martedì 2 dicembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il Papa chiede preghiere per la diffusione della cultura della vita - Intenzioni per dicembre dell'Apostolato della Preghiera
2) La Colletta alimentare «batte» la crisi - Raccolte 8.970 tonnelate di cibo. Inzoli: un vero miracolo della carità, che ha avuto come protagonista il popolo – Avvenire, 2 dicembre 2008
3) ELUANA/ Bertoglio (Ospedale di Lecco): il mio incontro con Peppino Englaro e il suo dramma - INT. Ambrogio Bertoglio - -martedì 2 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
4) Contro la crisi serve il coraggio degli artigiani - Antonio Intiglietta - martedì 2 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
5) ISTRUZIONE/ Riforme: perché la politica italiana resta immobile sulla scuola? - Giovanni Cominelli - martedì 2 dicembre 2008 – IlSussidiari.net
6) IL CASO/ Dal Kazakhstan una legge che attacca la libertà religiosa - Redazione - martedì 2 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
7) SCUOLA/ La nuova Formazione Professionale: una strada efficace per affrontare l’emergenza educativa - Associazione Foe - martedì 2 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
8) 02/12/2008 10:43 – IRAQ - Nel “nuovo” Iraq c’è una strategia che mira ad eliminare i cristiani - di Dario Salvi – Joseph Yacoub, esperto di cristianesimo in Medio Oriente, denuncia “politiche discriminatorie” del governo di Baghdad, incapace di garantire “unità e sicurezza “ ad un Paese diviso ed egoista. Il ritiro delle truppe americane è un cambiamento “di facciata”, mentre i cristiani continuano a essere perseguitati.
9) Benedetto XVI celebra i vespri per l'inizio del tempo di Avvento nella basilica di San Pietro - La Chiesa deve diventare speranza per se stessa e per il mondo - "L'Avvento è per eccellenza la stagione spirituale della speranza, e in esso la Chiesa intera è chiamata a diventare speranza, per se stessa e per il mondo". Lo ha detto il Papa durante l'omelia dei primi vespri della prima domenica di Avvento, celebrati sabato pomeriggio 29 novembre nella basilica di San Pietro. – L’Osservatore Romano, 2 Dicembre 2008
10) Il Papa a studenti di Parma ricorda che nell'università si realizza la sintesi tra individualismo e comunità Ogni riforma inizia da se stessi e si realizza nel rispetto della libertà - L'università per sua natura vive di un virtuoso equilibrio tra il momento individuale e quello comunitario, tra ricerca e riflessione di ciascuno e condivisione e confronto aperto in un orizzonte tendenzialmente universale. Sono principi che dovrebbero essere oggi riscoperti. Lo ha detto il Papa durante l'udienza concessa lunedì 1 dicembre, a universitari di Parma. – L’Osservatore Romano, 2 Dicembre 2008
11) LO STRANO CASO DELL’AGGIORNAMENTO DELLA STAMPA CATTOLICA - Sentenze attaccate al vecchio La neurologia fa passi da gigante - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 2 dicembre 2008
12) PERSONE E DIRITTI - Chiare e inequivocabili dichiarazioni rese dal rappresentante vaticano al Palazzo di Vetro, Migliore, stravolte in alcuni titoli di agenzia. E si accende una ridda di reazioni - i gay «né forzature né discriminazioni» - Santa Sede contraria a una proposta della Ue all’Onu che può originare «meccanismi di controllo e di pressione» - Padre Lombardi: il catechismo della Chiesa esclude pena di morte e legislazioni violente o persecutorie, ma quel testo non si limita a depenalizzare, ha un valore politico gravido di conseguenze. - DI DANIELE ZAPPALÀ – Avvenire, 2 dicembre 2008


Il Papa chiede preghiere per la diffusione della cultura della vita - Intenzioni per dicembre dell'Apostolato della Preghiera
CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 1° dicembre 2008 (ZENIT.org).- Benedetto XVI chiede in questo mese di dicembre preghiere perché la cultura della vita possa diffondersi grazie all'opera della Chiesa.
Lo propone nelle intenzioni dell'Apostolato della Preghiera, iniziativa seguita da circa 50 milioni di persone dei cinque continenti per questo mese che inizia.
Il Papa presenta due intenzioni di preghiera, una generale e una missionaria.
L'intenzione generale del mese di dicembre recita: "Perché, di fronte al crescente espandersi della cultura della violenza e della morte, la Chiesa promuova con coraggio la cultura della vita con ogni sua azione apostolica e missionaria".
L'intenzione missionaria si ispira al Natale ormai vicino: "Perché i cristiani, soprattutto nei Paesi di missione, attraverso concreti gesti di fraternità, mostrino che il Bambino nato nella grotta di Betlemme è la luminosa Speranza del mondo".


La Colletta alimentare «batte» la crisi - Raccolte 8.970 tonnelate di cibo. Inzoli: un vero miracolo della carità, che ha avuto come protagonista il popolo – Avvenire, 2 dicembre 2008
MILANO. C’era di mezzo la crisi economica che morde e faceva presagire una raccolta inferiore rispetto al passato. E ci si è messo di mezzo anche il maltempo, che ha imperversato in molte città, rendendo tutto più difficile. Eppure la Giornata nazionale della Colletta alimentare ha fatto registrare un risultato migliore rispetto all’anno scorso. In 7500 supermercati i volontari hanno raccolto 8970 tonnellate di prodotti alimentari, offerti da oltre 5 milioni di persone, per un valore economico complessivo stimato in oltre 27mila euro. «La vera protagonista è stata la carità, la carità del popolo – dice monsignor Mauro Inzoli, presidente della Fondazione Banco Alimentare Onlus –. La risposta della gente è stata più grande della paura e della crisi. I numeri, in crescita anche in questa edizione, sono un segno di speranza: il cuore degli italiani e la gratuita capacità di condividere il bisogno degli altri hanno compiuto un miracolo. In un momento in cui si parla di calo dei consumi, la Colletta alimentare è andata in controtendenza».
Molti gli episodi che testimoniano la dimensione popolare di un’iniziativa elementare come quella di «fare la spesa» per chi è in difficoltà, donando un pacco di pasta o una bottiglia di olio. Offerte piccole, ma anche di proporzioni ragguardevoli, come quella del pensionato che a Milano ha lasciato ai volontari un carrello colmo di prodotti. Ad Adria una donna ha consegnato un carrello pieno di alimenti, raccontando di conoscere bene cos’è la povertà, dopo una vita difficile con un marito e sette figli.
«Ora la nostra condizione è dignitosa e ho capito cosa conta davvero nella vita, per questo la Colletta non mi può lasciare indifferente». Alla raccolta hanno partecipato centomila volontari di ogni età e condizione sociale, tra cui molti giovani. A Ponte Lambro, periferia milanese, alcuni ragazzi marocchini ed egiziani hanno raccolto i sacchetti all’uscita dal supermercato insieme ai loro compagni di scuola italiani. «L’anno scorso l’aveva fatto mia madre con alcune sue amiche italiane – racconta Khaled –, stavolta ho voluto esserci anch’io». Per continuare ad aiutare la rete Banco alimentare, si possono donare un euro (da telefono cellulare) o 2 euro (da telefono fisso) inviando un sms al numero 48589, attivo fino al 15 dicembre.
Giorgio Paolucci




ELUANA/ Bertoglio (Ospedale di Lecco): il mio incontro con Peppino Englaro e il suo dramma - INT. Ambrogio Bertoglio - -martedì 2 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Dopo la sentenza sul caso Englaro si è aperta la macabra caccia all’ospedale che stacchi il sondino e che permetta la morte per fame e per sete di Eluana. Il primo ospedale cui Peppino Englaro si è rivolto è l’ospedale di Lecco. Ambrogio Bertoglio, direttore generale dell’ospedale, ha accettato di raccontare a ilsussidiario.net come si sono svolti i fatti.
Dottor Bertoglio, come le è arrivata la richiesta di procedere all’attuazione della sentenza che dà la possibilità di interrompere l’alimentazione e l’idratazione a Eluana?
Nel mese di giugno è arrivata all’ospedale una richiesta scritta firmata dal padre di Eluana, Peppino Englaro, in cui ci chiedeva la possibilità di utilizzare uno spazio all’interno dell’ospedale in cui poter accogliere per un numero limitato di ore Eluana, e durante questo tempo e in questo spazio sarebbe stato tolto il sondino da parte di operatori di fiducia del padre di Eluana. Nella richiesta si precisava che non erano necessari infermieri e che sarebbe stato sufficiente un aspiratore e nessun’altra attrezzatura.
E lei cos’ha risposto?
Ho scritto una risposta articolata in tre punti. Il primo punto era che l’ospedale costruisce una propria organizzazione, una propria fisionomia terapeutica, e la descrive all’interno del piano di organizzazione, che viene pubblicata; con questa presentazione l’ospedale si presenta al mondo, e quindi la gente che la legge decide di farsi curare in questo ospedale, sapendo qual è la struttura terapeutica e clinica che qui si mette in atto. Il secondo punto della risposta era che il nostro ospedale, per ovvia consuetudine, non aveva mai né affittato né prestato spazi all’interno dell’ospedale, perché altri dal di fuori venissero ad esercitare sotto il tetto dell’ospedale pezzi di terapia o di cura gestiti da altri. Terzo punto, il codice deontologico sia dei medici che degli infermieri, dice che anche in assenza e nell’impossibilità di essere efficaci terapeuticamente, comunque l’accudire la persona e il dar da bere e da mangiare va garantito comunque.
Poi cos’è successo?
La risposta, pur articolata e per niente forte, era però sicuramente una risposta molto burocratica. Quindi ho deciso di telefonare al signor Englaro per dirgli di venire e per potergli parlare direttamente. Lui è venuto la mattina stessa, e abbiamo fatto un lunghissima chiacchierata. Englaro mi disse subito che si aspettava quella risposta, e che aveva fatto la richiesta quasi per dovere, ma senza aspettarsi nulla. Qualche tempo dopo ha fatto la stessa richiesta in termini generali alla Regione Lombardia, e la risposta che ha ottenuto ripercorreva sostanzialmente le stesse argomentazioni, seppur articolate in maniera diversa. Quindici giorni fa è poi arrivata una comunicazione da parte della magistratura: ho appreso che il signor Englaro ha denunciato sia la Regione che il nostro ospedale perché non abbiamo ottemperato alla disposizione della sentenza.
A parte quest’ultimo aspetto della vicenda, che cosa è emerso dall’incontro che lei ha avuto con il signor Englaro?
È stato un incontro molto interessante: ci siamo guardati da padri e ci siamo messi a parlare della situazione. Lui non si è affatto nascosto, ed è stato molto cordiale e molto franco. Nel nostro dialogo ha raccontato di sé presentandosi come un vecchio socialista umanitario, molto amante della libertà. Un uomo proveniente dalla dura Carnia nei tempi del dopoguerra: una terra povera, e molto faticosa. Quindi mi si è presentato come una persona con un grande senso del dovere, e con l’idea di essere da solo contro la durezza della vita, che va affrontata facendo leva sulla propria forza di volontà.
Che cosa le ha detto invece di Eluana?
Lui dà un’immagine molto chiara di sua figlia: una ragazza amante della libertà, un “purosangue”, come lui stesso la definisce. E un purosangue non accetta di essere azzoppato, perché ama la libertà, ama correre. Un purosangue va ucciso per pietà, quando si trova in queste condizioni. Alla mia osservazione che le cose sono andate diversamente e che ora c’è qualcuno che si occupa di lei, e quindi bisogna accettare e stare di fronte a questa nuova situazione, mi ha semplicemente risposto che questa è una concezione da religiosi, inaccettabile per chi religioso non è. Il suo ragionamento è questo: nella mia coscienza ritengo giusta questa cosa e quindi devo essere lasciato libero di perseguirla, e nessuno può limitarmi e fermarmi nella realizzazione di quello che ritengo giusto. E di conseguenza ritiene di essere in una situazione di perseguitato perché la società non gli permette di fare questo. Quello che non sono però riuscito a capire è il perché della valenza pubblica che lui vuole dare a questa vicenda. Ammesso, e non concesso, di voler realizzare il proprio punto di vista, ma perché poi volerlo fare in ospedale? È come se volesse che la società glielo riconosca e lo metta in condizioni di farlo, come un suo diritto.
Ma non è prescritto dalla sentenza che la cosa debba essere fatta in un ospedale?
La sentenza prescrive che sia fatto in una struttura tipo hospice. Ma la sentenza è fatta di due parti: una parte è quella che dice che si può interrompere l’alimentazione e l’idratazione, e una seconda che è strettamente medica in cui, partendo dal dire dove deve la cosa deve essere fatta, si danno una serie di prescrizioni strettamente mediche: usare rilassanti, antidolorifici e tutto quello che serve per combattere quelle che sono le conseguenze cui va incontro chi non viene più alimentato e dissetato. Il problema è che, come qualcuno ha osservato, tutto ciò, dal momento che non ha alcuna valenza medico-sanitaria (non è nemmeno necessario togliere il sondino, perché basterebbe non mettere più dentro cibo e liquidi) lo si potrebbe fare anche a casa. Perché a casa no? L’accudimento non ha bisogno di macchine o strutture speciali che si possono assicurare solo in ospedale. Invece Englaro vuole che questa cosa sia fatta in ospedale, proprio per affermare quella valenza pubblica di cui dicevamo.
Secondo lei, ora, che cosa faranno gli altri ospedali?
Ora ci troviamo in una situazione paradossale: certamente mi sembra molto difficile che un ospedale, a meno che non sia fortemente ideologizzato, possa scegliere di ospitare un simile gesto. La Lombardia si è espressa in una certa maniera, e quindi questo vale per le strutture della Regione. Cos’altro possa accadere non lo posso prevedere.


Contro la crisi serve il coraggio degli artigiani - Antonio Intiglietta - martedì 2 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
In questi giorni è in corso la 13° edizione di Artigiano in Fiera: l’occasione innanzitutto di vedere al lavoro migliaia di artigiani provenienti da tutto il mondo, che espongono e vendono i prodotti frutto della loro manodopera. Stare a contatto con loro, per noi organizzatori, è un’esperienza unica: vederli all’opera, così carichi di speranza e di desiderio di far bene è la prima vera risposta al tam tam mediatico sulla cosiddetta “crisi” che stiamo attraversando.
La crisi c’è, non si può certo negare e, come dicono gli esperti con voce eccessivamente lamentosa, avrà i suoi sviluppi peggiori nei prossimi mesi, ma questa gente si è già messa al lavoro per affrontarla. E parlando con loro in questi giorni di fiera traspare una certa delusione, quasi un fastidio, di quanto i media e la stampa usino toni troppo spesso negativi, e poco incoraggianti per chi la crisi la deve poi affrontare per davvero. C’è necessità da parte degli artigiani e dei piccoli imprenditori di ricevere un supporto e un aiuto concreto da parte delle istituzioni ma anche dal mondo dell’informazione che spesso è solo retorica sterile e quindi dannosa.
La posizione dell’artigiano si rivela essere quella più autentica, ossia carica di realismo: l’esempio dell’uomo che di fronte alla difficoltà si rimbocca le maniche, con quello che sa fare, lotta, spera e lavora con tutto il proprio impegno senza piangersi addosso, facendo la propria parte per resistere.
Mi viene in mente quella frase di Cesare Balbo che tutti dovrebbero meditare in questo periodo: «Solo i codardi chiedono al mattino della battaglia il calcolo delle probabilità; i forti e i costanti non sogliono chiedere quanto fortemente né quanto a lungo, ma come e dove abbiano da combattere. Non hanno bisogno se non di sapere per quale via e per quale scopo, e sperano dopo, e si adoperano, e combattono, e soffrono così, fino alla fine della giornata, lasciando a Dio gli adempimenti». Questa è la prima risposta alla crisi.
Il settore artigianale, inoltre, oltre a continuare a lavorare come sempre ha fatto, è l’ultimo che di fronte a una crisi generale comincia a licenziare o ad abbassare le retribuzioni. Anzi, continua a creare occupazione, trattenendo i propri addetti più giovani. Addirittura, in alcuni comparti si è sempre alla ricerca di nuovi addetti giovani, che stentano ad arrivare perché imbambolati da un certo borghesismo e da un’immagine della realizzazione di sé - per esempio in grandi manager delle multinazionali - assolutamente distorta.
L’artigianato è senz’altro il settore maggiormente consapevole di quanto valga la risorsa umana, e di quanto si è pronti a rinunciare, anche economicamente, piuttosto di perderla. Al contrario di altri settori produttivi, subito pronti ai tagli del personale per diminuire i costi di fronte a una grossa difficoltà.
In sintesi l’artigiano è l’espressione della dignità del lavoro dell’uomo e della sua costruttività, non solo in termini economici (stiamo parlando di un settore portante dell’economia italiana), ma anche in termini sociali e in molti casi, in termini di innovazione e di nuove tecnologie.
Il pubblico in fiera è la seconda grande risposta al vociare sulla crisi: nei padiglioni di Artigiano in Fiera sembra di essere in un altro mondo rispetto a quello descritto da gran parte della stampa e dei media. Un altro mondo, sì, ma quello reale. Non solo per la quantità (nei primi due giorni di fiera abbiamo riscontrato più presenze dell’anno scorso), ma soprattutto per l’atmosfera che si respira, gli incontri che si realizzano, il contatto umano e ricco di simpatia che avviene tra il visitatore e l’artigiano, quasi fossero tutti vecchi amici. Insomma, un clima estremamente positivo, che vuole dare una scossa, un chiaro segnale a chi dice che tutto andrà male.
Ed è anche la forza di questo evento: il settore fieristico italiano e internazionale, in molti casi, quest’anno è andato in difficoltà. Il motivo spesso è molto semplice: si lavora senza spinta ideale e ci si ritrova inermi di fronte a una crisi congiunturale come quella di questi tempi. Invece per noi - che organizziamo Artigiano in Fiera - è importante investire sempre ed essere costruttivi nei confronti della vita e del lavoro. La risposta positiva del pubblico in questi gironi è il primo segno che siamo sulla strada giusta. Educati al realismo dalla fede e confortati dalla testimonianza dei “nostri” artigiani.


ISTRUZIONE/ Riforme: perché la politica italiana resta immobile sulla scuola? - Giovanni Cominelli - martedì 2 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
È dalla pubblicazione del Decreto legge del 25 giugno 2008, n. 112, art. 64, convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, che si sta snodando il lungo itinerario dei “risparmi” di 7,8 mld. nel sistema scolastico. È anche il troppo travaglio del ministro Gelmini. Benché razionalizzazioni e risparmi fossero previsti da giugno, ancora non è dato di vedere i Regolamenti attuativi, che devono indicarne la quantità e le conseguenze sulla ridefinizione degli ordinamenti, sulla riorganizzazione della rete scolastica, sul più razionale utilizzo delle risorse umane. Intanto i tempi dell’attesa delle famiglie, degli insegnanti e delle scuole, chiamate alle iscrizioni per l’anno scolastico 2009-10, sono ormai scaduti. Resta solo, in zona Cesarini, l’ipotesi di spostare a febbraio le iscrizioni per il nuovo anno. È già accaduto nel 2003 con la Moratti.
Tuttavia, dietro i ritardi e i rinvii tecnico-burocratici si cela, non da oggi, la questione dei rapporti dei governi di centro-destra con l’universo scolastico e, pertanto, quella della possibilità delle riforme. La scuola è da molti decenni “di” centro-sinistra. La causa viene da lontano: il sistema scolastico è un’articolazione dello Stato amministrativo, sovraccarica di cultura e di ideologia. Bene sintetizzò negli anni ’60 il filosofo Louis Althusser: appareil idéologique d’Etat. A questo lato si è dedicato con grande successo il PCI fin dal dopoguerra, sulla scia della lezione gramsciana. Il ’68 ha fatto il resto: gli insegnanti sono circa 1 milione di intellettuali “di massa”, incardinati in una funzione statale decisiva. Sono di sinistra, in grande maggioranza, perché il centro-sinistra difende il ruolo e la struttura dello Stato amministrativo, e perché la sinistra politica e sindacale fornisce la coscienza ideologica. Per quest’ultimo aspetto, non si tratta di un fenomeno solo italiano: gli insegnanti inglesi, francesi, tedeschi, scandinavi, spagnoli ecc… sono in gran parte di sinistra. Quelli americani sono democrat, non repubblicani. Donde la difficoltà dei governi a introdurre le necessarie innovazioni nei sistemi educativi: perché, dovendo rispondere a bisogni delle famiglie e dei ragazzi, devono mettere in discussione l’innervamento della professione docente nello Stato amministrativo centralistico. Nel caso dei governi di centro-destra le difficoltà sono ancora maggiori, sia a causa dell’ideologizzazione a sinistra, sia a causa della rappresentanza politica che la sinistra offre alle resistenze conservatrici.
Ma c’è una caratteristica tutta italiana tanto dei governi di centro-sinistra quanto di quelli di centro-destra: ogni volta che incontrano tenaci resistenze, i ministri dell’istruzione ripiegano la bandiera delle riforme, ricorrendo al metodo del rinvio a tempi migliori, ad altro ministro o ad altro governo, spesso di segno opposto. E’ la storia infinita dei governi della Prima repubblica e della Seconda. Fatte le leggi di riforma, o non arrivano i Decreti esecutivi o non arrivano i Regolamenti attuativi. Si progettano ottime riforme, ma i tempi sono scanditi “politicamente” in modo che la loro realizzazione cada sulla spalle del futuro governo o del futuro ministro. Eppure si profila in questa fine 2008 una condizione eccezionale in cui i Regolamenti, che dovrebbero attuare in tre anni la legge Tremonti e insieme ripescare i Decreti Moratti rimasti sulla carta, potrebbero finalmente arrivare.
Perché la politica italiana resta immobile sulla scuola? Primo, perché noncurante per ignoranza e per calcolo cinico dell’emergenza educativa del Paese, che l’esperienza quotidiana e gli studi nazionali e internazionali documentano. Secondo, perché è ossessionata dal consenso immediato, da raccogliere qui e ora: la politica e il governare come curvatura populistica sul presente. A queste cause i ministri dell’Istruzione di centro-destra ne aggiungono una peculiare: l’illusione ricorrente di poter sfuggire alle Erinni del sindacato e di conquistare, edulcorando e rinviando, il consenso immediato degli insegnanti. Che stanno al 90% con il centro-sinistra! Eppure una discontinuità liberale nel metodo è possibile: contenuti innovativi, scelte decifrabili, tempi certi per le riforme. Su questo c’è, almeno fino ad ora, il consenso del Paese. Gli insegnanti capiranno – è già accaduto in altri Paesi – che le riforme convengono anche a loro perché aprono la strada a un riconoscimento di ruolo culturale e civile e a una nuova modalità di retribuzione e di carriera professionale.


IL CASO/ Dal Kazakhstan una legge che attacca la libertà religiosa - Redazione - martedì 2 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
La nuova legge in materia di libertà religiosa che il parlamento kazako ha appena approvato non piace, a don Edoardo Canetta. L’Ocse – l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa – ha chiesto che venga rivista, perché interviene a limitare fortemente la libertà di coscienza, in un paese dove questa libertà, secondo il sacerdote milanese, da 17 anni in Kazakhstan, è il bene di cui la gente ha più bisogno. «È vero – dice don Edo a ilsussidiario.net – l’approvazione del parlamento non vuol dire molto perché il presidente Nazarbayev può sempre cambiarla. Però se ne parla poco, nessuno ha in mano il testo emendato e corretto e molti pensano che neanche quel testo sia definitivo. Ma non è un testo organico, perché è il cambiamento di tutta una serie di articoli di leggi preesistenti».
Di che si tratta lo ha spiegato l’Osservatore Romano in un articolo di sabato scorso. La legge proibisce le aggregazioni di fedeli non autorizzate e riconosciute dallo Stato, più una serie di norme restrittive che estendono il controllo dell’amministrazione sulle attività dei fedeli, di qualsiasi culto: mette limiti ai ritrovi, stabilisce che si può pregare solo in luoghi autorizzati, vieta l’insegnamento della religione nelle scuole. Non solo: «pone limiti di censura – afferma don Edo – e questa è una cosa molto grave, perché si potranno pubblicare solo i libri religiosi approvati. Il vero “problema” della religione è che insegna a pensare. In certi ambiti religiosi – sia cristiani che musulmani – si comincia a criticare la corruzione, a vedere in modo diverso la gestione della cosa pubblica. La libertà religiosa promuove sempre lo sviluppo delle persone e della nazione e quindi finisce sempre per svolgere un’azione di disturbo».
Da quindici anni don Edo insegna italiano e cultura europea all’università statale, prima a Karaganda, ora nella capitale Astana, e da tre anni all’Accademia diplomatica. Non è un incarico ecclesiastico, perché il suo mandato di docente è su richiesta delle autorità di governo, «in modo prettamente laico – ci tiene a precisare – e questo fa incontrare la gente. Ma non ha impedito ad una funzionaria dell’amministrazione di citarmi come caso di violazione della legge, perché pur essendo prete cattolico insegnavo nell’università statale. Non riescono a concepire che il lavoro culturale è tipico dell’azione religiosa, e la diffusione della cultura fa parte della missione della Chiesa».
Una legge, dunque, che esalta le contraddizioni di un paese giovane, che vede nelle fedi una minaccia per l’integrità dello Stato e che per questo rischia di cancellare con un colpo di spugna l’equilibrio che si è spontaneamente creato dopo il crollo dell’impero sovietico, quando la libertà religiosa, che sotto il comunismo non c’era, ha facilitato un incontro tra religioni diverse e favorito il dialogo. «Questo provvedimento me lo spiego – continua don Canetta – con il tentativo di porre un argine ai pericoli causati dal fondamentalismo. Certi gruppi, per esempio, rifiutano di prestare servizio militare. Ma c’è una bella differenza tra il radicalismo e la presenza pubblica della fede. Continuo a pensare che questa legge sia più contro i musulmani che contro i cristiani, perché in questo momento la mentalità generale della gente non è fondamentalista in senso vero e proprio, ma è aspramente antiamericana. E questo lo si vede soprattutto nei giovani, nelle università».
Con il rischio, nemmeno troppo scoperto, di accentuare ancor di più la frammentazione della società, perché mentre prima la differenze sparivano sotto l’ombrello del grande Stato sovietico, ora rimangono “scoperte”, irrisolte, alla ricerca di ragioni plausibili che, spesso, settant’anni di ateismo rendono molto difficili da recuperare. E il risultato è che la fede parla molto più di un’appartenenza etnica che di un’adesione personale.
«La maggioranza delle persone – spiega il sacerdote – non ha alcuna appartenenza religiosa, ma risente di una vaga tradizione o musulmana o ortodossa, ridotta a elemento etnico. Anche i nostri cattolici vivono la fede con una povertà di ragioni impressionante. I cattolici? Ufficialmente, secondo l’Annuario pontificio, sono 300mila. In realtà, quelli che hanno un rapporto più vivo con la Chiesa non saranno che 20-21mila e nelle chiese del Kazakhstan la domenica andranno sì e no 6-7mila persone. Ma i cattolici sono diversi perché hanno una certa vivacità di presenza che agli altri manca: a Pasqua su circa 250mila russi che abitano qui, in chiesa ne saranno andati non più di ottocento. La legge arginerà ancor più la fede nella cerchia dei fedeli che la praticano, e il ministro religioso dovrà lavorare solo con quelli della sua religione. È l’opposto di una vera presenza nella società».
Il governo rischia così di disperdere il senso dell’occasione storica che la visita di Giovanni Paolo II ha rappresentato per la coscienza del Kazakhstan. Una visita attesa da tutti e voluta dallo stesso presidente. Undici giorni dopo gli attentati dell’11 settembre, il Papa è andato in un paese a maggioranza musulmana, a proporre che il dialogo avvenga sulla base della verità e non degli interessi. È un momento che don Canetta tiene a ricordare. «All’università ha detto una frase storica, tenendo conto del fatto che siamo nell’ex Unione Sovietica, e che posso citare a memoria. “Avete vicende diverse alle spalle, non prive di sofferenza. Siete qui seduti, l'uno accanto all'altro, e vi sentite amici, non perché avete dimenticato il male che c'è stato nella vostra storia, ma perché giustamente vi interessa di più il bene che potrete costruire insieme”. Sapeva benissimo, il Papa, che quelli che sono qui sono in gran parte stati deportati. E che su quei banchi c’erano i figli dei deportati e i figli dei deportatori. E in quell’occasione ha fatto un richiamo alla libertà di coscienza: la gente sta riscoprendo la fede, ha detto, ma che nessuno sia obbligato a credere, esattamente come prima tutti erano obbligati a non credere». Una strada decisamente opposta, sembra, a quella imboccata con gli ultimi provvedimenti restrittivi.


SCUOLA/ La nuova Formazione Professionale: una strada efficace per affrontare l’emergenza educativa - Associazione Foe - martedì 2 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
“Se Atene piange, Sparta non ride…” Per le scuole paritarie è sicuramente un momento difficile, ma anche la formazione professionale ha i suoi problemi finanziari. Eppure anche qui esistono esperienze (come quella del CFP Canossa) che aiutano i ragazzi- soprattutto quelli più in difficoltà- a recuperare la stima di sé e a rilanciarsi nella vita con una speranza. L’emergenza educativa si affronta anche così. Non tagliamo su ciò che vale davvero.
Il Paritario.net
Forse non tutti lo sanno, ma in regioni come la Lombardia la “vecchia” formazione professionale è cambiata e rappresenta oggi per decine di migliaia di giovani un’opportunità di crescita e realizzazione.
Ma cos’è la nuova Istruzione e Formazione Professionale? Essa ha l’obiettivo di formare gli allievi a una professione specifica, ma soprattutto usa del metodo del lavoro e del “fare” come strumento didattico per raggiungere, con una strada differente, gli stessi obiettivi della scuola media superiore. I corsi sono triennali e quadriennali, e permettono l’assolvimento dell’obbligo di istruzione.
Alla IFP arrivano i ragazzi più deboli, quelli che a scuola non si impegnano o che si ritiene non potranno mai ottenere granché. E’ considerata, a torto, una scuola di “serie B”: adatta solo a svolgere la funzione sociale di “croce rossa” della scuola. Ma a guardare bene ci si accorge che non è sempre così, anzi…
Nei CFP (Centri di Formazione Professionale) i ragazzi vengono stimolati e valorizzati nelle loro potenzialità perché da subito messi in azione su un compito preciso, un traguardo reale da raggiungere. I laboratori non sono solo luoghi fisici, ma modalità didattiche che si esprimono, appunto, con il tipico metodo del lavoro dove è chiara la consegna (quello che devo fare) perché è chiaro lo scopo finale. Si lavora individualmente o a gruppi, si hanno scadenze e continue “revisioni” del proprio operato da parte del docente/responsabile. Poco importa se si sta facendo un taglio di capelli o si sta montando un circuito elettrico; se si sta realizzando un disegno con il CAD o si sta elaborando la partita doppia: qui tutto è orientato a un oggetto preciso, riconoscibile e, perché no?, misurabile anche al di fuori della scuola e dal secondo anno i ragazzi frequentano gli stage in azienda. Insomma l’esperienza è la materia prima da cui conoscenze, abilità e competenze nascono e si accrescono.
Qui il ragazzo si scopre “protagonista”: non è più quello che non sapeva niente o che non aveva voglia di studiare. Ora sa di essere in grado di fare cose che neanche si immaginava e, con il dovuto impegno, questo gli viene riconosciuto sia dalla scuola che dall’esterno.
Ecco allora il miracolo di tanti giovani che pur avendo iniziato un percorso di IFP perché triennale (“prima finisco la scuola meglio è”) proseguono invece con il “quarto anno sperimentale” e poi (in attesa che si realizzi quanto scritto nella legge 53/2003, la riforma Moratti, e nella legge lombarda 19/2007 riguardo la possibilità di un quinto anno propedeutico alla maturità) decidono di passare a una “quinta” della scuola media superiore!
Come stupirsi se i ragazzi ritrovano il fascino per Dante, per la Storia e la Geografia e che riscoprono un interesse per quelle materie che alle medie avversavano fortemente? Quando ti accorgi “che vali”, che non sei uno stupido, ma che hai anche tu le tue doti e capacità, diventa più naturale appassionarti per tutto quello che viene proposto, soprattutto se sei aiutato a cogliere il nesso tra te e il tutto.
La speranza è che questa esperienza possa allargarsi ed essere riconosciuta e praticata come reale possibilità di educazione rivolta a chi, oggi, non è pronto o semplicemente non portato al metodo scolastico tradizionale.
Diego Sempio (Direttore CFP Canossa – Lodi)


02/12/2008 10:43 – IRAQ - Nel “nuovo” Iraq c’è una strategia che mira ad eliminare i cristiani - di Dario Salvi – Joseph Yacoub, esperto di cristianesimo in Medio Oriente, denuncia “politiche discriminatorie” del governo di Baghdad, incapace di garantire “unità e sicurezza “ ad un Paese diviso ed egoista. Il ritiro delle truppe americane è un cambiamento “di facciata”, mentre i cristiani continuano a essere perseguitati.
Lione (AsiaNews) – Non nasconde la propria inquietudine per l’Iraq e il futuro della comunità cristiana Joseph Yacoub, caldeo iracheno, professore di scienze politiche all’Università cattolica di Lione ed esperto di cristianesimo mediorientale. Da profondo conoscitore della realtà irachena, egli boccia l’idea di una enclave cristiana a Ninive e denuncia “una strategia politica volta a eliminare i cristiani” che va contrastata superando “la logica delle divisioni e degli egoismi personali”.
Egli, poi, è critico nei confronti dell’accordo sul ritiro delle truppe americane, giudicato solo “un cambiamento di facciata” che non restituisce piena “sovranità nazionale” all’Iraq, contrario alla legge elettorale che definisce “una misura discriminatoria” nei confronti dei cristiani, la cui responsabilità è da imputare al “governo di Baghdad” che non è stato capace di garantire “l’unità e la sicurezza nel Paese”. Ed è preoccupato, infine, per il clima di “sfiducia e paura” che si respira all’interno della comunità cristiana, garante nella storia irachena di “pluralismo, ricchezza e multi-culturalità”, mentre oggi è abbandonata al proprio destino.
Ecco, di seguito, l’intervista rilasciata da Joseph Yacoub (nella foto) ad AsiaNews:
Professor Yacoub, come giudica l’accordo sul ritiro delle truppe americane entro il 2011 sottoscritto dal governo e approvato dal parlamento iracheno?
La mia è una posizione critica, perché si tratta solo di un cambiamento di facciata. Nei prossimi tre anni l’esercito Usa rimarrà in territorio iracheno, quindi il Paese sarà a tutti gli effetti sotto occupazione. Una situazione che dura ormai da cinque anni e che non ha portato cambiamenti sostanziali in termini di sicurezza. Ora bisogna vedere come si muoverà l’amministrazione di Barack Obama dopo l’insediamento. Del resto vi è una clausola specifica nell’accordo, che prevede l’ipotesi di un ritiro anticipato o posticipato.
Nei giorni scorsi il governo aveva sbandierato una ritrovata sovranità nazionale.
A mio avviso si tratta di una legittimazione a livello formale, ma nel concreto cambia poco. Il governo, ad esempio, ha inserito la possibilità di un intervento in caso di minaccia alle istituzioni democratiche del Paese. Ma si può affermare, oggi, che il Paese sia davvero democratico? La presenza e il ruolo dell’America non cambiano nella sostanza.
Eppure si è parlato di ampio consenso al momento del voto parlamentare.
Il parlamento ha subito pressioni per votare a favore del piano di ritiro e lo scrutinio finale lo testimonia. Si è cercata una larga maggioranza per dare legittimità al testo, ma l’assenza di 86 deputati su 275 e i 35 voti contrari fanno emergere, in realtà, una maggioranza semplice.
Cosa pensa della legge elettorale che assegna solo sei seggi alle minoranze?
Quello che è stato fatto nei confronti delle minoranze è disdicevole e discriminatorio. Vi sono state manifestazioni di protesta, ma il provvedimento è stato approvato. Appare evidente una politica di emarginazione verso la comunità cristiana, che nel caso di Mosul si è trasformata in persecuzione. Sembra che ci sia una strategia deliberata che mira a eliminare politicamente i cristiani dal Paese.
Chi ha interesse a farlo?
La colpa è di chi governa l’Iraq. In teoria le minoranze sono riconosciute e tutelate dalla Costituzione, ma si tratta anche qui di una dichiarazione di facciata, perché la realtà è drammaticamente diversa.
I cristiani rimasti in Iraq sembrano spinti verso un bivio: o l’esodo o il rifugio nella piana di Ninive. Non c’è una terza via?
Qui sta il punto. Bisogna ragionare in termini complessivi e guardare al Paese nella sua totalità, mentre è evidente una profonda spaccatura al suo interno. Prima si deve elaborare una visione globale, solo in seguito si potrà considerare anche lo statuto e la rappresentatività dei cristiani. L’Iraq deve rimanere unito, e basare le proprie fondamenta non su criteri confessionali, religiosi, etnici, che portano solo a divisioni. Bisogna uscire da questa logica, perché condurrà solo alla spaccatura del Paese.
Si è fatta l’ipotesi di una nazione federale
Parlare di Stato federale può essere anche valido, ma solo se si parte dal riconoscimento del principio di unità pur all’interno delle differenze. La Costituzione, per come è stata elaborata, è foriera di separatismo; bisogna anzitutto sancire un accordo morale fra le varie fazioni, perché se manca l’unità il Paese crolla.
Ma c’è la volontà di restare uniti?
Questo è il punto. Torniamo ai cristiani: il fatto di creare una enclave nella piana di Ninive porterà solo delle complicazioni, dei cambiamenti in negativo all’interno della comunità e nel Paese. Nel migliore dei casi essa diventerà una zona tampone fra gli arabi e i curdi, e potrà essere strumentalizzata. Non può essere la soluzione per una comunità che vive nel Paese da millenni e che è una testimonianza concreta di pluralismo, di multi-culturalismo, di ricchezza per l’Iraq. I cristiani sono cittadini iracheni a tutti gli effetti, la missione della Chiesa è quella di essere un ponte fra le diverse culture e la condizione è quella di avere un Iraq fondato su criteri civici. Non un Paese diviso, che corre il rischio di ripiegarsi su se stesso e isolarsi. E garante di tutto ciò deve essere il governo, sostenuto dalla comunità internazionale.
Cosa ne pensa della decisione dell’Unione europea di accogliere 10mila rifugiati?
Anche qui, il punto è garantire sicurezza e permettere un ritorno nella terra natale. Per i cristiani, in particolare, conta moltissimo l’elemento psicologico: devono sapere che non sono soli e isolati. Se sanno di essere protetti, non perdono la fiducia e non si sentono orfani. Mi ricordo quanto diceva mia madre quando eravamo piccoli, 50 anni fa: c’è qualcuno che pensa a noi, e si riferiva al papa. Non siamo orfani. I cristiani hanno bisogno di questo aiuto psicologico e di questa solidarietà. L’ideale è aiutarli a rimanere nella loro terra.
Professor Yacoub, quale futuro vede per l’Iraq?
Il punto è che l’Iraq ritrovi la via dell’unità, della stabilità e della pace. Siamo tutti iracheni, apparteniamo tutti a questo Paese, a prescindere dall’etnia e dal credo religioso.


Benedetto XVI celebra i vespri per l'inizio del tempo di Avvento nella basilica di San Pietro - La Chiesa deve diventare speranza per se stessa e per il mondo - "L'Avvento è per eccellenza la stagione spirituale della speranza, e in esso la Chiesa intera è chiamata a diventare speranza, per se stessa e per il mondo". Lo ha detto il Papa durante l'omelia dei primi vespri della prima domenica di Avvento, celebrati sabato pomeriggio 29 novembre nella basilica di San Pietro. – L’Osservatore Romano, 2 Dicembre 2008
Cari fratelli e sorelle!
Con questa liturgia vespertina, iniziamo l'itinerario di un nuovo anno liturgico, entrando nel primo dei tempi che lo compongono: l'Avvento. Nella lettura biblica che abbiamo appena ascoltato, tratta dalla Prima Lettera ai Tessalonicesi, l'apostolo Paolo usa proprio questa parola: "venuta", che in greco è "parusia" e in latino "adventus" (1 Ts 5, 23). Secondo la comune traduzione di questo testo, Paolo esorta i cristiani di Tessalonica a conservarsi irreprensibili "per la venuta" del Signore. Ma nel testo originale si legge "nella venuta" , quasi che l'avvento del Signore fosse, più che un punto futuro del tempo, un luogo spirituale in cui camminare già nel presente, durante l'attesa, e dentro il quale appunto essere custoditi perfettamente in ogni dimensione personale. In effetti, è proprio questo che noi viviamo nella liturgia: celebrando i tempi liturgici, attualizziamo il mistero - in questo caso la venuta del Signore - in modo tale da potere, per così dire, "camminare in essa" verso la sua piena realizzazione, alla fine dei tempi, ma attingendone già la virtù santificatrice, dal momento che i tempi ultimi sono già iniziati con la morte e risurrezione di Cristo. La parola che riassume questo particolare stato, in cui si attende qualcosa che deve manifestarsi, ma che al tempo stesso si intravede e si pregusta, è "speranza". L'Avvento è per eccellenza la stagione spirituale della speranza, e in esso la Chiesa intera è chiamata a diventare speranza, per se stessa e per il mondo. Tutto l'organismo spirituale del Corpo mistico assume, per così dire, il "colore" della speranza. Tutto il popolo di Dio si rimette in cammino attratto da questo mistero: che il nostro Dio è "il Dio che viene" e ci chiama ad andargli incontro. In che modo? Anzitutto in quella forma universale della speranza e dell'attesa che è la preghiera, che trova la sua espressione eminente nei Salmi, parole umane in cui Dio stesso ha posto e pone continuamente sulle labbra e nei cuori dei credenti l'invocazione della sua venuta. Soffermiamoci perciò qualche istante sui due Salmi che abbiamo pregato poco fa e che sono consecutivi anche nel Libro biblico: il 141 e il 142, secondo la numerazione ebraica. "Signore, a te grido, accorri in mio aiuto; / ascolta la mia voce quando t'invoco. / Come incenso salga a te la mia preghiera, / le mie mani alzate come sacrificio della sera" (Sal 141, 1-2). Così inizia il primo salmo dei primi Vespri della prima settimana del Salterio: parole che all'inizio dell'Avvento acquistano un nuovo "colore", perché lo Spirito Santo le fa risuonare in noi sempre nuovamente, nella Chiesa in cammino tra tempo di Dio e tempi degli uomini. "Signore ... accorri in mio aiuto" (v. 1). È il grido di una persona che si sente in grave pericolo, ma è anche il grido della Chiesa fra le molteplici insidie che la circondano, che minacciano la sua santità, quell'integrità irreprensibile di cui parla l'apostolo Paolo, che deve invece essere conservata per la venuta del Signore. E in questa invocazione risuona anche il grido di tutti i giusti, di tutti coloro che vogliono resistere al male, alle seduzioni di un benessere iniquo, di piaceri offensivi della dignità umana e della condizione dei poveri. All'inizio dell'Avvento la liturgia della Chiesa fa proprio nuovamente questo grido, e lo innalza a Dio "come incenso" (v. 2). L'offerta vespertina dell'incenso è infatti simbolo della preghiera, dell'effusione dei cuori rivolti al Dio, all'Altissimo, come pure "le mani alzate come sacrificio della sera" (v. 2). Nella Chiesa non si offrono più sacrifici materiali, come avveniva anche nel tempio di Gerusalemme, ma si eleva l'offerta spirituale della preghiera, in unione a quella di Gesù Cristo, che è al tempo stesso Sacrificio e Sacerdote della nuova ed eterna Alleanza. Nel grido del Corpo mistico, riconosciamo la voce stessa del Capo: il Figlio di Dio che ha preso su di sé le nostre prove e le nostre tentazioni, per donarci la grazia della sua vittoria.
Questa identificazione di Cristo con il Salmista è particolarmente evidente nel secondo Salmo (142). Qui, ogni parola, ogni invocazione fa pensare a Gesù nella passione, in particolare alla sua preghiera al Padre nel Getsemani. Nella sua prima venuta, con l'incarnazione, il Figlio di Dio ha voluto condividere pienamente la nostra condizione umana. Naturalmente non ha condiviso il peccato, ma per la nostra salvezza ne ha patito tutte le conseguenze. Pregando il Salmo 142, la Chiesa rivive ogni volta la grazia di questa compassione, di questa "venuta" del Figlio di Dio nell'angoscia umana fino a toccarne il fondo. Il grido di speranza dell'Avvento esprime allora, fin dall'inizio e nel modo più forte, tutta la gravità del nostro stato, il nostro estremo bisogno di salvezza. Come dire: noi aspettiamo il Signore non alla stregua di una bella decorazione su un mondo già salvo, ma come unica via di liberazione da un pericolo mortale. E noi sappiamo che Lui stesso, il Liberatore, ha dovuto patire e morire per farci uscire da questa prigione (cfr. v. 8). Insomma, questi due Salmi ci mettono al riparo da qualsiasi tentazione di evasione e di fuga dalla realtà; ci preservano da una falsa speranza, che forse vorrebbe entrare nell'Avvento e andare verso il Natale dimenticando la drammaticità della nostra esistenza personale e collettiva. In effetti, una speranza affidabile, non ingannevole, non può che essere una speranza "pasquale", come ci ricorda ogni sabato sera il cantico della Lettera ai Filippesi, con il quale lodiamo Cristo incarnato, crocifisso, risorto e Signore universale. A Lui volgiamo lo sguardo e il cuore, in unione spirituale con la Vergine Maria, Nostra Signora dell'Avvento. Mettiamo la nostra mano nella sua ed entriamo con gioia in questo nuovo tempo di grazia che Dio regala alla sua Chiesa, per il bene dell'intera umanità. Come Maria e con il suo materno aiuto, rendiamoci docili all'azione dello Spirito Santo, perché il Dio della pace ci santifichi pienamente, e la Chiesa diventi segno e strumento di speranza per tutti gli uomini. Amen!
(©L'Osservatore Romano - 1-2 dicembre 2008)


Il Papa a studenti di Parma ricorda che nell'università si realizza la sintesi tra individualismo e comunità Ogni riforma inizia da se stessi e si realizza nel rispetto della libertà - L'università per sua natura vive di un virtuoso equilibrio tra il momento individuale e quello comunitario, tra ricerca e riflessione di ciascuno e condivisione e confronto aperto in un orizzonte tendenzialmente universale. Sono principi che dovrebbero essere oggi riscoperti. Lo ha detto il Papa durante l'udienza concessa lunedì 1 dicembre, a universitari di Parma. – L’Osservatore Romano, 2 Dicembre 2008
Signor Rettore, illustri Professori, cari studenti e membri del personale amministrativo e tecnico!
Sono lieto di accogliervi in questo incontro che avete voluto per commemorare le antiche radici dell'Ateneo di Parma. E sono particolarmente contento che, riferendovi proprio a quel periodo originario, abbiate scelto quale figura rappresentativa san Pier Damiani, di cui abbiamo appena celebrato il millenario della nascita e che nelle scuole parmensi fu dapprima studente e poi maestro. Saluto cordialmente il Rettore, Prof. Gino Ferretti, e lo ringrazio per le cortesi parole con cui si è fatto interprete dei sentimenti di tutti i presenti. Sono lieto di vedere insieme con voi il Vescovo di Parma, Mons. Enrico Solmi, come pure altre Autorità politiche e militari. A tutti voi, Professori, studenti e membri del personale amministrativo e tecnico rivolgo il mio sincero benvenuto. Come sapete, l'attività universitaria è stata il mio ambito di lavoro per tanti anni, e anche dopo averla lasciata non ho mai smesso di seguirla e di sentirmi spiritualmente legato ad essa. Molte volte ho avuto la possibilità di parlare in diversi Atenei, e ricordo bene di essere venuto anche a Parma, nel 1990, dove svolsi una riflessione sulle "vie della fede" in mezzo ai mutamenti del tempo presente (cfr Svolta per l'Europa?, Edizioni Paoline 1991, pp. 65-89). Oggi vorrei soffermarmi brevemente a considerare con voi la "lezione" che ci ha lasciato san Pier Damiani, cogliendone alcuni spunti di particolare attualità per l'ambiente universitario dei nostri giorni. Lo scorso anno, in occasione della memoria liturgica del grande Eremita, il 20 febbraio, ho indirizzato una lettera all'Ordine dei monaci Camaldolesi, nella quale ho messo in luce come sia particolarmente valida per il nostro tempo la caratteristica centrale della sua personalità, vale a dire la felice sintesi tra la vita eremitica e l'attività ecclesiale, l'armonica tensione tra i due poli fondamentali dell'esistenza umana: la solitudine e la comunione (cfr. Lettera all'Ordine dei Camaldolesi, 20 febbraio 2007). Quanti, come voi, si dedicano agli studi a livello superiore - per l'intera vita oppure nell'età giovanile - non possono non essere sensibili a questa eredità spirituale di san Pier Damiani. Le nuove generazioni sono oggi fortemente esposte a un duplice rischio, dovuto prevalentemente alla diffusione delle nuove tecnologie informatiche: da una parte, il pericolo di vedere sempre più ridursi la capacità di concentrazione e di applicazione mentale sul piano personale; dall'altra, quello di isolarsi individualmente in una realtà sempre più virtuale. Così la dimensione sociale si disperde in mille frammenti, mentre quella personale si ripiega su se stessa e tende a chiudersi a costruttive relazioni con l'altro e il diverso da sé. L'Università, invece, per sua natura vive proprio del virtuoso equilibrio tra il momento individuale e quello comunitario, tra la ricerca e la riflessione di ciascuno e la condivisione e il confronto aperti agli altri, in un orizzonte tendenzialmente universale. Anche la nostra epoca, come quella di Pier Damiani, è segnata da particolarismi e incertezze, per carenza di principi unificanti (cfr. ibid). Gli studi accademici dovrebbero senz'altro contribuire a qualificare il livello formativo della società, non solo sul piano della ricerca scientifica strettamente intesa, ma anche, più in generale, nell'offerta ai giovani della possibilità di maturare intellettualmente, moralmente e civilmente, confrontandosi con i grandi interrogativi che interpellano la coscienza dell'uomo contemporaneo.
La storia annovera Pier Damiani tra i grandi "riformatori" della Chiesa dopo l'anno Mille. Lo possiamo definire l'anima di quella riforma che va sotto il nome del Papa san Gregorio vii, Ildebrando di Soana, del quale Pier Damiani fu stretto collaboratore da quando, prima di essere eletto Vescovo di Roma, era Arcidiacono di questa Chiesa (cfr. Lettera all'Ordine dei Camaldolesi, 20 febbraio 2007). Ma qual è il genuino concetto di riforma? Un aspetto fondamentale che possiamo ricavare dagli scritti e più ancora dalla testimonianza personale di Pier Damiani è che ogni autentica riforma dev'essere anzitutto spirituale e morale, deve cioè partire dalle coscienze. Spesso oggi, anche in Italia, si parla di riforma universitaria. Penso che, fatte le debite proporzioni, rimanga sempre valido questo insegnamento: le modifiche strutturali e tecniche sono effettivamente efficaci se accompagnate da un serio esame di coscienza da parte dei responsabili a tutti i livelli, ma più in generale di ciascun docente, di ogni studente, di ogni impiegato tecnico e amministrativo. Sappiamo che Pier Damiani era molto rigoroso con se stesso e con i suoi monaci, molto esigente nella disciplina. Se si vuole che un ambiente umano migliori in qualità ed efficienza, occorre prima di tutto che ciascuno cominci col riformare se stesso, correggendo ciò che può nuocere al bene comune o in qualche modo ostacolarlo.
Collegato al concetto di riforma, vorrei porre in risalto anche quello di libertà. In effetti, il fine dell'opera riformatrice di san Pier Damiani e degli altri suoi contemporanei era far sì che la Chiesa diventasse più libera, prima di tutto sul piano spirituale, ma poi anche su quello storico. Analogamente, la validità di una riforma dell'Università non può che avere come riscontro la sua libertà: libertà di insegnamento, libertà di ricerca, libertà dell'istituzione accademica nei confronti dei poteri economici e politici. Questo non significa isolamento dell'Università dalla società, né autoreferenzialità, né tanto meno perseguimento di interessi privati approfittando di risorse pubbliche. Non è di certo questa la libertà cristiana! Veramente libera, secondo il Vangelo e la tradizione della Chiesa, è quella persona, quella comunità o quella istituzione che risponde pienamente alla propria natura e al proprio fine, e la vocazione dell'Università è la formazione scientifica e culturale delle persone per lo sviluppo dell'intera comunità sociale e civile.
Cari amici, vi ringrazio perché con la vostra visita, oltre che il piacere di incontrarvi, mi avete dato l'opportunità di riflettere sull'attualità di san Pier Damiani, al termine delle celebrazioni millenarie in suo onore. Auguro ogni bene per l'attività scientifica e didattica del vostro Ateneo, e prego perché esso, malgrado le dimensioni ormai notevoli, tenda sempre a costituire una universitas studiorum, in cui ognuno possa riconoscersi ed esprimersi come persona, partecipando alla ricerca "sinfonica" della verità. A questo scopo incoraggio le iniziative di pastorale universitaria in atto, che risultano essere un prezioso servizio alla formazione umana e spirituale dei giovani. E in tale contesto auspico anche che la storica chiesa di san Francesco al Prato possa essere presto riaperta al culto, a beneficio dell'Università e della Città intera. Per tutto questo intercedano san Pier Damiani e la Beata Vergine Maria, e vi accompagni anche la mia Benedizione, che imparto volentieri a voi, a tutti i colleghi ed ai vostri cari.
(©L'Osservatore Romano - 1-2 dicembre 2008)


LO STRANO CASO DELL’AGGIORNAMENTO DELLA STAMPA CATTOLICA - Sentenze attaccate al vecchio La neurologia fa passi da gigante - ASSUNTINA MORRESI – Avvenire, 2 dicembre 2008
Ci sono luoghi comuni che resistono nonostante la realtà li smentisca. Uno dei più coriacei è quello per il quale la Chiesa cattolica sarebbe nemica della scienza. Di solito chi è di questo parere si riferisce non tanto al popolo dei credenti, ma usa l’espressione ' il Vaticano' o ' le gerarchie' per indicare con accento vagamente sprezzante una sorta di centro di potere, e ritiene che l’atteggiamento antiscientifico sia a esso connaturato, perché implicito in chi fa della fede una posizione. Secondo questa chiave di lettura, i cosiddetti difensori della scienza sono quanti guardano al futuro, mentre la Chiesa sarebbe tutta impegnata a difendere il passato, ad impedire con una serie di veti irragionevoli di raggiungere fantastici progressi per l’umanità.
Eppure, mai come adesso, è chiaro che i ruoli potrebbero rovesciarsi, e che proprio coloro che accusano i cattolici di atteggiamenti antiscientifici sono talvolta i primi a non volersi arrendere alle evidenze delle novità che la scienza ci offre. Per esempio la sentenza con cui è stata autorizzata la sospensione della nutrizione artificiale ad Eluana Englaro si basa anche sulla presunta irreversibilità dello stato vegetativo in cui si trova la donna. I giudici parlano di « stato vegetativo permanente » , espressione non più in uso fra gli specialisti del settore, e si riferiscono a letteratura scientifica datata, oramai superata dalle scoperte degli ultimi anni. Gli stessi media che riempiono pagine sulle ultime, affascinanti novità delle neuroscienze, ne ignorano spesso le applicazioni e i risultati concreti: tecniche come la risonanza magnetica funzionale, ad esempio, hanno permesso di verificare la presenza di attività cerebrale in persone in stato vegetativo, apparentemente prive di coscienza ma in grado di eseguire alcune azioni mediante l’immaginazione. Sulla rivista Science nel 2006, è stato descritto l’esperimento dell’equipe del neurologo Adrian Owen, nel quale a una ragazza in stato vegetativo è stato chiesto di giocare mentalmente a tennis, e di immaginare di girare per le stanze di casa propria: grazie alle nuove tecniche gli studiosi hanno verificato la presenza di attività cerebrale nelle stesse zone in cui avviene nei soggetti sani; un’evidenza sperimentale che non è rimasta un caso isolato, e che ha messo in discussione tutte le certezze raggiunte sulla coscienza delle persone in questo stato. Ma molti fra i sedicenti paladini della scienza, insieme ai giudici che hanno emesso la sentenza su Eluana, sembrano non essersi accorti di questa rivoluzione della neurologia, e hanno continuato a rimanere attaccati alle loro vecchie, granitiche certezze. Solo pochissimi giornali, fra cui quello che state leggendo, hanno trattato l’argomento. Per non parlare della licenza inglese alla creazione degli embrioni ibridi uomo­animale: i principali media in Italia l’hanno strillata a otto colonne, spacciandola come una promettente ricerca di frontiera, che avrebbe aperto le porte a chissà quali conoscenze e terapie future e futuribili, ignorando chi sosteneva che l’esperimento non aveva alcun carattere innovativo, che era già stato abbandonato dagli stessi che qualche anno prima l’avevano proposto, che esisteva una sola pubblicazione scientifica, in una piccola rivista, in cui si dichiarava la fattibilità di questo tipo di embrioni ibridi, in un esperimento che nessun altro gruppo di ricerca – neppure quello stesso che lo aveva pubblicato – era riuscito a riprodurre. Anche in questo caso, l’informazione scientifica completa è passata quasi esclusivamente tramite la stampa cattolica. Per non parlare poi della ricerca sulle staminali embrionali, sulle quali si è arrivati ad un curioso paradosso, e cioè che chi protesta che gli studi sarebbero sabotati o addirittura vietati in Italia – sempre per colpa del Vaticano – è chi sta portando avanti proprio questo tipo di ricerca, sulle embrionali, nei laboratori italiani dimostrando che chi si dedica allo studio di staminali embrionali umane in Italia non è affatto perseguito penalmente. In Italia non si possono distruggere embrioni umani, ma non è vietato lo studio delle linee staminali embrionali già prodotte. La differenza è che nel nostro Paese i governi sia di centrosinistra sia di centrodestra non hanno finanziato questo tipo di ricerche, mentre purtroppo il settimo programma quadro europeo ha stanziato per la prima volta fondi nel settore. Sarebbe, poi, interessante verificare quali progressi meravigliosi hanno registrato i Paesi in cui la ricerca è totalmente libera, come Corea, Cina, Singapore, rispetto a quelli dove ci sono più rigorosi limiti etici, ad esempio Italia e Giappone. A tutt’oggi, per quanto è noto, la più importante scoperta scientifica del settore è stata quella delle cellule riprogrammate del giapponese Yamanaka, le ' staminali etiche' ( cellule adulte riprogrammate), il quale per ottenerle ha utilizzato un principio ricavato da studi su topi, e non su embrioni umani. Insomma, chi veramente ha paura della scienza?


PERSONE E DIRITTI - Chiare e inequivocabili dichiarazioni rese dal rappresentante vaticano al Palazzo di Vetro, Migliore, stravolte in alcuni titoli di agenzia. E si accende una ridda di reazioni - i gay «né forzature né discriminazioni» - Santa Sede contraria a una proposta della Ue all’Onu che può originare «meccanismi di controllo e di pressione» - Padre Lombardi: il catechismo della Chiesa esclude pena di morte e legislazioni violente o persecutorie, ma quel testo non si limita a depenalizzare, ha un valore politico gravido di conseguenze. - DI DANIELE ZAPPALÀ – Avvenire, 2 dicembre 2008
Depenalizzazione dell’omoses­sualità. Sono bastate queste due parole, tradotte approssi­mativamente dal francese senza te­nere conto del contesto in cui erano state pronunciate, e poi ripetute in al­cuni lanci d’agenzia che le hanno er­roneamente attribuite all’arcivesco­vo Celestino Migliore, per sollevare u­na polemica fondata sul nulla. Il Vati­cano non si batte contro la «depena­lizzazione dell’omosessualità» e non difende «la pena di morte» per le per­sone gay. Anzi, «tutto ciò che va in fa­vore del rispetto e della tutela delle persone fa parte del nostro patrimo­nio umano e spirituale». L’aveva spie­gato con chiarezza l’osservatore per­manente della Santa Sede presso l’O­nu, in un’intervista rilasciata all’a­genzia francese 'I media'. Rispon­dendo a una domanda sull’intenzio­ne della Francia di presentare all’Onu un progetto di dichiarazione sull’o­mosessualità, a nome dei Paesi della Ue (la Farnesina ha fatto informal­mente sapere, ieri, che il consenso del­­l’Italia sarebbe già dato), Migliore a­veva affermato che «il Catechismo della Chiesa cattolica dice, e non da oggi, che nei confronti delle persone omosessuali di deve evitare ogni mar­chio di ingiusta discriminazione». Quindi nessun divieto alla proposta di «depenalizzazione per gli omoses­suali ». Anche perché, ha fatto notare l’arci­vescovo, la questione è un’altra. «Con una dichiarazione di valore politico, sottoscritta da un gruppo di Paesi, si chiede agli Stati e ai meccanismi in­ternazionali di attuazione e controllo dei diritti umani di aggiungere nuove categorie protette dalla discrimina­zione, senza tenere conto che se a­dottate – ecco il pericolo evidenziato da Migliore – creeranno nuove e im­placabili discriminazioni». Un esem­pio? «Gli Stati che non riconoscono l’unione tra persone dello stesso ses­so come 'matrimonio' – ha spiegato ancora – verranno messi alla gogna e fatti oggetto di pressioni». Tutto chia­ro, no? Peccato che alcune agenzie i­taliane abbiano sommariamente at­tribuito all’arcivescovo un perentorio «no alla depenalizzazione dell’omo­sessualità da parte dell’Onu», scate­nando la solita ridda di polemiche an­ticlericali e di attacchi politici. Tutti da ambienti radicali (di sinistra e di de- stra) e di area comunista, rimbeccati da e­sponenti dell’Udc e del Pdl. A sgombera­re il campo dagli equivoci è intervenuto padre Lombardi, direttore della Sala stam­pa vaticana, che ha ribadito e contestua­lizzato quanto affermato dall’osservatore all’Onu. «L’intervista di monsignor Mi­gliore, letta integralmente, dice cose chia­re e del tutto condivisibili», ha osservato Lombardi. «Ovviamente nessuno vuole difendere la pena di morte per gli omo­sessuali, come qualcuno vorrebbe far cre­dere. I noti principi del rispetto dei diritti fondamentali della persona e del rifiuto di ogni ingiusta discriminazione, che so­no sanciti a chiare lettere nello stesso Ca­techismo della Chiesa cattolica, escludo­no evidentemente - ha continuato - non solo la pena di morte, ma tutte le legisla­zioni penali violente o discriminatorie nei confronti degli omosessuali». «Ma qui ­ha avvertito - si tratta di altro, non solo di 'depenalizzare l’omosessualita' come è stato scritto, ma di introdurre una dichia­razione di valore politico che si può riflet­tere in meccanismi di controllo in forza dei quali ogni norma (non solo legale, ma anche relativa alla vita di gruppi sociali o religiosi) che non ponga esattamente sul­lo stesso piano ogni orientamento ses­suale, può venire considerata contraria al rispetto dei diritti dell’uomo«. »Ciò - ha detto il direttore della Sala Stampa vatica­na - può diventare chiaramente stru­mento di pressione o discriminazione nei confronti di chi, solo per fare un esempio molto chiaro, considera il matrimonio fra uomo e donna la forma fondamentale e originaria della vita sociale e come tale da privilegiare». «Non per nulla - ha conclu­so - meno di 50 stati membri delle Nazio­ni Unite hanno aderito alla proposta in questione, mentre più di 150 non vi hanno aderito».