristiani vivono in pace. Altrettanto accade a Mumbai. Lo posso dire con sicurezza perché vi sono rimasto per vent’anni.
Come vivono i cristiani di fronte a questa violenza?
È sempre condannata, ma si cerca di dialogare. L’errore più grande sarebbe rispondere alla violenza con la violenza. La sofferenza più grande è vivere in una società così divisa: il problema delle caste è sentito in modo drammatico, la legge le ha abolite ma la vita delle persone si sviluppa tutt’ora nella casta. E poi ci sono le fratture fra le religioni, il guardare con sospetto l’altro, che determina una paura reciproca. L’India è il luogo della disomogeneità assoluta: sociale, religiosa e culturale.
Chi o che cosa può offrire una soluzione? Che cosa può portare a un cambiamento?
Uno dei pochi che vi hanno tentato è stato il Mahatma Gandhi. Sia pure in una situazione storicamente diversa, è riuscito a polarizzare l’attenzione di tutte le comunità, perché si sentiva fratello di tutti, indù, musulmani e cristiani. La sua idea di tolleranza e di non violenza può essere un faro per la nazione.
E i cristiani cos’hanno da dire?
La novità di vita che i cristiani possono mostrare in India è quella di madre Teresa di Calcutta. È riuscita a mostrare il volto del cristianesimo nella sua autenticità con un “linguaggio” che tutti possono vedere e condividere: quello del servizio e dell’amore agli ultimi, superando le barriere di casta, senza fare discorsi o polemiche. È una figura che non suscita controversie. Se si parla del Papa, molti non cristiani non sanno chi sia, mentre madre Teresa è cresciuta su questo suolo è entrata nel cuore di tutti. È una figura che non crea animosità, accettata da tutti come una sorella.
Questo non ha impedito a molti cristiani – come nel caso della regione dell’Orissa – di essere perseguitati e uccisi…
No, purtroppo. Quello che suscita animosità e odio è l’idea stessa di una conversione personale. Nella visione che l’induismo ha della realtà essere indiano è essere indù. Il tentativo di cambiare religione è visto come il tentativo di cambiare l’identità stessa della persona. Questo avviene soprattutto a livello di alcuni gruppi elitari, che si organizzano anche in partiti politici, ma non riguarda quasi mai la povera gente. Dove questi gruppi sono forti e accentrati, come in Orissa, esplodono le recrudescenze di odio e violenza che tutti conosciamo. Ma dire “cristiano” può essere generico.
Perché?
I cristiani in India sono circa 25 milioni, di cui circa 17 milioni sono cattolici, gli altri sono protestanti sotto diverse denominazioni. Ma la gente è propensa ad accomunarli: in ogni caso vedono una bibbia e una croce. Ma spesso la reazione è legata a gruppi protestanti, che sono molto aggressivi dal punto di vista del proselitismo religioso, e questo contrasta con le leggi anti conversione. Queste leggi mirano a punire una conversione che possa essere stata comprata. Per esempio in Orissa, se uno si converte dall’induismo al cristianesimo deve andare davanti al magistrato e dare le prove che si converte di sua spontanea volontà.
La sua missione di sacerdote e medico la mette a contatto con moltissime persone. Qual è la sua personale esperienza?
Io non ho mai avuto problemi o scontri. Io mi occupo degli ultimi e lavoro tra i baraccati con musulmani e indù, con laici e paramedici. Nemmeno a Mumbai ho incontrato ostilità, anzi; siamo ben voluti e anche le autorità locali collaborano e ci fanno avere tutto quello di cui abbiamo bisogno.
Non siete sospettati di proselitismo?
Se si va con grande umiltà in mezzo alla gente si è ben accolti. Ad attirare gelosia e invidia sono soprattutto le grandi strutture, che mostrano ricchezza e potere. Cosa ne fanno di quei soldi che arrivano dall’occidente?, allora si chiedono in molti.
Di cosa ha bisogno l’India oggi?
Ci vorrebbero dei profeti. In situazioni così gravi ci vogliono persone con una grande personalità e testimonianza di vita, che abbiano l’autorità morale di parlare e di essere ascoltate; persone in cui vita e parola siano la stessa cosa. Purtroppo in questo momento di profeti non ne vedo. Quello che devono fare i cristiani è testimoniare Cristo nella più assoluta umiltà, diffondendo come la rosa il profumo del Vangelo, per usare un’espressione di Gandhi, che, rivolgendosi ai cristiani, voleva significare che la novità del Vangelo non sono parole ma innanzitutto un’aria nuova che si diffonde. Anche un cieco, che non vede la rosa, ne percepisce il profumo e la presenza.
La politica aiuta a superare il clima di diffidenza e ostilità?
Ci sono partiti indù molto aggressivi verso le minoranze cristiane e musulmane. Il Pjp, il partito fondamentalista indù, fino a quattro anni fa era al potere ma ora è all’opposizione. Nell’aprile dell’anno prossimo ci saranno le elezioni e il Bjp ora giocherà ancor più la carta del terrorismo, puntando sulla difesa dell’identità nazionale indù e accusando l’attuale partito al governo di essere incapace di far fronte alla sicurezza nazionale.
IL PRIMO ANNIVERSARIO DELLASPE SALVI - Quella certezza di futuro che già cambia il presente - GIACOMO SAMEK LODOVICI
Ricorre oggi il primo anniversario della Spe salvi, l’enciclica di Benedetto XVI sulla speranza, un tema che stava a cuore anche a Giovanni Paolo II (si veda l’esortazione post-sinodale Ecclesia in Europa).
In effetti, si tratta di un tema decisivo e fondamentale, tanto più in un mondo come il nostro che prova spesso smarrimento nell’affrontare il futuro, in un’epoca di offuscamento del senso della vita, della sofferenza e della malattia (per esempio di un senso dello stato 'vegetativo').
Ora, la speranza è l’aspettativa fiduciosa di un bene, ritenuto raggiungibile durante la vita, o dopo la morte biologica, ed è l’energia – come racconta Viktor Frankl, psicoterapeuta sopravvissuto ai lager – che ha permesso a diversi internati, anche fisicamente deboli, di sopravvivere persino all’abominio del campo di concentramento. Similmente, la Spe salvi dice che un presente faticoso può essere accettato se conduce verso una meta grande di cui possiamo essere certi. E mentre le religioni antiche crollarono perchè dai loro dei non emanava una speranza ben fondata, viceversa il cristianesimo ha proposto una speranza affidabile, quella che hanno sperimentato i grandi credenti, che, nella relazione con il Dio-Amore, hanno potuto trovare le risorse per sopravvivere anche in condizioni disumane e di violenza, e che hanno sperimentato di essere attesi, anzi già amati da questo Amore. Il cristianesimo si fonda su una speranza affidabile nella vita eterna e nella sconfitta della morte, perchè nell’incontro con questo Dio i grandi credenti sperimentano già un anticipo di vita eterna: grazie alla fede,la vita eterna prende inizio in noi,già presente in germe, e ciò costituisce una prova della vita eterna futura che ancora non si vede. Così, il fatto che questo futuro esista cambia il presente.
Possiamo avere speranza perchè siamo in grado di comprendere (con la fede, ma anche, in una certa misura, con la filosofia) che non sono le leggi della materia che governano l’uomo, bensì un Dio personale. Dunque, tutti gli sforzi di miglioramento dell’umanità vanno promossi, ma non bisogna sostituire la speranza escatologica nel Dio di Gesù Cristo con una speranza intramondana, come fanno alcune concezioni atee o che portano all’ateismo. La Spe salvi cita, per esempio, la speranza del comunismo nella creazione del paradiso in terra, purchè venissero cambiate (anche con la violenza) le condizioni economiche, e la speranza degli scientisti (da non confondere con gli scienziati) nella possibilità che la scienza possa realizzare la redenzione. Queste aspettative sono state fallimentari: il comunismo ha prodotto uno spaventoso massacro di decine di milioni di morti e la scienza, chepuò contribuire molto all’umanizzazione del mondo, se non segue nel suo esercizio dei principi etici,può anche distruggere il mondo e l’uomo. In effetti,non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore. Quando un uomo nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, vive già un momento di 'redenzione'.
D’altra parte, l’essere umano ha bisogno di un Amore infinito, pertanto chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita. (cfr. Ef 2,12). La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora 'sino alla fine'( Gv, 13,1).
Avvenire 28-11-2008
La prima volta di un musulmano sul giornale del papa - Il nuovo columnist è Khaled Fouad Allam. In sorprendente sintonia con Benedetto XVI. Entrambi a favore di un dialogo cristiano-islamico che non sia un compromesso tra le fedi ma un incontro tra le culture - di Sandro Magister
ROMA, 1 dicembre 2008 – Non si sono né visti né sentiti, eppure entrambi, negli stessi giorni, hanno sostenuto tesi sorprendentemente vicine. Da una parte il papa, Benedetto XVI, in una lettera-prefazione ad un libro; dall'altra un pensatore musulmano, Khaled Fouad Allam (nella foto), il primo musulmano chiamato a scrivere sulla prima pagina del giornale pontificio, "L'Osservatore Romano".
La prossimità di pensiero tra i due è tanto più sorprendente in quanto si esercita su un terreno incandescente, il rapporto tra cristianesimo e islam. È di pochi giorni fa l'ultima grande esplosione di violenza del radicalismo musulmano, a Mumbai.
Ha scritto Benedetto XVI in una lettera all'autore di un libro uscito in questi giorni in Italia, Marcello Pera, filosofo liberale, discepolo di Karl Popper, non credente:
"Un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo".
Ha scritto Khaled Fouad Allam su "L'osservatore Romano" di domenica 30 novembre:
"Da decenni i rapporti tra musulmani e cristiani coinvolgono diverse dimensioni, tra le quali il confronto sul piano religioso, anche se spesso non si riesce ad approfondirlo e a evidenziarne luci e ombre, con il risultato che non di rado emerge la nostra incapacità a pensare oltre. Proprio per questa crisi generalizzata bisogna pensare il dialogo tra cristianesimo e islam nella sua dimensione filosofica".
Allam vede nell'eplosione della violenza e dell'intolleranza religiose "il segnale di un male che la nostra umanità sta vivendo". Questo male ha la sua radice nel "divorzio fra storia ed eternità".
Mentre l'Occidente tende a far coincidere la storia col tutto, l'islam radicale pretende di "impadronirsi dell'eternità" e per questa via "cerca di imporre il tragico ordine della tirannia".
La guarigione da questo male – prosegue Allam – è dunque in un dialogo tra cristianesimo e islam che ricongiunga storia ed eternità; un dialogo sulle radici culturali e i loro effetti, su questioni che vanno dalla libertà di religione alla bioetica.
Il che esige da un lato "liberare l’islam dal monopolio della teologia neofondamentalista", dall'altro "un’Europa che ritorni alle sue radici, aperte agli altri continenti".
Da recordman di aborti a primo obiettore di coscienza serbo. La parabola di Stojan Adasevic - di Lorenzo Fazzini, per Tempi.it, del 27/11/2008
Bimbo scampato ad un aborto chirurgico; medico conosciuto in tutto il paese come «recordman» di interruzioni di gravidanza (anche 35 operazioni al giorno, 9 ore quotidiane di «mortifera» sala operatoria); quindi cristiano ortodosso e attivista pro life convertito da San Tommaso d’Aquino. Se non fosse vera, la vicenda di Stojan Adasevic parrebbe uscita dalla fervida mente di uno sceneggiatore ipercattolico abituato a copioni strappalacrime. E invece la storia di questo medico serbo di Belgrado è tutt’altro che cinematografica.
«Non voglio discutere i miei convincimenti teologici o quello che ho sognato, ma solo parlare dei fatti puramente materiali, come i metodi tecnici usati nelle interruzioni di gravidanza» ha scritto Adasevic su Saint Lazarus, pubblicazione della Chiesa ortodossa serba. Adasevic è cresciuto alla scuola marxista per cui l’aborto era solo «l’asportazione di una massa indistinta di tessuti», come recitavano i libri di medicina nella Jugoslavia comunista sui quali si formò l’ex dottor Morte. Dopo 26 anni da grande fautore di aborti – ne ha conteggiati tra i 48 e i 62 mila – Adasevic ha detto basta. E si è tramutato in un alfiere della difesa della vita fin dal suo concepimento.
La sua storia professionale visse uno snodo importante nel giorno in cui, giovane universitario, sentì alcuni ginecologi parlare di un’interruzione di gravidanza riuscita male, operazione che aveva riguardato una donna, dentista in una clinica vicino all’ateneo: in lei Stojan riconobbe la propria madre e nell’aborto «malriuscito» nientemeno che se stesso. «Lei è morta, ma chissà cosa sarà stato di quel bambino?» si chiesero i medici tra un caffè e una sigaretta. «Sono io quel bambino!» gridò Adasevic. Nonostante, o forse proprio per via di quell’episodio, il giovane dottore decise di dedicarsi quasi esclusivamente all’interruzione di gravidanza, nella convinzione – maturata grazie all’educazione di stretta osservanza comunista – che si trattasse «solo di una procedura medica, non diversa dal rimuovere un’appendice. La sola differenza era il tipo di organo asportato: un pezzo di intestino nel primo caso, un tessuto embrionale nel secondo».
I primi dubbi sorsero in Adasevic con l’avvento delle tecniche di diagnosi ad ultrasuoni, approdate nell’allora Jugoslavia negli anni Ottanta: per la prima volta gli fu visibile quello che non aveva mai visto, il feto adagiato nel grembo della madre, che succhiava il dito e si muoveva. La svolta vera, tuttavia, arrivò una notte di 26 anni fa, quando Stojan sognò un campo «pieno di bambini e di giovani che giocavano e ridevano; avevano dai 4 ai 24 anni, scappavano da me con tanta paura» ha raccontato il medico al quotidiano spagnolo La Razon. Fino a quando – sempre nel sogno – Adasevic riuscì ad afferrare un bimbetto, che però gridò: «Aiuto! Un assassino! Salvatemi da questo assassino!». Fu allora che, sempre durante il sonno, comparve al medico di Belgrado «un uomo vestito di nero e di bianco», che si presentò come Tommaso d’Aquino. Ad Adasevic, cresciuto sui libri del regime ateo di Tito, il nome del Dottore Angelico non disse nulla: «Perché non chiedi a questi bambini chi sono?» gli chiese il santo, senza dargli il tempo di rispondere. «Sono quelli che tu hai ucciso quando facevi gli aborti. Vedi questo ragazzo di 22 anni? L’hai ammazzato quando aveva 3 mesi nel grembo di sua madre».
Dopo questi sogni Adasevic continuò per qualche tempo a portare avanti la sua attività abortiva. Fino ad un giorno cruciale, quando durante un intervento di questo tipo estrasse dall’utero di una donna i pezzi di un feto: «La mano si muoveva ancora, il cuore pulsava». La donna in questione iniziò ad avere perdite di sangue di notevoli proporzioni e la sua vita era in pericolo: fu allora che, per la prima volta dopo decenni – Adasevic era stato battezzato da bambino, ma era cresciuto come un ateo doc – si ritrovò a pregare: «Signore, salva questa donna, non me!». Quello divenne il suo ultimo aborto.
Dagli anni Novanta Adasevic inizia a viaggiare in tutto il paese, tenendo conferenze e scrivendo articoli pro life. Per due volte riesce addirittura a far trasmettere sulle televisioni nazionali il celebre video del ginecologo americano Bernard Nathanson, Il grido silenzioso, che a metà degli anni Ottanta denunciava l’atrocità delle vite umane stroncate nel grembo materno. Addirittura l’attivismo dell’ex medico abortista portò il parlamento della Jugoslavia post-Tito ad approvare un decreto a favore dei diritti del concepito: solo il veto dell’allora presidente Slobodan Milosevic bloccò questa decisione a tutti gli effetti pionieristica.
Vicino alle donne
In Serbia, afferma Adasevic, le statistiche dell’aborto fanno paura: «Non abbiamo nessuna cifra ufficiale, ma dai calcoli e le osservazioni che ho potuto fare in base alla mia esperienza, posso affermare che a metà anni Novanta ci sono stati 6 aborti per ogni nato nel paese. Negli anni Duemila la situazione è addirittura peggiorata: i reparti di maternità sono vuoti, le cliniche per aborti strapiene. Praticamente non esiste nessuna famiglia serba che non sia stata toccata da almeno un’interruzione di gravidanza. Questa è una guerra vera, dichiarata da chi è nato contro chi non è ancora nato. In questa guerra io ho passato la linea del fronte più volte: prima come bimbo non ancora nato condannato a morte, quindi come abortista, e ora come attivista pro-life». La scelta di schierarsi dalla parte della vita è costata vari sacrifici ad Adasevic: quando comunicò al suo ospedale di Belgrado che non avrebbe più fatto operazioni di questo tipo, i funzionari lo guardarono straniti: in Serbia nessun ginecologo si era mai rifiutato di compiere un aborto. Dopo la scelta, lo stipendio gli venne decurtato della metà, la figlia venne licenziata dal lavoro, il figlio non fu ammesso all’università.
Per il medico «convertito» alla vita è Madre Teresa di Calcutta ad aver ragione quando diceva: «Se una madre può uccidere il proprio figlio, cosa ci impedirà di ucciderci gli uni gli altri?». «La diffusione dell’aborto in Serbia è determinata anche dalla mancanza di educazione religiosa», annota. E Adasevic, da vero pro-life e sostenitore delle donne punta il dito contro gli uomini, responsabili anch’essi delle vite stroncate prima di nascere: «Troppo spesso hanno stili di vita da playboy. Seducono il maggior numero di donne possibile e dopo, proprio quando la paternità sarebbe la cosa più necessaria per loro e i loro figli, le abbandonano a se stesse».
01/12/2008 13:10 – VATICANO - Papa: dal computer il rischio di non sapersi più concentrare e di isolarsi nel virtuale - In ogni autentica riforma, compresa quella dell’università, “occorre prima di tutto che ciascuno cominci col riformare se stesso”. L’università deve essere libera da condizionalemnti, ma veramente libera lo è quando cura la formazione scientifica e culturale delle persone per lo sviluppo dell’intera comunità sociale e civile.
Città del Vaticano (AsiaNews) – Messa in guardia da parte di Benedetto XVI verso il duplice forte rischio al quale le nuove tecnologie informatiche mettano i giovani: la riduzione della capacità di concentrazione e l’isolamento nella realtà virtuale. Un quadro che invece non si presenta nell’università, grazie al suo “virtuoso equilibrio” tra “il momento individuale e quello comunitario, tra la ricerca e la riflessione di ciascuno e la condivisione e il confronto aperti agli altri, in un orizzonte tendenzialmente universale”.
L’incontro avuto stamattina dal Papa con docenti e studenti dell’Università di Parma ha dato occasione all’ex professor Ratzinger per una riflessione sull’attività universitaria – “è stata il mio ambito di lavoro per tanti anni, e anche dopo averla lasciata non ho mai smesso di seguirla e di sentirmi spiritualmente legato ad essa” – ed anche sui concetti di riforma e libertà. Il Papa ha infatti preso spunto dalla figura di San Pier Damiani, a quell’ateneo particolarmente legata.
“Anche la nostra epoca, come quella di Pier Damiani, è segnata da particolarismi e incertezze, per carenza di principi unificanti. Gli studi accademici dovrebbero senz’altro contribuire a qualificare il livello formativo della società, non solo sul piano della ricerca scientifica strettamente intesa, ma anche, più in generale, nell’offerta ai giovani della possibilità di maturare intellettualmente, moralmente e civilmente, confrontandosi con i grandi interrogativi che interpellano la coscienza dell’uomo contemporaneo”.
Ricordando poi che Pier Damiani è annoverato tra i grandi "riformatori" della Chiesa dopo l’anno Mille, Benedetto XVI si è chiesto “qual è il genuino concetto di riforma? Un aspetto fondamentale – ha agiunto - che possiamo ricavare dagli scritti e più ancora dalla testimonianza personale di Pier Damiani è che ogni autentica riforma dev’essere anzitutto spirituale e morale, deve cioè partire dalle coscienze”. Perciò, quando si parla di riformare l’universtià, “penso che, fatte le debite proporzioni, rimanga sempre valido questo insegnamento: le modifiche strutturali e tecniche sono effettivamente efficaci se accompagnate da un serio esame di coscienza da parte dei responsabili a tutti i livelli, ma più in generale di ciascun docente, di ogni studente, di ogni impiegato tecnico e amministrativo”. “Se si vuole che un ambiente umano migliori in qualità ed efficienza, occorre prima di tutto che ciascuno cominci col riformare se stesso, correggendo ciò che può nuocere al bene comune o in qualche modo ostacolarlo”.
“Collegato al concetto di riforma, vorrei porre in risalto anche quello di libertà. In effetti, il fine dell’opera riformatrice di san Pier Damiani e degli altri suoi contemporanei era far sì che la Chiesa diventasse più libera, prima di tutto sul piano spirituale, ma poi anche su quello storico. Analogamente, la validità di una riforma dell’Università non può che avere come riscontro la sua libertà: libertà di insegnamento, libertà di ricerca, libertà dell’istituzione accademica nei confronti dei poteri economici e politici. Questo non significa isolamento dell’Università dalla società, né autoreferenzialità, né tanto meno perseguimento di interessi privati approfittando di risorse pubbliche. Non è di certo questa la libertà cristiana! Veramente libera, secondo il Vangelo e la tradizione della Chiesa, è quella persona, quella comunità o quella istituzione che risponde pienamente alla propria natura e al proprio fine, e la vocazione dell’Università è la formazione scientifica e culturale delle persone per lo sviluppo dell’intera comunità sociale e civile”.