venerdì 19 dicembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) SCOLA «Dobbiamo lasciar spazio ai testimoni» Il Patriarca racconta donne coraggiose - DA VENEZIA – Avvenire, 19 dicembre 2008
2) Benedetto e Carron - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 19 dicembre 2008 - Il magistero del Papa per orientarci nella nostra vita e per una presenza culturale della fede
3) 19/12/2008 – GIAPPONE - Yokosuka, la sete di Dio nel Giappone delle contraddizioni - L’esperienza di p. Giorgio Ferrara, Pime, per 17 anni in una parrocchia della diocesi di Yokohama, nella baia di Tokyo. La beatificazione dei martiri, occasione di evangelizzazione in un Paese super- tecnologico, che cerca il senso della vita.
4) Nell'udienza a undici ambasciatori il Papa ricorda che la giustizia si fonda sull'equità e la solidarietà nelle relazioni internazionali - I rapporti tra finanza e sviluppo devono reggersi sull'etica – L’Osservatore Romano, 19 dicembre 2008
5) L'anno liturgico narrato da Joseph Ratzinger - Tutte le domande meritano una risposta – Giovedì 18 a Venezia, presso la Scuola grande di San Giovanni evangelista, viene presentato il volume curato da Sandro Magister Omelie. L'anno liturgico narrato da Joseph Ratzinger, Papa (Milano, Scheiwiller, 2008, pagine 280, euro 18). All'incontro partecipa anche il cardinale patriarca di Venezia del quale pubblichiamo l'intervento. - di Angelo Scola – L’Osservatore Romano, 19 dicembre 2008
6) 18/12/2008 15.49.15 – Radio Vaticana - I vescovi indiani: le violenze anticristiane sono atti di terrorismo
7) SCUOLA/ 1. Ministro Gelmini, ma dov’è finita la riforma Moratti? - INT. Giuseppe Bertagna - venerdì 19 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
8) TENDE/ Il metodo dei Fatti - Emilio Colombo - venerdì 19 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
9) SCUOLA/ 2. Valutazione: un sistema per incentivare, non per punire - INT. Andrea Ichino - venerdì 19 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
10) RECENSIONE/ La guerra di Clemente Rebora. Tra melma e sangue l’attesa di Dio - Clementina Arcebi - venerdì 19 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
11) ISTRUZIONE/ La scuola autonoma abbandonata dal MIUR - Associazione Di.S.A.L. - venerdì 19 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
12) I RADICALI E SACCONI - MA CHI STA PROVANDO A INTIMIDIRE? - FRANCESCO RICCARDI – Avvenire, 19 dicembre 2008
13) Si risveglia dallo stato vegetativo - DI FRANCESCA LOZITO - Avvenire, 19 dicembre 2008
14) È morto il catechista sequestrato in Orissa - DA NEW DELHI – vescovi: questo è terrorismo. Padre Vazhakala: «Vogliono creare una nazione indù» - Avvenire, 19 dicembre 2008
15) I Vangeli? Testimonianze oculari - ESEGESI. Parla il biblista José Miguel García, che rilancia la tesi di una redazione in aramaico dei Vangeli. Scritti in «presa diretta» - Avvenire, 19 dicembre 2008 - DI LORENZO FAZZINI


SCOLA «Dobbiamo lasciar spazio ai testimoni» Il Patriarca racconta donne coraggiose - DA VENEZIA – Avvenire, 19 dicembre 2008
S ul caso di Eluana Englaro, bisogna «lasciar parlare i testimoni». Lo ha detto ieri sera a Ve­nezia il patriarca Angelo Scola durante un in­contro. Dopo aver ribadito che «nessuno ha pro­vato che l’alimentazione e l’idratazione non siano l’estensione della dimensione che naturalmente deve essere soddisfatta in ogni vivente», Scola ha portato alcuni esempi di “testimonianze” che ha ascoltato personalmente. «La settimana scorsa – ha raccontato – sono sta­to da una famiglia dove c’è una donna di 32 anni che sembra però una bambi­na rattrappita, in uno sta­to molto simile a quello che può essere quello di Eluana, solo che è nata co­sì. La mamma l’aveva in braccio, perchè la tiene in braccio 11 ore al giorno, affinchè si alimenti col sondino. C’erano dei qua­dri dai colori stupendi, e questa donna, la mamma – ha proseguito Scola – mi ha accolto e mi ha det­to: “Dipingo questi quadri perchè vedo la risposta degli occhi di mia figlia ed è il mio modo di farle compagnia”. Io mi sentivo un verme, un poveretto, al paragone di una donna così. Lei ha fatto un gran­de sorriso e, con la figlia in mano, mi ha detto “Que­sto è il mio premio, è il premio della mia vita”».
« Posso citare anche la moglie di un mio amico, Gianni – ha aggiunto il Patriarca – che con tutta la famiglia si dà i turni e lo accudisce, e che ha pro­posto a tutti gli amici di ritrovarsi tutte le setti­mane: vanno a dire il ro­sario sopra Lecco nel pic­colo Santuario della Ro­vinata. E tutta questa gente – ha concluso – re­cepisce che questo no­stro amico vive».


Benedetto e Carron - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - venerdì 19 dicembre 2008 - Il magistero del Papa per orientarci nella nostra vita e per una presenza culturale della fede
«Come ho scritto nell’Enciclica Deus caritas est, all’inizio dell’essere cristiano – e quindi all’origine di ogni nostra testimonianza di fede – non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con la Persona di Gesù Cristo, “che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”. La fecondità di questo incontro si manifesta in maniera peculiare e creativa, anche nell’attuale contesto umano e culturale» [Benedetto XVI, IV Convegno ecclesiale di Verona, 19 ottobre 2006].

La parola “incontro”, fondamentale nell’evangelizzare, nell’educare alla fede, nel trasmettere umanità, nel continuo testimoniare, quale appare dal cuore e dagli scritti di san Paolo, viene documentato dalla rinascita della coscienza personale anche e soprattutto nella fraternità e nel movimento di Comunione e Liberazione per professare, celebrare, pensare, pregare e vivere una fede che cambia la vita di ogni uomo e diventa credibile anche per gli altri, i quali restano conquistati dalla testimonianza eloquente dei fatti. Incontro significa un continuo ingresso di Cristo in noi, tale per cui siamo assimilati, trasformati in Lui, viviamo in Lui e di Lui attraverso vissuti fraterni di comunione ecclesiale autorevolmente guidata oggi da Benedetto XVI e da ogni Vescovo unito a lui e con tutti i vescovi. Perché un incontro del genere possa accadere, Cristo ci raggiunge, bussando alla porta di ogni cuore, di ogni io umano, infondendo ciò che di più intimo, di più proprio c’è in Lui, il suo stesso Spirito e attraverso un volto umano, che narra quello che è avvenuto in lui, che annuncia la salvezza portata da Cristo all’umanità: nella sua morte e risurrezione la salvezza è offerta a tutti gli uomini senza distinzione. Offerta, testimoniata, non imposta. La salvezza è un dono attraverso il battesimo e tutti i sacramenti che chiede sempre di essere accolto personalmente aspettando quel Qualcuno che cambia la vita, ci rende immacolati con il suo perdono e protagonisti nella verità del suo Comandamento. “Per noi – dall’intervista con don Julian Carron, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, dopo il suo incontro con Benedetto XVI il 15 dicembre – questo è decisivo perché è l’incontro con l’unico protagonista della storia a rendere gli uomini protagonisti, altrimenti siamo sazi, travolti dal torrente delle circostanze, dall’ideologia dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti, e soltanto il continuo incontro con Lui che – per usare un parola grata a don Giussani – “calamita” tutto l’essere, tutta l’affezione, tutta la ragione, che può veramente far sì che un uomo sia un protagonista della vita, e perciò dia un contributo reale al rinnovamento della società, un contributo per una umanità diversa”. E proprio per non essere smemorati della necessità di questo continuo incontro con Lui occorre, prima di ogni crociata o movimento, far rinascere continuamente la coscienza personale in cui ogni io possa dire “come è bello vivere così” nella fede professata e celebrata.
Ma di sua natura la fede fa appello all’intelligenza, al conoscere di Cristo nel suo corpo che è la Chiesa come il magistero lo propone, perché svela ad ogni io umano la verità sul suo destino e la via per raggiungerlo. Il magistero di Benedetto XVI è un nutrimento sostanzioso per la nostra fede, portandoci a credere di più e meglio, ed anche a riflettere su noi stessi, per arrivare ad una fede pensata e, al tempo stesso, per vivere questa fede, mettendola in pratica secondo la verità del comandamento di Cristo. Solo così la fede che uno professa personalmente e comunitariamente diventa “credibile” anche per gli altri, i quali restano conquistati dalle testimonianza eloquente dei fatti. “Un anno dopo – sempre Carron – dopo l’incontro di tutto il Movimento di Comunione e Liberazione con il Papa, abbiamo chiesto di poterlo rivedere per raccontargli quello che è successo e condividere con lui i frutti di quell’incontro”.
Joseph Ratzinger ha dettato a Collevalenza gli esercizi ai sacerdoti della fraternità di CL anticipando due encicliche, quella sulla carità e sulla speranza, e la terza che aspettiamo, quella sulla fede. E’ sempre stato legato a don Giussani e lo ha testimoniato con la meravigliosa omelia dei funerali. “Noi – sempre Carron –, soprattutto adesso, sentiamo il suo magistero decisivo per la nostra vita di movimento, per la nostra storia. Siamo sempre molto attenti a quello che il Papa ci dice, per orientarci nella nostra strada”.
Di fronte alla drammatica frattura fra Vangelo e cultura Comunione e Liberazione si è sempre impegnata nell’evangelizzazione del mondo della cultura. “Noi – sempre Carron – siamo attenti a tutto quanto il Papa dice riguardo alla presenza culturale della fede. Per esempio, noi abbiamo apprezzato tantissimo, oltre il grande discorso di Regensburg, il recente discorso fatto a Parigi, agli uomini di cultura, che noi abbiamo distribuito a tutto il movimento. Ci siamo impegnati a presentarlo dovunque. Diffondere questa perfezione della cultura che nasce dall’appartenenza all’esperienza cristiana, che è in grado di generare un’umanità con una razionalità tutta aperta, come il Papa ci testimonia in continuazione”.


19/12/2008 – GIAPPONE - Yokosuka, la sete di Dio nel Giappone delle contraddizioni - L’esperienza di p. Giorgio Ferrara, Pime, per 17 anni in una parrocchia della diocesi di Yokohama, nella baia di Tokyo. La beatificazione dei martiri, occasione di evangelizzazione in un Paese super- tecnologico, che cerca il senso della vita.
Roma (AsiaNews) – “Qui il Natale ormai è festeggiato da tutti. È normale scambiarsi i regali; i grandi magazzini hanno il loro albero addobbato e trasmettono di continuo canti natalizi; le strade sono piene di luci; c’è addirittura la torta di Natale! Ma la maggior parte della gente non sa perché si festeggia”. Padre Giorgio Ferrara, 48 anni, missionario del Pime, parla così del Giappone, dove è arrivato nel 1991 “per far conoscere chi è il festeggiato a Natale”. Il suo impegno si è svolto soprattutto nella parrocchia di Yokosuka, nella diocesi di Yokohama. “In questi 17 anni - racconta - è stato un crescendo: sempre più persone hanno scoperto Gesù. Tra la messa della vigilia e quella di Natale in chiesa arrivano 700 persone e almeno 150 non sono cristiane. Nel Paese c’è una grande sete di Dio”.
Su oltre 200 milioni di abitanti, i cristiani sono lo 0,7%, quasi un milione e mezzo di persone. Poco più della metà sono giapponesi, i restanti stranieri: una sparuta minoranza immersa in una società di tradizione scintoista e buddista e in un Paese pieno di paradossi. “Quando mi chiedono se il Giappone è una terra di contraddizioni dico: ‘È vero’” afferma padre Ferrara. “ Esso è il più occidentale dei Paesi orientali, ma è asiatico nell’animo; è invaso dalla tecnologia, ma permeato da antiche tradizioni; la gente ha il culto del lavoro e nel contempo un forte sentimento religioso”.
“Se chiedi alla gente qual è la sua fede, ti dicono che non pratica nessuna religione. Poi a casa hanno l’altare degli antenati e se senti la televisione, le parole Dio e preghiera ricorrono spessissimo nei programmi”. “Nel nostro asilo parrocchiale – continua il sacerdote – su 162 bambini, solo una minima parte è cattolica: questo è un segno di stima e interesse verso la fede. Se c’è una cosa che si può dire del Giappone oggi è che c’è davvero una sete di Dio molto forte”.
“Andando all’osso dei disagi della società giapponese - afferma il padre del Pime - si potrebbe dire che il problema è che non ha ancora conosciuto Gesù Cristo”. I primi missionari cristiani sono arrivati sull’isola quasi 500 anni fa. Alla fine del XVI secolo i cattolici erano già 300mila. “Eppure ancora oggi molti giapponesi per definire la Chiesa usano la parola yosei, che indica qualcosa che viene dall’occidente. Anche questo può sembrare un paradosso, ma è così. Bisogna solo avere pazienza”.
Sono molte le persone che arrivano alla Chiesa, tante in età adulta. “Uno dei motivi è la sofferenza, il fatto che la vita dominata dal lavoro a un certo punto non regge. Per motivi di lavoro o di famiglia sono tanti alla ricerca di Dio, anche se non sanno nominarlo: sono alla ricerca di salvezza, di significato”. “Uno dei problemi più ricorrenti – racconta p. Ferrara - è l’alcolismo. Nella nostra parrocchia un giorno è arrivata una donna, madre di famiglia, che aveva un marito sempre ubriaco. È arrivata alla Chiesa perché non sapeva dove andare. Cercava una aiuto per sé, qualcosa che la salvasse. Così ha cominciato a venire in parrocchia, poi ha frequentato il catechismo e alla fine si è fatta battezzare”.
“Quella donna - continua - ha trovato la sua salvezza, è legata ormai alla parrocchia. Il problema è il dopo! Si fa fatica a far capire alle persone come continuare a vivere nella fede. Tu che hai il marito alcolizzato, hai trovato la salvezza che cercavi, sei contenta. Il passo è quello di testimoniarlo alla tua famiglia. Ma se torni a casa, e tuo marito è di nuovo ubriaco, e tu lo sgridi o lo insulti davanti ai tuoi figli, questo non è testimoniare la fede”.
Il 24 novembre sono stati beatificati 188 martiri giapponesi. “È stato un grande evento e molto atteso - dice padre Ferrara - che rilancia l’evangelizzazione in Giappone. Persone comuni che danno la loro vita per Cristo: questo fa pensare non credenti e cattolici, perché la maggior parte dei santi giapponesi sono martiri che hanno testimoniato la fede nel modo più estremo. Anche oggi c’è bisogno di santi, ma servono piuttosto persone che portino la loro testimonianza nella vita quotidiana. Nel cristianesimo ci sono tanti aspetti che sono rivoluzionari per la cultura giapponese: il perdono, lo stare insieme a persone diverse, anche straniere,…. ”.
Il missionario racconta che quest’anno, per la prima volta alcuni giovani della parrocchia sono andati a fare un campo di vacanza in Corea. A causa della guerra passata e dell’imperialismo giapponese, fra coreani e giapponesi non corre buon sangue. “È stato un lavoro lunghissimo – dice p. Ferrara - abbiamo passato molto tempo a prepararlo. Alla fine, la settimana passata insieme con i ragazzi coreani è stata molto bella e i nostri erano stupiti di quello che succedeva. Che non era altro che stare insieme condividere del tempo e delle cose. Ma sono tornati a casa entusiasti”. “In questi anni abbiamo fatto lo stesso con i militari della base americana che si trova a Yokosuka, e con la comunità peruviana: stranieri che, grazie alle fede, sono diventati una presenza familiare per la comunità della parrocchia”.


Nell'udienza a undici ambasciatori il Papa ricorda che la giustizia si fonda sull'equità e la solidarietà nelle relazioni internazionali - I rapporti tra finanza e sviluppo devono reggersi sull'etica – L’Osservatore Romano, 19 dicembre 2008
I rapporti tra finanza e sviluppo devono avere una base etica. Lo ha ricordato Benedetto XVI agli undici nuovi ambasciatori presso la Santa Sede, che nella mattina di giovedì 18 dicembre hanno presentato le Lettere con cui vengono accreditati nell'alto incarico. L'incontro si è svolto nella Sala Clementina. Il Papa ha ricevuto da ciascun ambasciatore, alla presenza del segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, le Credenziali. Con ogni rappresentante Benedetto XVI ha poi scambiato i testi dei discorsi che tradizionalmente vengono pronunciati durante l'udienza. Infine il Papa, rivolgendosi agli ambasciatori, ai loro collaboratori e ai familiari, ha pronunciato il discorso che pubblichiamo qui di seguito.
Pubblichiamo una nostra traduzione dal francese del discorso pronunciato da Benedetto XVI nella mattina di giovedì 18 dicembre, in occasione della presentazione delle Credenziali di undici nuovi Ambasciatori presso la Santa Sede.
Eccellenze,
È con gioia che vi ricevo questa mattina per la presentazione delle lettere che vi accreditano come ambasciatori straordinari e plenipotenziari dei vostri rispettivi Paesi presso la Santa Sede: il Malawi, la Svezia, la Sierra Leone, l'Islanda, il Granducato di Lussemburgo, la Repubblica del Madagascar, il Belize, la Tunisia, la Repubblica del Kazakhstan, il Regno del Bahrein e la Repubblica di Fiji. Vi ringrazio per le parole cortesi che mi avete rivolto da parte dei vostri Capi di Stato. Vi sarei grato se poteste trasmettere loro in cambio i miei saluti cordiali e i miei voti deferenti per le loro persone e per l'alta missione che svolgono al servizio del loro Paese e del loro popolo. Desidero altresì salutare, per mezzo di voi, tutte le Autorità civili e religiose delle vostre nazioni, e anche i vostri concittadini. Le mie preghiere e i miei pensieri vanno in particolare alle comunità cattoliche presenti nei vostri Paesi, dove sono desiderose di vivere il Vangelo e di testimoniarlo in uno spirito di collaborazione fraterna. La diversità dei vostri luoghi di provenienza mi permette di rendere grazie a Dio per il suo amore creatore e per la molteplicità dei suoi doni, che non smettono di destare meraviglia negli uomini. Essa è un insegnamento. A volte la diversità può far paura, per questo non sorprende costatare che spesso l'uomo preferisce la monotonia dell'uniformità. Sistemi politico-economici che avevano una matrice pagana o religiosa o che si dichiaravano tali hanno afflitto l'umanità per troppo tempo e hanno cercato di uniformarla con demagogia e violenza. Hanno ridotto e, purtroppo, riducono ancora l'uomo a una schiavitù indegna al servizio di un'ideologia unica o di un'economia disumana e pseudo-scientifica. Tutti sappiamo che non esiste un modello politico unico come un ideale da realizzare in assoluto, e che la filosofia politica si evolve nel tempo e nella sua espressione con l'affinamento dell'intelligenza umana e le lezioni tratte dalla sua esperienza politica ed economica. Ogni popolo ha il suo genio e anche i "suoi demoni". Ogni popolo avanza attraverso un parto a volte doloroso che gli è proprio, verso un futuro che desidera luminoso. Auspico dunque che ogni popolo coltivi il suo genio che lo arricchirà al meglio per il bene di tutti, e che si purifichi dei suoi "demoni" che controllerà al meglio fino ad eliminarli trasformandoli in valori positivi e creatori di armonia, di prosperità e di pace al fine di difendere la grandezza della dignità umana!
Riflettendo sulla bella missione dell'ambasciatore, mi è venuto in mente in modo spontaneo uno degli aspetti essenziali della sua attività: la ricerca e la promozione della pace che ho appena ricordato. È opportuno citare qui la Beatitudine pronunciata da Cristo nel suo Discorso della Montagna: "Beati gli artefici di pace perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5, 9). L'ambasciatore può e deve essere un costruttore di pace. L'artefice di pace, di cui si parla qui, non è solo la persona dal temperamento calmo e conciliante che desidera vivere in buona intensa con tutti ed evitare se possibile i conflitti, ma è anche la persona che si mette completamente al servizio della pace e s'impegna attivamente per costruirla, a volte fino al dono della propria vita. Gli esempi storici non mancano. La pace non implica solamente lo stato politico o militare di non-conflitto, ma rimanda anche complessivamente all'insieme delle condizioni che permettono la concordia fra tutti e lo sviluppo personale di ognuno. La pace è voluta da Dio che la propone all'uomo e gliela offre in dono. Questo intervento divino nell'umanità ha il nome di "alleanza di pace" (Is 54, 10). Quando Cristo chiama l'artefice di pace figlio di Dio, significa che quest'ultimo partecipa e lavora, in maniera consapevole o inconsapevole, all'opera di Dio e prepara, attraverso la sua missione, le condizioni necessarie ad accogliere la pace venuta dall'alto. La vostra missione, Eccellenze, è alta e nobile. Richiede tutte le vostre energie che saprete utilizzare per raggiungere questo alto ideale che onorerà le vostre persone, i vostri governi e i vostri rispettivi Paesi.
Come me, sapete che la pace autentica è possibile solo se regna la giustizia. Il nostro mondo ha sete di pace e di giustizia. La Santa Sede ha fra l'altro pubblicato, alla vigilia della Conferenze di Doha conclusasi qualche giorno fa, una nota sull'attuale crisi finanziaria e le sue ripercussioni sulla società e sugli individui. Si tratta di alcuni punti di riflessione volti a promuovere il dialogo su vari aspetti etici che dovrebbero reggere i rapporti fra la finanza e lo sviluppo, e a incoraggiare i governi e gli attori economici a ricercare soluzioni durature e solidali per il bene di tutti, e più in particolare per coloro che sono più esposti alle drammatiche conseguenze della crisi. La giustizia, per ritornare ad essa, non ha solo un valore sociale o etico. Non rimanda solo a ciò che è equo o conforme al diritto. L'etimologia ebraica della parola "giustizia" (justice) fa riferimento a ciò che è "ordinato" ("aggiustato", ajusté). La giustizia di Dio si manifesta dunque attraverso la sua "giustezza" (justesse). Essa rimette ogni cosa al suo posto, tutto in ordine, affinché il mondo sia conforme al disegno di Dio e al suo ordine (cfr. Is 11, 3-5). Il nobile compito dell'ambasciatore consiste dunque nell'utilizzare la sua arte affinché tutto sia "ordinato" (ajusté), perché la nazione che serve viva non solo in pace con gli altri Paesi ma anche secondo la giustizia che si esprime attraverso l'equità e la solidarietà nei rapporti internazionali, e perché i cittadini, godendo della pace sociale, possano vivere liberamente e serenamente il loro credo e raggiungere così la "giustezza" (justesse) di Dio.
State per iniziare, signore e signori ambasciatori, la vostra missione presso la Santa Sede. Formulo nuovamente i miei voti più cordiali per il felice esito della funzione tanto delicata che siete chiamati a svolgere. Imploro l'Onnipotente di sostenere e di accompagnare voi, i vostri cari, i vostri collaboratori e tutti i vostri concittadini, al fine di contribuire all'avvento di un mondo più pacifico e più giusto. Che Dio vi colmi dell'abbondanza delle sue Benedizioni!
(©L'Osservatore Romano - 19 dicembre 2008)


L'anno liturgico narrato da Joseph Ratzinger - Tutte le domande meritano una risposta – Giovedì 18 a Venezia, presso la Scuola grande di San Giovanni evangelista, viene presentato il volume curato da Sandro Magister Omelie. L'anno liturgico narrato da Joseph Ratzinger, Papa (Milano, Scheiwiller, 2008, pagine 280, euro 18). All'incontro partecipa anche il cardinale patriarca di Venezia del quale pubblichiamo l'intervento. - di Angelo Scola – L’Osservatore Romano, 19 dicembre 2008
Penso sia un'esperienza comune di parecchi vescovi e sacerdoti aver visto balenare un'ombra di scetticismo sul volto dell'editore a cui si era appena proposta la pubblicazione di una raccolta di omelie. Non di rado, infatti, il fondato timore di magre vendite mette sulla bocca dell'editore tutta una serie di ragionevolissimi motivi per cui sarebbe molto più opportuno trasformare il contenuto del volume in una raccolta di saggi brevi, togliendo ogni riferimento agli interlocutori e alle occasioni concrete in cui i testi furono pronunciati, senza scartare l'ipotesi - ovviamente ritenuta di gran lunga preferibile - di scrivere ex novo un testo più agile e capace di intercettare i famosi "problemi reali" dell'uomo di oggi.
Questa sera invece presentiamo una vera e propria raccolta di testi di predicazione liturgica che, per giunta, si è avuto l'ardire di intitolare Omelie. Ovviamente non sfugge a nessuno l'eccezionalità dell'autore. Pubblicare le omelie di Benedetto XVI/Joseph Ratzinger è un'altra cosa, anche dal punto di vista della resa editoriale.
Ma la ragione profonda di questa sfida dell'editore Scheiwiller è stata ben individuata dall'ideatore e curatore, Sandro Magister. Egli ha identificato come uno degli assi portanti del pensiero del cardinale Ratzinger prima e di Benedetto XVI poi un'affermazione tratta da un celebre intervento dell'allora cardinale sulla catechesi: "Dio è il tema pratico e il tema realistico per l'uomo - allora e sempre".
Una tale affermazione, lungi da implicare una considerazione a-storica dell'umana avventura, pretende di coglierla nel suo aspetto più radicale e quindi critico: la questione del significato e, pertanto, del senso/direzione della storia, del suo destino. La centralità della "questione Dio" per la storia degli uomini accompagna la predicazione di Papa Benedetto e giustifica l'interesse del volume su cui oggi ci chiniamo.
È proprio questa convinzione che guida anche la narrazione. Il vocabolo è nel titolo ed è doppiamente pregnante: l'anno liturgico infatti è l'espressione potente del conversatus est cum hominibus di Dio in Gesù Cristo e la teologia di Ratzinger, feconda confluenza di dogma e storia, è in senso pieno narrazione dell'avvenimento dell'incontro personale con Cristo nella Chiesa. Una narrazione dell'anno liturgico compiuta da Papa Benedetto, a dire il grande interesse di questo volume non solo per i credenti.
La predicazione del Papa, come tutta l'opera del pensatore Ratzinger, è caratterizzata da un profondo teocentrismo. Ma questo termine non può essere adeguatamente compreso se, magari inconsapevolmente, fosse inteso in antitesi con la centralità dell'uomo, della sua storia e di tutta la realtà creata. La centralità di Dio, infatti, lungi dall'andare a detrimento dell'uomo e del cosmo, ne assicura la reale consistenza. Nell'omelia dei Primi Vespri della i Domenica di Avvento, riportata nel volume, dice in proposito il Papa: "Se manca Dio, viene meno la speranza. Tutto perde di "spessore". È come se venisse a mancare la dimensione della profondità e ogni cosa si appiattisse, privata del suo rilievo simbolico, della sua "sporgenza" rispetto alla mera materialità". Il simbolo rimanda al linguaggio cioè alla relazione interpersonale. E il simbolo cristiano, che ha il suo vertice nell'azione liturgica, è incontro, nella persona, tra cielo e terra, tra eterno e tempo. È storia in senso pieno perché è presente inteso come dinamica unità di passato e futuro.
Ma perché "Dio non manchi" è necessario che lo si possa riconoscere, cioè incontrare di persona. Infatti, se è vero che la "grande speranza può essere solo Dio", occorre riconoscere che non parliamo di "un qualsiasi Dio, ma (di) quel Dio che possiede un volto umano: il Dio che si è manifestato nel Bambino di Betlemme e nel Crocifisso-Risorto". È l'evento salvifico di Gesù Cristo, presente nella storia in modo eminente attraverso la liturgia sacramentale ad assicurare che la centralità di Dio non confligge con la centralità dell'uomo-cosmo. Il Dio dal volto umano precede sempre l'uomo - lo aspetta, dice Benedetto XVI - suscitando la sua domanda di salvezza. Di libertà e di felicità potremmo anche dire con le due parole preferite dalla nostra sensibilità di uomini dell'epoca cosiddetta post-moderna. L'invito alla partecipazione alla vita divina è la risposta che fa sorgere la domanda, che scioglie l'enigma dell'uomo senza predeciderne il dramma, come affermava un grande amico del Papa, Hans Urs von Balthasar. ""Sufficiente" è soltanto la realtà di Cristo". Dove il termine "sufficiente" dice l'unico indispensabile. Così il giovane teologo Joseph Ratzinger. Ora, con la sua predicazione da Papa, è permanentemente teso a proporre con umile tenacia la forza onnicomprensiva di questa affermazione, perché "la fede non dev'essere presupposta, ma proposta". Queste parole con cui il teologo basilese von Balthasar aveva voluto ringraziarlo per l'invio di un suo volumetto negli anni del postconcilio, impressionano il nostro autore per il quale centrale è la consapevolezza che il cristianesimo è "l'incontro tra due libertà: la libertà di Dio, operante mediante lo Spirito Santo, e la libertà dell'uomo".
Questo incontro tra la libertà di Dio e la libertà dell'uomo è ben espresso dalla struttura liturgica del destino dell'uomo. Nella solennità dell'Epifania del 2007, Papa Benedetto, parlando del mistero della fedeltà di Dio, affermò con chiarezza che "la Chiesa è, nella storia, al servizio di questo mistero di benedizione per l'intera umanità. In questo mistero di fedeltà di Dio, la Chiesa assolve appieno la sua missione solo quando riflette in se stessa la luce di Cristo Signore, e così è di aiuto ai popoli del mondo sulla via della pace e dell'autentico progresso".
Riflettere la luce di Cristo nel mondo: questo è il dono e il compito che la Chiesa ha ricevuto dal Signore. Dono e compito che, ultimamente, si identificano con la sua santità. Essa è, infatti, anzitutto un dono permanentemente ricevuto dal Signore.
A questo proposito non possiamo dimenticare che il senso originale e primario dell'espressione communio sanctorum - contenuta nel simbolo apostolico - è quello di "comunione nelle cose sante", cioè nei sacramenti. La santità della Chiesa, quindi, è innanzitutto un dono ricevuto. Ecco perché ultimamente non può venire meno.
Ma questa santità è anche compito per i cristiani. Per indicare la necessaria implicazione di dono e compito, Papa Benedetto nella bella omelia della Missa in Cena Domini, usa una delle sue geniali espressioni di disarmante semplicità ed efficacia. Egli, parlando del dono della riconciliazione che deve diventare pratica di perdono reciproco, afferma: "Il Signore allarga il sacramentum facendone l'exemplum".
La santità della Chiesa riverbera in tal modo sul volto del cristiano, del santo (i "cieli" come ricorda Benedetto XVI citando Agostino), la cui libertà si è coinvolta in modo deciso e permanente con Gesù Cristo in forza del dono dello Spirito. La predicazione del Papa abbonda di riferimenti ai santi. Emblematiche, in questo senso, sono le catechesi che ha voluto dedicare prima agli apostoli e poi ai padri della Chiesa. In questo modo il Papa riprende e approfondisce la grande idea di Guardini che la Chiesa deve rinascere dalle anime, dalle persone. Decisiva è per l'uomo di oggi la domanda "Chi è la Chiesa?".
Più di trent'anni fa diceva in proposito Joseph Ratzinger nel volume Dogma e predicazione: "Chi incomincia a considerare la vita dei santi, trova un'inesauribile ricchezza di storie che sono più di un esempio omiletico: testimoniano l'efficacia della chiamata di Cristo in millenni colmi di sangue e di lacrime. Solo se riscopriremo i santi, ritroveremo anche la Chiesa". Ma i santi, nella vita della Chiesa, non sono solo la documentazione della potenza della grazia accolta dalla libertà. Essi sono anche il criterio, il canone, per l'approfondimento dei misteri della fede. Il lettore delle omelie di Papa Ratzinger si imbatte a ogni piè sospinto in riferimenti e citazioni di grandi santi, che illuminano la profondità del mistero: Ireneo, Agostino - la cui presenza è imponente - Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo, Cromazio di Aquileia, Paolino di Aquileia, Germano di Costantinopoli, Anselmo di Canterbury. I santi dicono, meglio di qualsiasi altra realtà, che "la Chiesa è viva", come affermò il Papa nell'omelia della Santa Messa di inizio pontificato in piazza San Pietro. I santi, in un certo senso, sono l'espressione della "mia memoria della Chiesa", perché "la Chiesa come memoria, è (...) il luogo di ogni fede. Essa sopravvive ai tempi, con degli alti e bassi, sempre però come lo spazio comune della fede". I santi sono i testimoni che nutrono il presente dell'umanità.
Questa attenzione al soggetto Chiesa che celebra la liturgia, che interpreta la scrittura, che contempla e adora i misteri della fede, spiega anche i pressanti richiami alla conversione presenti nelle omelie di Papa Benedetto. In quella della Veglia Pasquale - madre di tutte le veglie e celebrazioni liturgiche - il Papa dice: "Conversi ad Dominum: sempre di nuovo dobbiamo distoglierci dalle direzioni sbagliate, nelle quali ci muoviamo così spesso con il nostro pensare e agire. Sempre di nuovo dobbiamo volgerci verso di Lui, che è la Via, la Verità e la Vita. Sempre di nuovo dobbiamo diventare dei "convertiti", rivolti con tutta la vita verso il Signore. E sempre di nuovo dobbiamo lasciare che il nostro cuore sia sottratto alla forza di gravità, che lo tira giù, e sollevarlo interiormente in alto: nella verità e nell'amore". La liturgia, l'opera di santificazione che lo Spirito compie nella Chiesa, ha come orizzonte l'adorazione di Dio e la conversione dell'uomo. Una conversione che è determinata dal richiamo al "volgersi della nostra anima verso Gesù Cristo e così verso il Dio vivente, verso la luce vera".
Potremmo così domandarci se esista ed eventualmente quale sia la chiave unitaria di lettura delle omelie pubblicate in questo volume. Tale chiave, ovviamente, dovrebbe tener conto degli altri pronunciamenti del Papa, poiché il suo ministero pastorale non è divisibile.
In altra sede ho affermato che il filo rosso che percorre l'insegnamento di Benedetto XVI, e in esso rientrano le omelie, può essere identificato con il titolo della sua prima enciclica: Deus caritas est. Il Papa mostra che tutte le domande che premono oggi sul cuore dell'uomo meritano una risposta. Egli non cessa di richiamare la sete di verità di ogni uomo e la capacità dell'umana ragione di perseguire la risposta. I testi qui pubblicati alludono spesso, nell'ovvio rispetto della loro specifica natura, non solo alle odierne brucianti questioni antropologiche, ma anche a quelle sociali e cosmologiche. Storia e destino dell'uomo nell'orizzonte del Dio/destino che si è compromesso con la storia sono continuamente intrecciate. Ma la domanda delle domande, quella che la ragione non cessa di porre, in modo più o meno elaborato, è la domanda sull'amore. Non soprattutto la domanda astratta circa la natura dell'amore, ma quella concreta e personale, che ferisce l'esperienza del singolo: "Alla fine, qualcuno mi ama?".
A questa domanda radicale risponde Dio stesso rivelando il Suo nome: "Gesù ci ha manifestato il volto di Dio, uno nell'essenza e trino nelle persone: Dio è Amore, Amore Padre, Amore Figlio, Amore Spirito Santo (...) Dal nome di Dio dipende la nostra storia; dalla luce del suo volto il nostro cammino".
L'esperienza dell'amore sgorga per ciascuno di noi da quella dell'essere amati che permanentemente ci precede e ci costituisce. Una precedenza che vive eucaristicamente nella Chiesa. Infatti è proprio nell'Eucaristia che il Dio che ci ha amato per primo viene permanentemente al nostro incontro. E incorporandoci sacramentalmente a Lui ci fa partecipi della sua dinamica di donazione: "Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Lògos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione" (Deus caritas est, 13). Così l'esperienza dell'essere amati genera la possibilità di amare, espressione compiuta di un cuore convertito e in cammino verso il Signore. Nel celeberrimo volume Introduzione al Cristianesimo Joseph Ratzinger afferma con chiarezza che "il Lògos dell'universo, il pensiero creativo fontale è al contempo amore; anzi, è questo pensiero stesso che si estrinseca in maniera creativa, perché in quanto pensiero è amore, è in quanto amore è pensiero. Sussiste una primordiale identità fra verità e amore". Il Dio Amore, che è la verità chiede all'uomo che la sua libertà si esprima in grado massimo nell'adorazione. Dice il Papa: "Adorare il Dio di Gesù Cristo, fattosi pane spezzato per amore, è il rimedio più valido e radicale contro le idolatrie di ieri e di oggi. Inginocchiarsi davanti all'Eucaristia è professione di libertà". Sono parole che ricordano quelle del gesuita tedesco Alfred Delp, massacrato dai nazisti, citate dall'allora cardinale Ratzinger nella basilica di San Giovanni in Laterano: "Il pane è importante; la libertà è più importante, ma la cosa più importante di tutte è l'adorazione".
Annota, a proposito dei grandi oratori romani, Leopardi nello Zibaldone: "Osservate come l'eloquenza vera non abbia fiorito mai se non quando ha avuto il popolo per uditore. Intendo un popolo padrone di sé, e non servo, un popolo vivo e non un popolo morto". Le omelie di Papa Benedetto hanno certamente come interlocutore un simile popolo e non solo il popolo dei fedeli. La commovente dedizione e decisione con cui il Papa prende sul serio questo popolo spiega lo spessore della sua predicazione e lo straordinario ascolto che riceve da parte di tutti, giovani e adulti, semplici ed eruditi, dai bambini fino agli intellettuali e ai capi di Stato.
(©L'Osservatore Romano - 19 dicembre 2008)


18/12/2008 15.49.15 – Radio Vaticana - I vescovi indiani: le violenze anticristiane sono atti di terrorismo
Gli attacchi contro i cristiani in India devono essere riconosciuti dal governo come veri e propri atti di terrorismo. Lo chiedono i vescovi indiani commentando l’approvazione ieri di due progetti legge sul tema. Secondo i presuli la definizione di terrorista che essi propongono è limitata e dovrebbe invece aderire a quella indicata nel “National Security Guard Act” del 1986, che definisce “terrorista” chi compie “atti mirati a intimidire il governo, seminare il terrore fra la gente o disturbare l’armonia sociale” utilizzando “bombe, dinamite o alte sostanze esplosive o infiammabili, armi da fuoco o altri strumenti che siano in grado di procurare la morte o distruggere proprietà” essenziali “per la vita della comunità”. Una definizione che – sottolineano i vescovi - corrisponde alle violenze dei fondamentalisti indù contro i cristiani in Orissa. Inoltre, nel rispetto delle vittime delle persecuzioni e degli attacchi terroristici di Mumbai, i presuli chiedono di festeggiare il Natale nel Paese con sobrietà, evitando le ostentazioni. Al Forum Cristiano Unito per i Diritti Umani del Gujarat (GUCFHR), riunitosi ad Ahmedabad il 15 dicembre, i presuli hanno lanciato un appello ai fedeli e alle istituzioni affinché le festività natalizie, pur rimanendo “un evento gioioso”, siano celebrate attenuando le “manifestazioni esteriori di gioia”, “in solidarietà con le vittime degli attacchi terroristici e con i dolorosi avvenimenti in Orissa e in altre zone del Paese”. I presuli hanno inoltre chiesto di “risparmiare denaro da utilizzare per alleviare le sofferenze umane”, mentre in un documento redatto in conclusione dell’incontro il GUCFHR ha ribadito che il Natale ci ricorda che Dio è presente “in ogni essere umano, indipendentemente dal ceto sociale, dalla religione e dalla razza”. Un invito che appare stringente nel Paese dove non si placano le violenze antireligiose. Risale allo scorso 16 dicembre il rapimento di un leader cristiano molto noto e stimato nel distretto di Kandhamal, in Orissa. L’uomo – riferisce Asianews - è stato aggredito da un gruppo di 50 persone mentre era in compagnia figlio, che invece è riuscito a scappare. Padre Ajay Singh, dall’Arcidiocesi di Cuttack-Bhubaneswar, fa sapere che dopo le violenze scatenate in agosto dall’uccisione dello Swami Saraswati nel Paese “la situazione non è cambiata molto e nei campi profughi l’inverno sta rendendo le condizioni di vita ancor più difficili. Le persone raccolte nei centri sono 11mila circa”. Nonostante gli inquirenti abbiano indicato nei movimenti maoisti i responsabili dell’assassinio, gli estremisti indù continuano ad accusare i cristiani e minacciano proteste nel giorno di Natale. Il governo ha risposto vietando ogni manifestazione mentre la polizia ha già fermato sette persone. (C.D.L.)


SCUOLA/ 1. Ministro Gelmini, ma dov’è finita la riforma Moratti? - INT. Giuseppe Bertagna - venerdì 19 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Come giudicare i decreti attuativi sulla scuola superiore approvati ieri in Consiglio dei ministri, ma validi a partire dal 2010? Secondo Giuseppe Bertagna, ordinario di Pedagogia all’Università di Bergamo, e una delle “menti” della Riforma Moratti, per parlare di questo «bisogna saper distinguere fra il dito e la luna».
In che senso, professore, distinguere tra il dito e la luna?
Il dito è l’aspetto contingente: se anche dal ministero fossero riusciti ad attuare da subito il riordino del secondo ciclo, sarebbe comunque stato impossibile farlo a gennaio per poi scegliere a febbraio. Quindi il fatto di essere arrivati a questo punto denota una notevole inadeguatezza strutturale dell’amministrazione e dell’apparato ministeriale, che dovrebbe dirsi “tecnico”, ma che evidentemente non lo è. Invece la luna è che cosa significa questo anno di rinvio: può essere una delle peggiori avversità, oppure può essere un’opportunità. Dipende da cosa si intende fare.
Ci spieghi: in che senso il rinvio può essere un’avversità?
È tale se non si ha ben presente la reale posta in gioco. Partiamo dall’inizio: noi abbiamo ereditato l’impostazione della scuola secondaria dal fascismo, non da Gentile. È il fascismo che ha statalizzato l’istruzione tecnica, e che aveva cominciato anche a statalizzare l’istruzione professionale. La Repubblica ha continuato la logica del fascismo e ha del tutto statalizzato anche l’istruzione professionale. Questo è accaduto a dispetto del dettato costituzionale, in cui era invece ben presente e chiara un’impostazione diversa: la Costituzione affidava l’istruzione professionale alle Regioni. Se non che, per un cattivo accordo tra Togliatti e la Dc (accordo per cui Sturzo criticò pesantemente De Gasperi), le Regioni furono inserite solo teoricamente in Costituzione, ma fu rinviata la legge che le rendesse attuative.
Poi però ci siamo arrivati all’istituzione delle Regioni.
Le Regioni, scandalosamente, sono entrate in vigore nel ’70, sono state fatte funzionare nel ’74, e per quanto riguarda la scuola nel ’76. Ma a quel punto si inventò il meccanismo perverso della distinzione tra istruzione professionale, statale, e formazione professionale, regionale: dove la polpa era dello Stato, e le frattaglie erano delle Regioni. Così è rimasto intatto il monopolio statale, secondo lo schema tradizionale: lo Stato fa i licei per i dirigenti, gli istituti tecnici per i quadri, l’istruzione professionale che dà le qualifiche professionali più alte, mentre le Regioni fanno la formazione per coloro che falliscono negli altri percorsi.
E questa impostazione generale statalista non è mai stata messa in discussione?
La prima volta che si è tentato di scardinare questa impostazione è stato con la riforma Moratti. Lì si sono accettate le sfide della Costituzione del 2001, affidando istruzione e formazione professionale alle Regioni. Lo schema era questo: esiste un liceo in otto indirizzi (anche se poi nei Decreti diventarono otto licei) che costituisce il canale dell’istruzione, sotto la norma generale dello Stato; accanto a questo esiste l’istruzione e la formazione professionale, sotto la norma delle Regioni, pur rispettando i livelli essenziali stabiliti dallo Stato. I due percorsi dovevano essere di pari dignità educativa e culturale, tra loro interconnessi; e a tal proposito erano previste le possibilità di passaggio da un canale all’altro attraverso un percorso personalizzato.
Qual è stata la reazione di fronte a questa nuova impostazione, che scardinava l’impianto statalista?
Contro questa idea si è scatenata la più grande e ideologica interdizione che la storia repubblicana ricordi. Già questo arrivò ad incidere sui decreti attuativi, che in parte non erano coincidenti con questo disegno, soprattutto per quanto riguardava l’idea originaria di arrivare a percorsi professionali di 9 anni, vera e propria alternativa alla laurea. Ma poi il colpo decisivo fu dato dal ministro Fioroni, il quale ripristinò la statalizzazione completa della scuola secondaria superiore. Fu confermata la formazione professionale regionale come ospedaliera e residuale, ricettacolo dei feriti e dei morti degli altri percorsi scolastici. Ma, ancor più grave, fu confermato il pregiudizio ideologico per cui chi studia non lavora, e chi lavora non deve studiare. Il paradosso è che questo passò come una “cosa di sinistra”, mentre non era altro che il ripristino dell’impianto fascista.
E dopo Fioroni è arrivata la Gelmini, che prospetta un piano per le superiori, ma lo rinvia al 2010. Ritorniamo al punto di partenza: è un’avversità o un’opportunità questa decisione?
Il fatto che fino ad ora l’impianto della riforma Moratti non sia stato ripreso, e che anzi la Gelmini abbia detto più volte di volersi rifare al lavoro di Fioroni, proseguendo sulla stessa linea, mi porta francamente a dire che è un’avversità. L’alternativa sarebbe quella di rendersi conto, nell’arco di questo anno di tempo, della fondamentale importanza culturale della riforma Moratti. Tra l’altro proprio in un momento di profonda crisi economica, generata dall’eccessiva fianziarizzazione dell’economia, sarebbe vitale ripartire da quell’impostazione educativa e culturale: concepire l’economia non solo come sviluppo di modelli matematici astratti, recuperare e valorizzare il lavoro come rapporto con la realtà, e quindi la formazione professionale come polmone del rapporto con il territorio, con le associazioni professionali, con le imprese, con l’economia reale. Se succedesse questo, allora l’anno di tempo diventerebbe un’opportunità.
Ma non pare che lei creda molto a questa seconda possibilità…
Personalmente non credo che le motivazioni del rinvio siano queste. Le vere motivazioni mi pare che siano da ricercare innanzitutto nell’inadeguatezza tecnica di cui dicevo all’inizio. I quadri orari che sono girati in questo periodo sono raccapriccianti, perché non c’è una filosofia, non c’è un’unità, e non si possono costruire i quadri orari come fossero dei “Lego”. Non si capisce poi che fine faccia l’articolazione che era presente nel decreto 226/05 tra discipline obbligatorie e discipline opzionali. E nemmeno l’autonomia si capisce come venga trattata. Manca insomma la filosofa, manca il progetto: e in particolare questo lo si vede negli istituti tecnici e professionali, perché pur di mantenere allo Stato gli istituti professionali si fanno dei doppioni dell’istruzione tecnica che non hanno giustificazione. Ciò detto, lasciamo aperta comunque una porta: se il rinvio dipende dal voler aprire una nuova stagione, allora può andar bene. Ma se è veramente così, allora mettiamo a punto una strategia di dibattito aperto, a livello educativo e culturale, portando avanti proposte autentiche. Un dibattito che deve iniziare subito, perché un anno passa alla svelta. Se invece è successo solo che non si era pronti, e che non si è stati in grado di dominare i litigi per le scelte sull’ora in meno e l’ora in più, allora vuol dire che come Paese dobbiamo interrogarci seriamente, sia su cosa ci aspettiamo dalle scelte educative, sia se abbiamo intenzione di uscire o no dalla profonda crisi in cui ci troviamo.
(Rossano Salini)


TENDE/ Il metodo dei Fatti - Emilio Colombo - venerdì 19 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
La campagna delle Tende di AVSI ha risvegliato l’attenzione al tema dello sviluppo e della povertà, ultimamente trascurato dai media e dall’opinione pubblica per far spazio alla crisi finanziaria.
Gli economisti hanno a lungo dibattuto su quale sia l’approccio più efficace per aiutare i paesi poveri a crescere e a uscire dallo stato di notevole sottosviluppo a cui sembrano da anni condannati.
In questo dibattito si sono contrapposte due posizioni.
Da una parte c’è la posizione di persone come Jeffrey Sachs, della Columbia University, che ritengono che i paesi più poveri necessitino di una serie di aiuti e di piani più o meno grandiosi che mobilitino le risorse necessarie per intraprendere una serie di riforme e di iniziative. Esse vanno dalla lotta alla malaria, all’aids e alle altre malattie, al miglioramento del sistema educativo, alle riforme istituzionali ecc. Questo approccio potrebbe essere definito come top down dato che le risorse e le iniziative partono dall’alto, messe a disposizione e in pratica dai generosi donors internazionali: i paesi avanzati e le istituzioni multilaterali (Nazioni Unite, Banca Mondiale ecc.)
Dall’altra parte c’è la posizione di economisti come William Easterly della New York University che ritengono che le iniziative di aiuto ufficiale allo sviluppo siano sostanzialmente inefficaci perché frutto di un approccio statalista/assistenzialista allo sviluppo che distorce fortemente gli incentivi. La risposta secondo questo approccio è di favorire le iniziative di sviluppo dal basso (bottom up), dato che gli uomini rispondono agli incentivi economici una volta che questi sono correttamente disegnati.
Nonostante le due posizioni abbiano un approccio diametralmente opposto nell’affrontare la problematica dello sviluppo e soprattutto nel disegnare le politiche economiche appropriate, essi condividono una stessa posizione antropologica che considera l’uomo secondo una logica meccanicistica.
Infatti sia che si consideri l’uomo come passivo soggetto ricettore di flussi di aiuti di varia natura, sia che lo si ritenga un individuo razionale che risponde ad appropriati incentivi economici, ultimamente si implica una visione meccanicistica dell’uomo che si ferma al tentativo di soddisfarne i bisogni.
Le testimonianze offerte dalle iniziative di AVSI suggeriscono che c’è una terza via allo sviluppo, più adeguata alla persona e anche più efficace come dimostrano i successi dei progetti di AVSI.
Questa terza via non si ferma al bisogno ma va alla sua radice riconoscendo che l’uomo è povero se non è in grado di soddisfare i propri desideri più profondi, originari e costitutivi (il desiderio di verità, di giustizia, di bellezza ecc.).
Non è un caso che il titolo della campagna delle tende di quest’anno sia “Lo sviluppo ha un volto”. Come è possibile avere un approccio più adeguato all’uomo nello svolgere un compito difficile come quello della cooperazione per lo sviluppo?
E’ possibile fare questo passo se nell’operare quotidiano si utilizza, utilizzando una espressione cara a Don Giussani, una ragione affettivamente impegnata, perché riconosce che la persona che sto aiutando, pur nella sua condizione di degrado, ha ultimamente lo stesso mio desiderio di verità e di giustizia.
Operativamente ciò significa partire dal presupposto che il valore della persona umana non può essere ridotto nemmeno dalle condizioni di estremo disagio e povertà come quelle riscontrate nei paesi dell’Africa Sub-sahariana o dell’America centro meridionale. La scommessa principale di AVSI è stata dunque la valorizzazione di tutte le esperienze esistenti offerte dalla comunità locale e principalmente dai suoi corpi intermedi che costituivano un primo tentativo di risposta ai bisogni esistenti. “Partire dalla realtà” è già di per sè un’azione educativa che testimonia come proprio le persone più povere e disagiate possono essere protagoniste del cambiamento. E’ scommettendo sulla loro libertà che si rendono i poveri protagonisti dello sviluppo. Due conseguenze discendono da questo approccio: la prima è che le iniziative di AVSI non sono mai fine a se stesse. Esse sono il seme da cui nascono numerose altre iniziative proprio perché, come è accaduto nell’iniziativa di Ribeira Azul in Brasile, partire dalla realtà significa sì realizzare le case per le persone che vivevano su palafitte fatiscenti, ma anche rendersi conto della loro esigenza educativa ed attivarsi per la realizzazione di asili scuole ecc. La seconda conseguenza è che i progetti di AVSI, rendendo la persona protagonista dello sviluppo, risultano sostenibili nel tempo dalla comunità locale superando il limite principale di molti progetti di aiuto allo sviluppo che, una volta compiti, non resistono alla prova del tempo.


SCUOLA/ 2. Valutazione: un sistema per incentivare, non per punire - INT. Andrea Ichino - venerdì 19 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
«Dalle comparazioni internazionali non emerge un quadro positivo della scuola italiana. Anche le scuole che nelle indagini Ocse-PISA hanno ottenuto i risultati migliori si collocano comunque nella media dei paesi migliori». Ma questo, secondo Andrea Ichino, docente di Economia Politica all’Università di Bologna e tra gli estensori del documento sulla valutazione preparato per l’Invalsi, non può essere l’unico motivo che ci spinge ad accelerare per valutare il nostro sistema. «Anche a prescindere da questi risultati – spiega Ichino – rimane il fatto che siamo l’unico paese che non ha un sistema standardizzato di valutazione della scuola. Quand’anche le cose andassero bene, rimarrebbe comunque aperta la questione del motivo per cui non dovremmo avere un sistema che ci permetta di fare ancora meglio.
Qual è allora il primo livello su cui intervenire per porre le basi di un sistema di valutazione?
La nostra proposta prende innanzitutto le mosse dal fatto che in Italia non esiste un modo per confrontare le valutazioni che vengono date nelle diverse scuole. Un 90 preso alla maturità in una determinata scuola non è comparabile con un 90 preso in un altro istituto in altra collocazione geografica. Questo è un grande limite, perché non consente di fare alcun tipo di valutazione, in primo luogo per le famiglie, che devono decidere dove mandare i propri figli; poi per gli studenti stessi; infine per le università, che devono poi selezionare chi esce dalle scuole superiori.
Come si attua il processo valutativo?
La valutazione è un processo non da introdurre semplicisticamente e in maniera affrettata, ma un lungo procedimento che deve essere attentamente sperimentato e valutato nei dettagli, prima che venga portato a regime. Questo è il motivo per cui nel nostro documento insistiamo molto sul tempo necessario per attuare questo processo. Ciò detto, i passi che noi proponiamo sono: partire subito con le valutazioni standardizzate per gli studenti; partire subito anche con la costituzione di un anagrafe scolastica di tutti gli studenti e gli insegnanti (cosa che in Italia manca, e non si capisce il perché); poi, arrivare pian piano a sperimentare e costruire un sistema che abbia l’obiettivo di aiutare gli insegnanti a capire dove ci sono cose da correggere e migliorare.
Valutare i docenti sembra effettivamente l’aspetto più delicato. Il ministro Berlinguer ci provò, e fu travolto dall’opposizione dei sindacati. È una strada così difficile da attuare?
Non penso che i docenti si vogliano opporre globalmente alla valutazione; io credo anzi che nel mondo della scuola e degli insegnanti ci sia un’enorme domanda di valutazione e di riconoscimento. Abbiamo presentato questo lavoro in alcuni contesti in cui è emerso che esistono tanti insegnanti insoddisfatti del sistema attuale. Anche perché è chiaro a tutti che anche il sistema attuale valuta, implicitamente: garantendo scatti solo per anzianità e uguali per tutti, di fatto premia i peggiori. Quindi mi pare di poter dire che ci sia una forte domanda di valutazione improntata su principi diversi. Il problema è far emergere questo tipo di richiesta. Dopo di che, bisogna anche discutere con il sindacato. Non credo che il sindacato sia per principio attaccato alla valutazione basata solo sull’anzianità. Il metodo giusto da seguire sarà quello di sperimentare insieme con cautela, sapendo bene che i sistemi di valutazione sono molto pericolosi se usati male. Non bisogna forse commettere l’errore fatto, o a cui è stato forzato, il ministro Berlinguer, e cioè di fare tutto un po’ rapidamente, partendo subito in quarta con una proposta senza prima sperimentarla.
Come fare allora per introdurre correttamente un sistema di valutazione anche per i docenti?
Innanzitutto tener conto del fatto che un sistema di valutazione se vuol funzionare bene non può essere fatto sul passato. Deve essere un sistema in cui si dichiarano i criteri con cui, dal quel momento in poi, i docenti saranno valutati, dando il tempo necessario per mettere in atto gli strumenti necessari per ottenere una buona valutazione. Non si può dire improvvisamente: ora vi valutiamo su ciò che avete fatto negli ultimi cinque anni. I docenti devono essere prima ben informati su ciò su cui saranno valutati, e dovranno concordare che quella sia una valutazione ragionevole. Dopo di che si può procedere.
Quali possono essere concretamente le conseguenze pratiche, in termini di efficienza, di un sistema di valutazione funzionante?
La nostra proposta si caratterizza per un tentativo, da sperimentare nel concreto, di valutare non i livelli, ma il valore aggiunto. È chiaro che in una scuola di periferia con problemi di integrazione sociale e di background famigliare, i risultati all’uscita non possano essere uguali a quelli di un liceo del centro, con i ragazzi che hanno tutti gli aiuti famigliari possibili. Il nostro sistema di valutazione andrebbe dunque a dare rilievo a tutte queste realtà, che solitamente vengono in qualche modo dimenticate. Ed è soprattutto in questi contesti che possono essere utili i sistemi di valutazione per capire quali sono gli strumenti più efficaci per ottenere il risultato che vogliamo, vale a dire il miglioramento. D’altronde per valutare il prodotto degli insegnanti è difficile pensare a una valutazione diversa da quella dell’apprendimento degli studenti. Quindi la prima conseguenza concreta è proprio quella di capire quali sono gli strumenti da utilizzare per ottenere un miglior apprendimento da parte dei ragazzi.
Altre conseguenze a livello di sistema?
Le altre conseguenze sono più di natura politica, e riguardano l’allocazione dei fondi. Da questo punto di vista si ha spesso l’idea preconcetta che la valutazione debba solo servire per premiare e dare più risorse a chi ha fatto meglio. Questo è sicuramente vero per la funzione premiante e incentivante: una volta che la decisione politica è ottenere certi risultati riguardo al livello di apprendimento è giusto dare incentivi alle persone per andare in quella direzione. Ma poi c’è anche un uso diverso: se io vedo che in una certa realtà le cose non funzionano, magari è proprio in quella realtà che andrò a concentrare maggiori risorse. Dove ci sono difficoltà maggiori, lì posso decidere di intervenire: questa è una decisione importante, da prendere a livello di sistema. E per capire questo devo per forza valutare. Ma valutare non significa che chi va male necessariamente chiuderà. Una cosa importante che citiamo nel rapporto è il fatto che il sistema inglese ha molte scuole che in un dato anno sono classificate come le migliori nella classe A, mentre in anni precedenti erano addirittura nell’ultima classe. Sarebbe dunque sbagliato se l’opinione pubblica e gli insegnanti pensassero a un sistema – mi si permetta il paragone – come quello del campionato di calcio italiano, in cui in cima ci sono sempre le stesse squadre. Il paragone giusto sarebbe l’Nba americana, in cui abbiamo una rotazione enorme di squadre alla testa della classifica. E questo può avvenire solo in un sistema in cui contano gli incentivi.


RECENSIONE/ La guerra di Clemente Rebora. Tra melma e sangue l’attesa di Dio - Clementina Arcebi - venerdì 19 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Nelle edizioni Interlinea di Novara è da poco uscita, a cura di Valerio Rossi, una raccolta delle poesie, delle prose liriche e delle lettere che Clemente Rebora scrisse tra il 1914 e il 1917, gli anni della prima guerra mondiale. Il titolo, Tra melma e sangue, è un verso della famosa lirica Viatico, una delle più intense di questa antologia.
Preceduto da un’introduzione di Giovanni Tesio, il libro è diviso in due sezioni.
La prima raccoglie poesie e prose liriche che si riferiscono al clima di imminenza della guerra e poi all’esperienza di partecipazione diretta al conflitto. Ogni testo è preceduto da un’introduzione critica, con l’indicazione delle pubblicazioni precedenti, ed è seguito da un ricco apparato di note.
La seconda sezione raccoglie le lettere scritte da Rebora, negli stessi anni, a familiari e amici ed è conclusa, intelligentemente, dalla lettera a Giovanni Capristo del 1925.
Segue un’appendice che riporta alcuni documenti relativi al Rebora di quel periodo.
Il lettore può così seguire il cammino umano e poetico che portò il poeta da una sofferta e drammatica partecipazione alla guerra (culminata nell’episodio che segnò forse per sempre la sua salute, lo scoppio di un obice 305 accanto alla sua trincea, pochi giorni prima del Natale 1915), alla maturazione profonda della sua conversione, che, come è noto, sfociò nella decisione di diventare sacerdote.
Le composizioni confermano il carattere espressionistico della ricerca linguistica reboriana: versi brevi, preferenza per suoni aspri, frequenti allitterazioni.
I primi scritti comunicano un clima di tensione e di presagio: si veda per esempio la prima poesia in antologia, Notte a bandoliera, del marzo 1914:
Ossessïone d’attesa,
truce allegria sospesa,
fischi strisciati in domanda,…
Poi prevale l’orrore della guerra, che nelle lettere viene definita tremendo festino di Moloc, stanza dell’ammazzatoio di Barbableu (p. 180), dove non è che mari di fango e bora freddissima e lui stesso si sente fatto aguzzino carnefice. Il male della guerra è qualcosa di cieco e impersonale, che travolge tutto e tutti in un nonsenso:
Si va per la strada profonda spastata, ingoiata. Confusion d’ordine; file perdute: barcollii di volumi spossati ricurvi, spossati e cacciati nel buio dal flutto dei morti che non è libero ancora, che non sarà libero mai, ma non sa, non sapeva, e marcia e si posa e s’apposta, perché così vuole qualcuno o qualcosa, perché si deve, si fa, non si sa – per contro un nemico, il nemico ch’è fuori, il nemico che è noi. (Senza fanfara).
Eppure rimane insopprimibile la sua esigenza illuminatrice… in questo momento in cui tutti intuiscono cosa significhi il mondo (p. 173) e, ormai fuori dal conflitto, in una gita in montagna, si fa viva la sua così tipica disposizione di attesa:
Tutto ascendeva,
congiunto, discosto,
i monti e la sera,
presenza del cuore nascosto,
lontananza del fior sullo stelo.
Al varco dell’ombra e del cielo
Scoprivo lo spazio alle cime,
che hanno confine
ov’è l’inizio più vero.
(Ca’ delle sorgenti)
Molto opportunamente la seconda sezione si conclude con la lettera a Giovanni Capristo, in cui Rebora, vincendo il suo consueto riserbo, traccia la sua autobiografia ideale di quegli anni. Il calvario di Podgora, egli scrive scegliendo certo accuratamente le parole, fu per me un soccombere sotto la croce. (…) Non avendo certezza religiosa della vita, (…) mi sentii scaraventato d’improvviso nella prova della nostra anima unanime (…). E da allora cominciò la mia conversione (…). Cerco di diventare italiano per essere umano, ed essere umano per diventare divino. E questo è il travaglio segreto di tutti noi, operai della medesima opera, da Gesù in poi. (p. 204 e ss.).


DIGNITAS PERSONAE/ Le ragioni per cui la scienza non può opporsi all’Istruzione della Chiesa
Nicolás Jouve de la Barreda
venerdì 19 dicembre 2008

La Congregazione per la Dottrina della Fede, in virtà della missione dottrinale e pastorale della Chiesa, ha sentito il dovere di mettere in chiaro la posizione della Chiesa Cattolica in tema di Bioetica, rispetto a documenti precedenti, quali l’Istruzione Donum Vitae (22 febbraio 1987).
Nella Dignitas Personae si cerca di riaffermare la dignità e i diritti fondamentali e inalienabili di ogni essere umano dalle prime fasi della sua esistenza e di esplicitare i requisiti di protezione e rispetto che il riconoscimento di tale dignità esige.
Questa Istruzione si spiega per due ragioni: le scoperte scientifiche sulle nuove tecnologie che riguardano la vita umana e la mancanza di un’informazione veriteria della sua trascendenza sia rispetto ai risultati tecnici reali sia a rispetto agli aspetti etici.
Quanto al contenuto, il documento è un trattato di bioetica dalla prospettiva della morale cristiana, che cerca di dare un orientamento e una corretta interpretazione dei temi che comportano un’azione a favore o contro la vita umana. Si tratta di mettere in risalto l’esattezza e la comprensione dei temi trattati e la perfetta conoscenza delle scoperte scientifiche e tecniche nel campo della biologia, della biotecnologia e delle applicazioni biomediche rispetto alla vita umana.
Quanto alla forma, il documento tratta in modo ordinato e comprensivo tutti gli aspetti pertinenti alle prospettive che offrono queste aree scientifiche in tre grandi parti: il concepimento dell’essere umano dal punto di vista antropologico, teologico ed etico; i nuovi problemi relativi alla procreazione; le nuove proposte terapeutiche che implicano la manipolazione di embrioni o del patrimonio genetico umano.
Le scoperte scientifiche nel campo della Genetica, della Biologia Cellulare, dell’Embriologia, della Genetica dello Sviluppo e della Genomica non lasciano dubbi sul fatto che l’inizio della vita umana avviene nel momento del concepimento. Ciò è avvallato dai dati della Genetica (il momento in cui si costituisce la singola identità genetica), della Biologia Cellulare (gli esseri pluricellulari mantengono in tutte le cellule una copia della stessa informazione genetica dello zigoto), l’embriologia (lo sviluppo avviene senza soluzione di continuità), della genetica dello sviluppo (lo sviluppo obbedisce a un programma di attività genetiche stabilito al momento della fecondazione e che si sviluppa nello spazio e nel tempo) e della genomica funzionale (il genoma è il grande centro coordinatore dello sviluppo di ogni essere vivente. Il genoma individuale, costituito nel momento della fecondazione ci accompagna durante tutta la vita e da esso dipende l’ontogenia).
La Dignitas Personae prende in considerazione questi progressi ed è in linea con le scoperte scientifiche recenti sull’inizio della vita umana, che d’altra parte confermano i tradizionali punti di vista della Chiesa. Essendo concorde con questi progressi non c’è nessuno scontro o contraddizione tra Scienza e Religione in materia di inizio della vita umana.
Non ci sono salti qualitativi nella costituzione genetica, né pertanto nella condizione umana, dal momento della fecondazione fino alla morte. L’embrione è la prima tappa della vita umana che merita di essere qualificato come essere umano e l’essere umano è immutabile nella sua identità genetica lungo l’arco della sua vita. Per questo, dal punto di visto della Biologia, non ci sono argomenti per mettere in discussione il fatto che la vita umana ha la stessa intensità in tutte le sue tappe e, coerentemente con questo dato della scienza, il documento pone la domanda: come un individuo umano potrebbe non essere una persona umana?
La conclusione logica è che l’essere umano deve essere rispettato e trattato con la dignità propria della persona dall’istante del suo concepimento e, per questo, a partire da quel momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, principalmente il diritto inviolabile alla vita di ogni essere umano innocente. La Chiesa “scommette” giustamente sulla protezione della vita umana dal concepimento alla morte naturale.
Un principio fondamento della Chiesa è che la fede non solo accoglie e rispetta ciò che è umano, ma lo purifica anche, lo eleva e lo perfeziona. In questo senso, il documento distingue la dignità speciale della vita umana, che possiede una vocazione eterna, dal riconoscimento del suo carattere sacro. È a a partire dal legame delle dimensioni umana e divina che meglio si capisce il perché del valore inviolabile dell’uomo. Un valore che si deve applicare indistintamente a tutti; solo per il fatto di esistere, ogni essere umano deve essere pienamente rispettato. Perciò, nel documento si afferma che sono da eliminare i criteri di discriminazione della dignità umana basati sullo sviluppo biologico, psichico, culturale o sullo stato di salute degli individui.
Di fronte alle scoperte delle tecnologie relative alla riproduzione, per ciò che concerne la fecondazione artificiale e la procreazione assistita e tutte le loro derivazioni, la Chiesa ricorda che il valore etico della scienza biomedica si misura con riferimento tanto al rispetto incondizionato dovuto a ogni essere umano, in tutti i momenti della sua esistenza, quanto alla tuttela della specificità degli atti personali che trasmettono la vita.
Da ciò si capisce che l’orgine della vita umana ha il proprio autentico senso naturale nel matrimonio e nella famiglia, come frutto di un atto che esprime l’amore reciproco tra l’uomo e la donna, e si afferma che una procreazione realmente responsabile verso il nascituro è frutto del matrimonio. In questo senso va inteso il rifiuto di tutte le tecniche di fecondazione artificiale eterologa e omologa che sostituiscono l’atto coniugale. In tali casi si concepisce il figlio come un prodotto della tecnologia. Tuttavia si ritengono ammissibili le tecniche che si configurano come un aiuto all’atto coniugale e alla sua fecondità, così come tutti gli interventi che hanno la finalità di eliminare gli ostacoli che impediscono la fertilità naturale.
La Chiesa riconosce la legittimità del desiderio di avere un figlio e comprende le sofferenze dei coniugi afflitti dal problema dell’infertilità. Con il fine di curare i problemi d’infertilità e soddisfare i desideri di avere un figlio, la Dignitas Personae promuove l’adozione e le ricerche destinate alla prevenzione della sterilità.
Coerentemente con le scoperte della Biologia, il documento sostiene che l’embrione non è un semplice agglomerato di cellule, ma una vita umana nelle sue prime fasi di sviluppo. In questo senso risulta una contraddizione affermare scientificamente che le tecniche di fecondazione in vitro possono essere accetate perché esiste il presupposto che l’embrione non merita pieno rispetto in confronto a un desiderio che va soddisfatto.
In questo senso, il Magistero della Chiesa condanna l’uso puramente strumentale degli embrioni e considera contrario all’etica la crio-conservazione degli embrioni, il loro utilizzo ai fini di ricerca e la loro distruzione per l’estrazione delle cellule embrionali madre. La cosa certa è che il processo di congelamento è traumatico per gli embrioni, con un rischio di morte intorno al 30%. Questa tecnologia presuppone l’abbandono a un destino incerto delle vite cosi prodotte, essendo molto probabile la loro morte.
Sebbene non si sia arrivati a un registro degli embrioni congelati, nonostante si tratti di un obbligo stabilito dalla legge, si stima che solamente in Spagna, dacché è stata data l’autorizzazione all’uso di queste tecniche, siano congelati oltre 200.000 embrioni.
Nel documento si evidenzia la mancanza di soluzioni per le migliaia di embrioni congelati, prodotti nei centri di riproduzione assista, per i quali non esiste una via d’uscita moralmente lecita. Per questo viene fatto un richiamo alla coscienza dei responsabili del mondo scientifico, in particolare ai medici, perché si arresti la produzione di embrioni umani.
Coerentemente con il senso della vita umana, il Magistero della Chiesa considera contrari all’etica altri metodi di manipolazione della vita umana o della procreazione, come il congelamento degli ovuli, i metodi contraccettivi destinati a evitare l’impiantamento degli embrioni, l’impianto di più embrioni, la riduzione degli embrioni, la selezione degli embrioni conseguente alla Diagnosi genetico pre-impianto, la clonazione riproduttiva e quella cosiddetta “terapeutica”, così come il trasferimento di nuclei umani in ovociti di animali.
Il documento riflette una situazione reale della diminuzione dell’autentico significato della vita umana, in particolare degli embrioni prodotto con fecondazione in vitro (Fiv). La riduzione degli embrioni è una pratica abortiva che consiste nel ridurre a due, e in alcune circostanze a uno, gli embrioni che in numero superiore vengono impiantati nell’utero, al fine di garantire il buon sviluppo di chi resta ed evitare gravidanze multiple. Si porta a termine mediante avvelenamento con la morte immediata degli embrioni “in più”. Di fatto è un atto abortivo.
Riguardo alla Diagnosi Genetica Pre-impianto (Dgp), il mondo scientifico non accetta il fatto che il metodo venga qualificato come un pratica di tipo eugenetico, per quanto si promuova la selezione degli embrioni in base alle loro qualità genetiche. D’altra parte è una tecnologia molto costosa e ingiusta dato che non arriverebbe ad assere accessibile a ogni economia e di efficacia molto bassa.
La Eshre (European Society for Human Reproduction and Embryology), organismo europeo che riunisce i professionisti della medicina e della biologia della riproduzione, fornisce alcuni dati sulla pratica della Fiv e della Dgp nel perido tra il 2004 e il 2007, provenienti da 45 centri di diversi Paesi europei.
La Spagna compare come uno dei Paesi con più casi di Fiv (oltre 17.000). Rispetto alla Dgp, dei 20.000 embrioni sottoposti a biopsia nell’insieme dei centri europei, ne sono stati trasferiti 2.400, sono nati 479 bambini e si sono contati due erroi diagnostici. Secondo questi dati, solamente il 12% degli embrioni provenienti dalla Fiv e sottoposti alla Dgp sono stati alla fine impiantati (poco più di uno su dieci), e solamente il 20% degli embrioni trasferiti attraverso una biopsia sono arrivati a destinazione. Se consideriamo il numero di bambini nati rispetto al totale degli embrioni sottoposti a biopsia la statistica è ancor meno favorevole, poiché solamente il 2% degli embrioni provenienti dalla Fiv e sottoposti alla Dgp sono arrivati a destinazione. Tutto questo mostra un’autentica crudeltà riproduttiva.
Rispetto alle due modalità di clonazione, la Dignitas Personae segnala la maggior gravità della cosiddetta “clonazione terapeutica”, che presuppone la distruzione degli embrioni, rispetto a quella riproduttiva, che implica l’imposizione arbitraria a un essere umano del patrimonio genetico identico a quello di un’altra persona, che in qualunque caso rappresenta una grave offesa alla dignità del soggetto clonato e all’uguaglianza fondamentale tra gli uomini.
L’Istruzione Dignitas Personae vede la scadenza morale e l’inefficacia diagnostica della “clonazione terapeutica”, che presuppone la distruzione degli embrioni e che non ha risolto nessun problema dei tessuti deteriorati. L’estrazione delle cellule madre da embrioni vivi comporta la loro distruzione, per questo risulta eticamente inaccettabile. Di fronte a questa tecnologia, si è sviluppata un’alternativa efficiente, con cellule madri adulte (sangue di cordone ombelico, grasso, midollo osseo, pelle, fibroblasta, ecc.). A questa si aggiunge la nuova tecnologia di “riprogrammazione genetica”, dovuta a recenti ricerche in Giappone e Stati Uniti (2006-2008), che permette di ottenere linee cellulari utili per la medicina rigenerativa a partire da cellule adulte differenziate.
La Dignitas Personae segnala l’utilità di queste alternative e dà impulso e appoggio alla ricerca sull’uso di cellule madre da cordone ombelicali e di altre fonti somatiche, che non implicano problemi etici e offrono le migliori prospettive per la prodzione di linee cellulari destinati a rispondere alle necessità di ricostruzione di tessuti degradati.
Si segnala anche come contrario alla dignità umana l’uso di embrioni o feti umani come oggetto di sperimentazione. L’Istruzione Dignitas Personae fa riferimento anche alla situazione dell’uso delle cellule provenienti da embrioni morti o di cui si trovano disponibili in commercio. In questo senso viene messo in discussione il principio di indipedenza rispetto alla responsabilità dell’uso di “materiali biologici” ottenuti da altri ricercatori e provenienti da embrioni o da fonti illecite.
Il Magistero della Chiesa fa una dichirazione sull’urgente mobilitazione delle coscienze in favore della vita e si appella alla dimensione etica della professione sanitaria, nel contesto del giuramento d’Ippocrate, secondo il quale si chiede a ogni medico di rispettare in modo assoluto la vita umana e il suo carattere sacro.
Risulta particolarmente rilevante la qualifica di pratiche eugenetiche data alla Dgp, all’ingegneria genetica con finalità differente da quella terapeutica e a tutte le tecniche che implicano un dominio dell’uomo sull’uomo. In questo senso il Magistero della Chiesa richiama la necessità di tornare a una prospettiva centrata sulla cura della persona e di educare affinché la vita umana sia sempre accolta, nel quadro della sua concreta limitatezza storica.
Sono considerate lecite le tecniche che cercano di correggere difetti congeniti attraverso la terapia genica somatica. Non è così per la linea germinale per i danni potenziali conseguenti che si possono diffondere nella discendenza.
Alla fine, il documento si conclude con le riflessioni che sono raccolte nello stesso e ci orienta sull’autentico senso dell’affermare che i fedeli si devono impegnare fermamente nel promuovere una nuova cultura della vita, ricevendo il contenuto della presente Istruzione con senso religioso. Il compimento di questo dovere implica lo sforzo di opporsi a tutte le pratiche che si traducono in una grave e ingiusta discriminazione degli esseri umani non ancora nati. Dietro a ogni “no” brilla, nelle fatiche del discernimento tra il bene e il male, una grande “sì” nel riconoscimento della dignità e del valore inaliebabile di ogni singolo e irripetibile essere umano chiamato all’esistenza.


ISTRUZIONE/ La scuola autonoma abbandonata dal MIUR - Associazione Di.S.A.L. - venerdì 19 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Negli stessi giorni in cui le scuole paritarie erano nell'occhio del ciclone per gli ingiustificati tagli subiti dalle ormai frequenti manovre finanziarie di fine anno del Ministero dell'economia e finanze (e purtroppo mi pare che ancora oggi in parlamento non si sia risolta la grottesca vicenda), nelle Istituzioni Scolastiche Autonome Statali giungeva la circolare prot. n. 3338 del 25 novembre scorso che detta, come di consueto, ai dirigenti scolastici disposizioni per la predisposizione del Programma Annuale finanziario per l’anno 2009.
Come faceva giustamente notare in questi giorni un’associazione professionale di direttori dei servizi generali ed amministrativi della scuola «in verità più che di indicazioni utili sarebbe il caso di parlare di indicazioni omissive».
Infatti si preannuncia in detta circolare l’ennesima riduzione del contributo per spese di funzionamento (scese negli ultimi cinque anni di oltre il 50%!!!) di cui peraltro non si precisa l’entità.
Inoltre risulta in palese contrasto con la norma di riferimento – gerarchicamente superiore (D.M.21/07 art. 2 c. 2 e relativa tabella 1 allegata ) e mai abrogata o modificata - quella parte della nota ministeriale che afferma – in materia di risorse finanziarie per le supplenze brevi e saltuarie – di provvedere “…alla eventuale integrazione dell’assegnazione base in relazione al fabbisogno accertato e comunque entro il limite massimo del 50% della somma corrispondente all’assegnazione base …“. Il decreto sopra citato prevede, infatti, che sia possibile “ …l’integrazione dell’assegnazione base a seguito di apposita rilevazione in relazione al fabbisogno accertato…”
In pratica la circolare non dà alcuna indicazione sul contributo ordinario di funzionamento che i dirigenti dovrebbero stabilire alla cieca e soprattutto modifica le regole sul budget supplenze salvo però avvertire i dirigenti scolastici stessi (pensate a quelli delle scuole infanzia o primaria dove di fatto è frequente il ricorso al supplente per la continuità didattica e a tutela della vigilanza degli alunni) che la scuola deve funzionare regolarmente. Il capolavoro del “burocratese” è infatti contenuto in questo significativo passaggio “…Si richiama, inoltre, alla responsabile attenzione delle istituzioni scolastiche la esigenza di contenere il conferimento delle supplenze per quanto possibile e nel rispetto, ovviamente, dell’ordinato svolgimento delle attività di istruzione, di formazione e di orientamento proprie di ciascuna tipologia e di ciascun indirizzo di scuola….”
In queste condizioni predisporre il programma annuale 2009 entro il termine di metà dicembre, costituisce obiettivamente una missione impossibile e sostanzialmente un lavoro inutile.
Ad aggravare la situazione il fatto che, non essendo note interamente le risorse a cui l’istituzione aveva diritto per l’anno 2008 e in assenza di risposte da parte del MIUR sui crediti pregressi vantati dalle scuole (budget supplenze 2006, esami di stato e ampliamento offerta formativa), occorrerà infatti attendere la chiusura dell’esercizio finanziario 2008 prima di predisporre il programma annuale 2009, nella speranza di avere nel frattempo ulteriori comunicazioni e auspicando di poter pervenire ad una ragionevole certezza dell’avanzo di amministrazione.
Procrastinare la predisposizione e conseguente approvazione del programma annuale è infatti giuridicamente possibile anche se esiste un termine perentorio per l’approvazione del citato documento contabile, fissato al 14 febbraio 2009 (art. 8 D.M.44/01 ).
E’ auspicabile che il MIUR, a cui i dirigenti si sono rivolti, anche tramite le proprie associazioni professionali tra le quali Disal, riconsideri le proprie discutibili disposizioni.
Giacomo Buonopane, dirigente scolastico Genova


I RADICALI E SACCONI - MA CHI STA PROVANDO A INTIMIDIRE? - FRANCESCO RICCARDI – Avvenire, 19 dicembre 2008
« Violenza privata » e « intimi­dazione » , « interruzione di servizio di pubblica necessità » . Le accuse che in queste ore vengono mosse al ministro del Welfare Mau­rizio Sacconi, trasformate in altret­tante denunce al Tribunale di Roma dai Radicali e da un’associazione di consumatori (!), non solo appaiono manifestamente infondate, ma danno la misura di come la realtà delle cose venga ribaltata a servizio di un’ideologia distruttiva.
L’atto di indirizzo con il quale il mi­nistro ha ricordato come nelle strut­ture sanitarie pubbliche ( e private convenzionate) debbano essere ga­rantite – oggi e domani – la nutri­zione e l’idratazione dei pazienti, disabili gravissimi compresi, risul­ta infatti pienamente legittimo. Af­ferente ai poteri – appunto di indi­rizzo – dell’autorità politica nazio­nale. Persino « scontato » , come ha notato ieri anche qualche espo­nente dell’opposizione, in un Pae­se che nella sua Costituzione ga­rantisce e tutela anzitutto il diritto alla salute come interesse collettivo e non solo personale. Sul piano giu­ridico, non regge quindi l’argomen­tazione che le Regioni avrebbero competenza esclusiva sulla sanità. E tanto meno si può invocare – a sproposito – lo Statuto speciale del Friuli Venezia Giulia, quasi che quel­la regione, o altre, potessero sot­trarsi a un’interpretazione naziona­le di come le strutture pubbliche debbano garantire la tutela di dirit­ti costituzionali primari, quali sono appunto quelli alla vita e alla salu­te. Per Eluana e per tutti i cittadini italiani. Invocare la specificità del proprio statuto per cause indifen­dibili o, peggio, per piccole cama­rille politiche, con un atteggiamen­to quantomeno pilatesco, appare davvero un pessimo servizio alla propria gente e alla Politica.
E qui occorre forse allargare lo sguardo per chiedersi se in Italia sia ancora possibile esercitare scelte politiche senza finire ostaggio del­le aule giudiziarie. Nel senso di far valere – così come ha ritenuto op­portuno di fare il ministro Sacconi – una visione politica. Di parte, cer­to, com’è caratteristica di una de­mocrazia basata sui partiti. Ma di una parte uscita maggioritaria dal­le elezioni e, fino a prova contraria, capace di interpretare ancora il sen­tire profondo dei cittadini italiani. Si può contestare, argomentando, il contenuto delle scelte, ma non si può contestare a un ministro di a­ver agito politicamente, addebitan­dogli con ciò « una violenza priva­ta » . E sfiora addirittura il ridicolo trasformare la risposta del ministro alla domanda di un giornalista – « Comportamenti difformi da quei principi determinerebbero ina­dempienza, con le conseguenze probabilmente immaginabili » – in un atto intimidatorio. Sarebbe come denunciare per minacce un vigile che dicesse a un automobilista: ' at­tento, se passi col rosso, rischi una multa'!
L’inconsistenza delle accuse, dun­que, è tale da far pensare che si trat­ti dell’ennesima, istrionica, trovata mediatica dei Radicali. Questa sì, però, dal vago sapore intimidatorio. Perché abbandona il terreno politi­co, proprio del confronto, per adire invece i tribunali. Neppure ricor­rendo alla giustizia amministrativa, sede naturale per contestare il me­rito di un provvedimento dell’auto­rità pubblica, ma rivolgendosi al­l’ambito penale. Con l’unico scopo di tentare di delegittimare l’onora­bilità di un ministro della Repub­blica, che ha avuto il coraggio di e­manare un atto di indirizzo politi­co trasparente, di elevato valore e­tico.


Si risveglia dallo stato vegetativo - DI FRANCESCA LOZITO - Avvenire, 19 dicembre 2008
U n 'tentativo' nato dalla testar­daggine e dalla passione. «Per­ché quando si ha a che fare con pazienti come quelli in stato vegetativo non si può non pensare di fare qualco­sa per loro». Ad affermarlo è Barbara Massa Micon, neurochirurga del Cto di Torino. Assieme al collega delle Moli­nette Sergio Canavero ieri ha fatto in modo che l’attenzione mediatica nella vicenda legata ad Eluana Englaro si spo­stasse per un attimo da una richiesta di morte a una risposta di vita. Cosa han­no fatto? Hanno provato ad applicare la «stimolazione corticale», una tecnica mi­nimamente invasiva usata per ridurre il dolore nei malati di Parkinson, a una pa­ziente in stato vegetativo da venti mesi dopo un incidente stradale.
Risultato: la paziente ha dato segni di ri­sposta e oggi, come testimonia anche un video diffuso dall’azienda ospedalie­ra delle Molinette, risponde a piccole sol­lecitazioni, In che modo avete documentato la ri­sposta della giovane al vostro tratta­mento?
come quella di alzare un braccio e de­glutisce da sola. Ieri è ar­rivato l’ok del Journal of Neurology, un’impor­tante rivista del settore, a pubblicare i risultati di questo esperimento.
Dottoressa Massa Mi­con, si può tentare allo­ra di fare qualcosa per chi si trova in queste condizioni?
Oggi con la risonanza magnetica funzionale siamo in grado di com­prendere quali sono le attività residue del cervello, quali cellule hanno ancora potenzialità, e i riscontri vengono anche da alcuni studi internazionali.
In che cosa consiste la «stimolazione corticale extradurale bifocale»?
Semplificando al massimo, è una tecni­ca che genera 'plasticità' e per questo induce una rigenerazione delle cellule, come se si desse loro del 'concime'. Di certo non si ricostruiscono i 'rami', i col­legamenti cerebrali danneggiati dal trau­ma. La grave disabilità rimane.
Perché avete pensato di applicare que­sta tecnica a una paziente in stato ve­getativo?
Si trattava di una giovane ragazza, in car­rozzina e molto provata dalla malattia. Abbiamo semplicemente tentato di mi­gliorare la qualità della sua vita. Era sta­ta visitata da numerosi specialisti i qua­li avevano dichiarato che si trovava in stato vegetativo persistente.
Che tipo di risposta avete ricevuto dal­la famiglia?
Piena disponibilità, sono delle persone straordinarie.
Tutto in questi casi si basa sull’osserva­zione clinica, occorreva andare a vede­re, giorno dopo giorno quali erano le rea­zioni. La giovane all’epoca (l’incidente è avvenuto nel 2005 e l’intervento è del 2007, ndr) era già a domicilio. Ci siamo recati quotidianamente lì per capire che cosa stava succedendo.
Questa tecnica è applicabile a tutti i pa­zienti dichiarati in stato vegetativo?
Teoricamente sì, ma occorre non ven­dere illusioni: ogni storia è un caso a sé e occorre conoscere la cartella clinica di un paziente prima di pronunciarsi.
È più facile che avvenga una buona riu­scita se sono passati pochi mesi dall’e­vento traumatico che l’ha ridotto in queste condizioni o no?
Ripeto, bisogna fare una valutazione ca­so per caso.
Avete intenzione di condurre uno stu­dio su più malati in queste condizioni?
Certamente ci piacereb­be farlo. L’averlo provato su una sola persona non ci permette di tirare del­le conclusioni generali, cosa che naturalmente succederebbe se si av­viasse un trial clinico.
È in programma l’avvio?
Al momento no, siamo solo io e il mio collega Canavero ad averci pro­vato: lui operava già con la tecnica della stimola­zione corticale, io ho fat­to una tesi di laurea sui comi protratti, poi ho avuto esperienza in un ospedale traumatologico, accu­mulando così conoscenze sulla fisiopa­tologia del coma. Ma vorrei dire una co­sa. Qualcuno ci ha già accusato di aver approfittato della ribalta mediatica, ma è una pura coincidenza che il via libera del Journal of neurology sia arrivato ne­gli stessi giorni in cui in Italia l’attenzio­ne dell’opinione pubblica è concentra­ta sul caso Englaro. Ripeto, per essere il più possibile certi abbiamo bisogno di fare altri studi. Non vogliamo vendere altre illusioni.
Vi hanno cercato altri familiari di pa­zienti in queste ore per chiedere di fare lo stesso intervento della giovane ven­tenne sui loro cari?
Ci hanno cercato in molti. Ma, mi creda, non è da 'eroi' fare quello che abbiamo provato a fare noi. L’avrebbe potuto ten­tare qualsiasi altro medico. Se poi vo­gliamo aggiungere la motivazione idea­le, è chiaro che, lavorando con questo genere di pazienti e venendo a contatto con le loro famiglie non si può non pro­vare a fare qualcosa per aiutarli.
La ragazza era in uno stato simile a quello di Eluana dal 2005 Ora è in grado di rispondere a stimoli semplici e può anche deglutire da sola


È morto il catechista sequestrato in Orissa - DA NEW DELHI – vescovi: questo è terrorismo. Padre Vazhakala: «Vogliono creare una nazione indù» - Avvenire, 19 dicembre 2008
Aeva subito una brutale aggressione martedì scorso. Era stato circondato da un gruppo di fa­natici indù. Insultato. Picchiato. La sua unica colpa: portare una Bibbia nello zaino. Dopo l’aggres­sione, di lui non c’era più traccia. Ieri l’agghiacciante conferma: Yuvraj Digal, 40 anni, originario del villaggio di Kanjamedi, nel distretto di Kandhamal (Orissa), un catechista stimato e leader all’interno della comunità cristiana locale, è stato ucciso. Il ritrovamento del suo cadavere ha cancellato ogni residua speranza. Un nuo­vo, terribile episodio, che ripropone il dramma dei cri­stiani in Orissa. Proprio ieri la Conferenza dei vescovi indiani ha chiesto di estendere la definizione di «terro­rismo » e «attività terroristiche», inserendo anche gli at­tacchi che vengono compiuti «contro le minoranze et­niche e religiose». In un promemoria – spiega l’agenzia AsiaNews – firmato da monsignor Stanislaus Fernan­des, segretario generale della Conferenza episcopale dell’India (Cbci), si invita il governo a prendere spunto «dalle violenze che hanno sconvolto l’Orissa». Esse so­no caratterizzate da «una campagna di odio e persecu­zione verso le minoranze religiose» da parte di «elementi anti-sociali» che mirano a sovvertire l’ordine costituito, tali da rendere necessaria «una definizione di terrori­smo » che comprenda anche «atti di questo genere».
L’altro ieri la Camera bassa del Parlamento indiano (Lok Sabha) ha approvato due progetti di legge riguardanti la «prevenzione di atti criminali» e la creazione di una «agenzia investigativa a livello nazionale». Il Ministro degli interni ha annunciato che, per la prima volta, la nozione di «terrorismo è stata ridefinita attraverso un consenso generale»: quanti promuovono attività terro­ristiche o centri di addestramento verranno giudicati in base alle misure adottate nella nuova legislazione.
DI PINA CATALDO
I l Comune di Roma ha assegna­to ieri in Campidoglio il Premio «Roma per la Pace e l’Azione U­manitaria » a padre Sebastian Vazhakala. Il sacerdote indiano è co­fondatore, assieme a Madre Teresa, del ramo maschile Missionari della Carità Contemplativi e attualmente Supe­riore generale.
Proseguono le violen­ze e le minacce con­tro i cristiani dell’In­dia. I membri delle formazioni radicali, responsabili delle carneficine, hanno annunciato manife­stazioni per Natale.
Padre Sebastian, lei conosce molto bene la mentalità e il mo­do di agire dei suoi connazionali. Cosa sta succedendo in India?
In India sta accadendo qualcosa che è difficile comprendere e le nuove minacce seminano ancora terrore e paura nella comunità cristiana. Da quando è arrivato San Tommaso in India i cristiani ci sono stati, pur se in netta minoranza, e sono stati sempre rispettati. Per esempio in Kerala, lo Stato dal quale io proven­go, il cristianesimo è molto antico e mai sono accaduti disordini a cau­sa del credo religioso. Ricordo che quando andavo a scuola, una scuo­la cattolica aperta a tutti, c’era gran­de accordo tra cristiani, musulma­ni senza la presenza di altre reli­gioni, ma ciò è impossibile. Impos­sibile perché, secondo me, i faziosi integralisti stanno facendo la guer­ra contro gli uomini ma anche con­tro Dio: ma è una guerra che non vinceranno. I vescovi dell’India so­no molto preoccupati perché le vio­lenze e le torture continuano. Per i Pastori indiani le vio­lenze e il terrore non sono soltanto un pro­blema di rispetto del­le minoranze, ma coinvolgono il futuro della democrazia del­l’India e la linea della Chiesa è molto forte e decisa. Ma assieme al­la denuncia, ci vuole la preghiera.
Da molte parti si è det­to che queste violen­ze sono scaturite an­che perché i cristiani con il loro apostolato stanno susci­tando nei paria, negli “intoccabili”
e indù e mai si è verificato alcu­no scontro. Per me questa è una no­vità, una terribile novità. Quello che maggiormente mi fa soffrire è che sta pagando il prezzo più alto la gen­te più misera e indigente. Penso che questi massacri puntino a “creare” un’altra India, una nazione indui­sta una coscienza e una dignità...
Teoricamente in India le caste non dovrebbero più esistere, ma in pra­tica ci sono ancora. È normale che una persona voglia acquistare di­gnità e di conseguenza cercare la li­bertà; libertà di vivere, di esistere, di pensare e di agire. Una volta i paria erano considerati schiavi, oggi non è più possibile. Devo dire che gli ar­tefici dei continui e feroci massacri sono fanatici che mal sopportano quello che i cristiani fanno nelle scuole, negli ospedali e nelle case di accoglienza, dove regna la carità, la condivisione e il servizio e dove u­no degli obiettivi è far prendere co­scienza a ciascuno della propria in­fima condizione e far riacquistare la dignità; la dignità è diritto di ciascun uomo perché figlio di Dio. La dignità non scaturisce dalla ricchezza, non dipende dalla forza o dalla violenza e, in questo caso, i persecutori stan­no perdendo la loro dignità.
La vostra Congregazione è stata og­getto di attacchi e intimidazioni. Al­cune Missionarie della Carità sono state accusate di «sequestro e con­versione » di bambini. Qual è la sua riflessione?
Anche gli attacchi contro le nostre suore stanno a significare che si vo­gliono colpire i più poveri e i dere­­litti, la parte più bisognosa del Pae­se. I poveri vengono nelle nostre ca­se perché sono accolti, amati, cura­ti e guariti. Le nostre suore, in India come in ogni angolo della Terra, of­frono il loro servizio «gratuito e con tutto il cuore» a chiunque vive nel­la desolazione e nell’abbandono. La conversione non è l’obiettivo della nostra Congregazione: noi ci preoc­cupiamo di dare dignità alle perso­ne che incontriamo. Le suore o i confratelli non pretendono la con­versione in cambio del servizio e della condivisione. Sono Missiona­rio della Carità dal 1966 e ho lavo­rato a fianco di Madre Teresa per ol­tre trent’anni e posso dire che né la Madre né le Suore, né noi Fratelli abbiamo “forzato” qualcuno alla conversione. Anzi ricordo che la Madre ha sempre insistito su una cosa: «Noi dobbiamo servire i po­veri che accogliamo cercando di aiutare l’indù ad essere un buon indù, il musulmano ad essere un buon musulmano ed un cristiano ad essere un buon cristiano». Mi chiedo, comunque, una cosa: le suore e i fratelli, che operano in In­dia, fino ad alcuni mesi fa erano a stimati e rispettati, adesso contro di loro si usano le terribili violenze che tutti conosciamo. Perché vengono accusati, aggrediti, umiliati? Secon­do me c’è una forza maligna in tutto questo.


I Vangeli? Testimonianze oculari - ESEGESI. Parla il biblista José Miguel García, che rilancia la tesi di una redazione in aramaico dei Vangeli. Scritti in «presa diretta» - Avvenire, 19 dicembre 2008 - DI LORENZO FAZZINI
I Vangeli? Storicamente affidabili. La Chiesa timorosa della ricerca biblica? Tutt’altro: il metodo storico-critico «corrisponde» alla stessa fede cristiana, che si fonda su un evento storico. Però per comprendere la Scrittura serve «partecipare all’esperienza che vi viene narrata». José Miguel García, teologo e biblista spagnolo, direttore della cattedra di teologia all’Università Complutense di Madrid, ha appena dato alle stampe – nella collana «I libri dello spirito cristiano» della Bur– il saggio Il protagonista della storia.
Nascita e natura del cristianesimo
(Rizzoli, pp. 455, euro 11). Lo raggiungiamo a 1Gerusalemme, dove si trova per motivi di studio.
Non solo il metodo storico-critico ma uno «sguardo di fede». Questo il compito dell’esegesi secondo Benedetto XVI: perché è importante questo doppio approccio?
«La Chiesa deve sempre mantenere l’equilibrio tra questi due elementi. L’affermazione del Papa si inserisce nella tradizione ecclesiale, ad esempio dei Padri della Chiesa, pure loro impegnati a difendere la verità storica dei Vangeli. Essi non usavano il metodo storico-critico, ma a loro modo difendevano quei testi per il loro contenuto storico. Agostino e Origene, nelle loro omelie e libri, cercavano di mostrare come ciò che vi veniva raccontato erano veramente fatti storici, che comunicavano una salvezza e una risposta ai bisogni dell’uomo. I Vangeli non sono informazioni su un fatto passato, bensì su un evento che inizia nel passato ma rimane nel presente e ha la pretesa eccezionale di essere la risposta ai bisogni del uomo. Questi libri parlano di un uomo, Gesù, che aveva coscienza della propria divinità e missione riguardo tutti gli uomini. Quindi è un passato che si fa presente e accade anche oggi».
Nel suo lavoro lei cita lo studioso francese Jean Carmignac, che si augurava il declino del «bultmannismo, che in Francia ha pervertito tanti spiriti».
«Il vero problema di Bultmann è la sua concezione della fede: a suo giudizio il credere non ha bisogno di nessun appoggio da parte della ragione, la fede basta a se stessa.
Ma questo è un uso limitato del metodo storico-critico, si tratta di un utilizzo parziale della ragione.
Un esempio: se la razionalità si chiude alla possibilità di un intervento del Mistero nel mondo, di fronte al racconto di un miracolo essa si blocca nel suo pregiudizio e afferma che tale evento non può essere avvenuto».
I libri di Corrado Augias diffondono la visione per cui la storia di Gesù è diversa da quella che i Vangeli canonici (e la Chiesa) ci hanno tramandato. Cosa risponde da studioso di scienze bibliche?
«Questi volumi considerano i Vangeli come non storicamente affidabili: se si pensa che essi siano stati scritti soltanto per comunicare una dottrina, l’approccio che ne segue viene determinato da tale pregiudizio. I Vangeli non sono una teologia o la riflessione di una comunità: sono innanzitutto testimonianze di quello che è accaduto da parte di chi ha visto l’evento-Gesù. Poi la teologia nasce dall’evento. Tra l’altro, se Augias non accetta la testimonianza dei Vangeli canonici, che sono veramente le nostre fonti per conoscere Gesù, su cosa si basa per ricostruire la storia di Gesù? Sulla sua immaginazione? Nel mio libro tento di offrire alcuni argomenti per mostrare che queste testimonianze non sono così tardive come si pensa di solito, bensì molto vicine ai fatti, provengono dai testimoni, da chi ha visto e udito».
Lei rilancia l’ipotesi di un
substrato semitico nei Vangeli: perché?
«Non ho nessuna pretesa apologetica, sono solo convinto che mostrando l’influsso semitico dietro al testo greco dei Vangeli si possa andare più vicino ai fatti narrati. Se questi testi sono stati composti in ambiente semitico – per Carmignac erano scritti in ebraico; a mio parere in aramaico, la lingua parlata da Gesù – ciò significa che sono stati messi per iscritto nella terra dove quei fatti sono avvenuti, non al di fuori, nel mondo greco. Inoltre, il substrato semitico aiuta a risolvere determinate difficoltà che si incontrano nei Vangeli a livello di comprensione del testo».
Secondo lei la Chiesa ha paura della ricerca storica applicata alla Scrittura?
«Assolutamente no. Forse ne aveva a fine Ottocento - inizio Novecento, quando si è fatta strada l’esegesi razionalista, ma adesso no. Quel tipo di studio ha portato a nuove indagini più approfondite che hanno mostrato la solidità della fede e dei Vangeli stessi: dopo tanti studi fatti negli ultimi decenni si è dimostrato che la Chiesa aveva ragione. Si chiede solo che lo studio venga fatto in maniera scientifica e non pregiudiziale, come chi si accinge alla Scrittura esclusivamente per provare una tesi già precostituita. La Chiesa non rifiuta l’uso del metodo storico-critico, anzi: afferma che é la stessa natura della fede che esige questo studio, che non va contro la fede. Ma è pur vero che per comprendere fino in fondo quello che si racconta in questi libri non basta tale approccio: occorre partecipare alla stessa esperienza che viene testimoniata».