venerdì 12 dicembre 2008

Nella rassegna stampa di oggi:
1) Il testo integrale della catechesi di Benedetto XVI all'udienza generale di mercoledì 10 dicembre - La Chiesa è un corpo non un'organizzazione - Diamo di seguito il testo integrale della catechesi, dedicata alla teologia paolina dei sacramenti, che Benedetto XVI ha pronunciato durante l'udienza generale svoltasi mercoledì 10 dicembre nell'aula Paolo VI. – L’Osservatore Romano, 12 dicembre 2008
2) Benedetto XVI anticipa i temi della sua prossima Enciclica sociale - Nel Messaggio per la Giornata della Pace - di Carmen Elena Villa
3) Giovanni il Battista, profeta “non nato” - III Domenica d’Avvento/B – 14 dicembre 2008 - di padre Angelo del Favero*
4) Vaticano e depenalizzazione dell'omosessualità: una polemica inesistente - Il commento di padre Federico Lombardi
5) 11/12/2008 13:57 - VATICANO - PACE 2009 - Papa: solidarietà globale per combattere la povertà e costruire la pace - Nel messaggio per la Giornata mondiale della pace, Benedetto XVI esamina le “implicazioni morali” della povertà. Il falso rapporto povertà-natalità. Le spese militari tolgono aiuti allo sviluppo. Una finanza appiattita sul breve e brevissimo termine diviene pericolosa per tutti. La responsabilità dei ricchi: è stolto “costruire una casa dorata, ma con attorno il deserto o il degrado”.
6) Gesù si può incontrare? - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 11 dicembre 2008 - La Chiesa, corpo e organismo di Cristo, con il dono del Suo Spirito, è il soggetto vivo della Parola di Dio e dei Sacramenti
7) POVERTA'/ Campiglio: le innovazioni di Benedetto XVI per combattere la fame - Luigi Campiglio - venerdì 12 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
8) SCUOLA/ 1. Tagliando i fondi alle paritarie lo Stato fa solo un dispetto a se stesso - Luisa Ribolzi - venerdì 12 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
9) SCUOLA/ 2. Riforma Gelmini rinviata a data da destinarsi: niente di nuovo sotto il sole… - Redazione - venerdì 12 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
10) DIRITTI UMANI/ Ecco svelati gli inganni sulla posizione della Chiesa - José Luis Restan - venerdì 12 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
11) KAFKA/ Ostracismo e letture ideologiche nell’Europa dell’Est - Angelo Bonaguro - venerdì 12 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
12) Se fare del bene diventa esperienza: le storie del banco alimentare a Palermo - Redazione - giovedì 11 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
13) FILMATI SUICIDI, GESTI EUTANASICI E DINTORNI - Un bel prodotto che tira La morte nel mercato d’oggi - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 12 dicembre 2008
14) formazione a cui hanno partecipato oltre 800 operatori del terzo settore - Un’amicizia operativa per essere protagonisti - Progetto Di.Re, bilancio di un anno Il lavoro di Cdo-Impresa sociale - DI NICOLA CELORA – Avvenire, 12 dicembre 2008
15) «Nella sussidiarietà la strada per il cambiamento» - DI GIORGIO PAOLUCCI – Avvenire, 12 dicembre 2008
16) LA FEDE NEGATA - Il processo è stato seguito da migliaia di cattolici all’esterno del tribunale: come ha riferito padre Pierre Nguyen Van Khai, i poliziotti hanno però cercato di impedire la diffusione delle udienze - Espropri alla Chiesa: otto fedeli cristiani condannati in Vietnam - «Accuse false». Rilasciati dopo la lettura della sentenza - I LORENZO FAZZINI – Avvenire, 12 dicembre 2008


Il testo integrale della catechesi di Benedetto XVI all'udienza generale di mercoledì 10 dicembre - La Chiesa è un corpo non un'organizzazione - Diamo di seguito il testo integrale della catechesi, dedicata alla teologia paolina dei sacramenti, che Benedetto XVI ha pronunciato durante l'udienza generale svoltasi mercoledì 10 dicembre nell'aula Paolo VI. – L’Osservatore Romano, 12 dicembre 2008
Cari fratelli e sorelle,
seguendo san Paolo abbiamo visto nella catechesi di mercoledì scorso due cose. La prima è che la nostra storia umana dagli inizi è inquinata dall'abuso della libertà creata, che intende emanciparsi dalla Volontà divina. E così non trova la vera libertà, ma si oppone alla verità e falsifica, di conseguenza, le nostre realtà umane. Falsifica soprattutto le relazioni fondamentali: quella con Dio, quella tra uomo e donna, quella tra l'uomo e la terra. Abbiamo detto che questo inquinamento della nostra storia si diffonde sull'intero suo tessuto e che questo difetto ereditato è andato aumentando ed è ora visibile dappertutto. Questa era la prima cosa. La seconda è questa: da san Paolo abbiamo imparato che esiste un nuovo inizio nella storia e della storia in Gesù Cristo, Colui che è uomo e Dio. Con Gesù, che viene da Dio, comincia una nuova storia formata dal suo sì al Padre, fondata perciò non sulla superbia di una falsa emancipazione, ma sull'amore e sulla verità. Ma adesso si pone la questione: come possiamo entrare noi in questo nuovo inizio, in questa nuova storia? Come questa nuova storia arriva a me? Con la prima storia inquinata siamo inevitabilmente collegati per la nostra discendenza biologica, appartenendo noi tutti all'unico corpo dell'umanità. Ma la comunione con Gesù, la nuova nascita per entrare a far parte della nuova umanità, come si realizza? Come arriva Gesù nella mia vita, nel mio essere? La risposta fondamentale di san Paolo, di tutto il Nuovo Testamento è: arriva per opera dello Spirito Santo. Se la prima storia si avvia, per così dire, con la biologia, la seconda si avvia nello Spirito Santo, lo Spirito del Cristo risorto. Questo Spirito ha creato a Pentecoste l'inizio della nuova umanità, della nuova comunità, la Chiesa, il Corpo di Cristo. Però dobbiamo essere ancora più concreti: questo Spirito di Cristo, lo Spirito Santo, come può diventare Spirito mio? La risposta è che ciò avviene in tre modi, intimamente connessi l'uno con l'altro. Il primo è questo: lo Spirito di Cristo bussa alle porte del mio cuore, mi tocca interiormente. Ma poiché la nuova umanità deve essere un vero corpo, poiché lo Spirito deve riunirci e realmente creare una comunità, poiché è caratteristico del nuovo inizio il superare le divisioni e creare l'aggregazione dei dispersi, questo Spirito di Cristo si serve di due elementi di aggregazione visibile: della Parola dell'annuncio e dei Sacramenti, particolarmente del Battesimo e dell'Eucaristia. Nella Lettera ai Romani, dice san Paolo: "Se con la tua bocca proclamerai: "Gesù è il Signore", e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo" (10, 9), entrerai cioè nella nuova storia, storia di vita e non di morte. Poi san Paolo continua: "Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati?" (Rm 10, 14-15). In un successivo passo dice ancora: "La fede viene dall'ascolto" (Rm 10, 17). La fede non è prodotto del nostro pensiero, della nostra riflessione, è qualcosa di nuovo che non possiamo inventare, ma solo ricevere come dono, come una novità prodotta da Dio. E la fede non viene dalla lettura, ma dall'ascolto. Non è una cosa soltanto interiore, ma una relazione con Qualcuno. Suppone un incontro con l'annuncio, suppone l'esistenza dell'altro che annuncia e crea comunione. E finalmente l'annuncio: colui che annuncia non parla da sé, ma è inviato. Sta entro una struttura di missione che comincia con Gesù inviato dal Padre, passa agli apostoli - la parola apostoli significa "inviati" - e continua nel ministero, nelle missioni trasmesse dagli apostoli. Il nuovo tessuto della storia appare in questa struttura delle missioni, nella quale sentiamo ultimamente parlare Dio stesso, la sua Parola personale, il Figlio parla con noi, arriva fino a noi. La Parola si è fatta carne, Gesù, per creare realmente una nuova umanità. Perciò la parola dell'annuncio diventa Sacramento nel Battesimo, che è rinascita dall'acqua e dallo Spirito, come dirà san Giovanni. Nel sesto capitolo della Lettera ai Romani san Paolo parla in modo molto profondo del Battesimo. Abbiamo sentito il testo. Ma forse è utile ripeterlo: "Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo battezzati nella sua morte? Per mezzo del Battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a Lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova" (6, 3-4). In questa catechesi, naturalmente, non posso entrare in una interpretazione dettagliata di questo testo non facile. Vorrei brevemente notare solo tre cose. La prima: "siamo stati battezzati" è un passivo. Nessun può battezzare se stesso, ha bisogno dell'altro. Nessuno può farsi cristiano da se stesso. Divenire cristiani è un processo passivo. Solo da un altro possiamo essere fatti cristiani. E questo "altro" che ci fa cristiani, ci dà il dono della fede, è in prima istanza la comunità dei credenti, la Chiesa. Dalla Chiesa riceviamo la fede, il Battesimo. Senza lasciarci formare da questa comunità non diventiamo cristiani. Un cristianesimo autonomo, autoprodotto, è una contraddizione in sé. In prima istanza, questo altro è la comunità dei credenti, la Chiesa, ma in seconda istanza anche questa comunità non agisce da sé, secondo le proprie idee e desideri. Anche la comunità vive nello stesso processo passivo: solo Cristo può costituire la Chiesa. Cristo è il vero donatore dei Sacramenti. Questo è il primo punto: nessuno battezza se stesso, nessuno fa se stesso cristiano. Cristiani lo diventiamo. La seconda cosa è questa: il Battesimo è più che un lavaggio. È morte e risurrezione. Paolo stesso parlando nella Lettera ai Galati della svolta della sua vita realizzatasi nell'incontro con Cristo risorto, la descrive con la parola: sono morto. Comincia in quel momento realmente una nuova vita. Divenire cristiani è più che un'operazione cosmetica, che aggiungerebbe qualche cosa di bello a un'esistenza già più o meno completa. È un nuovo inizio, è rinascita: morte e risurrezione. Ovviamente nella risurrezione riemerge quanto era buono nell'esistenza precedente. La terza cosa è: la materia fa parte del Sacramento. Il cristianesimo non è una realtà puramente spirituale. Implica il corpo. Implica il cosmo. Si estende verso la nuova terra e i nuovi cieli. Ritorniamo all'ultima parola del testo di san Paolo: così - dice - possiamo "camminare in una nuova vita". Elemento di un esame di coscienza per noi tutti: camminare in una nuova vita. Questo per il Battesimo. Veniamo adesso al Sacramento dell'Eucaristia. Ho già mostrato in altre catechesi con quale profondo rispetto san Paolo trasmetta verbalmente la tradizione sull'Eucaristia che ha ricevuto dagli stessi testimoni dell'ultima notte. Trasmette queste parole come un prezioso tesoro affidato alla sua fedeltà. E così sentiamo in queste parole realmente i testimoni dell'ultima notte. Sentiamo le parole dell'Apostolo: "Io infatti ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso. Il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito prese del pane e dopo aver reso grazie lo spezzò e disse: questo è il mio Corpo che è per voi, fate questo in memoria di me. Allo stesso modo dopo aver cenato prese anche il calice dicendo: questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, fate questo ogni volta che ne bevete in memoria di me" (1 Cor 11, 23-25). È un testo inesauribile. Anche qui, in questa catechesi, solo due brevi osservazioni. Paolo trasmette le parole del Signore sul calice così: questo calice è "la nuova alleanza nel mio sangue". In queste parole si nasconde un accenno a due testi fondamentali dell'Antico Testamento. Il primo accenno è alla promessa di una nuova alleanza nel Libro del profeta Geremia. Gesù dice ai discepoli e dice a noi: adesso, in questa ora, con me e con la mia morte si realizza la nuova alleanza; dal mio sangue comincia nel mondo questa nuova storia dell'umanità. Ma è presente, in queste parole, anche un accenno al momento dell'alleanza del Sinai, dove Mosè aveva detto: "Ecco il sangue dell'alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di queste parole" (Es 24, 8). Là si trattava di sangue di animali. Il sangue degli animali poteva essere solo espressione di un desiderio, attesa del vero sacrificio, del vero culto. Col dono del calice il Signore ci dona il vero sacrificio. L'unico vero sacrificio è l'amore del Figlio. Col dono di questo amore, amore eterno, il mondo entra nella nuova alleanza. Celebrare l'Eucaristia significa che Cristo ci dà se stesso, il suo amore, per conformarci a se stesso e per creare così il mondo nuovo. Il secondo importante aspetto della dottrina sull'Eucaristia appare nella stessa prima Lettera ai Corinzi dove san Paolo dice: "Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un corpo solo: tutti infatti partecipiamo all'unico pane" (10, 16-17). In queste parole appare ugualmente il carattere personale e il carattere sociale del Sacramento dell'Eucaristia. Cristo si unisce personalmente ad ognuno di noi, ma lo stesso Cristo si unisce anche con l'uomo e con la donna accanto a me. E il pane è per me e anche per l'altro. Così Cristo ci unisce tutti a sé e unisce tutti noi, l'uno con l'altro. Riceviamo nella comunione Cristo. Ma Cristo si unisce ugualmente con il mio prossimo: Cristo e il prossimo sono inseparabili nell'Eucaristia. E così noi tutti siamo un solo pane, un solo corpo. Un'Eucaristia senza solidarietà con gli altri è un'Eucaristia abusata. E qui siamo anche alla radice e nello stesso tempo al centro della dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo, del Cristo risorto. Vediamo anche tutto il realismo di questa dottrina. Cristo ci dà nell'Eucaristia il suo corpo, dà se stesso nel suo corpo e così ci fa suo corpo, ci unisce al suo corpo risorto. Se l'uomo mangia pane normale, questo pane nel processo della digestione diventa parte del suo corpo, trasformato in sostanza di vita umana. Ma nella santa Comunione si realizza il processo inverso. Cristo, il Signore, ci assimila a sé, ci introduce nel suo Corpo glorioso e così noi tutti insieme diventiamo Corpo suo. Chi legge solo il cap. 12 della prima Lettera ai Corinzi e il cap. 12 della Lettera ai Romani potrebbe pensare che la parola sul Corpo di Cristo come organismo dei carismi sia solo una specie di parabola sociologico-teologica. Realmente nella politologia romana questa parabola del corpo con diverse membra che formano una unità era usata per lo Stato stesso, per dire che lo Stato è un organismo nel quale ognuno ha la sua funzione, la molteplicità e diversità delle funzioni formano un corpo e ognuno ha il suo posto. Leggendo solo il cap. 12 della prima Lettera ai Corinzi si potrebbe pensare che Paolo si limiti a trasferire soltanto questo alla Chiesa, che anche qui si tratti solo di una sociologia della Chiesa. Ma tenendo presente questo capitolo decimo vediamo che il realismo della Chiesa è ben altro, molto più profondo e vero di quello di uno Stato-organismo. Perché realmente Cristo dà il suo corpo e ci fa suo corpo. Diventiamo realmente uniti col corpo risorto di Cristo, e così uniti l'uno con l'altro. La Chiesa non è solo una corporazione come lo Stato, è un corpo. Non è semplicemente un'organizzazione, ma un vero organismo. Alla fine, solo una brevissima parola sul Sacramento del matrimonio. Nella Lettera ai Corinzi si trovano solo alcuni accenni, mentre la Lettera agli Efesini ha realmente sviluppato una profonda teologia del Matrimonio. Paolo definisce qui il Matrimonio "mistero grande". Lo dice "in riferimento a Cristo e alla sua Chiesa" (5, 32). Va rilevata in questo passo una reciprocità che si configura in una dimensione verticale. La sottomissione vicendevole deve adottare il linguaggio dell'amore, che ha il suo modello nell'amore di Cristo verso la Chiesa. Questo rapporto Cristo-Chiesa rende primario l'aspetto teologale dell'amore matrimoniale, esalta la relazione affettiva tra gli sposi. Un autentico matrimonio sarà ben vissuto se nella costante crescita umana e affettiva si sforzerà di restare sempre legato all'efficacia della Parola e al significato del Battesimo. Cristo ha santificato la Chiesa, purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua, accompagnato dalla Parola. La partecipazione al corpo e sangue del Signore non fa altro che cementare, oltre che visibilizzare, una unione resa per grazia indissolubile. E alla fine sentiamo la parola di san Paolo ai Filippesi: "Il Signore è vicino" (Fil 4, 5). Mi sembra che abbiamo capito che, mediante la Parola e mediante i Sacramenti, in tutta la nostra vita il Signore è vicino. Preghiamolo affinché possiamo sempre più essere toccati nell'intimo del nostro essere da questa sua vicinanza, affinché nasca la gioia - quella gioia che nasce quando Gesù è realmente vicino.
(©L'Osservatore Romano - 12 dicembre 2008)



Benedetto XVI anticipa i temi della sua prossima Enciclica sociale - Nel Messaggio per la Giornata della Pace - di Carmen Elena Villa
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 11 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Il Cardinale Renato R. Martino ha presentato questo giovedì il Messaggio di Benedetto XVI per la Giornata Mondiale della Pace come un “aperitivo” della prossima Enciclica sulla dottrina sociale.
Il presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace ha osservato che l'Enciclica potrebbe essere pubblicata all'inizio del 2009, quindi in piena crisi finanziaria ed economica.
Il Messaggio papale per la Giornata, che si celebra il 1° gennaio, ha per tema “Combattere la povertà, costruire la pace”.
In esso, si affrontano questioni come la povertà e le implicazioni morali, la lotta contro questo flagello e la solidarietà globale.
Secondo il porporato, alcuni punti del testo verranno sviluppati nella prossima Enciclica di carattere sociale, che in base a quanto ha detto nei mesi scorsi potrebbe intitolarsi “Caritas in Veritate” (Amore nella verità).
Presentando una sintesi del Messaggio pontificio, il Cardinal Martino ha indicato che l'aspetto più interessante è “l'originalità dell'approccio alla globalizzazione stabilito dalla dottrina sociale: essa coglie l'allargamento della questione sociale alla globalità”.
Il testo, ha aggiunto, mostra come “la lotta alla povertà e la pace si richiamino costantemente in una feconda circolarità che costituisce uno dei presupposti più stimolanti per dare corpo ad un adeguato approccio culturale, sociale e politico delle complesse tematiche relative alla realizzazione della pace nel nostro tempo, segnato dal fenomeno della globalizzazione”.
Ciò avviene “non solo come una estensione quantitativa, quanto piuttosto come urgenza di un approfondimento qualitativo sull'uomo e sui bisogni della famiglia umana”, ha sottolineato.
Quanto al tema della lotta contro la povertà, il Cardinale ha indicato nel documento viene presentato in modo “ampio e articolato”.
La Chiesa, ha concluso, si interessa ai fenomeni relativi alla globalizzazione e alla loro incidenza sulle povertà umane e “indica i nuovi aspetti, non solo in estensione, ma anche in profondità, della attuale questione sociale, che è la questione dell'uomo e del suo rapporto con Dio”.


Giovanni il Battista, profeta “non nato” - III Domenica d’Avvento/B – 14 dicembre 2008 - di padre Angelo del Favero*
ROMA, venerdì, 12 dicembre 2008 (ZENIT.org).- “Fratelli, gioite nel Signore sempre; ripeto, gioite, il Signore è vicino!” (Fil 4,4-5).
L’antifona di ingresso della santa Messa di questa III Domenica d’Avvento dovrebbe risuonare dall’altare ogni domenica, anzi, in ogni quotidiana celebrazione eucaristica, che è “memoriale” (cioè evento che si rinnova) dell’attesa e della venuta del Signore “in mezzo a noi” (Gv 1,14).
Ma come può il “non ancora” essere “già” qui?
Ecco: è come in gravidanza! Si dice che la mamma “aspetta un bambino”, ma il bambino c’è già in lei, sin dal giorno del concepimento. La mamma attende solo il momento della nascita, perché il suo cuore dice da nove mesi: ”il mio bambino!...non vedo l’ora di vederlo!”. In quel giorno giungerà al culmine anche “la gravidanza” della sua gioia, perché ad avvolgere il bambino saranno finalmente le sue braccia.
E’ questo il modello della gioia cristiana, che Paolo annuncia ai Filippesi, come dono (“già”), e come compito (“non ancora”). Il “già” è: “siate sempre lieti!” (1 Ts 5,16), cioè: gioite! perché il grembo della vostra anima fin dal battesimo è “gravido” di Gesù, Figlio di Dio. E il “non ancora” è il compito che segue: “pregate ininterrottamente...rendete grazie in ogni cosa...non spegnete lo Spirito...astenetevi da ogni specie di male...”(5,17-22): consigli per il prosieguo felice della gravidanza spirituale, vigilando giorno e notte, perché questa gravidanza è davvero speciale e il Bambino, se vuole...può mostrarvi il Suo Volto da un momento all’altro (cfr. Sal 27,8).
Sì, la fede non è solamente credere alla verità teologica dell’inabitazione divina, non è nemmeno solo sentire l’anima “con il pancione” (quando nella preghiera si gusta la dolcezza della divina presenza): può essere anche il dono di un’ineffabile esperienza, quella dell’effusione amorosa dello Sposo-Bambino: “Baciami con i baci della tua bocca: le tue carezze sono migliori del vino!” (Ct 1,2).
Ma ora ci chiediamo: che genere di gioia è questa”gravidanza divina”, e come fare...per non abortire?
Sì, perchè: “Noi vogliamo far sì che il nostro cuore divenga lieto. Non allegro, che è qualcosa di completamente diverso. Essere allegri è un fatto esterno, rumoroso, e presto si dissolve. La gioia invece vive nell’intimo, silente, è profondamente radicata. Essa è sorella della serietà; dove è l’una è anche l’altra.
Qui si deve parlare di quella lieta gioia verso la quale è possibile aprirsi una strada. Ciascuno la può possedere, allo stesso titolo, qualunque sia la sua natura. Essa deve essere anche indipendente da ore buone o cattive, da giorni vigorosi o fiacchi. Noi vogliamo qui meditare sul come si può aprire ad essa la via. Non proviene dal denaro, da una vita comoda, o dal fatto d’esser riveriti dalla gente, anche se da tutto questo può essere influenzata.
La vera fonte della gioia è radicata più profondamente, cioè nel cuore stesso, nella sua più remota intimità. Ivi abita Dio e Dio stesso è la fonte della vera gioia” (Romano Guardini, Lettere sull’autoformazione).
Da questa fonte, oggi, giungono a noi quattro canali poderosi: il primo, come si è visto, è Paolo; il secondo è il profeta Isaia; il terzo è la Madre di Gesù; e infine c’è Giovanni il Battista, più sorprendente di tutti.
L’apostolo è perentorio; per lui la gioia non è un semplice augurio o una esortazione: è un comandamento: “Gioite nel Signore, ripeto, gioite!” (Fil 4,4-5); “state sempre lieti!” (1 Ts 5,16).
Paolo non è un ingenuo; egli sa bene che vi sono “i grandi nemici della gioia, e tra questi non è il dolore. Esso rende forti e profondi. Rende efficace la gioia stessa. Ma ve ne sono due che si devono sterminare: il malumore e la malinconia. Il malumore deriva dalle piccole seccature quotidiane. Da un cuore suscettibile, che se la prende sempre a male, che non sa ridere, scusare, lasciar correre. E’ come avere degli insetti nocivi nell’anima. Bisogna spazzarli via e proprio dal principio, appena si mostrano, subito. L’altro nemico è la malinconia. Una forza oscura che disgrega l’anima, se la lasciamo avanzare. Ma si può dominarla, credilo, si può! A una condizione, tuttavia; appena si mostra, andiamole contro, subito, senza seguire il suo gioco!” (Romano Guardini, opera citata).
Ed ecco il metodo pratico suggerito da Paolo: “In ogni cosa rendete grazie, questa infatti è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1 Ts 5,16).
Non è cosa troppo difficile prendere l’abitudine di ringraziare Dio sempre, in ogni luogo e per ogni cosa; ed è tanto importante da costituire per noi una fonte di salvezza, come afferma il sacerdote in ogni prefazio della Messa. Ringraziare, infatti, anche nel dolore, equivale a credere (“La tua fede ti ha salvato” – Mc 10,52), come a dire: Signore, so che Tu volgerai in bene questa mia prova, perciò credo che Tu la vuoi e Ti ringrazio fin d’ora. Un simile atto, ripetuto ad ogni circostanza, diventa a poco a poco un “abito” permanente, capace di mantenere nell’anima il calore dell’amore e della gioia. Così, filo dopo filo, ognuno può cantare: “Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli” (Is 6,10).
Questa è l’esperienza di Isaia, fedele araldo della Parola di Dio, e ancor più quella di Maria, umile ancella del Signore, nella quale tale Parola si è fatta Carne sua.
Questa è anche la testimonianza di Giovanni il Battista, il più grande dei profeti secondo Gesù (Mt 11,11), e… il più piccolo, il profeta “non nato”. Perché lo possiamo definire così? E’ Giovanni stesso che sembra suggerirlo quando dice nel Vangelo di essere “Voce di uno che grida nel deserto: rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia” (Gv 1,23). Oltre ad Isaia, possiamo pensare qui all’incontro di Maria (incinta da pochi giorni) con la parente Elisabetta, (entrata già nel sesto mese di gravidanza - Lc 1,36). In tale circostanza il piccolo Giovanni, “appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, sussultò di gioia nel grembo” (Lc 1,44).
Possiamo ritenere che se Maria non avesse portato in grembo Gesù, Giovanni non sarebbe sobbalzato di gioia all’udire la sua voce, giacché è stata la Presenza del Figlio di Dio a farlo esultare. Come ha potuto il Precursore riconoscere Gesù? Evidentemente attraverso la voce della Madre di Dio, il cui meraviglioso saluto giunse contemporaneamente alle orecchie di Elisabetta e a quelle del bambino in lei. La voce, infatti, veicola in certo modo, l’essere stesso della persona, un po’ come lo sguardo.
La voce di Maria incinta, se da un lato era segno naturale dell’indicibile bellezza e purezza della sua persona immacolata, dall’altro recava con sé, per grazia, un timbro soprannaturale, comunicatole nell’essere dallo Spirito Santo che l’aveva resa Madre di Dio. Giovanni lo percepì riconoscendo così la presenza del Messia, e ne provò una tale gioia da sobbalzare come una molla, non per una sorta di arco riflesso (come il martelletto del medico fa scattare in estensione la gamba), ma per intima, cosciente risonanza della sua persona con Gesù. Questo fu il primo atto indicativo del Precursore nei confronti dell’Agnello divino: profeta “non nato”!
Non è qui fuori luogo rammentare che una simile reazione in un bambino di 22-24 settimane (tale era verosimilmente l’età gestazionale del Battista, in base al Vangelo), è possibile solo perché il cervello, come un pianoforte perfettamente accordato, è già formato quale organo centrale ed essenziale della persona umana. Come non ricordare, allora, per doloroso contrasto, quella diffusa mentalità eutanasica ed eugenetica sottesa ad affermazioni disumane come questa: “I feti, i neonati, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in uno stato vegetativo permanente, costituiscono esempi di non persone umane. Tali entità fanno parte della specie umana, ma non sono persone” (G.V.)?
Allora, in questo tempo d’Avvento, impegniamoci anche noi a difendere la Verità della vita, e della vita nel grembo, come Giovanni il Battista, il quale: “Venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui” (Gv 1,7).

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* Padre Angelo, cardiologo, nel 1978 ha fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita all'ospedale Santa Chiara di Trento. E' diventato carmelitano nel 1984. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.


Vaticano e depenalizzazione dell'omosessualità: una polemica inesistente - Il commento di padre Federico Lombardi
CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 11 dicembre 2008 (ZENIT.org).- La polemica nata dall'opposizione della Santa Sede a una proposta francese di depenalizzazione dell'omosessualità manca di fqualsiasi fondamento. Ad affermarlo è stato il portavoce della Santa Sede.
Padre Federico Lombardi, S.I. Direttore della Sala Stampa della Santa Sede, ha affrontato l'argomento questo giovedì nella conferenza stampa di presentazione del Messaggio di Benedetto XVI per la Giornata Mondiale della Pace 2009.
Rispondendo alla domanda di un giornalista, il gesuita ha infatti dichiarato: “Intanto non mi pare che il documento sia stato presentato e non credo che sarà presentato alla prossima Assemblea delle Nazioni Unite per una votazione”.
“Dunque mi pare che non sia il caso di innescare polemiche su un testo di cui ancora non si conosce ufficialmente il contenuto – ha aggiunto –. Non mi risulta infatti che sia stato pubblicato nulla in proposito”.
Padre Lombardi ha ricordato che l'Arcivescovo Celestino Migliore, Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, si è opposto in un'intervista alla proposta francese per il pericolo che, con la giustificazione della depenalizzazione dell'omosessualità, si imponga il riconoscimento di diritti che non sono tali, come quello delle coppie omosessuali, inclusa l'adozione, una cosa che non è riconosciuta neanche in Francia.
“Egli - ha ricordato padre Lombardi - ha detto che per quanto riguarda la posizione della Chiesa a proposito di una legge penale che criminalizza gli omosessuali, o prevede addirittura la pena di morte, non c'è neppure da discutere: è assolutamente contraria”.
“È una posizione che rispetta i diritti della persona umana, nella sua dignità. Monsignor Migliore ha parlato anche contro ogni discriminazione riferita all'omosessualità. Non è dunque in questione il fatto che la Chiesa cattolica non sia assolutamente favorevole a una legislazione che criminalizza l'omosessualità”.
“Allo stesso modo tuttavia si oppone all'aggiunta di tante altre piccole frange che portano a dire che gli orientamenti sessuali vadano posti sullo stesso piano in tutte le situazioni e in relazione a tutte le norme”, ha spiegato.
Come esempio, il portavoce vaticano ha citato il matrimonio.
“Il marimonio tra un uomo e una donna è quello che la Chiesa sostiene, e non accetta di mettere sullo stesso piano quello tra persone dello stesso sesso”.
Padre Lombardi ha spiegato che i mezzi di comunicazione non sempre informano adeguatamente sulle posizioni assunte dalla Santa Sede nei confronti dell'ONU.
“Vedo spesso titoli di quotidiani in cui si sostiene che il Vaticano attacca l'ONU o che si scaglia contro le altre istituzioni internazionali. Io ritengo che non sia un comportamento esatto, giusto”, ha osservato.
“Le Nazioni Unite sono una grande sede internazionale in cui sono rappresentati tanti Stati, in cui la Santa Sede si impegna da molto tempo con una delegazione e partecipa attivamente ai lavori”.
“Quattro Papi l'hanno visitata e hanno rivolto messaggi importanti proprio per dare sostegno morale al ruolo che l'istituzione svolge per la pace nel mondo”, ha proseguito.
“È chiaro che nello sviluppo delle varie tematiche sulle quali si concentra di volta in volta l'attenzione ci siano temi sui quali la Santa Sede ha delle posizioni precise e si impegna per sostenerle – ha concluso –. Ma ciò non significa che si possa affermare 'Il Papa si scaglia contro l'ONU' come spesso titolano diverse testate”.


11/12/2008 13:57 - VATICANO - PACE 2009 - Papa: solidarietà globale per combattere la povertà e costruire la pace - Nel messaggio per la Giornata mondiale della pace, Benedetto XVI esamina le “implicazioni morali” della povertà. Il falso rapporto povertà-natalità. Le spese militari tolgono aiuti allo sviluppo. Una finanza appiattita sul breve e brevissimo termine diviene pericolosa per tutti. La responsabilità dei ricchi: è stolto “costruire una casa dorata, ma con attorno il deserto o il degrado”.
Città del Vaticano (AsiaNews) - Serve un’anima all’aiuto per lo sviluppo, alla lotta contro la povertà, che resta ad un tempo tra le cause e le conseguenze dei conflitti; serve una gestione della globalizzazione che, se lasciata a se stessa ha dimostrato di non poter risolvere i problemi di chi ha bisogno; serve una finanza che non pensi solo al brevissimo termine; serve, alla fine, di “cambiare gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere, che oggi reggono la società” (n.15). E’ l’invito che Benedetto XVI rivolge nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace, che sarà celebrata il primo gennaio 2009.
Intitolato “Combattere la povertà, costruire la pace”, il documento, di 17 pagine, parte dalle costatazioni che, oggi, “combattere la povertà implica un’attenta considerazione del complesso fenomeno della globalizzazione” (n.2) e che non esistono solo povertà materiali, visto che anche i Paesi ricchi conoscono “fenomeni di emarginazione, povertà relazionale, morale e spirituale”. Ci sono dunque “implicazioni morali” della povertà. A cominciare dalla falsa relazione che spesso si pone tra povertà e sviluppo demografico. “In conseguenza di ciò, sono in atto campagne di riduzione delle nascite, condotte a livello internazionale, anche con metodi non rispettosi né della dignità della donna né del diritto dei coniugi a scegliere responsabilmente il numero dei figli e spesso, cosa anche più grave, non rispettosi neppure del diritto alla vita. Lo sterminio di milioni di bambini non nati, in nome della lotta alla povertà, costituisce in realtà l'eliminazione dei più poveri tra gli esseri umani”. (n.3). A dimostrare l’infondatezza della relazione povertà-demografia, il documento riporta alcune considerazioni: in primo luogo che nel 1981 il 40% della popolazione mondiale era sotto la linea di povertà, oggi la percentuale è quasi dimezzata, ed in secondo luogo che i Paesi che si stanno crescendo nel mondo economico internazionale “hanno conosciuto un rapido sviluppo proprio grazie all'elevato numero dei loro abitanti”. Il Papa non le cita, ma il pensiero va immediatamente a Cina e India. Ciò a dimostrare che “È soprattutto difficile combattere l'AIDS, drammatica causa di povertà, se non si affrontano le problematiche morali con cui la diffusione del virus è collegata”. (n.4). E’ nello stesso ambito che va riflettuto sul fatto che la povertà dei bambini, le vittime più vulnerabili dell’indigenza, è legata alla debolezza della famiglia. “Quando la famiglia si indebolisce i danni ricadono inevitabilmente sui bambini. Ove non è tutelata la dignità della donna e della mamma, a risentirne sono ancora principalmente i figli” (n.5).
Rientra ancora nelle implicazioni morali della povertà la “relazione esistente tra disarmo e sviluppo”. Se è evidente che “le ingenti risorse materiali e umane impiegate per le spese militari e per gli armamenti vengono di fatto distolte dai progetti di sviluppo dei popoli, specialmente di quelli più poveri e bisognosi di aiuto” (n.6), la corsa agli armamenti “provoca sacche di sottosviluppo e di disperazione, trasformandosi così paradossalmente in fattore di instabilità, di tensione e di conflitti”.
Ulteriore ambito della lotta allla povertà è rappresentato, sottolinea Benedetto XVI dalla crisi alimentare. Essa “è caratterizzata non tanto da insufficienza di cibo, quanto da difficoltà di accesso ad esso e da fenomeni speculativi e quindi da carenza di un assetto di istituzioni politiche ed economiche in grado di fronteggiare le necessità e le emergenze” (n.7).
Se le cause della povertà sono globali, “per governare la globalizzazione occorre però una forte solidarietà globale tra Paesi ricchi e Paesi poveri, nonché all'interno dei singoli Paesi, anche se ricchi. È necessario un ‘codice etico comune’, le cui norme non abbiano solo un carattere convenzionale, ma siano radicate nella legge naturale inscritta dal Creatore nella coscienza di ogni essere umano (cfr Rm 2,14-15)”. (n.8). La globalizzazione, infatti, “elimina certe barriere, ma ciò non significa che non ne possa costruire di nuove; avvicina i popoli, ma la vicinanza spaziale e temporale non crea di per sé le condizioni per una vera comunione e un'autentica pace. La marginalizzazione dei poveri del pianeta può trovare validi strumenti di riscatto nella globalizzazione solo se ogni uomo si sentirà personalmente ferito dalle ingiustizie esistenti nel mondo e dalle violazioni dei diritti umani ad esse connesse” (n.8).
Di strettissima attualità le considerazioni che Benedetto XVI fa riguardo ad economia e finanza. Quest’ultima in particolare, è legata alla globalizzazione, grazie allo sviluppo dell'elettronica e alle politiche di liberalizzazione dei flussi di denaro. “Anche la recente crisi dimostra come l'attività finanziaria sia a volte guidata da logiche puramente autoreferenziali e prive della considerazione, a lungo termine, del bene comune. L'appiattimento degli obiettivi degli operatori finanziari globali sul brevissimo termine riduce la capacità della finanza di svolgere la sua funzione di ponte tra il presente e il futuro, a sostegno della creazione di nuove opportunità di produzione e di lavoro nel lungo periodo. Una finanza appiattita sul breve e brevissimo termine diviene pericolosa per tutti, anche per chi riesce a beneficiarne durante le fasi di euforia finanziaria” (n.10).
Se il quadro, dunque, delle cause della povertà è globale, la lotta contro di essa “richiede una cooperazione sia sul piano economico che su quello giuridico che permetta alla comunità internazionale e in particolare ai Paesi poveri di individuare ed attuare soluzioni coordinate per affrontare i suddetti problemi realizzando un efficace quadro giuridico per l'economia”. L’esperienza dimostra come “le politiche marcatamente assistenzialiste siano all'origine di molti fallimenti”, “investire nella formazione delle persone e sviluppare in modo integrato una specifica cultura dell'iniziativa sembra attualmente il vero progetto a medio e lungo termine” (n.11).
Si tratta dunque di “mettere i poveri al primo posto”: ciò comporta che “si riservi uno spazio adeguato a una corretta logica economica da parte degli attori del mercato internazionale, ad una corretta logica politica da parte degli attori istituzionali e ad una corretta logica partecipativa capace di valorizzare la società civile locale e internazionale” (n.12). Va infatti superata la logica per la quele i problemi dello sviluppo, degli aiuti e della cooperazione internazionale “vengono affrontati talora senza un vero coinvolgimento delle persone, ma come questioni tecniche, che si esauriscono nella predisposizione di strutture, nella messa a punto di accordi tariffari, nello stanziamento di anonimi finanziamenti. La lotta alla povertà ha invece bisogno di uomini e donne che vivano in profondità la fraternità e siano capaci di accompagnare persone, famiglie e comunità in percorsi di autentico sviluppo umano (n.13)”.
In conclusione “nell'attuale mondo globale è sempre più evidente che si costruisce la pace solo se si assicura a tutti la possibilità di una crescita ragionevole: le distorsioni di sistemi ingiusti, infatti, prima o poi, presentano il conto a tutti. Solo la stoltezza può quindi indurre a costruire una casa dorata, ma con attorno il deserto o il degrado. La globalizzazione da sola è incapace di costruire la pace e, in molti casi, anzi, crea divisioni e conflitti. Essa rivela piuttosto un bisogno: quello di essere orientata verso un obiettivo di profonda solidarietà che miri al bene di ognuno e di tutti. In questo senso, la globalizzazione va vista come un'occasione propizia per realizzare qualcosa di importante nella lotta alla povertà e per mettere a disposizione della giustizia e della pace risorse finora impensabili”. (FP)
Per leggere il Messaggio integrale, clicca qui.


Gesù si può incontrare? - Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele - Fonte: CulturaCattolica.it - giovedì 11 dicembre 2008 - La Chiesa, corpo e organismo di Cristo, con il dono del Suo Spirito, è il soggetto vivo della Parola di Dio e dei Sacramenti
«La nostra storia umana dagli inizi è inquinata dall’abuso della libertà creata, che intende emanciparsi dalla Volontà divina. E così non trova la vera libertà, ma si oppone alla verità e falsifica, di conseguenza, le nostre realtà umane. Falsifica soprattutto le relazioni fondamentali: quella con Dio, quella tra uomo e donna, quella tra l’uomo e la terra. Questo inquinamento della nostra storia si diffonde sull’intero suo tessuto e questo difetto ereditato è andato aumentando ed è ora visibile dappertutto.
Da san Paolo abbiamo imparato che esiste un nuovo inizio nella storia e della storia in Gesù Cristo, Colui che è uomo e Dio. Con Gesù, che viene da Dio, comincia una nuova storia formata dal suo sì al Padre, fondata perciò non sulla superbia di una falsa emancipazione, ma sull’amore e sulla verità.
Ma come possiamo entrare in questo nuovo inizio, in questa nuova storia? Come questa nuova storia arriva a me?
- Con la prima storia inquinata siamo inevitabilmente collegati per la nostra discendenza biologica, appartenendo noi tutti all’unico corpo dell’umanità.
- Ma la comunione con Gesù, la nuova nascita per entrare a far parte della nuova umanità, come si realizza? Come arriva Gesù nella mia vita, nel mio essere? La risposta fondamentale di san Paolo, di tutto il Nuovo Testamento è: arriva per opera dello Spirito Santo, lo Spirito del Cristo risorto. Questo Spirito ha creato a Pentecoste l’inizio della nuova umanità, della nuova comunità, la Chiesa, il Corpo di Cristo» [Benedetto XVI, Udienza Generale, 10 dicembre 2008].

Due significativi interventi a braccio di Benedetto XVI: 14 ottobre al Sinodo davanti a 250 vescovi e il 10 dicembre all’Udienza Generale
Questo Spirito di Cristo, lo Spirito Santo, come può diventare Spirito mio facendomi figlio nel Figlio? Ciò avviene in tre modi, intimamente connessi l’uno con l’altro:
- lo Spirito bussa alle porte del mio cuore, di ogni cuore umano, di ogni io, mi tocca, tocca interiormente ogni persona;
- ma poiché la nuova umanità deve essere un vero corpo, poiché lo Spirito deve riunirci e realmente creare una comunità fraterna, poiché è caratteristico del nuovo inizio il superare le divisioni e creare l’aggregazione dei dispersi, questo Spirito si serve di due elementi di aggregazione visibile: la Parola di Dio dell’annuncio;
- i Sacramenti, particolarmente il Battesimo e l’Eucaristia.

Dall’intervento di Benedetto XVI al Sinodo sulla “Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa” è emerso chiaramente ciò che il Concilio ha evidenziato con la Dei Verbum e cioè che la Parola di Dio non si può semplicemente identificare con le Sacre Scritture. Queste sono le testimoni privilegiate, il fondamento della Parola di Dio, ma quest’ultima trascende persino la sua incarnazione biblica del Verbo di Dio.
Infatti, in definitiva la Parola di Dio, la Rivelazione completa, la via umana alla Verità e alla Vita cioè al Dio vivente, Padre-Figlio-Spirito Santo, da cui tutti e tutto proviene e cui è destinato, è una Persona. E’ Gesù Cristo stesso, l’incarnazione piena e definitiva della Parola di Dio fatta carne. A questo proposito nessun verbo biblico è più importante di questo del Vangelo di Giovanni: “E il Verbo (che nell’Antico Testamento in tanti modi si era fatto incontro attraverso una illuminazione interiore occasionata dalla predicazione e da fatti profetici di un messaggio e di un cammino preparatorio) si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (abita in continuità tra noi, nella Chiesa come corpo ed organismo per rendere, con il dono del Suo Spirito, giusti, santi tutti coloro che si riconoscono peccatori nell’incontro, davanti a Lui)” (1,14). In Gesù Cristo, nella fase terrena della sua vita, nella sua morte redentrice e nella “mutazione” mai accaduta, nel “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova della risurrezione, la Rivelazione di chi è Dio (Padre), della sua volontà salvifica universale, e di chi è ogni uomo, come fu inteso e destinato all’atto della creazione ed è divenuto in virtù dell’incarnazione, passione, morte,risurrezione, glorificazione e invio dello Spirito, trova la sua espressione perfetta e ottiene la riconciliazione di tutta la famiglia umana e del mondo. Per quanto la testimonianza biblica di Gesù sia preziosa e indispensabile (senza di questo la teologia è senza fondamento), si diventa cristiani attraverso l’incontro con la Persona di Gesù Cristo presente risorto nel suo corpo e nel suo organismo che è la Chiesa e che infonde nell’uomo ciò che di più intimo, di più proprio c’è in Lui, il suo stesso Spirito (senza un approccio teologico - spirituale la Scrittura non può essere anima di tutta la fede professata, celebrata, vissuta, pregata). Ed è l’avvenimento dell’incontro con Lui che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva e quindi la “chiave ermeneutica, interpretativa” per comprendere in modo unitario, secondo l’analogia della fede, le Scritture. La Bibbia non è una raccolta disparata di 72 libri del mondo antico. Essa trova in Gesù la sua origine: il suo principio interpretativo perché, in quanto Parola di Dio incarnata in un volto umano, egli è anche la sua origine e il suo obiettivo permanente. Il metodo cosiddetto storico critico è indispensabile, perché la Parola di Dio incarnata nella Bibbia e nella fase terrena di Gesù è veramente entrata nella storia umana: nata durante il regno di Cesare Augusto e crocifissa sotto Ponzio Pilato. La storia della salvezza non è una mitologia, ma vera storia, ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica. Ma la Parola di Dio, alla quale la Bibbia reca testimonianza e perenne fondamento, chiaramente trascende la dimensione storica del passato per accogliere in continuità o Tradizione (analogia della fede) il piano di Dio anzitutto per il Gesù di Nazaret, ma con Lui anche per noi, per tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo. La Bibbia non è solo relegata al passato, ma continua sfida da duemila anni fino al presente e apre a un compimento futuro. Quindi l’approccio storico-critico deve essere accompagnato da un approccio teologico-spirituale che affermi l’unità delle Scritture e riconosca che, attraverso il mistero pasquale di Cristo, lo Spirito santo si è effuso ed ha avuto inizio nel suo corpo, nel suo organismo, che è la Chiesa, la nuova e definitiva creazione per raggiungere ogni uomo. Di conseguenza, momento culminante e fontale per ascoltare la Parola di Dio è la liturgia della Chiesa, in special modo il Battesimo e l’Eucaristia. In essa il popolo di Dio – la Chiesa – è il soggetto vivo della Scrittura e si compie l’unità dei Testamenti e si celebra la presenza del Cristo vivo, che come ha parlato allora in tanti modi nell’Antico Testamento e nella Sua fase terrena culminante nel crocifisso-risorto, parla qui e ora, agisce attraverso i sacramenti, il Suo corpo e il suo organismo e svela il significato delle Scritture di fronte a nuove possibilità e inediti problemi storici per lasciarci ordinare, condurre e guidare da Lui. E’ in seno alla comunità di fede e alla sua tradizione, come corpo e organismo, Chiesa di Cristo, che la Parola di Dio continua a nutrire il popolo di Dio in ogni epoca fino al ritorno del Signore.

Dall’intervento di Benedetto XVI all’Udienza Generale del 10 dicembre: Nella Lettera ai Romani, dice san Paolo: “Se con la tua bocca proclamerai: ‘Gesù è il Signore’, e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo” (10,9), entrerai cioè nella nuova storia, storia di vita e non di morte. Poi san Paolo continua: “Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui nel quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? (Rm 10,14-15). In un successivo passo dice ancora: “La fede viene dall’ascolto” (Rm 10,17). La fede non è un prodotto del nostro pensiero, della nostra riflessione, è qualcosa di nuovo che non possiamo inventare, ma solo ricevere come dono, come una novità prodotta da Dio. E la fede non viene dalla lettura, ma dall’ascolto. Non è soltanto una illuminazione puramente interiore, occasionata dalla predicazione di un messaggio, ma una relazione con Qualcuno che ci viene incontro attraverso mediazioni “materiali” come i Sacramenti, attraverso vissuti fraterni di comunione cioè il corpo e l’organismo ecclesiale. Suppone un incontro con l’annuncio, suppone l’esistenza dell’altro che annuncia e crea comunione fraterna.

Colui che annuncia non parla mai da sé, ma è inviato
Chi annuncia sta entro una struttura di missione che comincia con Gesù inviato dal Padre, passa da Risorto con il dono del Suo Spirito agli apostoli – la parola apostoli significa “inviati” – e continua, sempre attraverso il dono dello Spirito del Risorto, nel ministero, nelle missioni trasmesse dagli apostoli. Il nuovo tessuto della storia appare in questa struttura delle missioni, nella quale sentiamo ultimamente parlare in continuità Dio stesso, la sua Parola personale, il Figlio che parla con noi, che arriva fino a noi.
La Parola è di fatto carne, Gesù, per creare realmente una nuova umanità. E – ricorda il Concilio in Lumen gentium 8, 1 – “come la natura assunta serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a Lui indissolubilmente unito, così in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del Corpo”. Perciò la parola dell’annuncio diventa Sacramento nel Battesimo, che è rinascita dall’acqua e dallo Spirito, come dirà san Giovanni. Nel sesto capitolo della Lettera ai Romani san Paolo così parla del Battesimo: “Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo battezzati nella sua morte? Per mezzo del Battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a Lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (6,3-4), in un nuovo orizzonte, quello della risurrezione. Notiamo tre cose:
- “siamo stati battezzati” è un passivo. Divenire cristiani è un processo passivo. Solo da un altro possiamo essere fatti cristiani. E questo “altro” che ci fa cristiani, ci dà il dono della fede, è in prima istanza l’organismo sociale della Chiesa che, in continuità con il volto umano di Dio in Gesù, serve allo Spirito di Cristo per la crescita del Corpo. Dalla Chiesa riceviamo la fede, il Battesimo. Senza lasciarci in continuità formare da questa comunità non diventiamo cristiani, non ci lasciamo assimilare a Cristo. Un cristianesimo autonomo, autoprodotto, è una contraddizione in sé. Immediatamente, in primo istanza, questo altro è la comunità dei credenti, la Chiesa ma sacramentalmente in seconda istanza anche questa comunità non agisce da sé, secondo le proprie idee e desideri. Anche la comunità vive nello stesso processo passivo: solo Cristo può costituire la Chiesa. Cristo è il vero donatore dei Sacramenti: nessuno battezza se stesso, nessuno fa se stesso cristiano. Cristiani lo diventiamo.
- Il Battesimo è più che un lavaggio materiale. E’ morte e risurrezione. Paolo parlando nella Lettera ai Galati della svolta della sua vita realizzatasi nell’incontro con Cristo risorto, la descrive con la parola: sono morto a quello che ero prima dell’incontro con il Risorto e sono rinato, trasformato in una vita nuova, avvenuta con la mutazione: “Io e non più io”. E’ il salto decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova di Gesù risorto. “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (2,20). E’ stata cambiata la mia identità essenziale e io continuo ad esistere soltanto in questo cambiamento. Divenire cristiani é più che una operazione cosmetica, che aggiungerebbe qualche cosa di bello a un’esistenza già più o meno completa. E’ un nuovo inizio, è rinascita: morte e risurrezione. Ovviamente nella risurrezione, nell’ingresso in un ordine decisamente diverso, riemerge quanto era buono nell’esistenza precedente.
- La materia fa parte del Sacramento come la Parola. La Parola di Dio è di fatto carne, organismo e corpo della Chiesa e non semplicemente parola Il cristianesimo non è puramente una illuminazione interiore, una realtà puramente spirituale. Implica il corpo, l’appartenenza all’organismo sociale della Chiesa, a vissuti fraterni di comunione ecclesiale autorevolmente guidati. Implica tutta la famiglia umana, il cosmo. Si estende verso la nuova terra e i nuovi cieli: “camminiamo in una nuova vita questo è il Battesimo.

Un’Eucaristia senza vissuto fraterno, senza solidarietà con gli altri è una Eucaristia abusata: questo è il centro della dottrina sulla Chiesa come Organismo, come Corpo di Cristo, del Cristo risorto che dona il Suo Spirito.
San Paolo precisa di trasmettere verbalmente la tradizione sull’Eucaristia che ha ricevuto dagli stessi testimoni dell’ultima notte. Trasmette queste parole, che il Risorto continua a ripetere attraverso il ministro, come un prezioso tesoro affidato alla sua fedeltà. Così sentiamo in queste parole realmente i testimoni apostolici dell’ultima notte: “Io infatti ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso. Il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito prese del pane e dopo aver reso grazie lo spezzò e disse: questo è il mio Corpo che è per voi, fate questo in memoria di me. Allo stesso modo dopo aver cenato prese anche il calice dicendo: questo calice è la nuova alleanza del mio sangue, fate questo ogni volta che ne bevete in memoria di me” (1 Cor 11,23-25). E’ un testo inesauribile. Due osservazioni:
- Paolo trasmette le parole del Signore sul calice così: questo calice è “la nuova alleanza nel mio sangue”. In queste parole si nasconde un accenno a due testi fondamentali dell’Antico Testamento. Il primo accenno è alla promessa di una nuova alleanza nel Libro del profeta Geremia. Gesù dice ai discepoli e dice a noi: adesso, in questa ora, con me e con la mia morte si realizza la nuova alleanza; dal mio sangue comincia nel mondo questa nuova storia dell’umanità Ma è presente, in queste parole, anche un accenno al momento dell’alleanza del Sinai, dove Mosè aveva detto: “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di queste parole” (Es 24,8). Là si trattava di sangue di animali. Il sangue degli animali poteva essere solo espressione di un desidero, attesa di un vero sacrificio, del vero culto. Col dono del calice il Signore dona il vero sacrificio. L’unico vero sacrificio è l’amore del Figlio fino a lasciarsi uccidere. Col dono di questo amore, amore eterno il mondo entra nella nuova alleanza nella quale Dio giudice rende giusti quelli che si riconoscono peccatori e ai aprono a Lui. Celebrare l’Eucaristia significa che Cristo ci dà se stesso, ciò che di più intimo, di più proprio c’è in Lui, il suo stesso Spirito, il suo amore, per conformarci a se stesso, santi e immacolati e per creare il mondo nuovo.
- Nella Prima Lettera ai Corinzi Paolo dice: “il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un corpo solo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (10,16-17). In queste parole appare ugualmente il carattere personale e il carattere sociale del Sacramento dell’Eucaristia. Cristo si unisce personalmente ad ognuno di noi, ma lo steso Cristo si unisce anche con l’uomo e con la donna accanto a me per farci diventare “uno in Cristo” (Gal 3,28). E il pane è per me e anche per l’altro. Così Cristo ci unisce ugualmente con il mio prossimo: Cristo e il prossimo sono inseparabili nell’Eucaristia. E così noi tutti siamo un solo pane, un solo corpo, un solo organismo. Un’Eucaristia senza gesti di solidarietà con gli altri è una Eucaristia abusata. E qui siamo anche alla radice e nello stesso tempo al centro della dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo, Organismo di vissuti fraterni di Cristo, del Cristo risorto.

La Chiesa non è solo una corporazione come lo Stato, è un corpo. Non è semplicemente un’organizzazione, ma un vero organismo.
Qui c’è tutto il realismo dell’organismo sociale della Chiesa che serve allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del Suo Corpo, in continuità con la natura assunta dal Verbo divino da vivo organo di salvezza. Cristo ci dà nell’Eucaristia veramente, realmente, sostanzialmente il suo corpo, dà se stesso nel suo corpo e così ci fa suo corpo, ci unisce al suo corpo risorto. Se l’uomo mangia pane normale, questo pane nel processo della digestione diventa parte del suo corpo, trasformato in sostanza di vita umana. Ma nella santa Comunione si realizza il processo inverso. Cristo, il Signore, ci assimila a sé, ci introduce nel suo Corpo glorioso e così noi tutti insieme diventiamo Corpo suo. Chi legge solo il capitolo 12 della prima Lettera ai Corinti e il capitolo 12 della Lettera ai Romani potrebbe pensare che la parola Corpo di Cristo come organismo dei carismi sia solo una specie di parabola sociologica-teologica. Realmente nella politologia romana questa parabola del corpo con diverse membra che formano una unità era usata per lo Stato stesso, per dire che lo Stato è un organismo nel quale ognuno ha la sua funzione, la molteplicità e diversità di funzioni formano un corpo e ognuno ha il suo posto. Leggendo solo il capitolo 12 della prima Lettera ai Corinzi si potrebbe pensare che Paolo si limiti a trasferire soltanto questo alla Chiesa, che anche qui si tratti solo di una sociologia della Chiesa. Ma tenendo presente questo capitolo decimo vediamo che il realismo della Chiesa è ben altro, molto più profondo e vero di quello di uno Stato – organismo. Perché realmente Cristo dà il suo corpo e ci fa suo corpo. Diventiamo realmente uniti col corpo risorto di Cristo, e così uniti l’uno con l’altro. La chiesa non è solo una corporazione come lo Stato, è un corpo. Non è semplicemente un’organizzazione, ma un vero organismo.


POVERTA'/ Campiglio: le innovazioni di Benedetto XVI per combattere la fame - Luigi Campiglio - venerdì 12 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Il messaggio del Papa per la Giornata mondiale della pace è un documento articolato, argomentato e complesso, che affronta i nodi dei grandi squilibri dell’economia mondiale, con l’intento di “Combattere la povertà, costruire la pace”. Nel riconfermare la continuità intellettuale con Giovanni Paolo II e Paolo VI, il Papa Benedetto XVI propone elementi nuovi e attuali, che meritano un dibattito serio e approfondito.
In tema di sviluppo demografico viene formulata una posizione di rottura con gran parte del dibattito corrente, affermando l’idea che “la popolazione sta confermandosi come una ricchezza e non come un fattore di povertà”: e in effetti il successo economico dei paesi emergenti sembra confermare questa affermazione, il che tuttavia contraddice una diffusa convinzione secondo cui il problema centrale del pianeta sarebbe la sovrapopolazione. In concreto il legame fra crescita economica e aumento della popolazione non è di semplice soluzione, ma è indubbio che in questa fase storica i paesi più dinamici sono anche quelli più “giovani”, dagli Stati Uniti, la Francia e la Svezia all’India, il Brasile e la Cina, mentre i paesi che ristagnano sono anche quelli più “anziani”, come il Giappone, la Germania e l’Italia.
Nel caso dell’Italia la situazione appare particolarmente contraddittoria, perché l’aumento della popolazione residente a 60 milioni è il saldo netto di un forte aumento di immigrati e una continua riduzione della popolazione italiana. Secondo le stime demografiche più recenti la popolazione in età di lavoro tenderà in tempi brevi alla diminuzione, il che implica una diminuzione della crescita del prodotto potenziale. La sola via d’uscita è quella di un aumento della produttività, il che richiede tuttavia un aumento nella quantità e qualità degli investimenti interni, innalzando il livello di qualificazione dell’immigrazione.
Un secondo aspetto critico sottolineato nel documento è la povertà dei bambini: il messaggio sottolinea che “quando la povertà colpisce una famiglia, i bambini ne risultano le vittime più vulnerabili: quasi la metà di coloro che vivono in povertà assoluta oggi è rappresentata da bambini”. A livello mondiale la questione della povertà infantile è pervasiva, perché mentre colpisce con particolare durezza la vita e la speranze dei giovani nei paesi arretrati, colpisce in modo ugualmente violento i bambini dei paesi democratici economicamente avanzati. Secondo il recente rapporto Unicef la povertà infantile colpisce in misura superiore al 15 percento i bambini di Spagna, Portogallo e Italia: analogamente i risultati del processo educativo sono i più bassi per Grecia, Spagna Portogallo e Spagna. Nelle società avanzate, così come in quelle più arretrate, i più deboli, come i bambini, sono anche lo strato sociale più penalizzato e sfruttato, che negli anni recenti ha preso la forma allucinante dei bambini soldato. Il solo modo per uscire da questa crisi umanitaria dei bambini è di porli al centro del processo politico, a partire dai paesi avanzati.
Un terzo aspetto critico riguarda l’attuale crisi alimentare, della quale si sottolinea la paradossale anomalia poiché “è caratterizzata non tanto da insufficienza di cibo, quanto di accesso ad esso e da fenomeno speculativi e quindi da carenza di un assetto di istituzioni politiche ed economiche in grado di fronteggiare le necessità e le emergenze”. Anche in questo caso si tratta di un fenomeno nuovo, con caratteri di emergenza che colpiscono gli strati più deboli, fra cui di nuovo i bambini. Il recente rapporto della Banca Mondiale sui mercati delle materie prime mette in evidenza la straordinarietà del recente boom dei prezzi, in particolare per quanto riguarda i beni alimentari. Il periodo 2003-08 appare unico, nel corso dell’ultimo secolo, per l’ampiezza, profondità e lunghezza del boom nel mercato delle materie prime. Tutte le materie prime, in particolare quelle alimentari, sono diventate attività di d’investimento finanziario, al pari degli investimenti azionari e immobiliari: la differenza centrale è che la mercificazione del pane è diventata la mercificazione della vita di coloro che di quel pane sopravvivono. E’ ciò è quanto il messaggio papale giustamente condanna, sollecitando la creazione di nuove istituzioni capaci di meglio affrontare questa emergenza.
Ma non è possibile approfondire un documento di questa profondità in poche righe, ma solo mostrarne gli aspetti innovativi, come qui abbiamo parzialmente cercato di fare: per questo invitiamo i lettori ad una lettura integrale del testo, oltre che ad un suo commento meditato.


SCUOLA/ 1. Tagliando i fondi alle paritarie lo Stato fa solo un dispetto a se stesso - Luisa Ribolzi - venerdì 12 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Il fatto che gran parte della stampa abbia presentato l’eventuale ripristino dei finanziamenti alla scuola paritaria come un “favore” fatto ai cattolici, quando non come prova di una supina acquiescenza ai voleri dei vescovi, è l’ennesima dimostrazione del provincialismo del dibattito italiano sulla scuola non statale. C’è un diffuso consenso sul fatto che spetti allo Stato garantire che a tutti i cittadini venga data un’educazione di qualità, indipendentemente dal sesso, dalla religione, dall’etnia e dalla classe sociale, ma solo in Italia questa affermazione si traduce nella convinzione che per raggiungere questi obiettivi lo Stato deve erogare direttamente l’istruzione. E questo benché sia ormai chiaro che la scuola italiana statale centralizzata eroga un prodotto la cui qualità varia enormemente, penalizzando i più deboli. La funzione di garante dello Stato non si esercita attraverso l’erogazione diretta, che comporta un enorme aggravio di compiti burocratici, ma rinforzando le prerogative proprie del centro: la determinazione dei contenuti essenziali legati alla cittadinanza, la valutazione e la ricerca.
Le scuole statali non garantiscono nemmeno il diritto delle famiglie (non solo quelle cattoliche!) ad educare i propri figli in base a uno specifico orientamento di valori, compatibilmente con i comuni requisiti di cittadinanza fissati dal centro, perché le famiglie non hanno voce in capitolo nell’assegnazione, quasi sempre casuale, dei propri figli agli insegnanti. Non è neppure possibile scegliere in base al gradimento di modelli didattici, alle specificità dell’offerta, o – perché no – a criteri come la vicinanza a casa e la lunghezza dell’orario.
La domanda di educazione è per sua natura differenziata, e richiede una risposta flessibile: per questo è stata introdotta nel 1997 l’autonomia delle scuole, e per questo nel 2000 si è riconosciuta l’esistenza di un sistema nazionale formato da scuole statali autonome e da scuole paritarie, cioè scuole non statali di cui lo Stato ha verificato la rispondenza ad una serie di criteri fissati centralmente (e, per inciso, non necessariamente esistenti nelle scuole statali). L’esistenza di un sistema misto, in cui i genitori possono scegliere fra proposte diverse, è l’unica reale garanzia di tutela della libertà del cittadino, ma solo se non ci sono penalizzazioni economiche.
La scuola paritaria, molto più efficiente di quella statale, perché per esempio a fronte di un costo medio pro capite nella scuola primaria di circa 7000 euro, la retta media è inferiore ai quattromila euro, il che significa che un “bambino paritario” viene istruito con circa la metà della spesa di un “bambino statale”, viene considerata un lusso, e pagata dagli utenti, mentre la scuola statale è gratuita, o meglio è pagata, e cara, dai cittadini. Nel 2006, la spesa pubblica per la scuola (stato, regioni ed enti locali) è stata di 57.136 mila milioni di euro, circa mille euro a testa, inclusi i neonati e i centenari, e circa 3.000 euro per ogni lavoratore. Calcolando i costi pro capite della scuola statale, possiamo stimare, un po’ rozzamente, che una famiglia di quattro persone, con entrambi i genitori che lavorano, un figlio alle elementari e un figlio alle medie, contribuisce con circa 6.000 euro di tasse, e riceve in cambio un servizio del valore di circa 14.000 euro: è in attivo nei confronti dello Stato di 8.000 euro. La stessa famiglia, se manda i figli alle scuole private, paga sempre 6.000 euro di tasse, non riceve nessun servizio e in più paga rette approssimativamente per 9.000 euro: la differenza fra le due famiglie è di 15.000 euro effettivamente sborsati, più 14.000 non fruiti. Non servono commenti.
La scuola paritaria è al momento una gallina dalle uova d’oro, cui si dà un pugno di becchime: nel 2007, ha ricevuto nel complesso poco più di 530 milioni di euro, meno dell’uno per cento della spesa complessiva per la scuola, di cui la maggior parte alle scuole primarie e dell’infanzia in regime di sussidiarietà, cioè perché erogano un servizio di cui altrimenti dovrebbe farsi carico lo Stato. Per entrare nel dettaglio, a fronte di un costo medio per alunno della scuola elementare di circa 7.400 euro, le scuole paritarie hanno ricevuto 19.367 euro per classe standard di quindici alunni, cioè circa 1.300 euro a testa. Calcolando che gli alunni delle scuole primarie paritarie sono circa duecentomila, lo Stato ha risparmiato la bella cifra di 1.020 milioni di euro. Mi fermo qui per non annoiare, ma potremmo proseguire per gli altri ordini di scuola: l’Agesc ha calcolato che il risparmio complessivo superi i seimila milioni di euro. E’ vero che una buona parte di famiglie continuerà a stringere la cinghia e a mandare i figli nelle scuole che ha scelto, ma qualcuno non ce la farà, e saranno i meno privilegiati e non certo i “ricchi” di cui si parla a sproposito.
E infine, visto che la finanziaria del 2005 ha tagliato del 15% i sussidi alle scuole paritarie considerandole come “imprese” legate alla pubblica amministrazione, perché non tenere presente che con una chiusura di scuole non poche persone resterebbero prive di lavoro, tra cui molti insegnanti, ed eserciterebbero un’ulteriore pressione sul di un mercato già vacillante? Mi sembrano argomenti forse meno nobili, e può darsi che qualcuno lo abbia fatto presente al ministro dell’economia, che sembra molto più sensibile alle cifre che alle rampogne dei vescovi.


SCUOLA/ 2. Riforma Gelmini rinviata a data da destinarsi: niente di nuovo sotto il sole… - Redazione - venerdì 12 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
C’era qualcosa che andava e qualcosa che non andava, nelle ipotesi che circolavano intorno ai regolamenti per l’istruzione superiore. Da una parte si poteva apprezzare una spinta alla razionalizzazione del sistema, di cui certo si avvertiva la necessità per non continuare a far disperdere il denaro pubblico in mille rivoli. Dall’altra parte però si temeva che un eccesso di centralizzazione delle decisioni potesse portare a cancellare tutta una serie di sperimentazioni nate in seno all’autonomia scolastica, alcune delle quali meritavano di essere salvaguardate. Va bene snellire, si diceva, ma che non si decida ancora una volta tutto dal centro.
Comunque, positivo o negativo che fosse il giudizio in merito a tutto questo, quel che è certo è che di qualcosa si discuteva. Se non che l’intero dibattito è stato gelato ieri dalla notizia dell’esito dell’incontro fra governo e sindacati. Esito riassumibile in una sola parola, che sinistramente cade sempre più spesso sulle cose italiane: rinvio. I regolamenti per i nuovi licei e per i nuovi istituti tecnici sarebbero ormai quasi pronti, dicono dal ministero, ma verranno definiti fra gennaio e febbraio, per poi essere applicati a partire dal 2010. Tutto questo, dicono sempre da Viale Trastevere, permetterebbe da una parte di aprire «un confronto con tutti i soggetti della scuola sull'applicazione metodologico-didattica dei nuovi regolamenti»; e dall’altra darebbe la possibilità «alle scuole e alle famiglie di essere correttamente informate sui rilevanti cambiamenti e sulle innovazioni degli indirizzi».
L’amaro sapore di questa decisione non viene per nulla mitigato da queste parole. Il retrogusto che lascia, infatti, è l’impressione che tutto sia finito com’è solita finire la politica scolastica. Il ministro si è spaventato per l’opposizione virulenta dei sindacati; e all’interno del governo non ha trovato nessuno (lei compresa) tanto infiammato dal problema della scuola da voler sostenere con coraggio una qualsiasi ipotesi riformistica. Rinviando si calmano le acque, il governo non incrina la sua posizione di fronte alla società, e tutti sono contenti (tranne forse un po’ Tremonti, che sperava in qualche risparmio in più).
Cosa rimane infatti di tutti questi mesi di dibattiti, scontri, scioperi e parole pro o contro una riforma che nessuno ha mai visto? Rimane solo qualche (condivisibile) modifica per le elementari, in particolare l’eliminazione delle compresenze, nonché l’opzione del cosiddetto “maestro unico”, che sarà attivato su richiesta delle famiglie, e che assomiglia sempre di più al ben noto maestro prevalente. Giusto, ma non molto diverso da ciò che già era in atto da un po’ in molte scuole. Insomma, rimane poco.
Significative, per contro, le reazioni alla notizia di ieri degli avversari del governo: dell’opposizione che, per voce del leader del PD e del ministro ombra all’Istruzione, sospira per il fatto che il governo ha tardivamente ma finalmente accolto le sue rimostranze; e del sindacato, che festeggia perché «la protesta della scuola culminata nello sciopero del 30 ottobre ha prodotto i suoi frutti». E la Cgil, non celando la propria soddisfazione per l’esito del tavolo («La mobilitazione paga!», recita il comunicato diramato ieri), cerca comunque di distinguersi confermando lo sciopero di oggi solo come sciopero contro le manovre del governo inadatte a contrastare la crisi economica in atto.
Insomma, chi una volta di più rimane con l’amaro in bocca sono i riformisti, coloro che si aspettano l’apertura di «un ampio dibattito su una riforma attesa da almeno quarant'anni, sperando che non vi siano altre ragioni e interessi corporativi a frenare il cambiamento», come non a caso recitava ieri l’autorevole portale “Tuttoscuola”. Non perché ciò che trapelava dalle ipotesi di regolamenti fosse condivisibile in toto, è bene ancora una volta precisare; ma perché risulta sempre più evidente che dietro a un cosiddetto “rinvio” si intravede chiaramente qualcosa di più ampio, cioè una delle tante tappe di un “eterno rinvio”. Il che, tradotto in parole povere, significa che anche questo governo dimostra di non voler rischiare nulla sul fronte scuola. E di rinvio in rinvio, cinque anni passano velocemente. Nihil sub sole novi…
(Rossano Salini)


DIRITTI UMANI/ Ecco svelati gli inganni sulla posizione della Chiesa - José Luis Restan - venerdì 12 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
Nel 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei diritti umani, il Papa ha voluto mettere in chiaro la posizione della Santa Sede. Questo testo «costituisce ancora oggi un altissimo punto di riferimento del dialogo interculturale sulla libertà e sui diritti dell’uomo». Ma subito dopo ha dato due importanti avvertimenti. Da una parte, milioni di persone vedono oggi minacciato il loro diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza, e si sollevano nuove barriere in nome della razza, della religione o delle opinioni politiche. Dall’altra, se si prescinde dalla solida base etica della legge naturale, inscritta dal Creatore nella coscienza umana, i diritti umani si indeboliscono e si svuotano di vero significato.
All’interno di queste coordinate si situa la posizione della Chiesa davanti a una celebrazione in cui non le sono mancate gravissime accuse, da quella di omofobia a quella di crudeltà verso i disabili. E tutto perché la Santa Sede non sostiene i tentativi delle grandi lobbies che circondano le Nazioni Unite, per una riformulazione di fatto della Dichiarazione che includerebbe l’aborto e il matrimonio omosessuale come nuovi diritti, prevedendo severe censure, anche penali, per tutte quelle istituzioni (Stati, Chiese e organizzazioni civili) che si rifiutassero di accettarli come tali.
La situazione, in termini di opinione pubblica, è difficile per la Santa Sede, poiché un’ampia manovra di manipolazione la individua come nemica di un presunto progresso raggiungibile con l’estensione e l’aumento dei diritti umani. Così per esempio, l’opposizione mostrata a un testo sulla depenalizzazione universale dell’omosessualità presentato dalla Francia le è costata durissimi attacchi.
Questo testo consta di tre punti tra cui figurano richieste assolutamente condivise dalla Chiesa, come liberare le persone omosessuali da qualsiasi sanzione o discriminazione ingiusta, ma vorrebbe anche imporre l’equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio, criminalizzando coloro che si oppongono a detta equiparazione, creando le basi per il loro perseguimento legale.
Un altro punto di frizione è stato il parere negativo di un osservatore vaticano alle Nazioni Unite alla ratifica di una Convenzione sui diritti dei disabili, perché tale documento non rifiuta l’utilizzo dell’aborto selettivo come mezzo per impedire la nascita di un disabile. Risulta particolarmente amaro il fatto che la Chiesa, da cui sono nati San Giovanni di Dio, Don Orione o Teresa di Calcutta, si veda accusata di negare ai disabili i propri diritti solamente perché qualcuno sostiene che l’imperfezioni di un feto è un motivo per permettere che si realizzi un aborto.
Nella giornata della celebrazione del 60° anniversario, il Segretario di Stato, cardinal Tarcisio Bertone, ha messo il dito nella piaga, avvertendo che i diritti fissati nella Dichiarazione Universale devono essere sempre difesi, ma è necessario contenere il fiume di petizioni per nuovi diritti in tutte le direzioni, per non confondere i veri e propri diritti con semplici desideri, spesso contingenti e parziali.
Questo è l’epicentro di tutte le polemiche, mascherate dal buonismo, dalla falsa compassione e dai pregiudizi ideologici contro la Chiesa: il dibattito sul fondamento antropologico dei diritti umani, che da un lato sono esaltati dalla tribuna mediatica e dall’altro rivisti in funzione di un supposto consenso perfettamente modellato dal potere culturale dominante.
Bertone ha ragione quando denuncia la confusione tra i diritti radicati nella natura umana e una cascata di rivendicazioni che devono misurarsi ragionevolmente con il proprio fondamento antropologico, ma c’è da riconoscere che, per quel che riguarda l’immagine trasmessa in maniera massiccia dai media, la Chiesa si trova in una situazione aspra e difficile.
Vedendo le polemiche di questi giorni, mi è tornata in mente la raccomandazione fatta da Gesù ai suoi di essere, oltre che ingenui come colombe, astuti come serpenti. E anche un altro avvertimento evangelico: «Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi». La Chiesa si sente chiamata a proteggere le dimensioni essenziali dell’uomo in un tempo di confusione e relativismo, in cui si discute precisamente di quel terreno comune che Benedetto XVI, a tutta ragione, è tornato a richiedere.
Questa situazione richiede dalla Chiesa creatività e intelligenza comunicativa. Lo so che questo non è il fondo del problema, ma sono cose che aiuterebbero e di cui, disgraziamente, manchiamo.


KAFKA/ Ostracismo e letture ideologiche nell’Europa dell’Est - Angelo Bonaguro - venerdì 12 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
«Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. poiché senza che avesse fatto alcunché di male, una mattina venne arrestato». È il famoso incipit de Il processo di Franz Kafka (1883-1924), che prima dell’89 in Europa orientale appariva più concreto del «realismo socialista» imposto dal regime. Kafka aveva descritto l’uomo alienato in un sistema fin troppo simile al totalitarismo comunista; ricorda l’ex-dissidente Efim Etkind che in URSS circolavano copie artigianali anonime de Il processo, e chi lo leggeva era convinto fosse opera di uno scrittore sovietico: «Non descriveva forse gli avvenimenti degli anni del terrore staliniano in URSS? Solo un russo-sovietico poteva conoscere così bene tutti quei particolari!».
Dal 1948, anno del putsch comunista, Kafka in Cecoslovacchia era diventato tabù: la politica culturale del regime lo bollò come decadente, e le sue origini tedesco-ebraiche borghesi offrivano un altro pretesto per screditarne l’opera. Il critico americano H. Fast, che negli anni Cinquanta andava per la maggiore nel blocco orientale, scrisse che Kafka sedeva «in cima al letamaio culturale della reazione». Solo la Jugoslavia, amica ribelle dell’URSS, non censurò lo scrittore.
Dopo una timida apertura sulla scia del disgelo sovietico (1956), nel 1959 Jiri Hajek sulla rivista Tvorba liquidò Kafka con un giudizio che divenne un mantra culturale: gli veniva riconosciuta l’importanza di aver descritto l’alienazione dell’uomo nella società occidentale, ma dato che nel socialismo l’uomo «non è più alienato», la sua opera «non è più attuale, e non è più necessario ispirar visi».
Nel 1963 fra i germanisti dell’Università di Praga nacque l’idea di un convegno su Kafka in occasione dell’ottantesimo anniversario della nascita. Così, con il beneplacito del Partito, si svolse presso il castello di Liblice il convegno che «sdoganò» Kafka e costituì una pietra miliare per la ripresa culturale culminata nel 1968.
Gli studiosi di allora vollero valutarne l’opera «dal punto di vista marxista-leninista», giungendo spesso a conclusioni forzate: ad esempio Eduard Goldstücker annoverò lo scrittore tra le vittime del culto della personalità e, prendendo spunto dal racconto Il fochista, concluse che l’atteggiamento di Kafka nei confronti del proletariato corrispondeva a quello di un socialista utopista. Ancora, commentando la figura dell’agrimensore K., Goldstücker dedusse che «la professione scelta da Kafka per il suo eroe è una sorta di crittografia dell’attività rivoluzionaria: la parola Landvermesser (agrimensore) contiene l’idea del sich vermessen, “osare”, e il suo lavoro richiama la ridistribuzione delle terre e della proprietà».
Fortunatamente altri relatori ebbero un approccio meno politicizzato, soffermandosi su tematiche come l’alienazione, l’incertezza esistenziale e la responsabilità personale, che sarebbero state riprese, di lì a poco, dagli autori del dissenso. Questi interventi furono aspramente criticati dagli ospiti tedesco-orientali, che si rifacevano alla teoria di Hajek.
La polemica fra i due gruppi si trascinò sulla stampa nei mesi successivi finché l’URSS mise tutti in riga per evitare uno strappo culturale. Nel luglio 1967, al IV Congresso degli scrittori cecoslovacchi, le idee espresse timidamente a Liblice si trasformarono in richieste concrete: abolizione della censura e più spazio per la creazione libera. Poi venne l’invasione: Heinrich Böll ricorda una scena dell’agosto 1968: «Davanti alla casa natale di Kafka sta un carro armato, con il cannone puntato contro il suo busto».
Con l’avvio della normalizzazione (1969) Kafka ritornò nell’ombra, e i tedesco-orientali si presero la rivincita: il Neues Deutschland scrisse che «l’influsso dell’ideologia revisionista è scaturito dalla conferenza del ‘63»!
Ma fu dall’URSS che, nel 1988, arrivò inaspettatamente una nuova apertura: un paio di articoli che rivalutavano Kafka prepararono il terreno perché Kmen, organo dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi, uscisse con un numero interamente dedicato allo scrittore. Così le opere di Kafka da «specchio della decadenza» divennero ufficialmente «l’onesta espressione di un narratore, la confessione di un’anima messa alla prova».
Nell’ottobre scorso, a 45 anni di distanza, l’Istituto di Critica Testuale dell’Università di Heidelberg e l’Istituto di storia contemporanea di Praga, hanno organizzato nella stessa Liblice un convegno dedicato a Kafka e il potere, che ha richiamato un’ottantina di studiosi da vari paesi. A differenza di quello storico del ‘63, però, a parte qualche polemica fra studiosi, è stato piuttosto avaro di novità.


Se fare del bene diventa esperienza: le storie del banco alimentare a Palermo - Redazione - giovedì 11 dicembre 2008 – IlSussidiario.net
«Spesso il semplice gesto di carità, di assistenza, non lascia traccia, memoria, nella nostra mentalità, si aderisce, ad esempio alla colletta, disattenti al vero fine così si compie un gesto generico, burocratico e nemico del vero bisogno. Dico questo perché io per primo, ero così, superficiale, disattento, preferivo muovermi solo per un mio tornaconto, ma la realtà è un’altra».
Circa otto anni fa Antonio di Cristofalo perdeva il lavoro «in un attimo tutto quello che mi sembrava scontato, tutte le mie certezze, si sbriciolavano». Poi ha iniziato a lavorare per il Banco Alimentare di Palermo, inizialmente come volontario. Oggi è diventato responsabile della logistica del magazzino della Sicilia occidentale. «Sette anni ricchi di incontri, esperienze, con persone di ogni estrazione sociale, una vera e propria scuola di vita!» Quello che gli è accaduto, che ha dato una svolta alla sua vita, proprio nel momento di maggiore difficoltà, Antonio lo rivive ogni giorno: le storie di chi lavora presso il magazzino del “Banco” di Palermo sono piccoli miracoli che ogni giorno permettono «Di gestire più di 2000 tonnellate di cibo, che sfamano 100 mila poveri movimentate in 500 metri quadrati di magazzino, un miracolo, come quello che è successo a me». Uno di loro ha bruciato la sua adolescenza. Dall'allontanamento dagli affetti famigliari, alle amicizie sbagliate, una serie di errori che ancora oggi paga. Il suo atteggiamento è irruento e scontroso, «va seguito e spinto nel lavoro», ma piano piano il suo atteggiamento si sta modificando, con ripercussioni positive anche nella sua vita privata. Un altro ha 33 anni, è arrivato al Banco Alimentare di Palermo grazie a una borsa lavoro, ha un passato difficile, fatto di lavori precari, di solitudine, di droga. Ora sta recuperando il tempo perduto, paga il suo debito con la giustizia, si sta disintossicando, e dando una mano al magazzino di Palermo sta aiutando se stesso a riprendere il filo della sua vita. Uno dei volontari ha 26 anni, ha un handicap fisico e lavora al Banco ormai da una vita. Ogni mattina viene accompagnato al magazzino dal padre e lì ha trovato una compagnia sincera, dove aiuta e viene aiutato, un ambiente dove non ci sono pregiudizi e non si sente diverso dagli altri.
Lo stesso accade nel periodo della colletta, quando «si rischia di essere sommersi dalle tante difficoltà, dalla fatica, dalle tante cose da organizzare – conclude Antonio - si ha sempre il timore che manchino i volontari per coprire i supermercati, poi, come accaduto quest'anno, sono arrivati più di 2000 volontari. E il lunedì mattina, quando riapro il magazzino con centinaia di scatole da sistemare, verrebbe voglia di scappare, poi guardo i ragazzi che mi aiutano nel mio lavoro, penso alle loro storie, guardo al risultato ottenuto, un esercito tra giovani e adulti che tra mille avversità è riuscito a contagiare la gente che si è fidata, consegnando nelle loro mani ed alla nostra responsabilità 9970 tonnellate di cibo... un miracolo».


FILMATI SUICIDI, GESTI EUTANASICI E DINTORNI - Un bel prodotto che tira La morte nel mercato d’oggi - DAVIDE RONDONI – Avvenire, 12 dicembre 2008
Sky lives ha fatto il colpaccio. S’è inserita con maestria, se così si può dire, nel nuovo grande e tetro mercato che s’è aperto: il mercato della morte. Ha filmato l’eutanasia.
Una cosa fatta a regola d’arte. Mica quelle robacce dei suicidi disperati e patetici fatti in casa e mandati su You Tube. Qui hanno seguito le regole della grande tv. Questo giornale ha già raccontato di come il professor Craig Ewert abbia acconsentito che la rete tv del magnate Murdoch riprendesse la sua agonia in una clinica svizzera dopo che, con un morso, aveva staccato il macchinario che lo aiutava a vivere, pur se affetto da una forma grave di sclerosi. Non so se hanno contrattato pure spazi pubblicitari prima e dopo il grande scoop. Il regista ha avuto la delicatezza di informare l’opinione pubblica che i suoi uomini della troupe, dopo lo scoop, hanno subito uno stress post traumatico.
Ecco, uno crepa davanti alle loro telecamere e loro si stressano.
Poverini. Ma sono le regole dure del mercato, no?
Di fatto c’è che la morte è un prodotto nuovo sul mercato. Sul mercato delle idee e sul mercato vero e proprio.
Almeno inteso come una specie di prodotto ' neutro', che in fondo in fondo non è nemmeno così male.
Come se tra vita e morte non ci fosse una gran differenza, l’importante è che uno scelga cosa ritiene meglio per sé.
E se ha problemi seri, in fondo la morte rappresenta una soluzione decente. Stiamo assistendo a una vera e propria ' propaganda mortis'.
Niente a che vedere con le impacciate e a volte colorite reclame di pompe funebri che costellano città e paesi italiani con effetti a volte esilaranti.
No, qui è tutto cupo, untuoso, lacrimevole. E spietato. Lo vediamo anche nel caso della povera Eluana.
Con quale voluttà molti media indugiano sulla cosa senza forse rispetto autentico e senza affrontare i nodi veri del problema. Addirittura con strano giubilo per la sua fine. Una vera e propria ' propaganda mortis'.
Che è supportata dalla moda di film su giovani vampiri, su morti più o meno viventi. Ma al di là del folklore o addirittura del kitch, che pure influenzano gusti e pensieri tra i più giovani, spesso con risvolti drammatici, è forte l’impressione che la morte ' tiri' parecchio, che l’epoca in cui viviamo la blandisca e la corteggi con una riverenza e uno strano godimento. Tanto spettacolarizzata pubblicamente, esibita, stravista, quanto vissuta privatamente in una cieca disperanza.
Ci fu un tempo, insegnano gli storici, in cui la morte era un evento vissuto in una dimensione anche ' pubblica' della quale resta traccia in certe consuetudini di feste o pranzi in occasione di funerali, e in alcune zone del mondo in feste dei morti che assumono carattere carnevalesco e sacro popolare. Ma nella nostra attualità accade, invece, che accanto a propaganda e spettacolarizzazione idiota domini un sentimento di disperazione privata, di ferita individualissima e immedicabile.
Insomma, una disperazione personale attorniata da una formidabile ' propaganda' della morte. Certo, si ha così una specie di moderno esorcismo. Ma avanza anche, sottilmente, una erosione della supremazia della vita sulla morte, un livellamento del valore dei due fenomeni. Il che è la preoccupante maschera di quel nemico dell’uomo che si chiama in termini astratti nichilismo, ma che è una forza concreta e operante tra noi.
Avanza, sottilmente, una erosione della supremazia della vita sulla sua fine, un livellamento del valore dei due fenomeni


formazione a cui hanno partecipato oltre 800 operatori del terzo settore - Un’amicizia operativa per essere protagonisti - Progetto Di.Re, bilancio di un anno Il lavoro di Cdo-Impresa sociale - DI NICOLA CELORA – Avvenire, 12 dicembre 2008
Oggi a Milano si conclude l’itinerario di lavoro del progetto Di.Re, un’iniziativa promossa da Compagnia delle Opere - Impresa Sociale (Cdo-Is) e che presenta notevoli valenze di tipo educativo e sociale. Una conclusione che rappresenta al tempo stesso un trampolino per un impegno più maturo e consapevole.
Di.Re è l’acronimo di 'Diffusione e responsabilità': si è voluto incrementare il livello di coinvolgimento dei responsabili locali perché diventassero protagonisti di una presenza operosa sul territorio, e capaci di proporre a un pubblico sempre più vasto un criterio ideale e un’amicizia operativa da cui sono sostenuti e che essi stessi sostengono.
Compagnia delle Opere-Impresa Sociale è una consolidata associazione di promozione sociale (Aps) che realizza una virtuosa collaborazione con i 1.065 iscritti: associazioni, cooperative, fondazioni ed enti morali che fanno riferimento a 41 sedi distribuite sull’intero territorio nazionale.
Quando la legge 383 del 7 dicembre 2000 ha messo a disposizione risorse per le Aps, Cdo­Is ha avviato progetti finalizzati al proprio sviluppo e a quello della rete associativa.
Attraverso il progetto Di.Re finanziato dal Ministero della Solidarietà Sociale nel 2006, ha voluto perseguire durante il 2008 una finalità nuova: sostenere le iniziative delle Cdo locali, referenti degli associati a livello provinciale e regionale, diffondendo il più possibile strumenti e metodi utilizzati a livello nazionale. Strumenti e metodi che hanno permesso di offrire un miglior supporto agli associati e li hanno aiutati a raggiungere e incontrare costantemente tutti coloro che aderiscono all’associazione.
L’entità del finanziamento ha consentito un’applicazione delle attività progettuali ad alcune sedi: Alto Milanese, Liguria, Romagna Nord, Toscana, Marche Sud, Roma e Lazio, Foggia, Palermo. La prospettiva futura è creare e perfezionare un modello operativo per tutta la rete.
Il cuore di questa diffusione sono state le attività formative, che peraltro rappresentano una costante nell’attività di Cdo (come conferma l’intervista ad Antonio Mandelli pubblicata qui sotto). Ciascuna sede ha proposto itinerari che rispettassero le esigenze delle organizzazioni non profit con le quali è più stabilmente in rapporto o scegliendo tematiche che potessero incentivarne la collaborazione. La sede nazionale, assecondando l’avvicinamento tra organizzazioni non profit e sedi locali, si è preoccupata infine di rendere accessibile il contenuto di alcuni momenti formativi proposti a livello nazionale mediante collegamenti realizzati in videoconferenza.
Cdo-Is ha assicurato così quel che è dettato dal suo metodo: migliorare la professionalità dei suoi soci e garantire un supporto educativo.
Grazie al progetto sono stati complessivamente realizzati 42 seminari, promossi presso le 8 sedi individuate e a Milano, dove solitamente si svolgevano anche negli anni passati; i partecipanti, operatori del terzo settore, sono stati complessivamente 808.
Dopo un anno di lavoro – fa notare Guido Boldrin, responsabile del progetto e direttore generale di Cdo-Is – l’esito evidente è stato l’incremento del protagonismo e della capacità di risposta ai bisogni incontrati da parte degli associati, in un’ottica di consapevolezza e responsabilità sociale diffusa ma anche l’incremento del numero degli associati e, conseguentemente, dei fruitori dei servizi promossi da tutte le realtà aderenti alla rete nazionale a livello locale.


«Nella sussidiarietà la strada per il cambiamento» - DI GIORGIO PAOLUCCI – Avvenire, 12 dicembre 2008
Da quale espe­rienza e da qua­le filosofia di fondo nasce Compa­gnia delle Opere-Im­presa sociale? Ne par­liamo con il presidente Antonio Mandelli.
«Ero un giovane universitario quando, la do­menica, andavo nelle cascine della Bassa mila­nese, per un gesto di caritativa proposto da don Giussani . Si stava con i ragazzi a giocare, fare catechismo, studiare. Un’esperienza con un for­te valore educativo, che ha fatto crescere una concezione della gratuità come dono di sé, ric­co di intraprendenza e anche di attenzione a­gli aspetti organizzativi, totalmente scevro da pretese e rivendicazioni. È stato naturale che molte persone, divenute adulte, abbiano dedi­cato tempo ed energie alla creazione di opere di carità nelle quali condividere il bisogno de­gli uomini e in questo servire Cristo e la Chie­sa. Cdo-Is è nata, all’interno della Compagnia delle Opere, per accompagnare e sostenere que­sti tentativi, che nel tempo si sono sviluppati per numero, dimensioni e varietà di bisogni in­contrati.
Al di là dei proclami e delle buone intenzio­ni, a che punto siamo nella realizzazione di una vera sussidiarietà orizzontale e verticale?
Questo termine è diventato di uso comune, per grande merito della Fondazione per la sussi­diarietà, ma è spesso usato con un significato che non corrisponde al principio richiamato dalla dottrina sociale della Chiesa. Frequente­mente è inteso come forma di decentramento quale tentativo, apprezzabile e necessario, di avvicinare la pubblica amministrazione ai cit­tadini; in questo senso si è coniato il termine di sussidiarietà verticale, che rischia di diventa­re una forma di controllo con un conseguente aumento della burocrazia. La sussidiarietà, co­siddetta orizzontale, è invece il principio per il quale la risposta ai bisogni sociali spetta in pri­mo luogo alle persone e, solo ove esse non si mettano in azione, alla pubblica amministra­zione. È il modo per affermare il primato del­la persona, che è la conquista fondamentale ap­portata dal cristianesimo alla società civile. In­vece comunemente si individua nello Stato il luogo della solidarietà, comprimendo il ruolo attivo di persone, famiglie, organizzazioni so­ciali.
Siete molto attenti alla dimensione formati­va, non solo agli aspetti operativi (conven­zioni, ecc.). Perché?
Perché se un imprenditore o un operatore so­ciale non sono coscienti che, prima di tutto, so­no loro stessi oggetto di un atto di carità da par­te di Dio, che sono loro stessi i primi bisogno­si, prima o poi vedranno inaridirsi la loro ge­nerosità.
Questa coscienza ha bisogno di esse­re continuamente sostenuta, perché operare nel sociale è faticoso, gli insuccessi deprimono e i successi esaltano e si corre il rischio di credersi niente o addirittura Dio. La nostra 'mission' non è rispondere ai bisogni degli altri ma, pri­mariamente, operare con la coscienza che il niente che siamo è chiamato a collaborare con il Creatore. Usiamo ricordarci: «per l’opera di un Altro».
Tra le vostre iniziative c’è una scuola per o­pere di carità. Che rapporto c’è tra l’impresa sociale e la carità?
L’attenzione agli altri non è un’attività da tem­po libero ma una dimensione della persona che se vissuta seriamente richiede un affronto serio dei problemi. Le opere sociali e di carità sono chiamate ad operare in contesti sempre più complessi e la complessità cresce con il cre­scere dimensionale delle opere. Un ente assi­stenziale spesso dà lavoro a centinaia di perso­ne, compra beni e servizi, ha un elevato nu­mero di persone beneficiarie dei servizi che e­roga, deve fare investimenti, contrarre mutui, far­si anticipare dalle banche i crediti vantati verso la pubblica amministrazione che spesso ritar­da i pagamenti, ecc. Non si possono affronta­re questi problemi senza specifiche competen­ze. Nel contempo non si possono affrontare in modo onesto se non si ha coscienza che tutto è dato, che non ci siamo fatti da noi ma Uno ci ha amati totalmente. Non c’è nessuna con­traddizione fra carità e impresa sociale. Del re­sto i monasteri medioevali non furono i prin­cipali centri produttori di beni del loro tempo?


LA FEDE NEGATA - Il processo è stato seguito da migliaia di cattolici all’esterno del tribunale: come ha riferito padre Pierre Nguyen Van Khai, i poliziotti hanno però cercato di impedire la diffusione delle udienze - Espropri alla Chiesa: otto fedeli cristiani condannati in Vietnam - «Accuse false». Rilasciati dopo la lettura della sentenza - I LORENZO FAZZINI – Avvenire, 12 dicembre 2008
D opo il verdetto che li ha vi­sti colpevoli (ma sono stati rilasciati con la condizio­nale), hanno guidato una proces­sione fino alla loro parrocchia di Thai Ha, periferia di Hanoi: otto cattolici sono stati condannati nel­la capitale del Vietnam per «distur­bo della quiete pubblica » e « di­struzione di beni pubblici » . Non per questo si sono lasciati intimi­dire dal tribunale del distretto di Dong Da: hanno manifestato aper­tamente la loro fede, partecipando alla celebrazione « di ringrazia­mento » nella parrocchia di Thai Ha. Il procedimento penale contro i fe- deli coinvolti nel caso della parroc­chia dei redentoristi ad Hanoi si è concluso pochi giorni fa con una soluzione di compromesso: l’a­genzia
Fides segnala che tutti gli imputati sono stati condannati, ma vi sono visti sospendere la pena e quindi non andranno in prigione. Gli imputati – quattro uomini e al­trettanti donne, tra i 21 e i 63 anni – sono stati riconosciuti colpevoli delle due accuse (con pene da 12 a 17 mesi) con cui erano stati incri­minati all’indomani delle vicende legate alle proteste a Thai Ha: la pe­na più dura è stata comminata a N­guyen Thi Nhi, 46 anni, una donna dell’etnia montagnard Muong. Gli otto cattolici si trovavano agli arre­sti domiciliari da alcune settimane, due di loro erano detenuti nel car­cere conosciuto come «Hilton Ho­tel » e non avevano potuto ricevere i loro avvocati prima del dibatti­mento.
A Thai Ha, prima a gennaio, quin­di ad agosto e settembre, si sono te­nute «preghiere di protesta» per la restituzione di un terreno confi­scato tempo fa dal governo e quin­di venduto a privati: secondo fonti ecclesiali, tale mossa ha compor­tato alcuni atti di corruzione che ri­guardano diverse personalità mol­to influenti nel sistema statale. Le otto persone condannate erano tra quelle che il 15 agosto, festa del­l’Assunta, si erano radunate vicino al terreno conteso, vi avevano ap­posto una statua della Madonna e avevano pregato per il ritorno del­la giustizia.
Il processo è stato seguito da mi­gliaia di cattolici all’esterno del tri­bunale: come ha riferito padre Pier­re Nguyen Van Khai, l’unico prete ammesso ad assistere al dibatti­mento – inizialmente previsto il 5 dicembre, poi spostato all’8 –, i fun­zionari di polizia hanno cercato di non far ascoltare all’esterno le fasi del processo chiudendo le finestre, «ma non ci sono riusciti: così tutti – giudici, avvocati, gli imputati – hanno potuto sentire le migliaia di fedeli che gridavano: Siete inno­centi! Dio è con voi! Voi siete vitti­me! Vogliamo andare in prigione al vostro posto!». Subito dopo il ver­detto i media statali comunisti si sono prodigati a riferire che i cat­tolici incriminati «hanno ammesso le proprie colpe» e per questo mo­tivo «hanno ricevuto sentenze me­no dure da parte della tollerante po­litica del Partito e del governo » . L’Associazione della stampa catto­lica vietnamita, con sede in Au­stralia, ha denunciato le «manipo­lazioni » della stampa controllata dal regime: «Si tratta di una chiara distorsione della verità».
Solidarietà ai fedeli condannati e rilasciati è stata espressa dal ve­scovo di Hai Phong, monsignor Jo­seph Vu Van Thien, che li ha defini­ti «eroi» perché «hanno combattu­to per la giustizia mettendo a ri­schio la propria libertà».