martedì 23 dicembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Carrón: Il Natale e la Speranza - Julián Carrón - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
2) MORALE/ Un futuro da incubo: se la natura umana viene rinnegata in nome dell’eugenetica “positiva” - Massimo Borghesi - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
3) 23/12/2008 08:56 - ISRAELE – PALESTINA - Patriarca di Gerusalemme: Cristo la Luce nel buio e nel conflitto della Terra Santa - Nel Messaggio dei capi cristiani si ricorda la disperazione e la povertà in cui vivono le persone della Terra Santa. Una esplicita preghiera per Barak Obama e per i leader mondiali perché portino la pace in Medio oriente, privilegiando la soluzione dei “due Stati” e la fine dell’occupazione e dell’embargo a Gaza.
4) 22/12/2008 13:40 – VATICANO - Papa: la Chiesa deve difendere il creato e impedire l’autodistruzione dell’uomo - Lo Spirito ha creato la natura in modo intelligente e ciò fa parte del Credo della Chiesa, che afferma il valore del matrimonio. Il termine ‘gender’ si risolve nella autoemancipazione dell’uomo dal Creatore. La Giornata della gioventù non è “una specie di festival rock modificato in senso ecclesiale, con il Papa quale star”.
5) Galileo, il cosmo e la pretesa cristiana - Marco Bersanelli, Mario Gargantini - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
6) CHIESA/ Magister: la chiarezza del Papa, in difesa della natura umana - INT. Sandro Magister - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
7) ELUANA/ La bocciatura della Corte europea? Non mette un argine all'illusione dell'uomo perfetto - Redazione - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
8) SCUOLA/ Israel: i programmi prima di tutto. E attenzione a puntare troppo sull’autonomia - INT. Giorgio Israel - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
9) VANGELI/ Socci: ecco la mia indagine, svolta al lume della ragione - INT. Antonio Socci - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
10) RESPONSABILITÀ PER IL CREATO - UNA TUTELA NON PARZIALE NÉ DEPOTENZIATA - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 23 dicembre 2008
11) ACCOMPAGNARE UNA MADRE FINO ALL’ULTIMO RESPIRO - L’inaspettata Bellezza dentro il dolore – Avvenire, 23 dicembre 2008
12) LA DIFESA DELLA VITA - «Lieve, tenace è la vita» Teatro civile per Eluana - L’iniziativa promossa da «Scienza&Vita» per invitare alla riflessione sulla dignità della persona - Monologo di Rondoni su Sat2000 - Sul palco anche Mario Melazzini, oncologo malato di Sla e quattro giovani cantanti liriche – Avvenire, 23 dicembre 2008 - DA ROMA PINO CIOCIOLA
13) tra Shakespeare, Melville e Vico - «Al mito del cinema di Hollywood preferisco Thomas Mann e De Sica» - DI CESARE PAVESE, Avvenire, 23 dicembre 2008


Carrón: Il Natale e la Speranza - Julián Carrón - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Caro direttore, sono stato colpito dalle letture che la Liturgia ambrosiana proponeva il lunedì della terza settimana di Avvento. Come devono essere rimasti sconcertati i membri dell’antico popolo di Israele davanti alle parole del profeta Geremia: «Divorerà le tue messi e il tuo pane; divorerà i tuoi figli e le tue figlie; divorerà i greggi e gli armenti; distruggerà le città fortificate nelle quali riponevi la fiducia» (Ger 5,17). Annunciava loro che un’altra nazione stava per sconfiggere il regno su cui avevano riposto fiducia. «Allora, se diranno: "Perché il Signore nostro Dio ci fa tutte queste cose?", tu risponderai: "Come voi avete abbandonato il Signore e avete servito divinità straniere nel vostro paese, così servirete gli stranieri in un paese non vostro"» (Ger5,19).
E come se questo fosse detto per noi; oggi vediamo segnali che preoccupano tutti, come se quello che ha sostenuto la nostra storia non potesse resistere all’urto dei tempi: un giorno sono l’economia, la finanza e il lavoro, un altro la politica e la giustizia, un altro ancora la famiglia, l’inizio della vita e la sua fine naturale. E così, come l’antico Israele di fronte a una situazione preoccupante, anche noi ci domandiamo: «Perché accade tutto questo?». Perché anche noi siamo stati talmente presuntuosi da pensare di cavarcela dopo avere tagliato la radice che sosteneva l’edificio della nostra civiltà. Negli ultimi secoli, infatti, la nostra cultura ha pensato di poter costruire il futuro da sé, abbandonando Dio. Ora vediamo dove ci sta portando questa pretesa.
Davanti a tutto questo che ci siamo procurati, il Signore che cosa fa? Ce lo indica il profeta Zaccaria, parlando al suo popolo Israele: «Ecco, io manderò», attenzione al nome, «il mio servo Germoglio» (Zc 3,8). E come se davanti alla crisi di un mondo, il nostro - i profeti userebbero per descriverla un’immagine a loro molto cara, quella del tronco secco -, spuntasse un segno di speranza. Tutta l’enormità del tronco secco non può evitare che in mezzo al popolo, umile e fragile, spunti un germoglio, nel quale è riposta la speranza del futuro.
Ma c`è un inconveniente: anche noi, quando vediamo apparire questo germoglio - come coloro che erano davanti a quel bambino a Nazareth -, possiamo dire scandalizzati: «É mai possibile che una cosa così effimera possa essere la risposta alla nostra attesa di liberazione?». Da una realtà così piccola come la fede in Gesù può venire la salvezza? Ci pare impossibile che tutta la nostra speranza possa poggiare sulla appartenenza a questo fragile segno, ed è motivo di scandalo la promessa che solo a partire da esso si possa ricostruire tutto. Eppure uomini come san Benedetto e san Francesco hanno fatto proprio così: cominciarono a vivere appartenendo a quel germoglio che si era inoltrato nel tempo e nello spazio, la Chiesa. E sono diventati protagonisti di popolo e di storia.
Benedetto non affrontò da arrabbiato la fine dell’impero, non protestò perché il mondo non era cristiano, né si lamentò perché tutto crollava, accusando l’immoralità dei suoi contemporanei. Piuttosto testimoniò alla gente del suo tempo una compiutezza del vivere, una soddisfazione e una pienezza che divenne attraente per tanti. E fu l’albore di un mondo nuovo, piccolo quanto si vuole - quasi un niente paragonato al tutto, un tutto che pur franava d a ogni parte -, ma reale. Quel nuovo inizio fu talmente concreto che l’opera di Benedetto e di Francesco è durata nei secoli e ha trasformato l’Europa, umanizzandola.
«Egli si è mostrato. Egli personalmente», ha detto Benedetto XVI parlando del Dio-con-noi. E don Giussani: «Quell`uomo di duemila anni fa si cela, diventa presente, sottolatenda, sotto l’aspetto di un’umanità diversa», in un segno reale che desta il presentimento di quella vita che tutti attendiamo per non soccombere al nostro male e ai segnati del nulla che avanza. E la speranza che ci annuncia il Natale, per cui gridiamo: «Vieni, Signore Gesù!».
Pubblicato su La Repubblica del 23 Dicembre 2008


MORALE/ Un futuro da incubo: se la natura umana viene rinnegata in nome dell’eugenetica “positiva” - Massimo Borghesi - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
La difesa della “natura” umana, richiesta da Benedetto XVI nel suo discorso del 22 dicembre, non è una posizione di retroguardia rispetto all’incalzare del progresso tecnico che pare, ogni giorno, abbattere e dissolvere confini che sembravano eterni. Si tratta di una posizione “progressista”, non maltusiana,che intercetta, al presente, talune delle voci più significative della cultura contemporanea. Valga per tutte la riflessione di Jürgen Habermas che, proprio in un testo del 2001, si poneva il problema de Il futuro della natura umana (Einaudi 2002). La pretesa della tecnica moderna di modificare la natura dell’uomo, intervenendo nel patrimonio genetico, lascia intravedere scenari inquietanti, creazioni di “chimere”. Le nanotecnologie immaginano fusioni produttive di uomo e macchina, l’ingegneria informatica disegna robot umanoidi destinati a sostituire gli uomini. Questo attacco concentrico all’idea di uomo, all’uomo così come è stato concepito fino ad oggi, tende, secondo Habermas a «modificare la nostra autocomprensione etica del genere fino al punto da coinvolgere la stessa coscienza morale, intaccando quei requisiti di naturalità in assenza dei quali non possiamo intenderci quali autori della nostra vita e membri giuridicamente equiparati della comunità morale». Per Habermas la disinvoltura con cui il naturalismo positivistico gioca con i mattoni della vita prelude ad un’idea selettiva che mina, alla radice, l’autonomia del soggetto e l’ordinamento democratico. Paradossalmente l’autottimizzazione genetica del genere umano potrebbe essere portata avanti in direzioni diverse. Secondo Allen Buchanan, citato da Habermas, «dobbiamo ammettere la possibilità che, a partire da un certo momento del futuro, diversi gruppi di esseri umani possano seguire, usando l’ingegneri genetica, strade evolutive divergenti. Se questo accadrà, ci saranno gruppi diversi di esseri, ciascuno con la sua propria “natura” che si relazionano l’un l’altro solo attraverso un comune antenato (la razza umana)».
Questo processo di diversificazione può essere iniziato da subito con un programma di eugenetica positiva, tesa a “migliorare” la specie. In tal modo le parti ricche del pianeta potranno, sin d’ora, avviare programmi di selezione dei migliori. Gli altri, gli abitanti delle zone povere, rimarrebbero allo stadio attuale della “natura”, retrocessi a sotto-uomini, individui del passato portatori di difetti e di malattie. A questo quadro, affatto pacificante, si aggiunga l’ipotesi della clonazione richiamata da Habermas con esemplificazioni tratte da Hans Jonas. Per essa un individuo futuro viene privato del suo “presente”, di uno sviluppo originale. Un altro (che non è Dio), decide per lui, in anticipo, la forma della sua personalità, lo priva della sua identità. Egli è il “doppione” di ciò che è già stato. In tutti questi esempi è evidente la svolta “antidemocratica” a cui porta la genetica “liberale”, le conseguenze maltusiane, selettive;quelle conseguenze che una sinistra “post-moderna”, dimentica della propria tradizione, non riesce più a riconoscere come patrimonio storico della destra. Il post-umanesimo, naturalisticamente declinato, non promette un futuro radioso ma un tempo di disuguaglianze e di lotta. Se la “natura” umana diviene un concetto mobile, modificabile – così come da tempo lascia intendere la teoria evoluzionistica – la stessa dottrina morale che legittima il quadro democratico, fondata su diritti personali e sull’uguaglianza, appare desueta. La tecnica mutando la forma dell’uomo, la sua natura, relativizza anche i valori morali che divengono relativi all’uomo così come lo conosciamo ora. L’uomo del futuro, che possiamo solo immaginare come “analogo” in qualche modo con quello di oggi, avrà valori diversi. La coscienza morale viene a dipendere dal progresso tecnologico. Quel progresso afferma, da ora, di essere in grado di sciogliere le differenze che hanno segnato la storia dell’umanità, quelle tra uomo e donna, tra uomo e animale, tra naturale ed artificiale. Il risultato è un “terzo genere”, un ibrido, una sorta di coincidentia oppositorum. Una rivoluzione che fa saltare tutte le categorie morali.
La spinta, apparentemente irresistibile, che muove la tecnica odierna è quindi la negazione della natura come ambito di forme immutabili. La natura è, al contrario, la “metamorfosi”, il continuo mutare delle forme ad opera di una tecnica che, come riconosce giustamente Emmanuele Severino, è ormai il surrogato della fede. Tecnica e nichilismo: è l’essenza del positivismo odierno. Non è esatto chiamarlo “naturalistico” poiché la ragione lungi dal conformarsi alla natura tende qui a rifiutarla. Essa riconosce solo quanto è sua “produzione”. La ragione puramente tecnica è una ragione senza “logos”, senza un ordine oggettivo del mondo. Donde la critica di Habermas, ultimo erede della Scuola di Francoforte, a questa “ragione strumentale”. Sulla sua linea si colloca il discorso di Benedetto XVI. Il recupero dell’idea di “natura” umana non è, oggi, un’idea fuori moda. È un punto di difesa dell’umano a fronte di un processo di mercificazione dell’umano che non conosce confini.


23/12/2008 08:56 - ISRAELE – PALESTINA - Patriarca di Gerusalemme: Cristo la Luce nel buio e nel conflitto della Terra Santa - Nel Messaggio dei capi cristiani si ricorda la disperazione e la povertà in cui vivono le persone della Terra Santa. Una esplicita preghiera per Barak Obama e per i leader mondiali perché portino la pace in Medio oriente, privilegiando la soluzione dei “due Stati” e la fine dell’occupazione e dell’embargo a Gaza.
Gerusalemme (AsiaNews) – Il patriarca latino di Gerusalemme, mons. Foud Twal ha diffuso il Messaggio di Natale firmato insieme ad altri 12 capi delle Chiese cristiane, in cui essi riaffermano la fede in Gesù Cristo, nato a Betlemme come la luce che splende nelle tenebre. Nel Messaggio i presuli notano che “nel mondo attorno a noi c’è sempre più buio, conflitto, disperazione”, ma i cristiani sono chiamati a ricordare a tutti che “Gesù è la luce che non si spegne mai”.
Dopo aver sottolineato l’urgenza di condivisione verso i più poveri, i senzatetto e i disoccupati, i capi cristiani affermano che la luce di Cristo rende possibile “lavorare in modo più realistico per la soluzione di due stati [Israele e Palestina], che potrebbe far terminare il fardello di restrizioni che si producono con l’occupazione”.
I vescovi pregano anche “per il presidente eletto degli Stati Uniti, perché lui e gli altri leader del mondo possano vedere il bisogno di pace in Medio oriente e oltre”. E chiedono a tutti di “guardare nella luce di Cristo la situazione in cui molti soffrono a Gaza, per compiere uno sforzo deciso e portare loro un aiuto urgente”.
I capi cristiani ringraziano tutti i pellegrini giunti quest’anno i Terra Santa e chiedono loro di “camminare sulle orme di Gesù” e nelle “pause” della loro visita ai Luoghi Santi, essere attenti alla “situazione di molti fratelli cristiani”.


22/12/2008 13:40 – VATICANO - Papa: la Chiesa deve difendere il creato e impedire l’autodistruzione dell’uomo - Lo Spirito ha creato la natura in modo intelligente e ciò fa parte del Credo della Chiesa, che afferma il valore del matrimonio. Il termine ‘gender’ si risolve nella autoemancipazione dell’uomo dal Creatore. La Giornata della gioventù non è “una specie di festival rock modificato in senso ecclesiale, con il Papa quale star”.
Città del Vaticano (AsiaNews) - La fede attribuisce all’uomo una responsabilità verso il creato, ma anche verso se stesso, per il suo dover essere “in sintonia” con il disegno dello Spirito creatore, quello che ha strutturato la materia “in modo intelligente”, rendendocela, così, comprensibile. E’ lo stesso Spirito che il Risorto ha donato agli apostoli e del quale è frutto la gioia, quella che dà vita allo spirito missionario della Chiesa, il quale “ non è altro che l’impulso di comunicare la gioia che ci è stata donata”. E che le dà il compito di difendere la natura, ma anche “l’uomo da se stesso”, affermando la verità sul matrimonio tra un uomo e una donna, contro il “gender”.
E’ una articolata riflessione sullo Spirito il discorso che Benedetto XVI ha rivolto oggi alla Curia romana nel tradizionale appuntamento per lo scambio degli auguri natalizi, occasione nella quale, per consuetudine, i papi fanno una riflessione sulla vita della Chiesa nel corso dell’anno.
Nell’analisi di Benedetto XVI, focalizzata in particolare sulla Giornata della gioventù – che non è “una specie di festival rock modificato in senso ecclesiale, con il Papa quale star” - sul Sinodo dei vescovi e l’Anno paolino, il filo conduttore è dunque lo Spirito, tema dell’incontro di Sydney, ma anche, “in modo più nascosto” del Sinodo sulla Parola e di insegnamenti di San Paolo. E ci sono i due viaggi, l’uno negli Stati Uniti e l’altro in Francia, nei quali “la Chiesa si è resa visibile davanti al mondo e per il mondo come una forza spirituale che indica cammini di vita e, mediante la testimonianza della fede, porta luce al mondo”.
L’anno che sta per concludersi, nelle parole del Papa, ha fatto ricordare i 50 anni dalla morte di Pio XII e del’elezione di Giovanni XXIII, i 40 trascorsi dalla pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae e i 30 dalla morte del suo autore, Paolo VI” esso ha permesso di andare più indietro con la memoria: “la sera del 28 giugno, alla presenza del Patriarca ecumenico Bartolomeo I di Costantinopoli e di rappresentanti di molte altre Chiese e Comunità ecclesiali” è stato inaugurao l’Anno Paolino. Esso è “un anno di pellegrinaggio non soltanto nel senso di un cammino esteriore verso i luoghi paolini, ma anche, e soprattutto, in quello di un pellegrinaggio del cuore, insieme con Paolo, verso Gesù Cristo”.
Al Sinodo dei vescovi, “ci siamo nuovamente resi conto che Dio in questa sua Parola si rivolge a ciascuno di noi, parla al cuore di ciascuno: se il nostro cuore si desta e l’udito interiore si apre, allora ognuno può imparare a sentire la parola rivolta appositamente a lui. Ma proprio se sentiamo Dio parlare in modo così personale a ciascuno di noi, comprendiamo anche che la sua Parola è presente affinché noi ci avviciniamo gli uni agli altri; affinché troviamo il modo di uscire da ciò che è solamente personale. Questa Parola ha plasmato una storia comune e vuole continuare a farlo. Allora ci siamo nuovamente resi conto che – proprio perché la Parola è così personale – possiamo comprenderla in modo giusto e totale solo nel ‘noi’ della comunità istituita da Dio”. Dei lavori sinodali il Papa ha ricordato il “contributo prezioso” di “un Rabbì sulle Sacre Scritture di Israele, che appunto sono anche le nostre Sacre Scritture. Un momento importante per il Sinodo, anzi, per il cammino della Chiesa nel suo insieme, è stato quello in cui il Patriarca Bartolomeo, alla luce della tradizione ortodossa, con penetrante analisi ci ha aperto un accesso alla Parola di Dio”.
La Giornata della gioventù, poi, “è stata una festa della gioia – una gioia che infine ha coinvolto anche i riluttanti”. Ma, “qual è la natura di ciò che succede” in una Gmg? “Quali sono le forze che vi agiscono? Analisi in voga tendono a considerare queste giornate come una variante della moderna cultura giovanile, come una specie di festival rock modificato in senso ecclesiale con il Papa quale star. Con o senza la fede, questi festival sarebbero in fondo sempre la stessa cosa, e così si pensa di poter rimuovere la questione su Dio. Ci sono anche voci cattoliche che vanno in questa direzione”. Ma “con ciò, tuttavia, la peculiarità di quelle giornate e il carattere particolare della loro gioia, della loro forza creatrice di comunione, non trovano alcuna spiegazione”. Per capire, va tenuto conto che le Gmg hanno una lunga preparazione e “le Giornate solenni sono soltanto il culmine di un lungo cammino, col quale si va incontro gli uni agli altri e insieme si va incontro a Cristo. In Australia non per caso la lunga Via Crucis attraverso la città è diventata l’evento culminante di quelle giornate”.
La “gioia come frutto dello Spirito santo” ha spinto Benedetto XVI a parlare delle “dimensioni” del tema “Spirito santo”. A cominciare dalla creazione.
Il fatto che la “struttura intelligente” della natura “proviene dallo stesso Spirito creatore che ha donato lo spirito anche a noi, comporta insieme un compito e una responsabilità. Nella fede circa la creazione sta il fondamento ultimo della nostra responsabilità verso la terra. Essa non è semplicemente nostra proprietà che possiamo sfruttare secondo i nostri interessi e desideri. È piuttosto dono del Creatore che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci e con ciò ci ha dato i segnali orientativi a cui attenerci come amministratori della sua creazione”. “Lo Spirito che li ha plasmati, è più che matematica – è il Bene in persona che, mediante il linguaggio della creazione, ci indica la strada della vita retta”.
E “poiché – ha proseguito il Papa - la fede nel Creatore è una parte essenziale del Credo cristiano, la Chiesa non può e non deve limitarsi a trasmettere ai suoi fedeli soltanto il messaggio della salvezza. Essa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere anche l’uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come una ecologia dell’uomo, intesa nel senso giusto. Non è una metafisica superata, se la Chiesa parla della natura dell’essere umano come uomo e donna e chiede che quest’ordine della creazione venga rispettato. Qui si tratta di fatto della fede nel Creatore e dell’ascolto del linguaggio della creazione, il cui disprezzo sarebbe un’autodistruzione dell’uomo e quindi una distruzione dell’opera stessa di Dio. Ciò che spesso viene espresso ed inteso con il termine ‘gender’, si risolve in definitiva nella autoemancipazione dell’uomo dal creato e dal Creatore. L’uomo vuole farsi da solo e disporre sempre ed esclusivamente da solo ciò che lo riguarda. Ma in questo modo vive contro la verità, vive contro lo Spirito creatore”. “Partendo da questa prospettiva occorrerebbe rileggere l’Enciclica Humanae vitae: l’intenzione di Papa Paolo VI era di difendere l’amore contro la sessualità come consumo, il futuro contro la pretesa esclusiva del presente e la natura dell’uomo contro la sua manipolazione”.
In secondo luogo, “se lo Spirito creatore si manifesta innanzitutto nella grandezza silenziosa dell’universo, nella sua struttura intelligente, la fede, oltre a ciò, ci dice la cosa inaspettata, che cioè questo Spirito parla, per così dire, anche con parole umane, è entrato nella storia e, come forza che plasma la storia, è anche uno Spirito parlante, anzi, è Parola che negli Scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento ci viene incontro”.
“Leggendo la Scrittura insieme con Cristo, impariamo a sentire nelle parole umane la voce dello Spirito Santo e scopriamo l’unità della Bibbia”.
La “terza dimensione” sul tema dello Spirito, è stata descritta dal Papa come la “inseparabilità di Cristo e dello Spirito Santo”. “Lo Spirito Santo è il soffio di Cristo. E come il soffio di Dio nel mattino della creazione aveva trasformato la polvere del suolo nell’uomo vivente, così il soffio di Cristo ci accoglie nella comunione ontologica con il Figlio, ci rende nuova creazione”.
“Così, come quarta dimensione, emerge spontaneamente la connessione tra Spirito e Chiesa”, Corpo di Cristo”.
“Così con il tema ‘Spirito Santo’, che orientava le giornate in Australia e, in modo più nascosto, anche le settimane del Sinodo – ha concluso il Papa - si rende visibile tutta l’ampiezza della fede cristiana, un’ampiezza che dalla responsabilità per il creato e per l’esistenza dell’uomo in sintonia con la creazione conduce, attraverso i temi della Scrittura e della storia della salvezza, fino a Cristo e da lì alla comunità vivente della Chiesa, nei suoi ordini e responsabilità come anche nella sua vastità e libertà, che si esprime tanto nella molteplicità dei carismi quanto nell’immagine pentecostale della moltitudine delle lingue e delle culture”.


Galileo, il cosmo e la pretesa cristiana - Marco Bersanelli, Mario Gargantini - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
L’augurio che il papa ha indirizzato domenica in piazza San Pietro “a tutti coloro che parteciperanno a vario titolo alle iniziative per l’anno mondiale dell’astronomia, il 2009, indetto nel 4° centenario delle prime osservazioni al telescopio di Galileo Galilei”, ha innescato il tam tam delle agenzie di stampa e ispirato molti titoli sui giornali. Ma a dire il vero, da sempre il magistero della Chiesa è costellato di riferimenti al valore dell’astronomia, tanto che fra i predecessori di Benedetto XVI, come lui stesso ha ricordato, “vi sono stati cultori di questa scienza, come Silvestro II, che la insegnò, Gregorio XIII, a cui dobbiamo il nostro calendario, e san Pio X, che sapeva costruire orologi solari.” Ed è interessante il fatto che la Specola Vaticana, fondata nel 1578 da Gregorio XIII, è una delle più antiche istituzioni al mondo nel panorama degli osservatori astronomici.
Ma perché questa particolare attenzione della Chiesa per l’astronomia? Indubbiamente la tradizione giudaico-cristiana è ricca di testimonianze del legame profondo tra l’astronomia e la liturgia. La definizione delle feste più importanti richiedeva la conoscenza dei cicli lunari e solari. La Pasqua è legata all’equinozio e al plenilunio e, come ha ricordato ieri il papa, “la stessa collocazione della festa del Natale è legata al solstizio d’inverno, quando le giornate, nell’emisfero boreale, ricominciano ad allungarsi.” Le antiche cattedrali erano vere e proprie rappresentazioni cosmiche. Il loro orientamento indicava i punti cardinali, l’orologio solare dettava le ore del giorno. “Questo ci ricorda la funzione dell’astronomia nello scandire i tempi della preghiera”, ha detto il papa. “Piazza San Pietro è anche una meridiana: il grande obelisco, infatti, getta la sua ombra lungo una linea che corre sul selciato... ed in questi giorni l’ombra è la più lunga dell’anno.” Colpisce quest’immagine della meridiana che da secoli segna le ore del giorno, unendo il movimento del cielo con il cammino dell’uomo sulla terra. Spesso poi, sulla facciata delle chiese, erano presenti i regoli per la misura delle distanze, che servivano da unità di misura per costruire le strade e le case in cui vivevano.
Ma non è solo questo. Sia la tradizione ebraica che quella cristiana hanno saputo esaltare il valore evocativo e educativo dello sguardo al cielo. La contemplazione del firmamento aiuta l’uomo a considerare la propria natura, la propria sproporzione e il desiderio di infinito che lo costituisce, e può riaccendere in lui lo stupore per la creazione. Così Giovanni Paolo II nel 1979 rivolgendosi a un gruppo di cosmologi disse: “La vostra scienza è per l’uomo una via maestra alla meraviglia... La ragione scientifica, dopo un lungo cammino... ci induce a riproporre con rinnovata intensità alcune delle grandi domande dell’uomo di sempre: da dove veniamo? dove andiamo?; ci porta a misurarci ancora una volta sulle frontiere del mistero, quel mistero di cui Einstein ha detto che è “il sentimento fondamentale, che sta accanto alla culla della vera arte e della vera scienza” e, aggiungiamo noi, della vera metafisica e della vera religione.”
Esattamente mezzo secolo prima, Pio XI affermava: “La meraviglia non è che l'universo visibile materiale sia così grande, così immenso, come la scienza viene rivelando, travolgendo le intelligenze di studiosi in abissi pieni di mistero di cui nulla annuncia il fondo: la meraviglia è che tutto questo noi abbracciamo in un pensiero, noi esprimiamo in una parola: universo.” E la bellezza della creazione invita la ragione a riconoscere il mistero che la genera in ogni istante. Per questo l’osservazione dell’universo, fino allo svelarsi dell’ordine nascosto nelle leggi di natura attraverso la scienza moderna, è percepita dalla Chiesa come un’occasione privilegiata per rendere lode al Creatore. Come ha detto domenica il papa, “Se i cieli, secondo le belle parole del salmista, ‘narrano la gloria di Dio’, anche le leggi della natura, che nel corso dei secoli tanti uomini e donne di scienza ci hanno fatto capire sempre meglio, sono un grande stimolo a contemplare con gratitudine le opere del Signore.”
Il nesso tra il senso religioso dell’uomo e la contemplazione del cielo è naturalmente un tratto comune a diverse grandi tradizioni religiose. C’è però una particolarità nel cristianesimo. In esso, l’aspetto decisivo non è una legge morale o una dottrina religiosa, ma un fatto apparentemente ordinario: la nascita di un bimbo in un piccolo paese alla periferia dell’impero, e quel bimbo è il senso di tutto l’universo. La pretesa cristiana ha una portata cosmica: nella vastità dello spazio e del tempo, in un punto impercettibile “il mistero di Dio si fa uomo” per rispondere all’attesa di ogni uomo e di tutta la creazione. Come ha detto Benedetto XVI nel suo messaggio: “Questo mistero di salvezza, oltre a quella storica, ha una dimensione cosmica: Cristo è il sole di grazia che, con la sua luce, trasfigura e accende l’universo in attesa”.


CHIESA/ Magister: la chiarezza del Papa, in difesa della natura umana - INT. Sandro Magister - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Una sorta di bilancio di fine anno. Questo è stato il discorso tenuto ieri da Benedetto XVI davanti alla Curia nel tradizionale incontro per gli auguri di Natale. Un’occasione per ripercorrere gli appuntamenti più importanti per il Papa nell’arco di questo 2008, insieme ad alcune delle tematiche fondamentali del suo pensiero e del suo magistero. E non sono mancati i passaggi che hanno fatto discutere: da una parte il discorso relativo alla natura dell’uomo e della donna, che come ovvio attirano di più le attenzioni dei media; ma ancor più importanti, secondo il vaticanista dell’Espresso Sandro Magister, i riferimenti a certe posizioni critiche che si trovano all’interno della Chiesa, sulle quali Benedetto XVI ha ritenuto fosse opportuno fare chiarezza.
Il Papa, ripercorrendo le vicende dell’anno appena trascorso, ha insistito molto sulle occasioni che la Chiesa ha avuto per «rendersi visibile di fronte al mondo» (i viaggi in Usa e Francia, le Giornate Mondiali della Gioventù). Cosa significa questo «rendersi visibile»?
Il Papa con questa espressione ha richiamato un concetto cui tiene moltissimo, e cioè che la Chiesa si mostra al mondo attraverso gesti e parole ben precisi, cioè le celebrazioni. I viaggi e le Giornate della Gioventù cui il Pontefice ha fatto riferimento non vengono ricordati come semplici escursioni di un Papa viaggiatore, ma come momenti in cui la Chiesa rivela il suo vero volto, fatto di proclamazione e annuncio della Parola di Dio, e di celebrazione della Parola stessa che si fa realtà nei Sacramenti. Parlando della GMG di Sydney, infatti, il Papa si riferisce a due momenti in particolare, che ne rivelano il vero significato: il primo è la via crucis, sorta di moderna sacra rappresentazione, rispetto alla quale il Papa non si pone come protagonista, ma come vicario che indica il vero protagonista, cioè Cristo crocefisso e risorto; secondo, la grande liturgia solenne, in cui avviene – dice il Papa – non quello che noi siamo in grado di produrre, ma quello che viene prodotto da Dio stesso. Queste sono le rivelazioni che la Chiesa, secondo le parole del Papa, è in grado di dare al mondo.
Perché ha poi deciso di fare un appunto sul fatto che le GMG non sono da intendere come grandi concerti, con il Papa come star? Qual è la preoccupazione che ha portato il Papa a questa precisazione?
Si tratta di una preoccupazione per critiche che non vengono solo dall’esterno, come si potrebbe dare per scontato, ma che vengono anche dall’interno del mondo cattolico. In effetti è così: c’è una corrente di pensiero nel campo cattolico che, fin da quando le GMG sono state inventate da Giovanni Paolo II, critica frontalmente queste forme di aggregazione, giudicandole manifestazioni che non hanno nulla di sostanziale riguardo la professione della fede, ma semplici fenomeni di massa, in poco differenti dai grandi incontri profani come i concerti. Si tratta per altro di una critica molto ricorrente. Benedetto XVI ha mostrato di respingere con forza questa critica: non l’ha fatto cioè con l’aria di chi incamera un’eredità un po’ pesante lasciata dal predecessore, cui il professor Ratzinger si sarebbe dovuto adeguare un po’ controvoglia.
In effetti c’è chi la pensa così.
E invece Benedetto XVI ha mostrato di aver colto in queste Giornate qualcosa di specifico: sono momenti di fede, visibile soprattutto nei gesti come appunto la via crucis e la celebrazione solenne, che sono una seminagione di nuove forme comunitarie di vita di fede per i giovani che vi partecipano. La fede si costruisce anche da questi rapporti diretti con la proclamazione e con la visibilità della fede stessa. E in queste giornate Benedetto XVI fa di tutto perché ciò avvenga. Il Pontefice, inoltre, non si adegua affatto ai moduli canonici dei raduni oceanici: quando ad esempio c’è stata la veglia notturna, sia in Germania sia quest’anno in Australia, non ha esitato a inginocchiarsi davanti al Santissimo e a stare in silenzio per molto tempo. Una cosa che non è certo caratteristica dei grandi raduni di massa. E lo ha fatto volutamente per indicare le cose che contano in questi gesti, rispetto alle cose che invece non contano niente.
C’è stato poi il passaggio, molto ripreso dai media, sulla natura dell’essere umano come uomo e donna, contro ogni manipolazione. Il Papa ha parlato di una “metafisica non superata”: cosa significa?
Il Papa ha preso le mosse dallo Spirito Santo come creatore, che è elemento essenziale del Credo cristiano. A partire da qui, ha svolto il discorso intorno al fatto che lo Spirito creatore ha immesso nel creato un disegno che è una sorta di struttura matematica, un disegno ragionevole, ordinato. Il mondo non è un accumulo di realtà affastellate dal caso, ma è tenuto insieme da questo grande disegno, il quale che consente alle moderne scienze della natura di funzionare, e senza del quale verrebbe meno la capacità prevedere i fenomeni e di fare calcoli. Oltre al grande ordinamento del cosmo, il Papa ha parlato poi dell’ordinamento dell’uomo, che è maschio e femmina secondo una struttura che è letteralmente metafisica: non è qualcosa di manipolabile, che può essere variato a piacimento. Anzi, pretendere di variare questo ordine vuol dire intaccare la natura dell’uomo, e di conseguenza auto-distruggersi. Quindi – ha concluso il Papa – il creato va difeso non soltanto nelle foreste, nell’acqua e nell’aria, ma anche nell’uomo.
Il richiamo all’equilibrio del cosmo e delle regole matematiche che lo spiegano si collega ai richiami scientifici fatti durante l’Angelus di domenica. Che valore culturale ha questo rilancio del discorso scientifico?
Naturalmente il Papa all’Angelus non ha parlato dettagliatamente della questione, ma ha fatto un rapido accenno alla sostanza del discorso. Egli è partito dal dato liturgico della celebrazione del Natale in cui il “Sol iustitiae” coincide col sole naturale, quando cioè l’avvento di Cristo luce del mondo coincide con la ripresa di una maggior durata della luce solare; e a tal proposito ha fatto riferimento all’obelisco di Piazza San Pietro come gnomone di una grande meridiana, ricollegandosi poi a Galileo e all’anno astronomico che si aprirà fra poco. Questo è servito per dire quello che poi nel discorso di ieri è stato espresso in maniera esplicita: che i cieli narrano la gloria di Dio, una gloria che non è disordinata ma che è una meravigliosa sinfonia di luce, di colori e di strutture matematiche che governano il cosmo.
Quali altri elementi del discorso di ieri sono particolarmente importanti?
C’è un altro elemento rilevante che bisogna sottolineare. Sviluppando le considerazioni sull’ordine naturale delle cose e dell’uomo, e sul valore metafisico di questo ordine, il Papa ha sostenuto ancora una volta una difesa energica dell’Humanae vitae. È vero che il Papa ha fatto un accenno esplicito alle critiche anche cattoliche ai viaggi e alle Giornate della Gioventù; ma altrettanto sicuro in quest’ultimo passaggio è il riferimento a una critica frontale all’Humanae vitae, che proviene anche da parte cattolica ed ecclesiastica, nonché cardinalizia. Inutile nascondere che tale critica arriva in particolare dal Cardinale Carlo Maria Martini, il cui ultimo libro in cima ai best-seller dei saggi contiene un intero capitolo totalmente dedicato a questo punto. Si tratta dunque di una critica in corso, non di una cosa del passato; e il Papa su questo ha esposto chiaramente il suo pensiero.


ELUANA/ La bocciatura della Corte europea? Non mette un argine all'illusione dell'uomo perfetto - Redazione - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
La Corte europea dei diritti dell’uomo di Starsburgo ha giudicato “irricevibile” il ricorso presentato da 34 tra associazioni e tutori di soggetti disabili contro la “sentenza Englaro”, rigettandolo quindi senza valutare nel merito le sue argomentazioni. Ilsussidiario.net ha raggiunto l’avvocato Rosaria Elefante promotrice, insieme all’avv. Alfredo Granata, di questo ricorso, di cui ha ospitato già la voce di Claudio Taliento, marito e tutore di Ada Rossi, persona in stato vegetativo prima firmataria del ricorso per dare ai suoi lettori la possibilità di leggere e valutare le loro argomentazioni.


Avvocato Elefante, come hanno reagito le associazioni e le persone promotrici del ricorso presso la Corte europea dei diritti dell’uomo innanzi alla dichiarazione di irricevibilità?

Ho parlato solo con alcune delle associazioni; prendiamo atto del parere della Corte. Certamente sarebbe stato preferibile che il ricorso venisse valutato nel merito. La Corte non ha dato né ragione, né torto a nessuno: semplicemente non ha ritenuto soddisfatti tutti i presupposti necessari per avanzare un ricorso presso la sua giurisdizione. La Corte ha riunito tutti i ricorsi, e li ha dichiarati tutti irricevibili perché mancanti di un presupposto, ossia la cd. “legittimità ad agire”. Secondo la Corte per fare ricorso si deve essere qualificati come “vittime dirette o indirette”, e tali sono solo i familiari, il curatore e il tutore.


Quindi il ragionamento del decreto della Corte d’Appello di Milano non è rafforzato da tale dichiarazione?

No, per niente, anzi: nessuna delle agenzie ha riportato la parte più importante contenuta nella dichiarazione di irricevibilità. In tale dichiarazione, infatti, viene indicato molto chiaramente che quanto indicato dalla Corte d’Appello di Milano non è obbligatorio: la decisione della Corte d’Appello è un mero atto autorizzativo. È doverosa una riflessione da parte di tutti coloro che hanno salutato il decreto della Corte di Appello come una quasi-legge, quando invece è un semplice atto autorizzativo, non ha carattere vincolante. La Corte d’Appello attribuisce specificamente al tutore la facoltà di interrompere l’idratazione e l’alimentazione: se il tutore non esercitasse tale autorizzazione, non incorrerebbe in alcunché di illecito. Questo punto emerge con assoluta chiarezza dalla dichiarazione di irricevibilità emesso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.


Eppure c’è chi ha forzato il significato di questa dichiarazione, affermando che ora il decreto di Sacconi sia da ritirare perché ormai anche la Corte europea di Strasburgo si è pronunciata.

A parte che la Corte non si è pronunciata nel merito; e poi non sono assolutamente d’accordo. Il provvedimento di Sacconi è un provvedimento a mio parere doveroso e giustissimo; è un atto di indirizzo di un paese civile, dove non viene sospesa idratazione e alimentazione a un soggetto altamente disabile, oltretutto che non può alimentarsi da solo. È un atto doveroso.


Il presidente emerito della Corte costituzionale, Mirabelli, a ilsussidiario.net diceva che Sacconi non entra in conflitto con le sentenze della magistratura.

Appunto, tra la sentenza e il provvedimento di Sacconi non c’è assolutamente incompatibilità. I due atti si rivolgono a due ambiti completamente diversi: uno si rivolge alle strutture pubbliche e private, perché non venga interrotta l’alimentazione ai soggetti incapaci e altamente disabili. Non ha nulla a che vedere con il decreto autorizzatorio disposto dalla Corte d’Appello di Milano.


Torniamo al ricorso presso la Corte di Strasburgo, quali erano le motivazioni (su cui la Corte non è entrata nel merito)?

Le nostre erano motivazioni forti, perché nella decisione della Corte d’Appello non c’era stato contraddittorio tra le parti. La Cassazione, nella sentenza del 2007, pur discutibile, aveva stabilito almeno dei requisiti molto precisi che la Corte d’Appello di Milano avrebbe dovuto osservare per emettere il proprio decreto, vale a dire: 1) Compiere un rigoroso apprezzamento clinico sullo stato di salute di Eluana, e sull’irreversibilità del suo stato; 2) Ricostruire la personalità di Eluana. La Corte d’Appello non ha adempiuto né a uno, né all’altro dei due requisiti. Per quanto riguarda il quadro clinico, è stato nominato solo un Consulente tecnico di parte: il giudice non ha nominato nemmeno un CTU esterno, quindi lo stato di salute di Eluana non è stato vagliato in maniera imparziale. C’è il solo certificato medico di De Fante del 2002 (Consulente tecnico della parte che chiedeva l’interruzione dell’alimentazione), che dice che Eluana è in uno stato vegetativo irreversibile. Per dirle quant’è attendibile quel parere, alla fine di novembre cè stato un congresso di medicina in cui si è affermato che il cervello di quelle persone lavora, i soggetti in stato vegetativo provano disagio e lo manifestano. Tutto ciò non è stato considerato nelle indagini della Corte d’Appello. Per quanto riguarda la ricostruzione della personalità di Eluana non è stata proprio fatta: sono state sentite una compagna e 2 amiche. Eluana aveva 27 compagne di classe: possibile che solo 1 si ricordava delle dichiarazioni di Eluana? Perché non si sono sentite le altre 26? Su tutti questi aspetti non c’è stato un contraddittorio valido.


Rispetto a questi abusi della magistratura non resta che approvare una legge sul testamento biologico?

Non sarei così drastica. In verita c’è un problema di fondo: giuridicamente, stante il nostro ordinamento giuridico, non saprei come si potrebbe legiferare in materia di testamento biologico. Secondo il nostro ordinamento giuridico esistono dei beni disponibili e dei beni indisponibili. Attualmente del bene vita non si può disporre. Nel codice civile si dice che ci sono atti personalissimi che non possono essere delegati a un terzo. Quindi, prima bisogna introdurre nel codice un concetto di delegabilità degli atti personalissimi, ma è molto problematica.


Eppure oggi pare che ci sia la convergenza politica sul testamento biologico...

E come lo risolveranno il problema? Anche io preferisco un provvedimento fatto dal parlamento e non dai magistrati. Eppure il nostro ordinamento stabilisce che gli atti personalissimi non sono delegabili. E poi bisogna considerare il problema dell’ “attualità del consenso”. Per qualsiasi contratto ci vuole un consenso attuale. Anche quanto stabilisco in un testamento, finché sono in vita posso revocarlo, ed è una prassi normalissima che la gente faccia testamenti e li modifichi. Ma una persona in stato vegetativo come fa? Non può, non può più revocare quanto ha detto, e nemmeno confermarlo.


Come prosegue ora la vostra battaglia? Dopo la bocciatura di Strasburgo non resta che “tornarsene a casa” dall'Europa?

Staremo a vedere come si evolvono gli eventi. Sicuramente non me ne andrò “a casa”, ma quello che ho in mente non ve lo posso dire. Quel che è certo è che siamo di fronte a un fatto molto grave. Il problema è di dimensioni enormi. Con questa sentenza abbiamo aperto le porte all’eugenetica, e non ce ne stiamo rendendo conto.


SCUOLA/ Israel: i programmi prima di tutto. E attenzione a puntare troppo sull’autonomia - INT. Giorgio Israel - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Puntare tutti sui programmi, discostandosi il più possibile dall’impianto della legge Moratti; rivedere il sistema scolastico generale, lasciando in secondo piano per ora l’autonomia e il ruolo delle Regioni. Questa l’opinione di Giorgio Israel, docente di Matematica alla Sapienza di Roma, e collaboratore del ministero dell’Istruzione, per cui lavora a un Tavolo per ridefinire i profili di formazione degli insegnanti.
Professor Israel, dunque secondo lei la Gelmini ha fatto bene a discostarsi dall’impianto generale della riforma Moratti: perché?
Il problema che io vorrei porre al centro – di cui solitamente nessuno parla – è quello dei contenuti, cioè dei programmi. Bisogna chiedersi quali implicazioni avrebbe, proprio dal punto di vista dei programmi, l’attuazione della riforma Moratti. In effetti è vero che i regolamenti della Gelmini, implicando tagli orari molto forti, hanno portato sotto certi aspetti a uno stravolgimento dell’impianto presente nella legge Moratti. Ma personalmente ritengo che tali cambiamenti di direzione siano del tutto salutari, e anzi in alcuni casi insufficienti. Quindi la pausa di riflessione di un anno può servire proprio per approfondire certi elementi che finora sono stati solo abbozzati.
E cosa ci sarebbe di positivo secondo lei in queste modifiche?
Una cosa molto importante è che siano state eliminate materie come l’educazione all’affettività, l’educazione stradale o l’educazione alla cittadinanza. Quest’ultimo aspetto, in particolare, mi pare che coincidesse con l’educazione alla cittadinanza del governo Zapatero. E non si può essere schizofrenici: condannare per statolatria Zapatero, e poi non rendersi conto di quello che succede qui da noi. Poi ho visto che la Commissione Cultura della Camera ha emanato una raccomandazione relativa all’implementazione dell’educazione all’affettività nella scuola primaria, e questa è una cosa che mi preoccupa moltissimo. Su questo bisogna vigilare; e da questo punto di vista i tecnici del ministero hanno secondo me lavorato bene. Sono infatti stati limati e migliorati molti aspetti critici dei programmi che derivavano dalla legge Moratti.
Veniamo alle critiche: c’è qualcosa che non condivide dei regolamenti della Gelmini?
Come già accennavo, la nuova impostazione dei programmi deve imporre una riflessione più profonda di quella fatta fino ad ora; ecco perché sono contento che il tutto sia stato rinviato. L’impostazione dei programmi che emergevano dalla riforma Moratti tendeva alla scuola olistica, a livellare il più possibile la dimensione disciplinare: questa è una cosa pessima che potrebbe portare alla catastrofe della scuola superiore italiana. Quindi, rispetto ai regolamenti della legge Moratti, bisogna fare delle modifiche ancor più sostanziali, introducendo una maggiore distinzione disciplinare e lasciando perdere tutto il ciarpame ideologico relativo alla scolastica delle competenze.
Lasciamo da parte un attimo il confronto con la Moratti; ci sono altri elementi che non la convincono nei provvedimenti della Gelmini?
Sono preoccupato dall’introduzione del liceo delle scienze umane. In realtà sappiamo che questo liceo non è altro che una riproposizione delle magistrali: però allora bisognerebbe dirlo esplicitamente, e chiamarlo liceo pedagogico. Le scienze umane si sa cosa sono: sono la storia, l’antropologia, la sociologia e così via. La struttura dei programmi di questo liceo è una cosa aberrante: ci sono spezzoni di scienze umane inserite nel tessuto delle scienze pedagogiche. Ecco: il dibattito culturale da aprire è proprio su questione come questa. E poi bisogna evitare che venga introdotta nei tecnici una materia come “scienze integrate”. I tecnici hanno una grande tradizione dovuta al fatto di aver sempre avuto insegnanti con formazioni distinte, dove ciascuno insegnava la materia specifica su cui si era laureato. Introdurre una materia unificata porterebbe alla perdita di questo, riproponendo lo stesso errore delle medie, dove chi è laureato in chimica può insegnare matematica.
Giuste queste preoccupazioni; però ci sono altri elementi di critica sostanziale all’impianto generale dei provvedimenti della Gelmini. Pare che ci sia un ritorno a una visione statalista, per cui tutto viene deciso dal centro. Cosa ne dice?
Secondo me è giusto guardare al sistema complessivo. Io sono anche favorevole allo sviluppo delle autonomie; ma al momento dobbiamo ragionare sul fatto che abbiamo una struttura grandiosa che è la scuola pubblica, e che tale rimarrà per lungo tempo. Abbiamo una scuola in condizione critica, e quando ci si ritrova in questa situazione non si risolvono i problemi con una spinta drastica verso l’autonomia. Bisogna in primo luogo cercare di “imbullonare” il sistema, di farlo funzionare, come è stato fatto nella scuola primaria, con provvedimenti di carattere generale. Pur se hanno sapore un po’ centralistico, questi provvedimenti servono a creare le condizioni perché il sistema risanato possa poi procedere ad altri sviluppi. Ma alla medicina dell’autonomia in quanto tale non credo molto. E non riesco a vedere nelle proposte di legge che sono state fatte in merito qualcosa di convincente. Per esempio: veramente pensiamo che il reclutamento di istituto possa portare a un miglioramento delle scuole?
Effettivamente non sono in pochi a pensare che questo possa portare a un reale miglioramento…
Io non credo: per me è una pazzia. In futuro, in una realtà veramente cambiata, si potrebbe anche arrivare a questo. Ma se ora avessimo un’assunzione diretta da parte dell’istituto significherebbe in alcune parti d’Italia consegnare la scuola alla malavita organizzata, aprendole un nuovo terreno di attività. Non possiamo delegare a un piccolo preside della Calabria il fatto del reclutamento. Allo stesso modo sono un po’scettico sul fatto della regionalizzaione, perché non credo molto nella virtù del “locale”. Noi dobbiamo formare la preparazione di base e questa deve avere un carattere di omogeneità. L’idea dell’aggancio al territorio, della funzionalizzazione di un istituto tecnico alle esigenze produttive del territorio secondo me è sbagliato. E poi dov’è che funziona un modello del genere? Ci sono paesi dove questo avviene e funziona? A questo si aggiunga poi il fatto che noi abbiamo una struttura produttiva altamente frammentaria, con moltissime industrie piccole, e quindi a basso livello tecnologico. L’aggancio al territorio non porta a uno sviluppo di qualità. Bisogna pensare al sistema in generale. E secondo me, come ho detto all’inizio, il punto essenziale è quello di puntare tutto sui programmi. Il resto viene di conseguenza.


VANGELI/ Socci: ecco la mia indagine, svolta al lume della ragione - INT. Antonio Socci - martedì 23 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
In un periodo in cui sembra essere tornata di “moda” la figura di Cristo, oggetto di speculazioni storiche, filosofiche e addirittura giornalistiche che ultimamente sembrano, a vedere le numerose pubblicazioni in commercio, appannaggio dei maîtres à penser del laicismo, Antonio Socci propone la sua “indagine”. Uno studio rigoroso e obiettivo, sebbene l’autore non neghi una certa simpatia nei confronti del “ricercato”, che si pone a distanza da coloro che con la scusa dell’osservazione scientifica sfrondano l’immagine di Gesù da qualsivoglia connotazione divina per ridurla o alla dimensione esclusivamente morale e rivoluzionaria o a un ultimo residuo di mitologia.
Indagine su Gesù è il titolo dell'ultimo libro di Antonio Socci. Come mai, gli chiediamo, ha deciso di utilizzare proprio il termine “indagine”?
Anche se mi pare ovvio che dal volume traspaia la mia personale passione per quel nome, per quel volto, per quella persona, la mia vuole essere una ricerca laica. Nel senso di una valutazione obiettiva e molto concreta dei fatti, al di là della pre-conoscenza religiosa. Faccio un esempio: le profezie. Come se facessi un’inchiesta giornalistica, mi sono immedesimato con chi dovesse ricercare su un personaggio storico ed ho scoperto che è stato preceduto da mille e cinquecento anni da profezie che hanno predetto nel dettaglio la sua vicenda personale e persino il tempo in cui sarebbe apparso al mondo. Questo, come dice Guitton, innanzitutto pone una domanda alla ragione. Se partiamo da una precomprensione religiosa, sembra tutto un po' scontato; da un punto di vista laico è una cosa che stupisce e sconvolge.
Per questo il prologo del libro è la storia di uno studioso, Antony Flew, professatosi ateo per decenni e poi giunto all'ammissione dell'esistenza di Dio?
La ragione di questa mia scelta è spiegata da una dichiarazione dogmatica del Concilio Vaticano I che, riprendendo un’antica tradizione della Chiesa, dice «se qualcuno dirà che l'unico vero Dio, nostro Creatore e Signore, non può essere conosciuto con certezza dal lume naturale della ragione, attraverso le cose che da Lui sono state fatte: sia anatema». Ciò dimostra che nessuno come la Chiesa esalta la ragione. Sono i razionalisti che la svalutano, ritenendola incapace di arrivare a questo culmine. D'altro canto quel testo dogmatico mette in evidenza qual è oggi il vero problema: che non si usa la ragione. Lo stesso non fare i conti con i fatti, non essere leali con le fonti storiche cui si assiste quando si tratta di Gesù è uno svilimento della ragione.
Infatti si dice, era scritto su un quotidiano proprio domenica scorsa, che il Vangelo non ha nulla di storico.
E invece sono pochi i testi che possono vantare la storicità dei Vangeli. Pensiamo ad un personaggio storico come Alessandro Magno: gli autori che ne parlano vengono quattrocento anni dopo di lui. I manoscritti di Platone che possediamo sono di mille e duecento anni dopo la sua vita. Così i codici degli storici romani; il manoscritto più antico del De bello gallico è del IX secolo. Gli autori dei Vangeli, invece, testimoniano fatti avvenuti nella loro generazione. A cavallo tra il primo e il secondo secolo abbiamo circa cento frammenti di papiri che riportano brani evangelici. Il più antico frammento del Vangelo di Giovanni è del 110; la scuola esegetica contraria alla storicità dei vangeli pensava che il testo giovanneo fosse stato scritto nel terzo secolo e poi si è scoperto quel frammento e la loro tesi è crollata. E infatti gli scavi archeologici hanno dimostrato che Giovanni descrive molto precisamente i luoghi della vicenda di Cristo, soprattutto Gerusalemme. Abbiamo manoscritti completi dei Vangeli già attorno al 300, con una continuità e fedeltà dei testi straordinaria. Insomma una sicurezza “storica” eccezionale.
Ma va aggiunta una cosa importante. A testimonianza della veridicità dei fatti evangelici dodici uomini, che erano molto concreti e non andavano dietro a «fantasie artificiosamente inventate» come dice Pietro, hanno dato la vita. Loro e molti altri hanno sopportato il martirio per attestare che quei fatti sono veri e loro li hanno visti coi loro occhi e toccati col le loro mani.
Bisogna avere un grave pregiudizio ideologico per non riconoscere che i Vangeli riportano testimonianze oculari. Le varie “Vite di Gesù” di matrice illuminista e idealista hanno come punto di partenza l'odio per il soprannaturale; vogliono «strappare da Gesù la sua veste soprannaturale per buttargli addosso i suoi panni da comune ebreo» come ha detto Schweitzer. Questo odio si è espresso nell'esclusione pregiudiziale della possibilità che il soprannaturale irrompa nel mondo. I miracoli non possono accadere; tutto ciò che nel Vangelo parla di questo viene dichiarato non credibile e quindi lo si fa fuori. Ma la possibilità del miracolo si può indagare andando a vedere se “oggi” accadono i miracoli. Alexis Carrel, scettico, è andato a Lourdes e si è trovato davanti al fatto del miracolo e si è convertito.
Come mai queste idee, sostanzialmente vecchie, tornano a galla adesso?
È vero, sono idee già confutate dall'esegesi cattolica e smentite dalle ricerche archeologiche degli ultimi trent'anni. Oggi vengono presentate come scoperte a causa dell'ignoranza diffusa, che permette di presentare come scoop cose assolutamente pacifiche e vecchissime. Ma credo che la vera tragedia sia stata che dopo il Concilio l'esegesi cattolica, come ha ricordato Benedetto XVI, ha dimenticato il patrimonio di erudizione accumulato nei decenni per appiattirsi sulla esegesi protestante e razionalista.
Penso anche che oggi, crollate le ideologie, la forza e il fascino di Gesù siano ancora più dirompenti che in passato; per cui molti cercano di mettere dei paletti preventivi.
Alla fine del libro lei scrive che «per fare i conti davvero con Gesù bisogna guardare sinceramente se stessi, la propria vita, il dramma dell'umanità e gli immensi desideri del nostro cuore».
Mi è capitato di parlare a dei ragazzi di liceo che mi hanno posto il problema di quale sia l'approccio scientifico ed obiettivo al “caso” Gesù. Prima ho cercato di mostrare che l'obiettività scientifica è un mito, perché ogni conoscenza è in qualche modo è parziale e questo è ovvio e normale. Ma soprattutto ho cercato di spiegar loro che nei confronti di Gesù c'è una conoscenza che non mente: è il fatto che Lui corrisponde profondamente a tutto ciò che noi siamo, attendiamo, cerchiamo e ci domandiamo. Non siamo dei ricercatori asettici che col camice bianco analizziamo una cellula; siamo esseri desideranti che fanno i conti ogni istante con la solitudine, col desiderio e l'incapacità di essere amati e di amare, con la brancolante ricerca del senso della vita. Tutto questo groviglio infuocato di domande e di aspettative nell'impatto con Gesù reagisce, vibra, si stupisce e si meraviglia. Gesù ha un alleato dentro di noi. Questa è una forma di conoscenza assolutamente certa, perché l'uomo conosce con tutto il suo essere; è la formula della conoscenza dell'innamorarsi.


RESPONSABILITÀ PER IL CREATO - UNA TUTELA NON PARZIALE NÉ DEPOTENZIATA - FRANCESCO D’AGOSTINO – Avvenire, 23 dicembre 2008
Nel discorso che ha pronunciato ieri nel corso dell’udienza alla Cu­ria romana, in occasione degli auguri natalizi, Benedetto XVI ha offerto agli ascoltatori alcune sottili riflessioni teo­logiche. Una, in particolare, merita at­tenzione. Dopo aver ribadito che la Chiesa non può e non deve limitarsi a trasmettere ai propri fedeli soltanto il messaggio della salvezza, ma che «es­sa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico», il Papa ha aggiun­to che nel 'creato', che è oggi sotto­posto a grandi pericoli di distruzione e che va difeso come un bene appar­tenente a tutti, rientra ovviamente an­che l’uomo. È compito primario della Chiesa «proteggere l’uomo contro la distruzione di se stesso».
È facile immaginare che queste paro­le del Papa troveranno ampio consen­so in tutti coloro che vedono con preoccupazione il degrado ambienta­le come un’autentica minaccia per la sopravvivenza stessa del genere uma­no. Ma il Papa va al di là di queste pur giuste preoccupazioni, chiaramente da lui pienamente condivise. «Le foreste tropicali – egli ha detto – meritano, sì, la nostra protezione, ma non la meri­ta meno l’uomo come creatura, nella quale è iscritto un messaggio che non significa contraddizione della nostra libertà, ma la sua condizione». Se l’uo­mo corre un pericolo di distruzione, è anche perché abusa della propria na­tura, affidandosi ciecamente a illuso­rie pretese di autoemancipazione, tra le quali Benedetto XVI cita esplicita­mente quella del 'gender', l’ideologia secondo la quale l’uomo sarebbe le­gittimato a scegliere e a elaborare in sovrana e insindacabile libertà i pro­pri orientamenti pulsionali, dato che l’identità sessuale – maschile e fem­minile – del nostro corpo andrebbe considerata alla stregua di un irrile­vante dato biologico. La questione è cruciale. Teoretica­mente essa rimanda ad una questio­ne metafisica, quella della natura del­l’essere umano, che – dice il Papa – non può essere ritenuta 'superata'. Teologicamente, essa investe il pro­blema dell’'ordine della creazione', che siamo chiamati a rispettare, nella consapevolezza che qualsiasi mani­polazione di quest’ordine sul piano spirituale è un’autentica offesa a Dio e sul piano materiale è una minaccia per l’uomo. La questione possiede però anche un suo rilievo mediatico, che non va trascurato. Si sono di re­cente moltiplicate sui mass-media le critiche alla fermezza con cui la Chie­sa sta prendendo le distanze da di­chiarazioni, atti di indirizzo, conven­zioni nazionali e internazionali, nelle quali ( spesso – perché non dirlo? – subdolamente) sono stati introdotti, nella pretesa di denunciare qualsiasi discriminazione, indebiti riferimenti alla logica del 'gender'.
Spiace rilevare come studiosi di pur al­to profilo – si veda l’editoriale di Carlo Galli, su Repubblica di ieri – si dimo­strino non in grado di percepire quale sia la vera posta in gioco. Insegnare ai bambini e ai ragazzi, nel contesto di u­na disciplina scolastica quale l’Educa­zione alla Costituzione che il matri­monio non presuppone la diversità sessuale (come avviene in Spagna) o imporre che nei sussidiari delle scuo­le elementari non si usino termini co­me 'papà e mamma' (come succede in Inghilterra), perché portatori di va­lenze discriminatorie (!!!), non signifi­ca insegnare pluralismo e tolleranza, ma veicolare con l’autorevolezza che la scuola dovrebbe possedere (ma che sempre meno possiede) una visione deformante dell’identità umana. «È ne­cessario che ci sia qualcosa come una ecologia dell’uomo, intesa nel senso giusto», ha detto ieri il Papa. A quando una franca discussione su questi temi, liberata da pregiudizi laicisti, divenuti oramai soffocanti e insopportabili?


ACCOMPAGNARE UNA MADRE FINO ALL’ULTIMO RESPIRO - L’inaspettata Bellezza dentro il dolore – Avvenire, 23 dicembre 2008
C aro Direttore, il 17 dicembre è morta mia madre per infarto intestinale, una complicazione subentrata alla malattia di cui soffriva, il morbo di Alzheimer, che le era stato diagnosticato nel 1998, all’età di 69 anni.
Questo per me ha voluto dire prendermi cura di lei come ci si prende cura di un bambino piccolo, sapendo però che invece di educarlo a crescere lo si accompagna alla morte.
Ho potuto stare con lei con questa coscienza, ogni giorno e ogni notte, grazie alla compagnia di alcuni amici, che una volta don Giussani aveva definito così: compagnia guidata al Destino. Il 17 dicembre, primo giorno della novena del Natale e san Lazzaro di Betania, il Destino di mia madre si è compiuto, e ora lei è davanti a Colui che l’ha chiamata alla vita. E che ha chiamato anche me.
Decidere di stare con lei fino alla fine è stata una scommessa vincente, perché non sento affatto di aver sprecato la mia vita o di essermi liberata di un peso, mi sento invece come si sentirebbe un’artista che ha finito di scolpire la sua opera e la guarda in silenzio.
Ho passato con lei questi ultimi giorni tenendola sempre per mano (anche perché era lei che non me la lasciava mai) e tutte le volte che la lotta per la sopravvivenza le dava un po’ di tregua e io entravo nell’orizzonte del suo sguardo, lei mi sorrideva; mi guardava e sorrideva, dato che da tempo, avendo perso la capacità di esprimersi a parole, il suo modo di relazionarsi con le persone era il sorriso.
In quei momenti mi sono domandata: ma c’è qualcosa che è più forte del dolore? del dolore che ti lacera, che ti ammazza, che ti farebbe maledire di essere venuto al mondo?
Guardando il volto di mia madre che mi sorrideva in quella circostanza così estrema, posso dire di sì: c’è qualcosa che è più forte, che vince il dolore. Altrimenti non si spiegherebbe come fa, una persona che soffre così tanto, a essere felice; perché mia madre era felice per il solo fatto che io fossi lì con lei. Con lei fino all’ultimo respiro.
Ecco, il bello della vita è questo: vivere tutto fino in fondo, l’amore e il dolore, senza perdersi neanche un istante di quella Bellezza, strana e misteriosa, che invade la nostra vita e che ci fa piangere e ridere insieme, in una prospettiva che, di schianto, spalanca le porte dell’Eterno adesso, facendoci intuire che la scommessa sulla vita la si vince ora, o mai.
Antonella Cavagnoli


LA DIFESA DELLA VITA - «Lieve, tenace è la vita» Teatro civile per Eluana - L’iniziativa promossa da «Scienza&Vita» per invitare alla riflessione sulla dignità della persona - Monologo di Rondoni su Sat2000 - Sul palco anche Mario Melazzini, oncologo malato di Sla e quattro giovani cantanti liriche – Avvenire, 23 dicembre 2008 - DA ROMA PINO CIOCIOLA
Il letto è in metallo, ha le len­zuola bianche e la copertina bianca, come bianchi sono il comodino e l’abat jour poggiata sopra. Un letto d’ospedale. Dietro, una porta, solo una porta, an­ch’essa d’una stanza di ospedale. È tutto qui il palco. La scenografia è così. Scarna, essenziale. Pode­rosa. Un graffio all’anima, ieri se­ra, appena entri nella sala del­l’Auditorium Parco della musica di Roma. E stai per assistere a ' Lieve, tenace è la vita': serata di teatro civile organizzata da “Scien­za & vita” insieme a Sat2000 ( che la manderà in onda questa sera al­le 21,40 replicandola alle 9,05 do­mattina).
Un’ora e mezza – il cui filo con­duttore è un monologo del poeta Davide Rondoni – curata da Fran­cesco Porcelli e con la regia di Pi­no Leoni. Un’ora e mezza, come l’ha voluta ' Scienza & vita', « per Eluana e per tutti noi » , aperta e chiusa da quattro meravigliose vo­ci liriche di altrettante ragazze.
La luce bianca è forte e sparata dritta verso il leggìo. « Dicono: è fi­nita. Dicono: non ha vera vita. Io non so, sono solo un uomo delle pulizie. Ma se non è vita, cosa è questa presenza che tanto movi- menta, inquieta, tormenta? » , re­cita Luca Ward. E la ferita di quel graffio brucia un po’ meno.
Il letto è alle sue spalle: presenza ingombrante e dolce sulla scena. Un letto che è vuoto eppure ha so­pra Eluana. Ha le donne e gli uo­mini che vivono come lei: chi vie­ne considerato ' morto' eppure il suo cuore batte, eppure respira, deglutisce, è amato.
Buio e s’accende lo schermo quat­tro volte interrompendo il mono­logo, ma legandocisi strettamen­te. Sono le testimonianze. Quella di un medico, un altro medico e ancora un altro: specialisti che hanno a che fare quotidianamen­te con chi viene considerato 'mor­to'. Poi quella di un uomo il cui fi­glio è morto dopo un anno e mez­zo di ' stato vegetativo' e adesso si occupa e si batte per chi non può parlare perché in quello ' sta­to'. Tutti loro lo sanno, l’hanno imparato: la dignità della vita – an­che quando di quest’ultima si per­cepisce un barlume appena – non è mai scalfita. Umanamente. Ra­gionevolmente. Scientificamente. Il letto bianco d’ospedale è avvol­to di controluce. La suggestione di immagini e parole è forte come l’emozione che suscitano, però le si deve tenere a bada: sono stati d’animo che possono ingigantirsi fino a deformare le realtà, specie se si sta comodamente seduti in un magnifico teatro. Mario Me­lazzini no, lui è un uomo in carne e ossa.
Sale sul palco trascinandosi con la sua compagna: la Sla, Sclerosi la­terale amiotrofica. Melazzini è un oncologo costretto su una sedia con le ruote, che si nutre attraver­so un sondino gastrico percuta­neo, che la notte senza un aiuto meccanico quasi non respirereb­be. Lui non è pericolosa sugge­stione e neppure emozione che ri­schia d’essere fiammata di un i­stante. Lui parla di speranza e gioia, ma che lo dica conta meno che ne sia una materializzazione. In carne, ossa e cuore.
Luca Ward continua a recitare: « Piccola » , la chiama l’uomo delle pulizie. E ora è davanti ad Eluana: « È duro stare nella tua stanza. Co­me stare su un precipizio immen­so. Ci vuole senso dell’equilibrio e anche il senso dell’immensità » . È un uomo semplice. E proprio per­ché tale capace, ancora, di trepi­dare e sperare davanti alla fragi­lità: « C’è un mare qui, e ti vorrei sollevare sulle onde, tenerti in braccio, e farci insieme cullare. È delirio o forse è l’unica visione vi­tale? » . Applausi. Fra lacrime si­lenziose.


tra Shakespeare, Melville e Vico - «Al mito del cinema di Hollywood preferisco Thomas Mann e De Sica» - DI CESARE PAVESE, Avvenire, 23 dicembre 2008
Sono ormai dieci anni che la critica ha la bontà di occuparsi regolarmente di me, dei vari rac­conti che vado scrivendo, e negli ultimi anni ha detto su qualcuno di questi racconti cose assai lusinghiere e fini, cose che sarei felice di sottoscrivere io stesso. Sia quindi chiaro che se oggi farò un appunto a questa critica – pre­sa nel suo insieme – ciò non nasce da scioc­ca insofferenza di giovane autore, bensì – o­so dire – dal desiderio di collaborare al chia­rimento di uno dei problemi più discussi del­la nostra odierna cultura. Parlo del cosiddetto influsso nordamericano, cioè non soltanto di me, Cesare Pavese, ben­sì di quella piccola rivoluzione che, intorno agli anni della guer­ra, ha mutato – dicono – la faccia della nostra narrativa. Quando si parla di Hemingway, Faulkner, Cain, Lee Masters, Dos Passos, del vecchio Dreiser, e del loro depre­cato influsso su noi scrittori ita­liani, presto o tardi si pronuncia la parola fatale e accusatrice: neo­realismo. Ora, vorrei ricordare che questa pa­rola ha soprattutto oggi un senso cinemato­grafico, definisce dei film che, come «Osses­sione », «Roma città aperta», «Ladri di bici­clette », hanno stupito il mondo, americani compresi – e sono apparsi una rivelazione di stile che in sostanza nulla o ben poco deve al­l’esempio di quel cinematografo di Hollywood che pure dominava in Italia negli stessi anni in cui vi si diffondevano i narratori america­ni. Come avviene che la stessa etichetta defi­nisca con lode una cinematografia e con bia­simo una narrativa, che pure sono nate con­temporaneamente sullo stesso terreno intri­so di succhi nordamericani? L’appunto che vorrei fare alla nostra critica è questo: si è mai provata questa critica a defi­nire lo stile, la maniera narrativa nordameri­cana, ricercandone le radici e i modelli stori­ci? Lo sa questa critica che senza Kipling non si spiega Hemingway, senza l’espressionismo tedesco e i russi non si spiegano né O’Neill né Faulkner, senza Mau­passant non si spiegano Fitzgerald, Cain e tutti gli altri? Non occorre­va affatto uscire dall’Europa per diventare, come si dice, neoreali­sti. Ancora un passo e potremo so­stenere, con ragione, che furono gli americani a imparare in Europa il neorea­lismo narrativo (beninteso, come tecnica, non come spirito), così adesso stanno di fatto rim­parando da noi quello cinematografico.
Il tradurre – parlo per esperienza – insegna come non si deve scrivere; fa sentire a ogni passo come una diversa sensibilità e cultura si sono espresse in un dato stile, e lo sforzo per rendere questo stile guarisca da ogni tentazione che si potesse ancora nutrire di sperimentar­lo in proprio. Alla fine di un pe­riodo intenso di traduzioni - An­derson, Joyce, Dos Passos, Faulkner, Gertrude Stein – io sa­pevo esattamente quali erano i moduli e le movenze letterarie che non mi sono consentiti, che mi restano esterni, che mi lasciano freddo. Come sempre quando ci si mescola e avvez­za a gente molto esotica e impensata, mi ri­trovavo alla fine più isolato, più scontroso, ma anche più furbo, nel vecchio senso piemon­tese del termine. E poi, guardiamo alle date. Nessuno dei miei critici vuol credere che il mio racconto Carce­re sia stato scritto, nella forma in cui compa­re nel volume Prima che il gallo canti,
nel 1939 – e ciò perché col suo stile tutto evocativo e fantastico minaccia di rovinare la teoria ch’io abbia cominciato proprio in quell’anno col neorealismo all’americana. Ciò è semplicisti­co, e del resto nella carriera letteraria che mi si traccia non troverebbero posto libri come
Feria d’agosto o i Dialoghi con Leucò,
quei dia­loghi che sono forse la cosa meno infelice ch’io abbia messo sulla carta.
Mi si consenta di parlare della mia opera co­me se fosse quella di un altro, e io un critico che non ha nulla da perdere. Dirò dunque che quest’opera, cominciata scontrosamente in pieno periodo ermetico e di prosa d’arte, quando il castello della chiusa civiltà lettera­ria italiana resisteva imperterrito ai venti ga­gliardi del mondo, non ha sinora rinunciato alla sua ambigua natura, all’ambizione cioè di fondare in unità le due aspirazioni che vi si so­no combattute fin dall’inizio: sguardo aperto alla realtà imme­diata, quotidiana, «rugosa», e ri­serbo professionale, artigiano, u­manistico – consuetudine coi classici come fossero contempo­ranei e coi contemporanei come fossero classici, la cultura insom­ma intesa come mestiere. Della civiltà umanistica quest’opera vuole (sia detto con tutta umiltà) conservare il distacco contemplativo e formale, il gusto delle strutture intellettualistiche, la lezione dantesca e baudelairiana di un mondo stili­sticamente chiuso e in definitiva simbolico. Della realtà contemporanea rendere il ritmo, la passione, il sapore, con la stessa casuale im­mediatezza di un Cellini, di un Defoe, di un chiacchierone incontrato al caffè.
Esigenze difficilmente conciliabili, è chiaro. Ma ci sembra che il tempo sia giunto: o ades­so o mai più. Per far questo, va da sé che sarà necessario non essere sordi né all’esempio in­tellettuale del passato – il mestiere dei classi­ci, – né al tumulto rivoluzionario, informe, dialettale, dei nostri giorni. La crisi è, benin­teso, soprattutto politica. Prima che italiane le mie letture sono classi­che e poi sovente straniere. Massimi narrato­ri sono i greci Erodoto e Platone, scrittori che mirano non tanto al personaggio – come fan­no invece Omero e Sofocle – quanto al ritmo degli eventi o alla costruzione intellettualisti­co- simbolica della scena. Mi piace molto Shakespeare, ma non per la romantica ragio­ne che questi crea personaggi indimentica­bili, bensì per una più vera: il suo assurdo e meraviglioso linguaggio tragico (e anche co­mico), le terribili frasi o tirate del quinto atto in cui, per diversi che fossero i ca­ratteri dei personaggi, tutti dico­no sempre la stessa cosa. Mi pia­ce, come narratore, Giovanni Bat­tista Vico – narratore di un’avven­tura intellettuale, descrittore ed e­vocatore rigoroso di un mondo – quello eroico dei primi popoli – che mi ha sempre interessato e da anni fatto smettere ogni lettura a­mena per dedicarsi alle relazioni e ai docu­menti etnologici, – testi in cui si ritrova quel senso di una realtà simbolica e insieme fon­data su saldissime istituzioni che è la fonte prima di ogni poesia degna di questo nome. Infine, mi piace assai Herman Melville, il cui
Moby
ho tradotto, non so con quanta com­petenza, ma con molto trasporto una venti­na di anni fa e che ancora adesso mi serve di pungolo a concepire i racconti non come de­scrizioni ma come giudizi fantastici della realtà.
Questa lista di letture è, s’intende, solamente indicativa. Ma a che scopo fare un facile sfog­gio di nomi? Resterebbero i viventi, gli italia­ni viventi, ma a che scopo farsi degli amici in­teressati e dei nemici? Meglio evitare il tra­bocchetto e dichiarare – del resto, secondo verità – che il maggior narratore contempo­raneo è Thomas Mann e, tra gli italiani, Vitto­rio De Sica.
«Ai critici dico: senza gli europei non ci sarebbero né Faulkner, né Hemingway» Lo sguardo sulla realtà quotidiana e la lettura dei classici come «contemporanei»