mercoledì 17 dicembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) La Divina Misericordia nell’esperienza di Comunione e Liberazione (I) - ROMA, martedì, 16 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo la riflessione di don Luigi Giussani, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, accompagnata da alcune testimonianze.
2) Il Natale e la “Dignitas Personae” - Autore: Leonardi, Enrico Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 16 dicembre 2008
3) Esce in Italia il film "Il bambino con il pigiama a righe" di Mark Herman - La Shoah vista dal figlio di un aguzzino - di Gaetano Vallini – L’Osservatore Romano, 17 dicembre 2008
4) ELUANA/ Roccella: il governo ha deciso, chi è disabile non sarà fatto morire di fame - INT. Eugenia Roccella - mercoledì 17 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
5) USA/ La riscossa dei Kennedy - Lorenzo Albacete - mercoledì 17 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
6) SCUOLA/ Sulla valutazione troppe resistenze da parte dei docenti - INT. Daniele Checchi - mercoledì 17 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
7) REVISIONISMO/ Napolitano: da Fini parole sorprendenti, sul razzismo nazista la Chiesa si schierò pubblicamente - INT. Matteo Luigi Napolitano – mercoledì 17 dicembre 2008 - IlSussidiario.net
8) CIÒ CHE I MEDIA MAI NON SPIEGANO - I «sì» della Chiesa molto più grandi dei «no» - GIACOMO SAMEK LODOVICI - Secondo Pietro Citati, su Repubblica – Avvenire, 17 dicembre 2008


La Divina Misericordia nell’esperienza di Comunione e Liberazione (I) - ROMA, martedì, 16 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo la riflessione di don Luigi Giussani, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, accompagnata da alcune testimonianze.
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Gesù, dice il Papa, soprattutto con il Suo stile di vita e con le sue azioni ha rivelato come nel mondo, in cui viviamo, è presente l'amore, l'amore operante, l'amore che si rivolge all'uomo con l'abbraccio di tutto ciò che forma la sua umanità. È questa la figura pedagogica che ovviamente un cristiano deve tener presente.
Scrive il Papa: "Appunto il modo e l'ambito in cui si manifesta l'amore, viene denominato nel linguaggio biblico: misericordia".
Così cerchiamo di concepire la comunità cristiana: modo e ambito in cui si manifesta l'amore... la definiamo come il luogo della misericordia.
La comunità cristiana è il luogo della misericordia in cui viene abbracciato dell'uomo tutto ciò che forma la sua umanità. Ed è forse per questo che io amo dire che la misericordia è, profondamente, l'abbraccio, l'ospitalità, meglio, l'abbraccio del diverso. Questa diversità si fa particolarmente notare, dice ancora il Papa, nel contatto con la sofferenza, l'ingiustizia, la povertà, a contatto con tutta la condizione umana storica.
Questi nostri amici esemplificano questa pagina bellissima della Dives in Misericordia.
Ho voluto prima chiedere alla Sig.na Lia Sannicola di dare brevemente un quadro di tutto lo sforzo di misericordia che noi chiamiamo anche: educazione alla gratuità; lo sforzo di misericordia che attraverso le operazioni di carità delle nostre comunità cerchiamo di incrementare.
Poi ho pregato i Signori Zappelon di parlarci del tentativo di ospitalità che fanno, nella loro famiglia. Sono padre e madre di tre bambini. Quindi ho pregato il Dott. Guffanti che desse notizia dello sforzo di carità che cerchiamo di fare nell'Uganda, come segno di altre opere che in Missione stiamo, con la grazia di Dio, portando. Grazie!!
Sig.na Sannicola Lia
Nel movimento CL chiamiamo "caritativa" la nostra esperienza di condivisione come educazione alla gratuità, e quindi alla misericordia.
Molti giovani ed adulti di Comunione e Liberazione da anni rivelano una grande sensibilità alla situazione di bisogno delle persone handicappate. Infatti è risultato profondamente educativo alla dimensione della misericordia condividere un tipo di bisogno che fa scattare la verifica di alcuni valori fondamentali dell'esperienza cristiana.
Il valore della persona come tale, al di là di quel che sa fare o non sa fare. Il valore della sofferenza come valore positivo. Il valore della gratuità a fronte di un bisogno che raramente viene rimosso.
Queste esperienze coinvolgono sia giovani che adulti. Per quanto concerne gli oneri il nostro movimento si fa carico di individuare e di proporre degli ambiti che consentano di realizzare esperienze giudicate valide da un punto di vista educativo. In esse i giovani vengono accompagnati da persone adulte e vengono aiutati e guidati in una verifica. Dico brevemente gli ambiti.
La caritativa in grosse istituzioni assistenziali. In alcune di queste abbiamo una presenza anche di 200 giovani, che vi si recano al sabato e alla domenica e si impegnano nelle attività che vanno dal gioco all'assistenza delle persone in difficoltà. Poi queste giornate di impegno terminano con una assemblea in cui c'è il momento di preghiera e di verifica. Questo tutte le settimane.
La caritativa realizzata per impegnare i giovani che vivono in famiglia e che frequentano i "centri giovani" nel tempo libero, nelle vacanze.
La caritativa presso le famiglie che hanno casa un bambino handicappato, in genere grave, e che sono molto appesantite da un problema del genere. I nostri ragazzi fanno compagnia a questi bambini handicappati e svolgono anche piccole commissioni, sollevano la famiglia per un paio di ore dal problema e... queste esperienze sia con i giovani che presso la famiglia hanno aperto anche le persone handicappate all'esperienza della comunità cristiana.
Infine la caritativa nelle vacanze estive. Lo scorso anno solo la comunità di Milano ha portato in vacanze più di cento persone handicappate.
Invece per quanto riguarda gli adulti, l'esperienza "caritativa" è caratterizzata da una assunzione di responsabilità più precisa e da una creatività di risposta che è espressione dell'identità cristiana in nome della quale l'impegno viene portato avanti. Molto spesso si tratta di iniziative che hanno avuto origine con una esperienza giovanile di carità cristiana e che si sono a mano a mano sviluppate raggiungendo un livello di maturità, di stabilità, e di definitività maggiore: esperienze che sono diventate più strutturate.
Abbiamo delle famiglie che hanno preso in affidamento dei bambini handicappati.
Le nostre comunità accolgono stabilmente, durante la domenica e per le vacanze, persone che vivono negli istituti.
Sono sorte diverse associazioni che aiutano gli handicappati con il lavoro; man mano che il bisogno cambia vengono ristrutturate le attività. Sono state costituite delle Case-famiglia una delle quali è in Calabria.
Infine abbiamo alcune cooperative sia di tipo educativo che di rieducazione al lavoro. Comunque queste cooperative hanno la caratteristica di essere un sopporto alla famiglia. Rappresentano in qualche modo la dilatazione della dimensione dell'accoglienza che è propria della famiglia. A partire da queste esperienze sono maturate diverse professionalità, per cui molti giovani sono indirizzati a professioni quali psichiatria, fisioterapia ecc.
Nel mese di ottobre si è svolto a Forlì un convegno che voleva mettere a confronto queste esperienze e farle conoscere per un approfondimento. C'erano oltre mille operatori e l'affluenza di esperienze provenienti da circa cinquanta città d'Italia. La cosa che è stata veramente bella era vedere come gruppi che non avevano avuto mai l'opportunità di incontrarsi si riconoscevano in punti comuni. Li dico brevemente:
1^ - Sono esperienze nate perché qualcuno si è assunto una responsabilità. Qualcuno ha fatto delle scelte, ha rischiato personalmente.
2^ - Sono tutte esperienze che hanno rivelato una grossa consapevolezza di appartenere ad una esperienza vissuta di comunità cristiana che è in grado di costituire un soggetto che mosso da un ideale è capace di porre la sua responsabilità a servizio dell'uomo e di condividere il bisogno.
3^ - Il metodo, cioè la condivisione come decisione personale, giocata ogni volta, di mettere la propria vita in comune con quella dell'altro, in nome dell'appartenenza alla stessa origine e allo stesso riconoscimento semplice, qualificata questa esperienza al di là del tempo e delle forme che la condivisione assume.
4^ - Una dignità culturale, cioè una capacità di giudizio e di proposta che anche nel livello più iniziale costituiscono una reale novità ed una possibilità immediata per chiunque, una via praticabile.
Io volevo concludere con un giudizio... finale su questo momento di Forlì. Noi a maggio ci siamo battuti con passione e credendoci fino in fondo, per il problema dell'aborto. E abbiamo detto che qui il problema non era l'aborto ma la vita, l'accoglienza della vita. Queste esperienze di condivisione con gli handicappati, sono l'espressione della vita che noi abbiamo affermato in quella occasione.
Coniugi Zappelon, Angela e Mario
Io mi chiamo Angela ed anzitutto voglio ringraziare del dono che il Signore oggi mi ha fatto di trovarmi qui con voi. Ringrazio il Signore anche per un altra cosa, per avermi amata, voluta e fatta crescere nella Chiesa, così da darmi l'occasione di vivere l'esperienza cristiana, quell'esperienza che adesso brevemente racconterò e alla quale ci siamo sempre dati con anima e cuore, aggrappati al Signore.
Mario, mio marito, e io abbiamo passato la metà della nostra vita (25 anni) con i nostri familiari e poi siamo emigrati dal Veneto in Lombardia. E, come emigrati, abbiamo avuto una vita dura, molti dolori e sofferenze di ogni genere.
Guardandoci un momentino attorno, avendo appunto acquisito dalla famiglia e dalla Chiesa, dai nostri sacerdoti che ci hanno educato, una educazione alla fede e al sacrificio, guardandoci attorno abbiamo visto dei bisogni che andavano oltre i nostri. Noi se non altro eravamo in due, potevamo portare dei pesi in modo più agile, mentre invece ci accorgevamo che c'erano persone che non avevano assolutamente niente; né la casa, né il lavoro, niente, assolutamente niente.
Per cui guardandoci attorno abbiamo capito che non era sufficiente pregare, non era sufficiente restare uniti nelle associazioni, strumenti che la Chiesa in quel tempo ci offriva, ma bisognava uscire per vivere la misericordia, la misericordia che il Signore ha avuto anzitutto per noi. Quindi abbiamo cominciato con una accoglienza così... possibile a tutti. Abbiamo aperto la nostra casa, piccola, due locali, a persone sole, che venivano per i pasti con noi o per giocare o stare insieme.
Più avanti si sono presentati dei casi più difficili di bambini abbandonati perché avevano le madri ammalate o comunque casi molto disperati.
Nella nostra famiglia abbiamo accolto in 25 anni di matrimonio circa 30 persone, tutti casi portati a termine abbastanza bene, gente cioè molto ricuperata che ha ricominciato a vivere e a sperare nella vita.
Circa tre anni fa abbiamo avuto la fortuna e il dono di incontrare il movimento di "Comunione e Liberazione". Avendo noi tre figli ormai grandi ci preoccupavamo per loro, particolarmente per la loro fede.
Questo movimento è stato per noi di luce. Ha dato a noi un respiro molto più ampio, una misericordia che abbiamo sentito su di noi e così abbiamo anche il coraggio di affrontare dei problemi in maniera più grossa, cioè un'accoglienza che si è allargata. Avevamo allora tre bambini accolti nella nostra famiglia, tre bambini che ora hanno 12, 11 e 8 anni. Quando a questi amici di CL abbiamo esposto il nostro desiderio di aprire una casa di accoglienza, chiedevamo anche delle persone che volessero condividere la nostra esperienza, in modo stretto, in vita di comunione e di comunità. Il Signore ci ha fatto subito il dono di due persone grandi e adulte nella fede: una donna di 35 anni sposata, senza figli, vedova, e un ragazzo di 28 che adesso vivono con noi; ed in questa casa che abbiamo aperto, facciamo una vita di comunione e di accoglienza.
Noi siamo: io, mio marito, i tre figli che hanno 24 anni la ragazza, 22 un maschio e l'altro 18, una quarta figlia che è nata malformata, avrebbe ora 12 anni. È vissuta 6 mesi e mezzo. Il desiderio era stato sempre quello di avere degli amici nella fede perché fosse segno di amore nel mondo. Questa gioia non l'avevamo mai avuta prima, almeno come l'abbiamo adesso.
Il movimento che abbiamo incontrato ci ha proprio sbloccato la strada. Non so come dire, non vorrei esagerare, comunque noi abbiamo cominciato una vita nuova con questa gente.
In casa attualmente siamo in 15 persone, però fino a qualche mese fa eravamo in 21. Abbiamo accolto, oltre i tre bambini che ci siamo portati con noi in questa casa, abbiamo accolto una schizofrenica gravissima, malata di mente, incinta, non si sapeva ad opera di chi. Separata dal marito, con il figlio di nove anni che è affidato al padre. Questa donna è venuta in casa nostra in condizioni disastrose. Ora la bambina ha dieci mesi. Da giugno questa donna è tornata a casa, ha ripreso il lavoro in una ditta dove lavorava anni fa... la bambina è stata accolta insieme alla madre dai genitori di questa donna e sta benissimo.
Un altro caso di una donna di 25 anni, sposata, separata anche lei con una bambina di 9 anni: questa donna era finita in un giro veramente brutto e grosso di prostituzione, è stata con noi 8 mesi, ha vissuto una vita serena con noi, ha dimenticato tutte le amarezze (o quasi) perché lei era arrivata a 4 aborti in due anni e 4 tentativi di suicidio, ora vive bene e serena e... crede nella vita.
Abbiamo poi accolto una famiglia, un piccolo nucleo famigliare di madre di 42 anni con due figlie, una sordomuta di 11 anni ed un figlio di 15. Questa famiglia da pochi giorni è stata sistemata perché già indipendente con il lavoro, anche il ragazzo che già ha diciassette anni lavora, la ragazzina studia.
Poi una ragazza madre di 19 anni con una bimba di un anno, anche lei 4 tentati suicidi; ora questa donna è tornata con il papà della bimba e da otto giorni vive in un appartamento che noi gli abbiamo procurato e lavora.
Poi abbiamo accolto un ragazzo di 17 anni. Ha una storia molto triste, una storia dolorosa anche per noi, perché questo ragazzo dopo 5 mesi di vita in casa nostra, con difficoltà grosse, si è rimesso nel giro, nella compagnia di prima e una sera in 5 o 6 minuti ci ha fatto un danno di sei milioni. Ha distrutto le macchine. Questo ragazzo poi è andato un po' per il mondo, però ogni tanto si fa sentire, anche ieri sera ci ha telefonato. Vorrebbe essere riaccolto. Questo è un caso nel quale noi aspettiamo un momentino, anche perché abbiamo dei bambini in casa e ha procurato un po' di paura a tutti.
Abbiamo anche una ragazza di 14 anni e mezzo, accolta un anno e mezzo fa con delle esperienze incredibili perché lei ha girato mezza Italia; quando veniva presa dai carabinieri, la riportavano a casa e lei scappava. Questa ragazza è come uno dei miei figli. Lei pregava con noi, vive la nostra vita, sta facendo un lavoro su di sé. È veramente un miracolo del Signore che vediamo sotto i nostri occhi. Noi trattiamo tutti senza fare preferenze: non le faccio nemmeno ai miei figli. Siamo tutti una grande famiglia. Questo è il metodo.
Noi pensiamo che la persona è stata creata libera dal Padre e che a un certo momento quando gli hai dato tutto, gli hai donato tutto l'amore che hai dentro di te, questa persona non puoi trattenerla, cioè non puoi nemmeno proibirgli di fare delle pazzie nella vita, di rovinarsi la propria vita.
Io adesso vorrei lasciare a mio marito di dire due parole su come viviamo la giornata nella nostra casa: è molto importante.
[La seconda parte verrà pubblicata martedì 23 dicembre]


Il Natale e la “Dignitas Personae” - Autore: Leonardi, Enrico Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - martedì 16 dicembre 2008
“Non ce lo aspettavamo, non ce lo saremmo mai sognato, era impossibile, non è reperibile altrove” (don L. Giussani). “Natale è la festa dell’uomo. Nasce l’Uomo. Uno dei miliardi di uomini che sono nati, nascono e nasceranno sulla terra. L’uomo, un elemento componente della grande statistica... L’uomo, oggetto del calcolo, considerato sotto la categoria della quantità; uno fra miliardi. E nello stesso tempo, uno, unico e irrepetibile. Se noi celebriamo così solennemente la Nascita di Gesù, lo facciamo per testimoniare che ogni uomo è qualcuno, unico e irrepetibile. Se le nostre statistiche umane, le catalogazioni umane, gli umani sistemi politici, economici e sociali, le semplici umane possibilità non riescono ad assicurare all’uomo che egli possa nascere, esistere ed operare come unico e irrepetibile, allora tutto ciò glielo assicura Iddio. Per Lui e di fronte a Lui, l’uomo è sempre unico e irrepetibile; qualcuno eternamente ideato ed eternamente prescelto; qualcuno chiamato e denominato con il proprio nome” (Giovanni Paolo II, Radiomessaggio natalizio, 25 dicembre 1978).

Che commozione rileggere dopo trent’anni il primo messaggio natalizio di Giovanni Paolo II, tutto giocato sulla grandezza dell’uomo e sulla condiscendenza amorosa di Cristo, unitosi in qualche modo ad ogni uomo! E dopo pochi mesi, ecco la “Redemptor Hominis”, la prima enciclica di Papa Wojtila, nel cui respiro grandioso la dignità umana risplendeva come nel salmo 8: “lo hai fatto poco meno degli angeli...”. “L’uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo - non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere - deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve «appropriarsi» ed assimilare tutta la realtà dell’Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso. Quale valore deve avere l’uomo davanti agli occhi del Creatore se «ha meritato di avere un tanto nobile e grande Redentore» (Exsultet della Veglia Pasquale), se «Dio ha dato il suo Figlio», affinché egli, l’uomo, «non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv,3,16)” (Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, n. 10).

Nella stessa enciclica Giovanni Paolo II, “il papa sull’orizzonte del Duemila”, intravvedeva i nuovi scenari del XXI secolo, tempo di Grazia ma anche di terribili prove. Dopo l’11 settembre, attentati non meno gravi hanno sfigurato il volto di Adamo: si chiamano eutanasia, manipolazione genetica, clonazione, ibridazione uomo-animale, razzismo eugenetico, aborto selettivo... E la Chiesa, come ha recentemente affermato Benedetto XVI, è rimasta l’ultima sentinella sul limitare della difesa dell’umano. La dichiarazione “Dignitas Personae” riprende e sviluppa i temi della “Redemptor Hominis”.

“L’essere umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita... Il rispetto di tale dignità compete a ogni essere umano, perché esso porta impressi in sé in maniera indelebile la propria dignità e il proprio valore” (Dignitas Personae, nn. 4-6).

“Il Figlio di Dio nel mistero dell’Incarnazione ha confermato la dignità del corpo e dell’anima costitutivi dell’essere umano. Il Cristo non ha disdegnato la corporeità umana, ma ne ha svelato pienamente il significato e il valore: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo». Divenendo uno di noi, il Figlio fa sì che possiamo diventare «figli di Dio» (Gv 1,12), «partecipi della natura divina» (2 Pt 1, 4). Questa nuova dimensione non contrasta con la dignità della creatura riconoscibile con la ragione da parte di tutti gli uomini, ma la eleva ad un ulteriore orizzonte di vita, che è quella propria di Dio e consente di riflettere più adeguatamente sulla vita umana e sugli atti che la pongono in essere. Alla luce di questi dati di fede, risulta ancor più accentuato e rafforzato il rispetto nei riguardi dell’individuo umano che è richiesto dalla ragione: per questo non c’è contrapposizione tra l’affermazione della dignità e quella della sacralità della vita umana” (Dignitas Personae, n. 7).

La linfa che da duemila anni pervade la Chiesa è la stessa fede del primo Natale: Dio si è fatto uomo perché l’uomo si facesse Dio. Dove, in quale parte del mondo risuona oggi una voce così?


Esce in Italia il film "Il bambino con il pigiama a righe" di Mark Herman - La Shoah vista dal figlio di un aguzzino - di Gaetano Vallini – L’Osservatore Romano, 17 dicembre 2008
"Papà non è un orribile mostro, non è vero? È un brav'uomo. Però comanda un posto orribile". Il dubbio che assale il piccolo Bruno, otto anni, figlio di un ufficiale nazista inviato a comandare un campo di sterminio, è il filo conduttore del film Il bambino con il pigiama a righe, dal 19 dicembre nelle sale italiane. È il dubbio del non detto, del sottinteso, di una realtà in cui ciò che è mendacemente taciuto viene visto di riflesso attraverso lo sguardo di un'innocenza che si scopre tradita. Ma quello diretto da Mark Herman, che lo ha tratto dall'omonimo romanzo di John Boyne, è soprattutto un film sull'amicizia: quella che lega Bruno a un suo coetaneo, Shmuel, che si trova dall'altra parte del filo spinato, segnato dal destino terribile del suo popolo, ma anch'egli in parte ignaro degli eventi che lo coinvolgono. Un'amicizia che oltrepassa le barriere fisiche e che nella sua semplicità e ingenuità abbatte anche quelle più pericolose delle ideologie, mostrandone la mostruosa insensatezza. La storia si apre a Berlino, negli anni Quaranta. Bruno vive la sua agiata esistenza in una famiglia felice, divertendosi con gli amici. La sua tranquilla routine viene rotta dalla notizia della promozione del padre che comporta un trasferimento. L'ufficiale è inviato a comandare un campo di sterminio; ma in famiglia non lo sa nessuno, neppure la moglie, che pensa si tratti di un "semplice" campo di lavoro. Bruno si ritrova solo, in una casa isolata. La sorella dodicenne, Gretel, lo ignora, infatuata del giovane ufficiale attendente del padre e plagiata dalla retorica nazista di un anziano precettore chiamato a impartire lezioni private ai ragazzi. Per Bruno, senza un amico con cui giocare, le giornate sono interminabili e noiose. Ma non dimentica quanto ha intravisto il giorno del suo arrivo dalla finestra, ora perennemente sbarrata, della sua camera: una "fattoria" dove lavorano strani contadini che vanno in giro con un pigiama a righe. Quella visione alimenta la sua curiosità e un giorno, disobbedendo alla madre, esplora il giardino posteriore della casa fino ad arrivare al recinto di filo spinato del campo, oltre il quale trova Shmuel, anch'egli con lo strano pigiama a righe. I due fanno amicizia e, tra un doloroso tradimento e la necessità di un pieno perdono, scopriranno insieme la tremenda realtà delle cose.
Non c'è un lieto fine, nonostante l'autore del romanzo abbia concepito la storia come una favola. Non c'è nulla di magico o fantasioso nella vicenda di Bruno e Shmuel. Nessuno dei due - ognuno dalla sua parte del recinto - sa cosa sta realmente accadendo. Soprattutto Bruno cerca in tutti i modi di aggrapparsi a ogni possibile appiglio, per scacciare qualsiasi dubbio sul lavoro del padre e sulle inquietanti cose che sospetta avvengano in quella strana "fattoria". Come quando di nascosto vede un filmato propagandistico fatto girare dal padre, nel quale il campo viene mostrato come un luogo quasi idilliaco per gli "ospiti". Un fatto che gli consente di ritrovare fiducia nel genitore, dopo aver dubitato fortemente di lui in seguito a quanto visto e sentito in casa, e a quanto gli racconta sul campo Shmuel, al quale chiederà: "Com'è tuo padre: è un brav'uomo? Sei orgoglioso di lui?", restando colpito dalla risposta affermativa, senza ombra di esitazione.
L'atmosfera familiare comunque non lo aiuta. La madre finalmente apre gli occhi e deve prendere coscienza di ciò che forse ha sempre saputo ma non ha voluto mai ammettere: che oltre il recinto vengono commesse atrocità. Ammetterlo avrebbe significato coinvolgere il marito e il loro rapporto. Dopo un'incauta rivelazione, non può più mentire a se stessa. Costretta a scuotersi, dismette i panni della moglie felice e fedele - la cui missione era quella di nascondere la realtà a Bruno e a Gretel, oltre che alla sua coscienza - e, dopo un furioso litigio con il marito, decide di portare via i figli da quel luogo orribile, da quell'uomo che non appare più come un marito e un padre adorabile e premuroso, ma come un aguzzino e uno spietato assassino.
Detto questo, nel film - prodotto dalla Miramax e distribuito dalla Disney - ci sono diverse incongruenze, sia dal punto di vista della ricostruzione storica - che possono essere valutate come irrilevanti visto l'intento non documentaristico - sia, e soprattutto, nella natura dei personaggi. Mentre il nonno paterno di Bruno è un membro convinto del partito nazionalsocialista, la moglie appare come un'oppositrice dichiarata, in contrasto con il marito e in particolare con il figlio, ufficiale delle SS. Quest'ultimo cambia troppo repentinamente il suo comportamento per sembrare credibile. Anche il personaggio della moglie risulta falsato da quell'incosapevolezza davvero inverosimile sul ruolo del marito e su cosa accade sotto i suoi occhi. Gli stessi silenzi del piccolo Shmuel sulla realtà nel campo appaiono un po' forzati. Ciononostante, il film ci mostra un punto di vista inconsueto - non quello di una vittima della Shoah ma di un bambino tedesco - e centra in qualche modo il bersaglio: riuscire a dare il senso del conflitto interiore del piccolo Bruno, vittima anch'egli, sia pure in modo diverso, stretto tra quell'amicizia e i comportamenti imposti dalla famiglia ("Noi non dovremmo essere amici, tu e io. Lo sapevi?", dice a un certo punto a Shmuel). Con tutti i limiti della sceneggiatura, la vicenda può essere letta come il paradigma di quella "banalità del male" definito da Hannah Arendt, secondo il quale anche persone comuni possono venire sopraffatte dalla barbarie in nome di un'obbedienza cieca a un'autorità che non viene mai posta in discussione. La sospensione del giudizio morale, ovvero l'assenza di consapevolezza della gravità della colpa, è la disarmante dimostrazione di quella mediocrità intellettuale a essa sottesa che rende anche uomini normali, cioè né sadici né perversi, capaci di azioni mostruose. Cinematograficamente non siamo certo ai livelli narrativi e poetici di La vita è bella di Roberto Benigni, ma non mancano punti di contatto. Nel film vincitore dell'Oscar s'impone lo sforzo di un padre per difendere il figlio dal vortice di orrore nel quale sono stati precipitati. Lì la menzogna è il meccanismo di difesa scelto per preservare l'innocenza di una ignara vittima. In Il bambino con il pigiama a righe è il modo usato dagli adulti per difendere prima di tutto se stessi dal senso di colpa. Ma ciò non basterà a tutelarli dalla disintegrazione morale. E non appare certo consolatorio vedere tale disintegrazione, che coinvolge l'intera famiglia, come la punizione per i "peccati" del padre. I dubbi di Bruno, amplificati dalla verità storica, diventano i dubbi di quanti ancora oggi si chiedono come sia stato possibile che ciò accadesse. La sua amicizia con l'ebreo Shmuel diviene il simbolo di quell'empatia che spontaneamente nasce nei confronti di chi è vittima innocente di una violenza. Il bambino con il pigiama a righe è quindi un film che comunque fa riflettere. Ed è forse per questo che la critica d'oltreoceano è stata piuttosto indulgente. Dolce e terribile allo stesso tempo, capace di emozionare e di scuotere, andrebbe fatto vedere nelle scuole. E risulta incomprensibile il divieto imposto ai minori di tredici anni dalle autorità statunitensi; un divieto che però non ha impedito alla pellicola di ottenere un buon successo al botteghino.
Se è vero, come sostiene il premio Nobel Elie Wiesel, che se non c'eri, non ne dovresti parlare, è pur vero che in questo caso (come del resto per La vita è bella), anche se si tratta di un'opera di fantasia, la storia rappresenta comunque la tragedia del popolo ebreo senza banalizzarla. E proprio per i più giovani il film (con il libro) può diventare un veicolo per avvicinarsi alle opere di quanti hanno vissuto la Shoah e l'hanno raccontata da testimoni.
(©L'Osservatore Romano - 17 dicembre 2008)


ELUANA/ Roccella: il governo ha deciso, chi è disabile non sarà fatto morire di fame - INT. Eugenia Roccella - mercoledì 17 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Nessun ospedale italiano permetterà che Eluana Englaro venga lasciata a morire. Il Ministero della salute ha ieri messo la parola fine sulle tante voci di stampa intorno al possibile luogo per l’esecuzione definitiva della sentenza pendente sul capo di Eluana. Non era dunque il capriccio di un solo ospedale o di una sola regione quello che fino ad ora aveva impedito l’atto finale, ma c’erano motivazioni profonde e di ordine generale, che ora hanno trovato espressione in un atto ufficiale del governo.
Un atto «forte», e al tempo stesso fortemente «solidale», secondo il sottosegretario al Ministero della Salute Eugenia Roccella, una delle persone che ieri hanno accolto con maggiore soddisfazione questa decisione.
Sottosegretario, dunque possiamo dire che il ministero della Salute ha messo la parola fine su tutta la vicenda?
Innanzitutto, ci tengo a ricordare che questa è una decisione del ministero della Salute e delle Politiche sociali. C’è infatti una componente sociale molto forte in questa decisione. Il caso Eluana si gioca sostanzialmente su due fronti: da una parte c’è l’idea di autodeterminazione, che qui è molto discutibile, perché la sentenza presuppone una sorta di autodeterminazione su base indiziaria. L’altro fronte è quella della limitazione del concetto di qualità della vita.
In che senso questa cosa è stata espressa?
È un concetto che trapela: anche se magari inespresso, emerge chiaramente dal modo con cui i media ne parlano. Si tratta dell’idea che la vita di Eluana e delle persone che vivono nella sua stessa condizione sia una vita di “serie B”, e quindi non degna di essere vissuta. In particolare si sospetta che non sia degna la vita senza autonomia. L’idea di una vita affidata a una cura è una discriminante di qualità. Ma questo è un concetto umanamente e socialmente inaccettabile: ogni relazione infatti presuppone l’affidamento. La relazione è sempre dipendenza, e non si può espungere la dipendenza dalla vita umana. Quindi è una concezione che è minacciosa sul piano della solidarietà sociale.
Qual è ora in termini concreti il valore di questa decisione?
Questo è un atto di indirizzo del governo, su una materia concorrente tra lo stesso governo e le Regioni, su cui cioè c’è condivisione di poteri. L’atto è pertanto indirizzato dal governo ai presidenti delle Regioni, ed è una valutazione fatta a partire dalle norme esistenti, che vengono interpretate in modo da dare omogeneità al Servizio sanitario nazionale in tutte le Regioni e in tutte le strutture sanitarie, evitando differenze e situazioni di ambiguità
Quali sono le norme vigenti su cui si basa questo atto del governo?
Da una parte si tiene conto del pronunciamento del Comitato nazionale di bioetica, e dall’altra della nuova Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, il cui processo di ratifica è passato dal Consiglio dei ministri. Si tratta quindi di una norma internazionale che noi ci siamo impegnati a rispettare. Per quanto riguarda il primo punto, il parere del Comitato di bioetica diceva che a una persona disabile, con problemi di autosufficienza ma non di terapie, non si può sottrarre tutto ciò che concerne il semplice accudimento, perché si tratta di gesti di sostegno vitale, di cura primaria. Si precisava anche che questo non riguarda solo l’idratazione e l’alimentazione, ma ogni altro gesto di accudimento: anche il coprire una persona disabile e non lasciarla al freddo rientra in questi gesti, così come il farle fare mobilitazione per evitare la formazione di piaghe, e molto altro ancora. Se dunque abbandono la persona disabile e non faccio tutti questi gesti di cura, tra cui anche, ma non solo, l’idratazione e l’alimentazione, metto a rischio la sua vita, e questo non è accettabile. Questo era il parere del Comitato nazionale di bioetica, che è organo istituzionale per i pareri in materia di bioetica.
Cosa dice invece la Convenzione dell’Onu?
La Convenzione Onu all’articolo 25 dice che a un disabile incapace di provvedere a se stesso non si possano far mancare acqua e cibo. Si tratta di un testo che è stato scritto con un intento preciso, vale a dire dopo il caso Terri Schiavo, proprio per evitare che quel caso si potesse ripetere. Inoltre si tratta di una convenzione internazionale che avrà effetti vincolanti per l’Italia. Quindi anche in questo caso era necessario tenerne conto.
Ora però rimane aperta l’ultima possibilità: Peppino Englaro può comunque portare a casa Eluana.
Certo, questo può naturalmente succedere. Ma il governo ha fatto quello che poteva fare, e l’ha fatto in maniera assolutamente corretta e senza offendere o prevaricare nessuno. Non ha invaso la famiglia, non ha invaso la magistratura; ma, al tempo stesso, non poteva tacere. Possiamo finalmente dire che quando si accusa di anarchia etica questo governo, ora abbiamo invece un atto in cui si prende convintamente posizione. E di questa forte decisione bisogna rendere merito al ministro Sacconi.
Questa decisione ha l’effetto solo di bloccare una sentenza, o avrà un valore nel lungo termine, evitando anche che ci possano essere nuove sentenze come questa?
Si tratta certamente di un atto di indirizzo, che è stato adottato sulla base dell’interpretazione delle norme vigenti. Oltre alle norme già citate, c’è poi anche l’articolo 32 della Costituzione, che parla di diritto alla cura, e non solo libertà di cura. Poi c’è anche la legge sul Servizio sanitario nazionale, in cui si afferma che tale servizio è mirato alla cura e alla tutela della salute, e che atti che vadano contro questo non sono accettabili. Sulle sentenza poi non entro e non voglio entrare, perché la magistratura è un ambito separato. Quello che, ripeto, possiamo affermare con certezza è che questo è un atto forte, con un peso di cui siamo consapevoli. Un atto che ha soprattutto, e ritorno a quanto detto all’inizio, un grande valore culturale, perché pone al centro del dibattito il riconoscimento della centralità della persona, e il riconoscimento che ogni vita ha il suo valore.


USA/ La riscossa dei Kennedy - Lorenzo Albacete - mercoledì 17 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Caroline Kennedy, figlia del Presidente John F. Kennedy, ha annunciato pubblicamente di essere interessata a diventare il prossimo senatore per lo stato di New York, occupando il seggio lasciato libero da Hillary Clinton dopo la nomina a Segretario di Stato nel governo Obama.
La decisione spetta al governatore di New York, Patterson, che dovrà nominare il sostituto della Clinton per i due anni che mancano alla scadenza naturale dell’incarico. Dopo di che, se la Kennedy vuol continuare a essere senatrice, dovrà correre per la carica come chiunque altro.
Non ho alcun dubbio che la maggioranza dei newyorkesi approverebbe la sua nomina, ma ciò che ci si sta chiedendo è per quali ragioni lei voglia questa carica. Caroline Kennedy è sempre stata una persona molto riservata, evitando l’attenzione pubblica e perseguendo i suoi interessi dietro le quinte (è in possesso di una laurea in legge e può esercitare sia a New York che a Washington, ma non lo ha mai fatto).
È chiaro che non sta cercando potere e fama, e si è anche fatto rilevare che la vita politica le ha sempre ricordato la sua tragedia familiare. Ci si chiede quindi perché ora stia invece facendo una campagna pubblica per essere nominata.
Probabilmente, si tratta in effetti di una questione di famiglia. I Kennedy sono stati allevati con un forte senso della storia della loro famiglia, che è riuscita a superare la povertà e la discriminazione diventando una delle famiglie più ricche del Paese.
Ci potrebbe anche essere un elemento di rivincita verso quella parte dell’establishment politico spinto da forti pregiudizi contro gli immigrati, gli irlandesi e, specialmente, contro i cattolici, ma il senso del dovere dei Kennedy è fuori discussione.
C’è stato un Kennedy in Senato da quando John F. Kennedy era senatore per il Massachusetts, prima di essere eletto presidente. Dopo il suo assassinio, suo fratello Robert divenne senatore per New York. Edward (Ted) lo divenne per il Massachusetts e, ora che gli è stato diagnosticato un tumore al cervello, la sua morte significherebbe l’assenza di un Kennedy sulla scena politica nazionale, a meno che Caroline venga nominata senatrice.
Immigrati e americani di origine irlandese hanno senza dubbio beneficiato dal successo dei Kennedy, ma sfortunatamente non si può dire lo stesso per i cattolici. Durante la sua campagna per la presidenza, John F. Kennedy dovette assicurare ai leader protestanti che il suo cattolicesimo non avrebbe influenzato le decisioni da presidente.
La maggioranza dei cattolici considerò questa una mossa tattica necessaria per avere una possibilità di vittoria. Durante la sua presidenza non vi furono peraltro questioni che potessero porre in conflitto le sue decisioni come presidente e la sua fede, e così la presidenza Kennedy rappresentò il punto di più alta popolarità del cattolicesimo americano.
Dopo il 1968, tuttavia, il Partito Democratico è caduto nelle mani degli attivisti ideologizzati di sinistra e i Kennedy hanno messo da parte il loro cattolicesimo per poter mantenere le loro posizioni. Caroline Kennedy non ha fatto o detto niente, in realtà, che indichi la sua disponibilità a condividere questa posizione e a rendere la sua fede cattolica una faccenda del tutto privata, ma non ha neppure fatto o detto niente che possa far sperare i cattolici che la sua politica potrebbe essere diversa.


SCUOLA/ Sulla valutazione troppe resistenze da parte dei docenti - INT. Daniele Checchi - mercoledì 17 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Come già discusso ieri su ilsussidiario.net, l’Invalsi ha prodotto nei giorni scorsi un documento programmatico su come impostare la valutazione per il nostro sistema scolastico. Daniele Checchi, dell’Università degli Studi di Milano, è tra gli autori di questo documento, e ha accettato di approfondirne i contenuti.
Professor Checchi, il primo obiettivo che si pone un documento come questo è il fatto di colmare il vuoto accumulato dall’Italia sul fronte della valutazione: che cosa ha frenato l’introduzione di una cultura della valutazione nella scuola italiana?
Per rispondere con una battuta, direi che questo è la conseguenza del fatto che la scuola appartiene alla pubblica amministrazione. È una malattia generale della pubblica amministrazione, infatti, quella di non aver interiorizzato il principio che occorre rendere conto alla collettività delle risorse impiegate nel proprio servizio. A questa cura è stata sottoposta in prima battuta la sanità: non c’è stato un sostanziale miglioramento dal punto di vista del risparmio delle risorse, ma quanto meno un allargamento della coscienza che la sanità costa risorse e che quindi c’è un problema di come usarle in modo ottimale. Adesso ne è stata investita in parte anche la scuola. In questo ambito però l’ostacolo principale è dato dal fatto che è molto difficile far passare tra gli insegnanti, e anche tra i docenti universitari, la cultura per cui bisogna dar conto alla società di ciò che si fa
Quali sono le difficoltà più grosse proprio da parte dei docenti nell’accettare questo passaggio?
La difficoltà più grossa è che si è sempre pensato in modo distorto il principio della libertà di insegnamento: si dice che un discente non può esprimere valutazioni sul docente, e solo i pari possono esprimere valutazioni su altri docenti, con ciò implicitamente creando una specie di coalizione anti-valutazione, dal momento che nessuno parlerebbe male di un proprio collega. Poi non viene accettata l’idea della comparazione; questo però può essere superato dal fatto che i valutatori partono sempre come primo livello dall’autovalutazione, quindi dalla presa di coscienza della propria situazione. Superato anche questo ostacolo, bisogna poi fare i conti con la resistenza alla misurazione: si dice che l’attività didattica, essendo un fatto relazionale, non può essere misurata. Cosa in parte vera, ma che non può bloccare il processo valutativo: esistono infatti elementi dell’apprendimento che sono oggettivamente misurabili. Anche superate tutte queste resistenze dei docenti, si presentano poi i problemi di natura politica.
Vale a dire?
Il fatto di chiedersi qual è l’uso che si può fare di un’iniziale valutazione e di una misurazione degli esiti dal punto di vista delle politiche. Si possono ad esempio usare gli esiti della valutazione per intervenire laddove c’è un basso risultato, per dare strutture di supporto a chi è in difficoltà; oppure guardare chi ha risultati elevati, con l’intento di procedere in senso meritocratico e premiare chi va bene. Oppure si può fare un combinato dei due. La cosa importante è che tutto ciò venga enunciato all’inizio, perché ovviamente ogniqualvolta si faccia un esercizio di misurazione la misura che viene utilizzata può essere manipolabile dal valutato.
Quali sono i modelli internazionali di riferimento? E quali paesi sono più avanzati sul versante della valutazione?
L’esperienza estera di riferimento è quella dei sistemi scolastici secondari non settorializzati: i sistemi anglosassoni. Un sistema uniforme ha infatti bisogno di misurazioni oggettive dei livelli di apprendimento. Mentre noi sappiamo tendenzialmente che uno studente liceale ha certe capacità rispetto a uno studente di un istituto tecnico, se il sistema è uniforme bisogna avere delle misure che siano oggettive. Quindi i paesi con sistemi così strutturati hanno negli anni maturato un sistema di valutazione più complesso e attendibile, che può valere come punto di riferimento.
Fissare i principi per impostare la valutazione è una cosa importante, ma altrettanto fondamentale è poi come effettuare questo sul campo: abbiamo i precedenti delle prove Invalsi di terza media che hanno evidenziato notevoli storture. Come assicurare una giusta applicazione di questi meccanismi di valutazione?
Il requisito importante è quello della terzietà. Quello che è accaduto sulla quarta prova Invalsi è legato al fatto che la somministrazione è stata fatta dagli insegnanti; sarebbe bastato mandare esaminatori esterni e questo problema non ci sarebbe stato. Ma lo stesso poi vale anche per la maturità, dove ci sono segni evidenti che sia degenerato il clima. Il fatto, ad esempio, che il 27% degli studenti pugliesi prenda 100 e lode alla maturità vuol dire che nessuno ritiene necessario verificare che il voto significhi qualcosa. Questa spinta alla valutazione deve quindi essere recuperata.
Come si collega il problema della valutazione con gli altri aspetti di una possibile riforma della scuola, cioè con quegli elementi, come l’autonomia, che possono far uscire dall’eccessiva centralizzazione del nostro sistema?
La valutazione avrebbe dovuto essere una pre-condizione dell’autonomia, nel senso che nel momento in cui si dà autonomia alle scuole bisogna valutare quali effetti produce ed eventualmente ricorrere ai ripari se si creano situazioni strane. Questo non è accaduto. Io mi aspetto che la valutazione possa servire non solo a controllare ma anche a garantire una maggiore autonomia alle scuole. Ora ci troviamo in una situazione un po’ strana, perché le scuole di gradi di autonomia veri, nella selezione del personale e nella gestione delle risorse, ne hanno veramente pochi. Non ci si può limitare a dire: “ti do autonomia bassa e non ti valuto”. Ci vorrebbe al contrario più autonomia e più valutazione.
E sulla parità?
Anche sul fronte della parità la valutazione può essere molto utile. Noi sappiamo che uno dei problemi dal punto di vista degli apprendimenti è che le scuole paritarie tendono ad avere mediamente perfomances più basse; non in tutti i Paesi, ma in Italia sì, e questo dipende da come si è posizionata la scuola paritaria sul mercato dell’istruzione. Da questo punto di vista l’obiezione è che con la parità si darebbero risorse a scuole che vanno peggio, e quindi non si andrebbe a migliorare l’efficienza. Una buona valutazione, invece, anche del punto di partenza degli studenti, porterebbe al superamento di molti di questi aspetti.
Che cosa pensa delle polemiche che ogni tanto vengono sollevate dai giornali sulla funzione e sull’eccesso di spese dell’Invalsi?
Il problema è che non è assolutamente vero che si spenda tanto. Il problema dell’Invalsi è tutt’altro: che non ha organico per fare quello che deve fare. Tenga conto che un paese come l’Inghilterra spende 85 milioni di euro per la valutazione del proprio sistema scolastico, mentre l’Invalsi costa 300 o 400 mila euro, e il personale dipendente è di 15 persone. Il motivo per cui la valutazione in Italia è rimasta indietro è anche il fatto che fondamentalmente non c’erano soldi da mettere su questa partita. Quindi c’è solo da augurarsi che si investa di più.
(Rossano Salini)


REVISIONISMO/ Napolitano: da Fini parole sorprendenti, sul razzismo nazista la Chiesa si schierò pubblicamente - INT. Matteo Luigi Napolitano – mercoledì 17 dicembre 2008 - IlSussidiario.net
Nel marzo del 1937, Pio XI, papa Ratti, promulgava l’enciclica Mit brennender Sorge, documento di condanna del nazismo diffuso a fine mese dalla stampa tedesca. Letteralmente l’espressione significa “con bruciante preoccupazione”. Una preoccupazione che sembra non essersi del tutto “spenta”, per lo meno da parte di chi, come Matteo Luigi Napolitano o Giovanni Sale, conosce bene il ciclo dei corsi e ricorsi storici. Spesso infatti proprio coloro che intendono purificare la propria posizione sociale da imbarazzanti contaminazioni con il passato rischiano, forse per troppa veemenza, di perdere l’equilibrio e ricadere nella gabbia ideologica dalla quale vogliono evadere. Un segno di ciò è la propensione ad alterare la memoria collettiva, tentazione che le ideologie totalitarie del secolo scorso ben conoscono.
«L’ideologia fascista da sola non spiega l’infamia delle leggi razziali. C'è da chiedersi perché la società italiana si sia adeguata nel suo insieme alla legislazione antiebraica e perché salvo luminose eccezioni non siano state registrate manifestazioni particolari di resistenza. Nemmeno da parte della Chiesa cattolica». Con queste parole il presidente della Camera Gianfranco Fini si è espresso a Montecitorio in occasione del 70mo anniversario della promulgazione delle leggi razziali.
Professor Napolitano, come giudica le parole pronunciate dal presidente della Camera Gianfranco Fini in merito al presunto “adeguamento” della Chiesa di fronte alle leggi razziali?
Chiaramente non posso giudicarle da un punto di vista politico, ma sul versante storico le parole di Gianfranco Fini si possono definire per lo meno sorprendenti. Questo ovviamente non per la eco che è stata loro data e che è dovuta al fatto che a parlare è il presidente della Camera, bensì per un’accusa a un soggetto, la Chiesa Cattolica, che per gli ebrei ha fatto moltissimo. Questo lo dimostrano anche i numerosi riconoscimenti della comunità ebraica al Vaticano. In un contesto storiografico simili asserzioni debbono essere oggetto di una contestazione, garbata, ma sostanziale.
A proposito di contestazione il gesuita e storico Giovanni Sale ha ribadito la ferma opposizione di Pio XI il quale condannò apertamente l’antisemitismo
Ha perfettamente ragione. Conosco Giovanni Sale molto tempo e devo dire che le sue considerazioni, al di là dei toni polemici espressi in alcuni passaggi, sono assolutamente equilibrate e obiettive. Tra l’altro, senza nulla togliere al suo valore di storico, sono obiezioni molto solide anche perché sono particolarmente facili da documentare, vista la mole di materiale a disposizione.
Che cosa intende il presidente Fini quando fa riferimento alla mancanza di una “resistenza”?
Se si tratta di aprire la finestra del loggiato di Piazza San Pietro e dichiarare al mondo l’ingiustizia delle leggi razziali non si mette in atto il senso in cui la Santa Sede in quel periodo, ma generalmente in tutti i tempi, intende. Non occorrevano allora dichiarazioni tanto plateali quanto inutili. Piuttosto era necessario rifarsi a quell’atteggiamento che anche la Bibbia definisce “il seme della resistenza”. Se noi però consideriamo le leggi razziali nell’Europa di allora e le caliamo nel contesto dell’azione della Sede Apostolica, prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, possiamo facilmente notare un’attenzione costante del Vaticano a difesa dell’ebraismo e del popolo ebraico minacciato dalle varie leggi speciali di diversi Paesi. Non bisogna fermarsi soltanto alle leggi antisemite e razziali tedesche e italiane, ma anche a quelle speciali del governo francese di Vichy, collaborazionista, quelle emanate in Croazia, in Slovacchia o in Ungheria, promulgate dunque da Stati collaborazionisti e filofascisti. Per tutti questi casi la Chiesa Cattolica è sempre intervenuta puntualmente, in alcuni frangenti chiosando addirittura articolo per articolo. Ma non si trattò solamente di questo. Ci sono numerosissimi episodi di una vera e propria difesa attiva contro il sistema razziale.
Le constatazioni espresse dal presidente della Camera coinvolgono anche l’indifferenza popolare verso le leggi razziali. Eppure sembra una condanna che solitamente si ascrive in misura più frequente e immediata nei confronti del popolo tedesco, per quale motivo?
Il popolo italiano, grazie agli studi e alla documentazione esistente, gode di una visione completa e articolata del fascismo. Una visione che i tedeschi non possono a propria volta avere nei confronti del nazismo. Questo perché Mussolini e il regime mussoliniano hanno prodotto una vastissima quantità di documenti. Di Mussolini si sa praticamente quasi tutto, lo dobbiamo particolarmente agli studi di Renzo De Felice e alla sua monografia, lo dobbiamo alle ricerche dei suoi allievi e lo dobbiamo anche allo stesso duce che, essendo un grafomane, un ex giornalista, uno che amava scrivere, ha fornito allo storico una miniera inesauribile di materiali.
Ciò ha consentito agli italiani, come felicemente ha detto Sergio Romano, di rimuovere il “convitato di pietra” del fascismo dandone un giudizio pressoché completo e favorendone la storicizzazione. I tedeschi invece si chiedono ancora oggi con angoscia per quale motivo gli emuli della cultura germanica di Fichte e di Hegel, lo stesso Heidegger, abbiano potuto darsi in pasto per poco più di un decennio a uno sconosciuto caporale austriaco. Questa inspiegabilità crea un disagio collettivo dal punto di vista della memoria storica. Perciò è molto più viva nel popolo tedesco la condanna all’indifferenza diffusa in quegli anni nei confronti delle leggi razziali e dell’Olocausto.
Quale fu l’atteggiamento degli italiani a fronte della promulgazione delle leggi?
Negli italiani non ci fu mai, salvo rarissime eccezioni, una grande convinzione rispetto alla svolta biologica data dal regime con le leggi razziali. Leggi che, giustamente, il presidente Fini reputa infami anche per sdoganarsi da una cultura di riferimento, interna al suo partito, che per molto tempo ha difeso le decisioni di Mussolini e che poi, proprio grazie alla svolta di Fiuggi, è riuscita a emanciparsi da questo retaggio. In Italia si segnalarono molti più casi di solidarietà illegale agli ebrei rispetto a quello che accadde in Germania. Quando si trattò di consegnare ai nazisti gli ebrei che abitavano nei territori controllati dagli italiani l’esercito fece di tutto per non realizzare queste direttive. Cominciarono con l’allontanare le famiglie ebree dai confini per far sì che potessero cadere meno facilmente in mani tedesche. Ripetutamente i tedeschi fecero appello al Governo italiano affinché lo Stato Maggiore desse ordini precisi in merito alla consegna degli ebrei e, sistematicamente, lo Stato Maggiore fece il doppio gioco dichiarando ufficialmente una piena collaborazione, ma, nei fatti, nicchiando il più possibile.
Non si tratta di leggende da “italiani brava gente”, ma di storia documentata. L’atteggiamento del nostro esercito nel ’42-‘43 fu tendenzialmente lo stesso in tutti i territori occupati dall’Italia. Gli ebrei di Grecia, gli ebre francesi e quelli croati furono in gran parte tutelati. In poche parole, mentre per l’ideologia nazista l’antisemitismo era una conseguenza quasi logica, gran parte degli italiani ritenne che si trattasse di un “innesto” innaturale nella propria cultura.
Condannare il proprio passato distanziandosene e accusando una “fetta” di popolazione che “ha sbagliato” sembra una prassi diffusa sia a destra sia a sinistra. Spesso simili prese di posizione portano a considerazioni sostanzialmente ingiuste. Esiste un modo di chiudere con il passato senza ricadere nell’ideologia?
Sì, occorre innanzitutto non fare della storia l’ancella del dibattito e della diatriba politica. In secondo luogo bisogna sempre far parlare i documenti senza aggiungere altro. Ho a questo proposito alcuni esempi: L’Osservatore Romano, il 2 luglio del 1938, riporta un discorso del papa che dice: «cattolico significa universale e ogni spirito di separatismo e di esasperato nazionalismo è detestabile». Questa notizia venne riportata dall’ambasciatore americano in Italia in un dispaccio al segretario di stato americano il 24 luglio dello stesso anno. Il 20 ottobre Cosmelli, ai tempi incaricato d’affari a Washington, scrive a Galeazzo Ciano: «La parola Papale, il razzismo sempre più imperante determinano un atteggiamento di forte dissenso dei cattolici americani nei confronti di Italia, Germania e Russia». Il 5 novembre il segretario di Stato americano Welles comunica all’ambasciatore italiano a Washington: «il Vaticano ha preso pubblica posizione contro le discriminazioni razziali». Il 14 novembre la Segreteria di stato riporta una «nota di protesta del Papa sull'approvazione del decreto legge per la difesa della razza inviata a S. E. il signor Ambasciatore d'Italia». In quegli stessi giorni il cardinal Pacelli, futuro Pio XII annotava nei suoi appunti personali: «il Santo Padre attende la risposta del Re. Mussolini pensi bene a quello che fa. È un vulnus al Concordato. Il Papa non si presterà in alcun modo». Questi sono solo pochi esempi, e si potrebbe continuare a lungo.
Ora, è chiaro che le parole di un politico hanno per loro natura un peso storiografico. Di fronte alla vasta mole di documenti di cui disponiamo sarebbe per lo meno auspicabile, se non altro per amor di verità, che a dichiarazioni di questo tipo si possa contrapporre il giudizio della storia autentica.


CIÒ CHE I MEDIA MAI NON SPIEGANO - I «sì» della Chiesa molto più grandi dei «no» - GIACOMO SAMEK LODOVICI - Secondo Pietro Citati, su Repubblica – Avvenire, 17 dicembre 2008
di qualche giorno fa, la Chiesa pensa che «bisogna alzare muri, muretti, scavare fossati, puntare cannoni o piccoli fucili, alzare il dito, proclamare principi e assiomi». È un modo di pensare la Chiesa molto diffuso, rinforzato da numerosi commenti alla Dignitas personae
(chissà se Citati l’aveva in mente), la recente istruzione vaticana concernente alcune questioni di bioetica. Secondo molti «la Chiesa dice solo dei no». Tuttavia, la Chiesa non parla solo di etica, ma anche di Dio e della vita eterna, per fare solo due esempi. Inoltre, i 'no' della Chiesa sono il risvolto, quasi mai spiegato dai media, di un’etica del 'sì' e, ancora più a fondo, di un’etica dell’amore. Infatti, fedele al 'comandamento dell’amore' di Gesù – «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27) – l’etica proclamata dalla Chiesa non può non difendere la dignità di ogni essere umano: concepito, malato terminale, disabile in stato 'vegetativo', ecc. Ovviamente, si può discutere sullo status di questi esseri umani; ma, a chi vuol vedere le cose, dovrebbe essere almeno chiara l’intenzione della Dignitas personae,
visto che è esplicitata fin dall’inizio: «ad ogni essere umano, dal concepimento alla morte naturale, va riconosciuta la dignità di persona. Questo principio fondamentale [...] esprime un grande 'sì' alla vita umana
». È l’amore (nella forma del rispetto e del desiderio-realizzazione del bene altrui) per l’uomo che anima il magistero morale della Chiesa. È l’interesse affettuoso verso ognuno di noi, in particolare se indifeso, debole, inerme, solo. Gli uomini di Chiesa, senza venir meno alla laicità dello Stato, dunque senza svolgere ruoli politici, bensì attraverso l’annuncio, hanno il dovere di pronunciarsi quando è minacciata la dignità dell’uomo.
Benedetto XVI lo ha chiarito qualche tempo fa: «Se ci si dice che la Chiesa non dovrebbe ingerirsi in questi affari, allora noi possiamo solo rispondere: forse che l’uomo non ci interessa?». La Chiesa, piuttosto, ha il «dovere di alzare la voce per difendere l’uomo», e, quando interviene sui temi etici, lo fa con argomenti ricavati dalla Rivelazione, ma anche con ragionamenti laici, che ovviamente si possono discutere, ma che si rivolgono a tutti. Poiché l’amore è il cuore dell’etica della Chiesa, non c’è da stupirsi che essa non stabilisca solo dei doveri e che gli atti moralmente più eccellenti non siano considerati doverosi. Per esempio, dare la vita per gli altri non è, salvo rari casi, un dovere e «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» ( Gv
15,13). Quanto ai doveri, essi possono essere affermativi (onora i tuoi genitori, ama il tuo prossimo, ecc.), oppure negativi (non assassinare, non rubare, ecc.). Ma i media quasi sempre riducono l’insegnamento della Chiesa ai doveri negativi, senza far presente che questi precetti sono la conseguenza ineludibile del precetto dell’amore, di un amore che dice un grande 'sì' all’uomo. Infatti, se amo il prossimo non lo devo calunniare, derubare, assassinare, ecc. Come dice s. Paolo: «il precetto: non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: amerai il prossimo tuo come te stesso. L’amore non fa nessun male al prossimo» ( Rm 1,
13, 8-10). E se amo il mio prossimo più indifeso, cioè il concepito, non lo devo abortire, fabbricare, manipolare.